home

De Bibliotheca

email

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

PRINCIPJ DI SCIENZA NUOVA

D'INTORNO ALLA COMUNE NATURA DELLE NAZIONI,

IN QUESTA TERZA IMPRESSIONE DAL MEDESIMO AUTORE

IN UN GRAN NUMERO DI LUOGHI CORRETTA,

SCHIARITA. E NOTABILMENTE ACCRESCIUTA

1744

Giambattista Vico

VIII DELLA COSMOGRAFIA POETICA. IX DELL'ASTRONOMIA POETICA. X DELLA CRONOLOGIA POETICA. XI DELLA GEOGRAFIA POETICA.

VIII

DELLA COSMOGRAFIA POETICA.

I poeti teologi, siccome posero per princìpi in fisica le sostanze da essi immaginate divine, così descrissero una a cotal fisica convenevole cosmografia, ponendo il mondo formato di dèi del cielo, dell'inferno (che da' latini si dissero "dii superi" e "dii inferi") e di dèi che tra 'l cielo e la terra si frapponessero (che dovetter esser appo i latini dapprima i dèi detti "medioxumi").

Del mondo in primo luogo contemplarono il cielo, le cui cose dovetter esser a greci i primi mathémata, o sieno "sublimi cose", e i primi theorémata, o sieno "divine cose da contemplarsi". La contemplazione delle quali fu detta così da' latini da quelle regioni del cielo che disegnavano gli àuguri per prender gli augùri (che dicevano "templa coeli", onde nell'Oriente venne il nome de' zoroasti, che 'l Bocarto vuol detti quasi "contemplatori degli astri"), per indovinare dal tragitto delle stelle cadenti la notte.

Fu a' poeti il primo cielo non più in suso delle alture delle montagne, ov'i giganti da' primi fulmini di Giove furono dal loro ferino divagamento fermati; ch'è quel Cielo che regnò in terra e, quindi incominciando, fece de' grandi benefìci al gener umano, come si è sopra pienamente spiegato. Laonde dovetter estimar il cielo la cima d'esse montagne (dall'acutezza delle quali a' latini venne "coelum" detto ancor il bolino, istrumento d'intagliar in pietre o metalli); appunto come i fanciulli immaginano ch'i monti sieno le colonne che sostengono il solaio del cielo (siccome gli arabi tali princìpi di cosmografia diedero all'Alcorano): delle quali colonne, due restarono "d'Ercole", come più giuso vedremo; che dovettero dapprima dirsi i puntelli o sostegni, da "columen", e che poi l'abbia ritondati l'architettura; sopra un cui solaio sì fatto Teti dice ad Achille, appo Omero, che Giove con gli altri dèi era ito da Olimpo a banchettare in Atlante. Tanto che, come sopra dicemmo, ove si ragionò de' giganti, la favola della guerra ch'essi fanno al cielo, e impongono gli altissimi monti, a Pelio Ossa, ad Ossa Olimpo, per salirvi e scacciarne gli dèi, dev'essere stata ritruovata dopo d'Omero; perché nell'Iliade certamente egli sempre narra gli dèi starsi sulla cima del monte Olimpo, onde bastava che crollasse l'Olimpo solo, per farne cadere gli dèi. Né tal favola, quantunque sia riferita nell'Odissea, ella ben vi conviene: perché in quel poema l'inferno non è più profondo d'un fosso, dove Ulisse vede e ragiona con gli eroi trappassati; laonde quanto corta idea aveva l'Omero dell'Odissea dell'inferno è necessario ch'a proporzione altrettanta ne avesse avuto del cielo, in conformità di quanta ne aveva avuto l'Omero autor dell'Iliade. E, 'n conseguenza, si è dimostro che tal favola non è d'Omero, come promettemmo sopra di dimostrare.

In questo cielo dapprima regnarono in terra gli dèi e praticarono con gli eroi, secondo l'ordine della teogonia naturale che sopra si è ragionata, incominciando da Giove. In questo cielo rendette in terra ragione Astrea, coronata di spighe e fornita altresì di bilancia, perché il primo giusto umano fu ministrato dagli eroi agli uomini con la prima legge agraria ch'abbiamo sopra veduto: perocché gli uomini sentirono prima il peso, poi la misura, assai tardi il numero, nel quale finalmente si fermò la ragione; tanto che Pittagora, non intendendo cosa più astratta da' corpi, pose l'essenza dell'anima umana ne' numeri. Per questo cielo van correndo a cavallo gli eroi, come Bellerofonte sul Pegaso, e ne restò a' latini "volitare equo", "andar correndo a cavallo". In questo cielo Giunone imbianca la via lattea del latte, non suo, perché fu sterile, ma delle madri di famiglia, che lattavano i parti legittimi per quelle nozze eroiche delle quali era nume Giunone. Su per questo cielo gli dèi sono portati sui carri d'oro poetico (di frumento), onde fu detta l'età dell'oro. In questo cielo s'usarono l'ali, non già per volare o significare speditezza d'ingegno - onde son alati Imeneo (ch'è lo stesso ch'Amor eroico), Astrea, le muse, il Pegaso, Saturno, la Fama, Mercurio (come nelle tempie così ne' talloni, e alato il di lui caduceo, con cui da questo cielo porta la prima legge agraria a' plebei, ch'ammutinati erano nelle valli, come si è sopra detto); alato il dragone (perché la Gorgone è pur nelle tempie alata, né significa ingegno né vola); - ma l'ali si usarono per significare diritti eroici, che tutti erano fondati nella ragion degli auspìci, come pienamente sopra si è dimostrato. In questo cielo ruba Prometeo il fuoco dal sole, che dovettero gli eroi fare con le pietre focaie ed attaccarlo agli spinai secchi per sopra i monti dagli accesi soli d'està, onde la fiaccola d'Imeneo ci viene fedelmente narrata essere stata fatta di spine. Da questo cielo è Vulcano precipitato con un calcio da Giove; da questo cielo precipita, col carro del Sole, Fetonte; da questo cielo cade il pomo della Discordia: le quali favole si sono tutte sopra spiegate. E da questo cielo finalmente dovettero cadere gli ancili, o scudi sagrati, a' romani.

Delle deitadi infernali in primo luogo i poeti teologi fantasticarono quella dell'acqua; e la prima acqua fu quella delle fontane perenni, che chiamarono "Stige", per cui giuravano i dèi, come si è sopra detto: onde forse Platone poi oppinò che nel centro della terra fusse l'abisso dell'acque. Ma Omero, nella contesa degli dèi, fa temere Plutone che Nettunno co' tremuoti non iscuopra l'inferno agli uomini ed agli dèi, con aprir loro la terra; ma, posto l'abisso nelle più profonde viscere della terra, e che egli facesse i tremuoti, avverrebbe tutto il contrario: che l'inferno sarebbe sommerso e tutto ricoverto dall'acque. Lo che sopra avevamo promesso di dimostrare: che tal allegoria di Platone mal conveniva a tal favola. Per ciò che si è detto, il primo inferno non dovett'essere più profondo della sorgiva delle fontane; e la prima deitade funne creduta Diana, di cui pur ci racconta la storia poetica essere stata detta triforme, perché fu Diana in cielo, Cintia cacciatrice, col suo fratello Apollo, in terra, e Proserpina nell'inferno.

Si stese l'idea dell'inferno con le seppolture; ond'i poeti chiamano "inferno" il sepolcro (la qual espressione è anco usata ne' libri santi). Talché l'inferno non fu più profondo d'un fosso, dove Ulisse, appo Omero, vede l'inferno e quivi l'anime degli eroi trappassati: perché in tal inferno furon immaginati gli Elisi, ove, con le seppolture, godono eterna pace l'anime de' difonti; e gli Elisi sono la stanza beata degli dèi mani o sia dell'anime buone de' morti.

Appresso, l'inferno pur fu di bassa profondità quanto è l'altezza d'un solco, ove Cerere, ch'è la stessa che Proserpina (il seme del frumento), è rapita dal dio Plutone, e vi sta dentro sei mesi, e poi ritorna a veder la luce del cielo; onde appresso si spiegherà il ramo d'oro con cui Enea scende all'inferno, che Virgilio finse continuando la metafora eroica delle poma d'oro, che noi sopra abbiam truovato esser le spighe del grano.

Finalmente l'inferno fu preso per le pianure e le valli (opposte all'altezza del cielo, posto ne' monti), ove restarono i dispersi nell'infame comunione. Onde di tal inferno è lo dio Erebo, detto figliuolo del Cao, cioè della confusione de' semi umani, ed è padre della notte civile (della notte de' nomi); siccome il cielo è allumato di civil luce, onde gli eroi sono incliti. Vi scorre il fiume Lete, il fiume, cioè, dell'obblio, perché tali uomini non lasciavano niun nome di sé nelle loro posterità; siccome la gloria in cielo eterna i nomi de' chiari eroi. Quindi Mercurio, come si è detto di sopra nel di lui carattere, con la sua verga, in cui porta la legge agraria, richiama l'anime dall'Orco, il quale tutto divora: ch'è la storia civile conservataci da Virgilio in quel motto:

hac ille animas evocat Orco:

chiama le vite degli uomini eslegi e bestiali dallo stato ferino, il quale si divora il tutto degli uomini, perché non lasciano essi nulla di sé nella loro posterità. Onde poi la verga fu adoperata da' maghi, sulla vana credenza che con quella si risuscitassero i morti; e 'l pretore romano con la bacchetta batteva sulla spalla gli schiavi e gli faceva divenir liberi, quasi con quella gli faceva ritornar da morte in vita. Se non pure i maghi stregoni usano la verga nelle loro stregonerie, ch'i maghi sappienti di Persia avevan usato per la divinazion degli auspìci: onde alla verga fu attribuita la divinità, e fu dalle nazioni tenuta per dio e che facesse miracoli, come Trogo Pompeo ce n'accerta appresso il suo breviatore Giustino.

Quest'inferno è guardato da Cerbero, dalla sfacciatezza canina d'usar la venere senza vergogna d'altrui. È Cerbero trifauce, cioè d'una sformata gola, col superlativo del "tre" ch'abbiamo più volte sopra osservato, perché, come l'Orco, tutto divora; e, uscito sopra la terra, il sole ritorna indietro (e, salito sulle città eroiche, la luce civil degli eroi ritorna alla notte civile).

Nel fondo di tal inferno scorre il fiume Tartaro, dove si tormentano i dannati: Issione a girar la ruota, Sisifo a voltar il sasso, Tantalo a morirsi e di fame e di sete, come si sono sopra queste favole tutte spiegate; e 'l fiume dove brucian di sete è lo stesso fiume "senza contento", ché tanto Acheronte e Flegetonte significano. In quest'inferno poi, per ignorazione di cose, furono gittati da' mitologi e Tizio e Prometeo: ma costoro furon in cielo incatenati alle rupi, a' quali divora le viscere l'aquila che vola ne' monti (la tormentosa superstizion degli auspìci, ch'abbiamo sopra spiegati).

Le quali favole tutte poscia i filosofi ritruovaron acconcissime a meditarvi e spiegare le loro cose morali e metafisiche; e se ne destò Platone ad intendere le tre pene divine, che solamente danno gli dèi e non possono dare gli uomini: la pena dell'obblio, dell'infamia e i rimorsi co' quali ci tormenta la rea coscienza; e che, per la via purgativa delle passioni dell'animo, le quali tormentano gli uomini (ch'esso intende per l'inferno de' poeti teologi), si entra nella via unitiva, per dove va ad unirsi la mente umana con Dio per mezzo della contemplazione dell'eterne divine cose (la qual egli interpetra aver inteso i poeti teologi coi lor Elisi).

Ma, con idee tutte diverse da queste morali e metafisiche (perocché i poeti teologi l'avevano detto con idee politiche, com'era loro necessario naturalmente di fare, siccome quelli che fondavano nazioni), scesero nell'inferno tutti i gentili fondatori de' popoli. Scesevi Orfeo, che fondò la nazion greca; e, vietato, nel salirne, di voltarsi indietro, voltandosi, perde la sua moglie Euridice (ritorna all'infame comunion delle donne). Scesevi Ercole (ch'ogni nazione ne racconta uno da cui fusse stata fondata), e scesevi per liberar Teseo, che fondò Atene, il quale vi era sceso per rimenarne Proserpina, ch'abbiamo detto essere la stessa che Cerere (per riportarne il seminato frumento in biade). Ma, più spiegatamente di tutti, appresso, Virgilio (il quale nei primi sei libri dell'Eneide canta l'eroe politico, negli altri restanti sei canta l'eroe delle guerre), con quella sua profonda scienza dell'eroiche antichità, narra ch'Enea, con gli avvisi e con la condotta della Sibilla cumana, delle quali dicemmo ch'ogni nazione gentile n'ebbe una, e ce ne sono giunte nominate pur dodici (talché vuol dire con la divinazione, che fu la sapienza volgare della gentilità), con sanguinosa religione pio (di quella pietà che professarono gli antichissimi eroi nella fierezza ed immanità della loro fresca origine bestiale che sopra sì è dimostrata), sagrifica il socio Miseno (come pure abbiam sopra detto, per lo diritto crudele che gli eroi ebbero sopra i lor primi soci ch'abbiamo ancor ragionato), si porta nell'antica selva (qual era la terra dappertutto incolta e boscosa), gitta il boccone sonnifero a Cerbero e l'addormenta (ch'Orfeo aveva addormentato col suono della sua lira, che sopra a tante pruove abbiamo truovato esser la legge; ed Ercole incatenò col nodo con cui avvinse Anteo nella Grecia, cioè con la prima legge agraria, in conformità di ciò che se n'è sopra detto); per la cui insaziabil fame Cerbero fu finto trifauce - d'una vastissima gola - col superlativo del tre, come si è sopra spiegato. Così Enea scende nell'inferno (che truovammo dapprima non più profondo dell'altezza de' solchi), e a Dite (dio delle ricchezze eroiche, dell'oro poetico, del frumento; il quale Dite lo stesso fu che Plutone, che rapì Proserpina, che fu la stessa che Cerere, la dea delle biade) presenta il ramo d'oro (ove il gran poeta la metafora delle poma d'oro, che sopra truovammo essere le spighe del grano, porta più innanzi al ramo d'oro, alle messe). Ad un tal ramo svelto succede l'altro (perché non proviene la seconda raccolta senonsé l'anno dopo essersi fatta la prima); ch'ove gli dèi si compiacciono, volentieri e facile siegue la mano di chi l'afferra, altrimente non si può svellere con niuna forza del mondo (perché le biade, ove Dio voglia, naturalmente provengono; ove non voglia, con niuna umana industria si posson raccogliere). Quindi, per mezzo dell'inferno, si porta ne' Campi Elisi (perché gli eroi, con lo star fermi ne' campi colti, morti poi godevano, con le seppolture, la pace eterna, com'abbiamo sopra spiegato), e quivi egli vede i suoi antenati e vegnenti (perché con la religione delle seppolture, ch'i poeti dissero "inferno", come sopra si è pur veduto, si fondarono le prime geanologie, dalle quali pur sopra si è detto aver incominciato la storia).

La terra da' poeti teologi fu sentita con la guardia de' confini, ond'ella ebbe sì fatto nome di "terra". La qual origin eroica serbaron i latini nella voce "territorium", che significa "distretto", da ivi dentro esercitare l'imperio; che, con errore, i latini gramatici credono esser detto a "terrendo" de' littori, che col terrore de' fasci facevano sgombrare la folla, per far largo a' maestrati romani. Ma, in que' tempi che nacque la voce "territorium", non vi era troppa folla in Roma, che, in dugencinquant'anni di regno, ella manomise più di venti popoli e non distese più di venti miglia l'imperio, come sopra l'udimmo dir da Varrone. Però l'origine di tal voce è perché tali confini di campi colti, dentro i quali poi sursero gl'imperi civili, erano guardati da Vesta con sanguinose religioni, come si è sopra veduto, ove truovammo tal Vesta de' latini esser la stessa che Cibele o Berecintia de' greci, che va coronata di torri, o sia di terre forti di sito. Dalla qual corona cominciò a formarsi quello che si dice "orbis terrarum", cioè "mondo delle nazioni", che poi da' cosmografi fu ampliato e detto "orbis mundanus" e, in una parola, "mundus", ch'è 'l mondo della natura.

Cotal mondo poetico fu diviso in tre regni, ovvero in tre regioni: una di Giove in cielo; l'altra di Saturno in terra; la terza di Plutone nell'inferno, detto Dite, dio delle ricchezze eroiche, del primo oro, del frumento, perché i campi colti fanno le vere ricchezze de' popoli.

Così formossi il mondo de' poeti teologi di quattro elementi civili, che poi furono da' fisici appresi per naturali, come poco più sopra si è detto: cioè di Giove ovvero l'aria, di Vulcano o sia il fuoco, di Cibele ovvero la terra e di Diana infernale o sia l'acqua. Perché Nettunno tardi da' poeti fu conosciuto, perché, come si è sopra detto, le nazioni tardi scesero alle marine; e fu detto Oceano ogni mare di prospetto interminato che cingesse una terra, che si dice "isola", come Omero dice l'isola Eolia circondata dall'Oceano: dal quale Oceano dovettero venire ingravidate da Zefiro, vento occidentale di Grecia, come quindi a poco dimostreremo, le giumente di Reso, e, ne' lidi del medesimo Oceano, pur da Zefiro nati i cavalli d'Achille. Doppo, i geografi osservarono tutta la terra, com'una grand'isola, esser cinta dal mare, e chiamarono tutto il mare che cinge la terra "oceano".

Quivi finalmente, con l'idea con la quale ogni brieve proclive era detto "mundus" (onde sono quelle frasi: "in mundo est", "in proclivi est", per dir "egli è facile", ed appresso tutto ciò che monda, pulisce e raffazzona una donna si disse "mundus muliebris"), poi che s'intese la terra e 'l cielo essere di figura orbicolare, ch'in ogni parte della circonferenza verso ogni parte è proclive, e che l'oceano d'ogn'intorno la bagna, e che 'l tutto è adorno d'innumerabili, varie, diverse forme sensibili, quest'universo fu detto "mundus", del quale, con bellissimo sublime trasporto, la natura s'adorna.

IX

DELL'ASTRONOMIA POETICA.

1.

Questo sistema mondano egli durava a' tempi d'Omero alquanto spiegato più, il quale nell'Iliade narra sempre gli dèi allogati sul monte Olimpo, e udimmo che fa dire dalla madre Teti ad Achille che gli dèi eran iti da Olimpo a banchettare in Atlante. Sicché gli più alti monti della terra dovetter a' tempi d'Omero esser creduti le colonne che sostenessero il cielo, siccome Abila e Calpe nello stretto di Gibilterra ne restaron dette "colonne d'Ercole", il quale succedette ad Atlante, stanco di più sostenere sopra i suoi ómeri il cielo.

2.

DIMOSTRAZIONE ASTRONOMICA FISICO-FILOLOGICA DELL'UNIFORMITÀ DE' PRINCÌPI IN TUTTE L'ANTICHE NAZIONI GENTILI.

Ma, l'indiffinita forza delle menti umane spiegandosi vieppiù, e la contemplazione del cielo affin di prender gli augùri obbligando i popoli a sempre osservarlo, nelle menti delle nazioni alzossi più in suso il cielo, e col cielo alzaronsi più in suso e gli dèi e gli eroi. Qui ci giovino, per lo ritruovamento dell'astronomia poetica, far uso di queste tre erudizioni filologiche: la prima, che l'astronomia nacque al mondo dalla gente caldea; la seconda, ch'i fenici portarono da' caldei agli egizi la pratica del quadrante e la scienza dell'elevazione del polo; la terza, che i fenici, che 'l dovettero aver appreso innanzi dagli stessi caldei, portarono a' greci i dèi affissi alle stelle. Con queste tre filologiche erudizioni si compongano queste due filosofiche verità: una, civile, che le nazioni, se non sono prosciolte in una ultima libertà di religione (lo che non avviene se non nella lor ultima decadenza), sono naturalmente rattenute di ricevere deitadi straniere; l'altra, fisica, che, per un inganno degli occhi, le stelle erranti più grandi ci sembrano delle fisse.

Posti i quali princìpi, diciamo che appo tutte le nazioni gentili e d'Oriente e di Egitto e di Grecia (e vedremo anco del Lazio) nacque da origini volgari uniformi l'astronomia, per tal allogamento uniforme, con essere gli dèi saliti ai pianeti e gli eroi affissi alle costellazioni, perché l'erranti paiono grandi molto più delle fisse. Onde i fenici truovarono tra greci già gli dèi apparecchiati a girar ne' pianeti e gli eroi a comporre le costellazioni, con la stessa facilità con la quale i greci gli ritruovarono poi tra' latini; ed è da dirsi su questi esempli ch'i fenici, quale tra' greci, tale ancora truovarono sì fatta facilità tra gli egizi. In cotal guisa, gli eroi, e i geroglifici significanti o le loro ragioni o le lor imprese, e buon numero degli dèi maggiori furono innalzati al cielo e apparecchiati per l'astronomia addottrinata di dar alle stelle, che innanzi non avevano nomi, com'a loro materia, la forma così degli astri, o sia delle costellazioni, come degli erranti pianeti.

Così, cominciando dall'astronomia volgare, fu da' primi popoli scritta in cielo la storia de' loro dèi, de' lor eroi. E ne restò quest'eterna propietà: che materia degna d'istoria sieno memorie d'uomini piene di divinità o d'eroismo, quelle per opere d'ingegno e di sapienza riposta, queste per opere di virtù e di sapienza volgare; siccome la storia poetica diede agli astronomi addottrinati i motivi di dipignere nel cielo gli eroi e i geroglifici eroici più con questi che con quelli gruppi di stelle, e più in queste che 'n quelle parti del cielo, e più a questa che a quella stella errante di attaccarvi gli dèi maggiori, coi nomi de' quali poi ci sono venuti detti i pianeti.

E, per parlar alcuna cosa più de' pianeti che delle costellazioni, certamente Diana, dea della pudicizia, serbata ne' concubiti nozziali, che tutta tacita di notte si giace con gli Endimioni dormenti, fu attaccata alla luna, che dà lume alla notte.

Venere, dea della bellezza civile, attaccata alla stella errante più ridente, gaia e bella di tutte. Mercurio, divino araldo, vestito di civil luce, con tante ali (geroglifici di nobiltà), delle quali va ornato (mentre porta la legge agraria a' sollevati clienti), è allogato in un'errante, che tutta di raggi solari è coverta, talché di rado è veduta. Apollo, dio d'essa luce civile (onde "incliti" si dicon gli eroi), attaccato al sole, fonte della luce naturale. Marte, sanguinoso, ad una stella di somigliante colore. Giove, re e padre degli uomini e degli dèi, superior a tutti e inferior a Saturno, che, perch'è padre e di Giove e del Tempo, corre lo più lungo anno di tutti gli altri pianeti: talché mal gli convengono l'ali, se, con allegoria sforzata, vogliano significare la velocità d'esso tempo, poiché corre più tardo di tutti i pianeti il suo anno; ma le si portò in cielo con la sua falce, in significazione, non di mietere vite d'uomini, ma mieter biade, con le quali gli eroi numeravano gli anni, e che i campi colti erano in ragion degli eroi. Finalmente i pianeti coi carri d'oro (cioè di frumento), co' quali andavano in cielo quand'era in terra, ora girano l'orbite lor assegnate.

Per lo che tutto qui ragionato hassi a dire che 'l predominio degl'influssi, che sono credute avere sopra i corpi sublunari e le fisse e l'erranti, è stato lor attribuito da ciò in che e gli dèi e gli eroi prevalsero quand'eran in terra. Tanto essi dipendono da naturali cagioni!

X

DELLA CRONOLOGIA POETICA.

1.

In conformità di cotal astronomia diedero i poeti teologi gl'incominciamenti alla cronologia. Perché quel Saturno, che da' latini fu detto a "satis", da' seminati, e fu da' greci detto Chrónos (appo i quali chrónos significa il tempo), ci dà ad intendere che le prime nazioni (le quali furono tutte di contadini) incominciarono a noverare gli anni con le raccolte ch'essi facevano del frumento (ch'è l'unica o almeno la maggior cosa per la quale i contadini travagliano tutto l'anno), e, prima mutole, dovettero, o con tante spighe o pure tanti fili di paglia, far tanti atti di mietere quanti anni volevan essi significare. Onde sono appo Virgilio (dottissimo quant'altri mai dell'eroiche antichità) prima quell'espressione infelice e, con somma arte d'imitazione, infelicemente contorta, per ispiegare l'infelicità de' primi tempi a spiegarsi:

Post aliquot mea regna videns mirabor aristas,

per dire "post aliquot annos"; poi quella, con alquanto di maggior spiegatezza:

Tertia messis erat.

Siccome fin oggi i contadini toscani, in una nazione la più riputata in pregio di favellare che sia in tutta Italia, invece di dire "tre anni", per esemplo, dicono "abbiamo tre volte mietuto". E i romani conservarono questa storia eroica, che si ragiona qui, dell'anno poetico che significavasi con le messi, i quali la cura dell'abbondanza principalmente del grano dissero "annona".

Quindi Ercole fucci narrato fondatore dell'olimpiadi, celebre epoca de' tempi appo i greci (da' quali abbiamo tutto ciò ch'abbiamo dell'antichità gentilesche), perch'egli diede il fuoco alle selve per ridurle a terreni da semina, onde furon raccolte le messi, con le quali dapprima si numeravano gli anni. E tali giuochi dovetter incominciar da' nemei, per festeggiare la vittoria che riportò del lione nemeo vomitante fuoco, che noi sopra abbiamo interpetrato il gran bosco della terra, al qual, appreso con l'idea d'un animale fortissimo (tanta fatiga vi bisognò per domarla!), diedero nome di "lione": il quale poi passò al più forte degli animali, siccome sopra si è ragionato ne' Princìpi dell'armi gentilizie; ed al Lione fu dagli astronomi assegnata nel zodiaco una casa, attaccata a quella d'Astrea, coronata di spighe. Questa è la cagione onde nei circi si vedevano spessi simulacri di lioni, simulacri del sole; si vedevano le mete con in cima le uova, che dovetter esser dapprima mete di grano, e i luci, ovvero gli occhi sboscati, che sopra si ragionarono de' giganti: dove poi gli astronomi ficcarono la significazione della figura ellittica, che descrive in un anno il sole, col cammino che fa per l'eclittica; la quale significazione sarebbe stata più acconcia a Maneto di dar all'uovo che porta in bocca lo Cnefo, che quella che significasse la generazione dell'universo.

Però con la teogonia naturale sopra qui ragionata si determina da noi la scorsa de' tempi, ne' quali, all'occasioni di certe prime necessità o utilità del gener umano, che dappertutto incominciò dalle religioni (la quale scorsa è l'età degli dèi), ella deve almeno aver durato novecento anni da che tralle nazioni gentili incominciarono i Giovi, o sia dal tempo che 'ncominciò a fulminar il cielo dopo l'universale diluvio. E i dodici dèi maggiori, incominciando da Giove, dentro questa scorsa a' loro tempi fantasticati, si pongano per dodici minute epoche, da ridurvi a certezza de' tempi la storia poetica. Come, per cagion d'esemplo, Deucalione, che dalla storia favolosa si narra immediatamente dopo il diluvio e i giganti, che fonda con la sua moglie Pirra le famiglie per mezzo del matrimonio, sia egli nato nelle fantasie greche nell'epoca di Giunone, dea delle nozze solenni. Elleno, che fonda la greca lingua e, per tre suoi figliuoli, la ripartisce in tre dialetti, nacque nell'epoca d'Apollo, dio del canto, dal cui tempo dovette incominciare la favella poetica in versi. Ercole, che fa la maggior fatiga d'uccider l'idra o 'l lione nemeo (o sia di ridurre la terra a campi da semina), e ne riporta da Esperia le poma d'oro (le messi, ch'è impresa degna di storia; non gli aranci di Portogallo, fatto degno di parasito), si distinse nell'epoca di Saturno, dio de' seminati. Così Perseo dee essersi fatto chiaro nell'epoca di Minerva, o sia degli già nati imperi civili, poich'ha caricato lo scudo del teschio di Medusa, ch'è lo scudo d'essa Minerva. E deve, per finirla, Orfeo esser nato dopo l'epoca di Mercurio, che, col cantar alle fiere greche la forza degli dèi negli auspìci, de' quali avevano la scienza gli eroi, ristabilisce le nazioni greche eroiche ed al "tempo eroico" ne diede il vocabolo, perché in tal tempo avvennero siffatt'eroiche contese. Onde con Orfeo fioriscono Lino, Anfione, Museo ed altri poeti eroi; de' quali Anfione, de' sassi (come restonne a' latini "lapis" per dir "balordo": degli scempi plebei), innalza le mura di Tebe dopo trecento anni ch'avevala Cadmo fondata; appunto come da un trecento anni dopo la fondazione di Roma egli avvenne che Appio, nipote del decemviro, come altra volta sopra abbiam detto, la plebe romana, che "agitabat connubia more ferarum" (che sono le fiere d'Orfeo), cantandole la forza degli dèi negli auspìci (de' quali avevano la scienza i nobili), riduce in ufizio, e ferma lo Stato romano eroico.

Oltracciò, qui si deon avvertire quattro spezie d'anacronismi, contenute sotto il genere, ch'ogniun sa, di tempi prevertiti e posposti. La prima è di tempi vuoti di fatti de' quali debbon esser ripieni; come l'età degli dèi, nella quale abbiamo truovato quasi tutte l'origini delle cose umane civili, e al dottissimo Varrone corre per "tempo oscuro". La seconda è di tempi pieni di fatti de' quali debbon esser vuoti; come l'età degli eroi, che corre per dugento anni, e, sulla falsa oppenione che le favole fussero state ritruovati di getto de' poeti eroici, e sopra tutti di Omero, s'empie di tutti i fatti dell'età degli dèi, i quali da questa in quella si devono rovesciare. La terza è di tempi uniti che si devon dividere, acciocché nella vita d'un solo Orfeo la Grecia da fiere bestie non sia portata al lustro della guerra troiana; ch'era quel gran mostro di cronologia che facemmo vedere nell'Annotazioni alla Tavola cronologica. La quarta ed ultima è di tempi divisi che debbon esser uniti; come le colonie greche menate in Sicilia ed in Italia più di trecento anni dopo gli error degli eroi, le quali vi furono menate con gli errori e per gli errori de' medesimi eroi.

2.

CANONE CRONOLOGICO PER DAR I PRINCÌPI ALLA STORIA UNIVERSALE, CHE DEONO PRECORRERE ALLA MONARCHIA DI NINO, DALLA QUAL ESSA STORIA UNIVERSALE INCOMINCIA.

In forza adunque alla detta teogonia naturale, che n'ha dato la detta cronologia poetica ragionata, e con la scoverta delle anzidette spezie d'anacronismi notati sopra essa storia poetica, ora, per dar i princìpi alla storia universale, che deon precorrere alla monarchia di Nino, dalla qual essa storia universale incomincia, stabiliamo questo canone cronologico: che dalla dispersione del gener umano perduto per la gran selva della terra, che 'ncominciò a farsi dalla Mesopotamia (come tralle Degnità n'abbiamo fatta una discreta domanda), per la razza empia di Sem nell'Asia orientale soli cento anni, e dugento per l'altre due di Cam e Giafet nelle restanti parti del mondo, vi corsero di divagamento ferino. Da che, con la religione di Giove (che tanti, sparsi per le prime nazioni gentili, ci appruovarono, sopra, l'universale diluvio), incominciarono i principi delle nazioni a fermarsi in ciascheduna terra, dove per fortuna dispersi si ritruovavano, vi corsero i novecento anni dell'età degli dèi, nel cui fine - perché quelli si erano per la terra dispersi per cercar pasco ed acqua, che non si truovano ne' lidi del mare, le nazioni si eran fondate tutte mediterranee - dovettero scender alle marine; onde se ne destò in mente de' greci l'idea di Nettunno, che truovammo l'ultima delle dodici maggiori divinità; e così, tra' latini, dall'età di Saturno, o sia secolo dell'oro del Lazio, vi corsero da novecento anni che Anco Marzio calasse al mare a prendervi Ostia. Finalmente vi corsero i dugento anni ch'i greci noverano del secolo eroico, ch'incomincia da' corseggi del re Minosse, séguita con la spedizione navale che fece Giasone in Ponto, s'innoltra con la guerra troiana e termina con gli error degli eroi fin al ritorno d'Ulisse in Itaca. Tanto che Tiro, capitale della Fenicia, si dovette portare da mezzo terra a lido, e quindi in un'isola vicina del mar fenicio, da più di mille anni dopo il diluvio; ed essendo già ella celebre, per la navigazione e per le colonie sparse nel Mediterraneo e fin fuori nell'Oceano, innanzi al tempo eroico de' greci, vien ad evidenza pruovato che nell'Oriente fu il principio di tutto il gener umano, e che prima l'error ferino per gli luoghi mediterranei della terra, dipoi il diritto eroico e per terra e per mare, finalmente i traffichi marittimi de' fenici sparsero le prime nazioni per le restanti parti del mondo. I quali princìpi della commigrazione de' popoli (conforme ne proponemmo una Degnità) sembrano più ragionati di quelli i quali Wolfango Lazio n'ha immaginati.

Or, per lo corso uniforme che fanno tutte le nazioni, il quale si è sopra pruovato coll'uniformità degli dèi innalzati alle stelle, ch'i fenici portarono dall'Oriente in Grecia e in Egitto, hassi a dire che altrettanto tempo corse a' caldei d'aver essi regnato nell'Oriente, talché da Zoroaste si fusse venuto a Nino, che vi fondò la prima monarchia del mondo, che fu quella d'Assiria; altrettanto che da Mercurio Trimegisto si venisse a Sesostride, o sia il Ramse di Tacito, che vi fondò una monarchia pur grandissima. E, perch'erano entrambe nazioni mediterranee, vi dovettero da' governi divini, per gli eroici, e quindi per la libertà popolare, provenire le monarchie, ch'è l'ultimo degli umani governi, acciocché gli egizi costino nella loro divisione degli tre tempi del mondo scorsi loro dinanzi. Perché, come appresso dimostreremo, la monarchia non può nascere che sulla libertà sfrenata de' popoli, alla quale gli ottimati vanno nelle guerre civili ad assoggettire la loro potenza; la qual poi, divisa in menome parti tra' popoli, facilmente richiamano tutta a sé coloro che, col parteggiare la popolar libertà, vi surgono finalmente monarchi. Ma la Fenicia, perché nazione marittima, per le ricchezze de' traffichi si dovette fermare nella libertà popolare, ch'è 'l primo degli umani governi.

Così con l'intendimento, senz'uopo della memoria, la quale non ha che fare ov'i sensi non le somministrano i fatti, sembra essersi supplita la storia universale ne' suoi princìpi e dell'antichissimo Egitto e dell'Oriente, ch'è dell'Egitto più antico, e, in esso Oriente, i princìpi della monarchia degli assiri; la quale finora, senza il precorso di tante e sì varie cagioni, che le dovevano precedere per provenirvi la forma monarchica, ch'è l'ultima delle tre forme de' governi civili, esce sulla storia tutta nata ad un tratto, come nasce, piovendo l'està, una ranocchia.

In questa guisa la cronologia ella ci vien accertata de' suoi tempi col progresso de' costumi e de' fatti, co' quali ha dovuto camminare il gener umano. Perché, per una Degnità sopra posta, ella qui ha incominciato la sua dottrina dond'ebbe incominciamento la sua materia: da Chrónos, Saturno (onde da' greci fu detto chrónos il tempo), numeratore degli anni con le raccolte, e da Urania, contemplatrice del cielo affin di prender gli augùri, e da Zoroaste, contemplatore degli astri per dar gli oracoli dal tragitto delle stelle cadenti (che furon i primi mathémata, i primi theorémata, le prime cose sublimi o divine che contemplarono ed osservaron le nazioni, come si è sopra detto); e poi, col salire Saturno nella settima sfera, indi Urania divenne contemplatrice de' pianeti e degli astri, e i caldei, con l'agio delle lor immense pianure, divennero astronomi ed astrolaghi, col misurarne i lor moti e contemplarne i di lor aspetti, ed immaginarne gl'influssi sopra i corpi che dicono "sublunari" ed anco, vanamente, sopra le libere volontà degli uomini. Alla qual scienza restaron i primi nomi, che l'erano stati dati con tutta propietà: uno di "astronomia" o sia scienza delle leggi degli astri, l'altro di "astrologia" o sia scienza del parlare degli astri, l'uno e l'altro in significato di "divinazione", come da que' "teoremi" funne detta "teologia" la scienza del parlar degli dèi ne' lor oracoli, auspìci e augùri. Onde, finalmente, la mattematica scese a misurare la terra, le cui misure non si potevan accertare che da quelle dimostrate del cielo, e la prima e principale sua parte si portò il propio nome, col qual è detta "geometria".

Perché, adunque, non ne incominciarono la dottrina donde aveva incominciato la materia ch'essi trattavano - perché incominciano dall'anno astronomico, il quale, come sopra si è detto, non nacque tralle nazioni che dopo almeno un mille anni, e che non poteva accertargli d'altro che delle congiunzioni ed opposizioni che le costellazioni e i pianeti si avessero fatti nel cielo, ma nulla delle cose che con proseguito corso fussero succedute qui in terra (nello che andò a perdersi il generoso sforzo di Piero cardinal d'Alliac), - perciò tanto poco han fruttato a pro de' princìpi e della perpetuità della storia universale (de' quali dopo essi tuttavia pur mancava) i due maravigliosi ingegni, con la loro stupenda erudizione, Giuseppe Giusto Scaligero nella sua Emendazione e Dionigi Petavio nella sua Dottrina de' tempi.

 XI

DELLA GEOGRAFIA POETICA.

1.

Or ci rimane finalmente di purgare l'altr'occhio della storia poetica, ch'è la poetica geografia, la quale, per quella propietà di natura umana, che noi noverammo tralle Degnità, che "gli uomini le cose sconosciute e lontane, ov'essi non ne abbian avuto la vera idea o la debbano spiegar a chi non l'ha, le descrivono per somiglianze di cose conosciute e vicine", ella, nelle sue parti ed in tutto il suo corpo, nacque con picciol'idee dentro la medesima Grecia, e, coll'uscirne i greci poi per lo mondo, s'andò ampliando nell'ampia forma nella qual ora ci è rimasta descritta. E i geografi antichi convengono in questa verità, ma poi non ne sepper far uso; i quali affermano che le antiche nazioni, portandosi in terre straniere e lontane, diedero i nomi natii alle città, a' monti, a' fiumi, colli di terra, stretti di mare, isole e promontori.

Nacquero, adunque, entro Grecia la parte orientale, detta Asia o India; l'occidentale, detta Europa o Esperia; il settentrione, detto Tracia o Scizia; il mezzodì, detto Libia o Mauritania; e furono così appellate le parti del mondo co' nomi delle parti del picciol mondo di Grecia per la simiglianza de' siti, ch'osservaron i greci in quelle, a riguardo del mondo, simili a queste, a riguardo di Grecia. Pruova evidente di ciò sieno i vènti cardinali, i quali, nella loro geografia, ritengono i nomi che dovettero certamente avere la prima volta dentro essa Grecia: talché le giumente di Reso debbono ne' lidi dell'Oceano (qual or or vedremo detto dapprima ogni mare d'interminato prospetto) essere state ingravidate da Zefiro, vento occidentale di Grecia; e pur ne' lidi dell'Oceano (nella prima significazione, la quale testé si è detta) devon essere da Zefiro generati i cavalli d'Achille; come le giumente d'Erictonio dic'Enea ad Achille essere state ingravidate da Borea, dal vento settentrionale della Grecia medesima. Questa verità de' vènti cardinali ci è confermata in un'immensa distesa: che le menti greche, in un'immensa distesa spiegandosi, dal loro monte Olimpo, dove a' tempi d'Omero se ne stavano i dèi, diedero il nome al cielo stellato, che gli restò.

Posti questi princìpi, alla gran penisola situata nell'oriente di Grecia restò il nome d'Asia minore, poi che ne passò il nome d'"Asia" in quella gran parte orientale del mondo ch'Asia ci restò detta assolutamente. Per lo contrario, essa Grecia, ch'era occidente a riguardo dell'Asia, fu detta "Europa", che Giove, cangiato in toro, rapì: poi il nome d'"Europa" si stese in quest'altro gran continente fin all'oceano occidentale. Dissero "Esperia" la parte occidentale di Grecia, dove dentro la quarta parte dell'orizonte sorge la sera la stella Espero; poi videro l'Italia nel medesimo sito, ma molto maggiore di quella di Grecia, e la chiamaron "Esperia magna"; si stesero finalmente nella Spagna nel medesimo sito, e la chiamaron "Esperia ultima". I greci d'Italia, al contrario, dovettero chiamar "Ionia" la parte a lor riguardo orientale di Grecia oltramare, e restonne il nome, tra l'una e l'altra Grecia, di "mar Ionio": poi, per la somiglianza del sito delle due Grecie, natia ed asiatica, i greci natii chiamaron "Ionio" la parte a lor riguardo orientale dell'Asia minore. E dalla prima Ionia è ragionevole che fusse in Italia venuto Pittagora da Samo, una dell'isole signoreggiate da Ulisse, non da Samo dell'Ionia seconda.

Dalla Tracia natia venne Marte, che fu certamente deità greca; e quindi dovette venir Orfeo, un de' primi poeti greci teologi.

Dalla Scizia greca venne Anacarsi, che lasciò in Grecia gli oracoli scitici, che dovetter esser simili agli oracoli di Zoroaste (che bisognò fusse stata dapprima una storia d'oracoli), onde Anacarsi è stato ricevuto tra gli antichissimi dèi fatidici: i quali oracoli dall'impostura poi furono trasportati in dogmi di filosofia; siccome gli Orfici ci furon supposti versi fatti da Orfeo, i quali, come gli oracoli di Zoroaste, nulla sanno di poetico e danno troppo odore di scuola platonica e pittagorica. Perciò da questa Scizia, per gl'iperborei natii, dovettero venir in Grecia i due famosi oracoli delfico e dodoneo, come ne dubitammo nell'Annotazioni alla Tavola cronologica; per che Anacarsi nella Scizia, cioè tra questi iperborei natii di Grecia, volendo ordinare l'umanità con le greche leggi, funne ucciso da Cadvido, suo fratello: tanto egli profittò nella filosofia barbaresca dell'Ornio, che non seppe ritruovargliele dappersé! Per le quali ragioni, quindi, dovett'essere pur scita Abati, che si dice avere scritto gli oracoli scitici, che non poteron esser altri che gli detti testé d'Anacarsi; e gli scrisse nella Scizia, nella quale Idantura, molto tempo venuto dopo, scriveva con esse cose: onde necessariamente è da credersi essere stati scritti da un qualche impostore de' tempi dopo essere state introdutte le greche filosofie. E quindi gli oracoli d'Anacarsi dalla boria de' dotti furono ricevuti per oracoli di sapienza riposta, i quali non ci son pervenuti.

Zamolsci fu geta (come geta fu Marte), il qual, al riferire d'Erodoto, portò a' greci il dogma dell'immortalità dell'anima.

Così da alcun'India greca dovette Bacco venire dall'indico Oriente trionfatore (da alcuna greca terra ricca d'oro poetico), e Bacco ne trionfa sopra un carro d'oro (di frumento); onde lo stesso è domatore di serpenti e di tigri, qual Ercole d'idre e lioni, come si è sopra spiegato.

Certamente il nome, che 'l Peloponneso serba fin a' nostri dì, di "Morea" troppo ci appruova che Perseo, eroe certamente greco, fece le sue imprese nella Mauritania natia; perché 'l Peloponneso tal è per rapporto all'Acaia qual è l'Affrica per rapporto all'Europa. Quindi s'intenda quanto nulla Erodoto seppe delle sue propie antichità (come gliene riprende Tucidide), il quale narra ch'i mori un tempo furono bianchi, quali certamente erano i mori della sua Grecia, la quale fin oggi si dice "Morea bianca".

Così dev'esser avvenuto che dalla pestilenza di questa Mauritania avesse Eusculapio con la sua arte preservato la sua isola di Coo; che se la doveva preservare da quella de' popoli di Marocco, egli l'arebbe dovuto preservare da tutte le pestilenze del mondo.

In cotal Mauritania dovett'Ercole soccombere al peso del cielo, che 'l vecchio Atlante era già stanco di sostenere: che dovette dapprima dirsi così il monte Ato, che, per un collo di terra, che Serse dappoi forò, divide la Macedonia dalla Tracia, e vi restò pur quivi, tralla Grecia e la Tracia, un fiume appellato Atlante; poscia, nello stretto di Gibilterra, osservati i monti Abila e Calpe così per uno stretto di mare dividere l'Affrica dall'Europa, furono dette da Ercole ivi piantate colonne, che, come abbiamo sopra detto, sostenevano il cielo, e 'l monte nell'Affrica quivi vicino fu detto "Atlante". E 'n cotal guisa può farsi verisimile la risposta ch'appo Omero fa la madre Teti ad Achille: che non poteva portare la di lui querela a Giove, perch'era da Olimpo ito con gli altri dèi a banchettare in Atlante (sull'oppenione, che sopra abbiam osservato, che gli dèi se ne stassero sulle cime degli altissimi monti); ché, se fusse stato il monte Atlante nell'Affrica, era troppo difficile a credersi, quando il medesimo Omero dice che Mercurio, quantunque alato, difficilissimamente pervenne nell'isola di Calipso, posta nel mar Fenicio, ch'era molto più vicino alla Grecia che non lo regno ch'or dicesi di Marocco.

Così dall'Esperia greca dovett'Ercole portare le poma d'oro nell'Attica, ove furono pure le ninfe esperidi (ch'eran figliuole d'Atlante), che le serbavano.

Così l'Eridano, dove cadde Fetonte, dev'essere stato, nella Tracia greca, il Danubio che va a mettere nel mar Eusino: poi, osservato da' greci il Po, che, come il Danubio, è l'altro fiume al mondo che corre da occidente verso oriente, fu da essi il Po detto "Eridano", e i mitologi fecero cader Fetonte in Italia. Ma le cose della storia eroica solamente greca, e non dell'altre nazioni, furono affisse alle stelle, tralle quali è l'Eridano.

Finalmente, usciti i greci nell'Oceano, vi distesero la brieve idea d'ogni mare che fosse d'interminato prospetto (onde Omero diceva l'isola Eolia esser cinta dall'Oceano) e, con l'idea, il nome, ch'or significa il mare che cinge tutta la terra, che si crede esser una grand'isola. E si ampliò all'eccesso la potestà di Nettunno, che dall'abisso dell'acque, che Platone pose nelle di lei viscere, egli col gran tridente faccia tremare la terra: i rozzi princìpi della qual fisica sono stati sopra da noi spiegati.

Tali princìpi di geografia assolutamente possono giustificar Omero di gravissimi errori, che gli sono a torto imputati.

I. Ch'i lotofagi d'Omero, che mangiavano cortecce d'una pianta ch'è detto "loto", fussero stati più vicini, ove dice che Ulisse da Malea a' lotofagi pose un viaggio di nove giorni: che se sono i lotofagi, quali restaron detti, fuori dello stretto di Gibilterra, doveva in nove giorni far un viaggio impossibile, nonché difficile a credersi: il qual errore gli è notato da Eratostene.

II. Ch'i lestrigoni, a' tempi d'Omero, fussero stati popoli di essa Grecia, ch'ivi avessero i giorni più lunghi, non quelli che l'avessero più lunghi sopra tutti i popoli della terra; il qual luogo indusse Arato a porgli sotto il capo del Dragone. Certamente Tucidide, scrittore grave ed esatto, narra i lestrigoni in Sicilia, che dovetter esser i popoli più settentrionali di quell'isola.

III. Per quest'istesso, i cimmeri ebbero le notti più lunghe sopra tutti i popoli della Grecia, perch'erano posti nel di lei più alto settentrione, e perciò, per le loro lunghe notti, furono detti abitare presso l'inferno (de' quali poi si portò lontanissimo il nome a' popoli abitatori della palude Meotide): e quindi i cumani, perch'eran posti presso la grotta della Sibilla, che portava all'inferno, per la creduta somiglianza di sito dovettero dirsi "cimmeri". Perché non è credibile che Ulisse, mandato da Circe senz'alcun incantesimo (perché Mercurio gli aveva dato un segreto contro le stregonerie di Circe, com'abbiamo sopra osservato), in un giorno fusse andato da' cimmeri i quali restarono così detti a vedere l'inferno, e nello stesso giorno fusse ritornato da quella in Circei, ora detto Monte Circello, che non è molto distante da Cuma.

Con questi stessi princìpi della geografia poetica greca si possono solvere molte grandi difficultà della storia antica dell'Oriente, ove son presi per lontanissimi popoli, particolarmente verso settentrione e mezzodì, quelli che dovettero dapprima esser posti dentro l'Oriente medesimo.

Perché questo, che noi diciamo della geografia poetica greca, si truova lo stesso nell'antica geografia de' latini. Il Lazio dovette dapprima essere ristrettissimo, ché, per dugencinquanta anni di regno, Roma manomise ben venti popoli e non distese più che venti miglia, come sopra abbiam detto, l'imperio. L'Italia fu certamente circoscritta da' confini della Gallia cisalpina e da quelli di Magna Grecia: poi, con le romane conquiste, ne distese il nome nell'ampiezza nella quale tuttavia dura. Così il mar Toscano dovett'esser assai picciolo nel tempo che Orazio Coclite solo sostenne tutta Toscana sul ponte: poi, con le vittorie romane, si è disteso quanto è lunga questa inferior costa d'Italia.

Alla stessa fatta e non altrimente, il primo Ponto, dove fece la sua spedizione navale Giasone, dovett'essere la terra più vicina all'Europa, da cui la divide lo stretto di mare detto Propontide; la qual terra dovette dar il nome al mar Pontico, che poi si distese dove più s'addentra nell'Asia, ove fu poi il regno di Mitridate: perché Eeta, padre di Medea, da questa stessa favola ci si narra esser nato in Calcide, città d'Eubea, isola posta dentro essa Grecia, la qual ora chiamasi Negroponto, che dovette dare il primo nome a quel mare, il quale certamente Mar Nero ci restò detto. La prima Creta dovett'esser un'isola dentro esso Arcipelago, dov'è il labirinto dell'isole ch'abbiamo sopra spiegato, e quindi dovette Minosse celebrare i corseggi sopra gli ateniesi: poi Creta uscì nel Mediterraneo, che ci restò.

Or, così da' latini avendoci richiamati i greci, essi, con uscir per lo mondo (gli uomini boriosi), sparsero dappertutto la fama della guerra troiana e degli error degli eroi, così troiani, quali d'Antenore, di Capi, d'Enea, come greci, quali di Menelao, di Diomede, d'Ulisse. Osservarono per lo mondo sparso un carattere di fondatori di nazioni simigliante a quello del lor Ercole che fu detto tebano, e vi sparsero il nome del loro Ercole, de' quali Varrone per le nazioni antiche noverò ben quaranta, de' quali il latino afferma essere stato detto "dio Fidio". Così avvenne che, per la stessa boria degli egizi (che dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti gli altri del mondo, e tutti gli Ercoli dell'altre nazioni aver preso il nome dal lor Ercole egizio, per due Degnità che se ne sono sopra proposte, siccome quelli che con errore credevano essere la nazione più antica di tutte l'altre del mondo), i greci fecero andar il lor Ercole per tutte le parti della terra, purgandola de' mostri, per riportarne solamente la gloria in casa.

Osservarono esservi stato un carattere poetico di pastori che parlavano in versi, ch'appo essi era stato Evandro arcade; e così Evandro venne da Arcadia nel Lazio, e vi ricevette ad albergo l'Ercole suo natio, e vi prese Carmenta in moglie, detta da' "carmi", da' versi, la qual a' latini truovò le lettere, cioè le forme de' suoni che si dicono "articolati", che sono la materia de' versi. E finalmente, in confermazione di tutte le cose qui dette, osservarono tai caratteri poetici dentro del Lazio, alla stessa fatta, come sopra abbiam veduto, che truovarono i loro cureti sparsi in Saturnia (o sia nell'antica Italia), in Creta ed in Asia.

Ma come tali greche voci e idee sieno pervenute a' latini in tempi sommamente selvaggi, ne' quali le nazioni erano chiuse a stranieri, quando Livio niega ch'a' tempi di Servio Tullio, nonché esso Pittagora, il di lui famosissimo nome, per mezzo a tante nazioni, di lingue e di costumi diverse, avesse da Cotrone potuto giugner a Roma; per questa difficultà appunto noi sopra domandammo in un postulato, perché ne portavamo necessaria congettura, che vi fusse stata alcuna città greca nel lido del Lazio, e che poi si fusse seppellita nelle tenebre dell'antichità, la qual avesse insegnato a' latini le lettere, le quali, come narra Tacito, furono dapprima somiglianti alle più antiche de' greci. Lo che è forte argomento ch'i latini ricevettero le lettere greche da questi greci del Lazio, non da quelli di Magna Grecia, e molto meno della Grecia oltramare, co' quali non si conobbero che dal tempo della guerra di Taranto, che portò appresso quella di Pirro: perché, altrimente, i latini arebbono usato le lettere ultime de' greci, e non ritenute le prime, che furono l'antichissime greche.

Così i nomi d'Ercole, d'Evandro, d'Enea da Grecia entrarono nel Lazio per questi seguenti costumi delle nazioni:

Prima, perché, siccome, nella loro barbarie, amano i costumi loro natii, così, da che incominciano a ingentilirsi, come delle mercatanzie e delle fogge straniere, così si dilettano degli stranieri parlari; e perciò scambiarono il loro dio Fidio con l'Ercole de' greci, e, per lo giuramento natio "medius fidius", introdusseo "mehercule", "edepol", "mecastor".

Dipoi, per quella boria, tante volte detta, c'hanno le nazioni di vantar origini romorose straniere, particolarmente ove ne abbian avuto da' loro tempi barbari alcun motivo di crederle (siccome, nella barbarie ritornata, Gian Villani narra Fiesole essere stata fondata da Atlante, e che in Germania regnò un re Priamo troiano), perciò i latini volontieri sconobbero Fidio, vero lor fondatore, per Ercole, vero fondatore de' greci, e scambiarono il carattere de' loro pastori poeti con Evandro d'Arcadia.

In terzo luogo, le nazioni, ov'osservano cose straniere, che non possono certamente spiegare con voci loro natie, delle straniere necessariamente si servono.

Quarto e finalmente, s'aggiugne la propietà de' primi popoli, che sopra nella Logica poetica si è ragionata, di non saper astrarre le qualità da' subbietti, e, non sappiendole astrarre, per appellare le qualità appellavan essi subbietti. Di che abbiamo ne' favellari latini troppo certi argomenti.

Non sapevano i romani cosa fusse lusso: poi che l'osservarono ne' tarantini, dissero "tarantino" per "profumato". Non sapevano cosa fussero stratagemmi militari: poi che l'osservarono ne' cartaginesi, gli dissero "punicas artes". Non sapevano cosa fusse fasto: poi che l'osservarono ne' capovani, dissero "supercilium campanicum" per dire "fastoso" o "superbo". Così Numa ed Anco furon "sabini", perché non sapevano dire "religioso", nel qual costume eran insigni i sabini. Così Servio Tullio fu "greco", perché non sapevano dir "astuto", la qual idea dovettero mutoli conservare finché poi conobbero i greci della città da essi vinta ch'or noi diciamo; e fu detto anco "servo", perché non sapevano dir "debole", che rillasciò il dominio bonitario de' campi a' plebei con portar loro la prima legge agraria, come sopra si è dimostrato, onde forse funne fatto uccider da' padri: perché l'astuzia è propietà che siegue alla debolezza, i quali costumi erano sconosciuti alla romana apertezza e virtù. Ché invero è una gran vergogna che fanno alla romana origine, e di troppo offendono la sapienza di Romolo fondatore, [coloro che affermano] non aver avuto Roma dal suo corpo eroi da crearvi re, infino che dovette sopportare il regno d'un vil schiavo: onore che gli han fatto i critici occupati sugli scrittori, somigliante all'altro, che seguì appresso, che, dopo aver fondato un potente imperio nel Lazio e difesolo da tutta la toscana potenza, han fatto andar i romani come barbari eslegi per l'Italia, per la Magna Grecia e per la Grecia oltramare, cercando leggi da ordinare la loro libertà, per sostenere la riputazione alla favola della legge delle XII Tavole venuta in Roma da Atene.

2.

COROLLARIO DELLA VENUTA D'ENEA IN ITALIA

Per tutto lo fin qui ragionato si può dimostrare la guisa com'Enea venne in Italia e fondò la gente romana in Alba, dalla qual i romani traggon l'origine: che una sì fatta città greca posta nel lido del Lazio fusse città greca dell'Asia, dove fu Troia, sconosciuta a' romani finché da mezzo terra stendessero le conquiste nel mar vicino; ch'a far incominciarono da Anco Marzio, terzo re de' romani, il quale vi die' principio da Ostia, la città marittima più vicina a Roma, tanto che, questa poscia a dismisura ingrandendo, ne fece finalmente il suo porto. E 'n cotal guisa, come avevano ricevuto gli arcadi latini, ch'erano fuggiaschi di terra, così poi ricevettero i frigi, i quali erano fuggiaschi di mare, nella loro protezione, e per diritto eroico di guerra demolirono la città. E così arcadi e frigi, con due anacronismi, gli arcadi con quello de' tempi posposti e i frigi con quello de' prevertiti, si salvarono nell'asilo di Romolo.

Che se tali cose non andaron così, l'origine romana da Enea sbalordisce e confonde ogn'intendimento, come nelle Degnità l'avvisammo; talché, per non isbalordirsi e confondersi, i dotti, da Livio incominciando, la tengon a luogo di favola, non avvertendo che, com'abbiam nelle Degnità detto sopra, le favole debbon aver avuto alcun pubblico motivo di verità. Perché egli è Evandro sì potente nel Lazio, che vi riceve ad albergo Ercole da cinquecento anni innanzi la fondazione di Roma; ed Enea fonda la casa reale d'Alba, la quale per quattordici re cresce in tanto lustro, che diviene la capitale del Lazio; e gli arcadi e i frigi, per tanto tempo vagabondi, si ripararono finalmente all'asilo di Romolo! Come da Arcadia, terra mediterranea di Grecia, pastori, che per natura non sanno cosa sia mare, ne valicarono tanto tratto e penetrarono in mezzo del Lazio, quando Anco Marzio, terzo re dopo Romolo, fu egli il primo che menò una colonia nel mar vicino? e vi vanno, insieme co' frigi dispersi, dugento anni innanzi che nemmeno il nome di Pittagora, celebratissimo nella Magna Grecia, a giudizio di Livio, arebbe, per mezzo a tante nazioni, di lingue e di costumi diverse, da Cotrone potuto giugner a Roma? e quattrocento anni innanzi ch'i tarantini non sapevano chi si fussero i romani, già potenti in Italia?

Ma pure, come più volte abbiam detto, per una delle Degnità sopra poste, queste tradizioni volgari dovettero da principio avere de' grandi pubblici motivi di verità, perché l'ha conservate per tanto tempo tutta una nazione. Che dunque? Bisogna dire che alcuna città greca fusse stata nel lido del Lazio, come tante altre ve ne furono e duraron appresso ne' lidi del Mar Tirreno; la qual città innanzi della legge delle XII Tavole fusse stata da' romani vinta, e per diritto eroico delle vittorie barbare fussesi demolita, e i vinti ricevuti in qualità di soci eroici; e che, per caratteri poetici, così cotesti greci dissero "arcadi" i vagabondi di terra ch'erravano per le selve, "frigi" quelli per mare, come i romani i vinti ed arresi loro dissero "ricevuti nell'asilo di Romolo", cioè in qualità di giornalieri, per le clientele ordinate da Romolo quando nel luco aprì l'asilo a coloro i quali vi rifuggivano. Sopra i quali vinti ed arresi (che supponiamo nel tempo tra lo discacciamento degli re e la legge delle XII Tavole) i plebei romani dovetter esser distinti con la legge agraria di Servio Tullio, ch'aveva permesso loro il dominio bonitario de' campi; del quale non contentandosi, voleva Coriolano, come sopra si è detto, ridurre a' giornalieri di Romolo. E poscia, buccinando dappertutto i greci la guerra troiana e gli errori degli eroi, e per l'Italia quelli d'Enea, come vi avevano osservato innanzi il lor Ercole, il lor Evandro, i loro cureti (conforme si è sopra detto), in cotal guisa, a capo di tempo, che tali tradizioni per mano di gente barbara s'eran alterate e finalmente corrotte; in cotal guisa diciamo, Enea divenne fondatore della romana gente nel Lazio: il quale il Bocharto vuole che non mise mai piede in Italia, Strabone dice che non uscì mai da Troia, ed Omero, c'ha qui più peso, narra ch'egli ivi morì e vi lasciò il regno a' suoi posteri. Così, per due borie diverse di nazioni - una de' greci, che per lo mondo fecero tanto romore della guerra di Troia; l'altra de' romani, di vantare famosa straniera origine, - i greci v'intrusero, i romani vi ricevettero finalmente Enea fondatore della gente romana.

La qual favola non poté nascere che a' tempi della guerra con Pirro, da' quali i romani incominciarono a dilettarsi delle cose de' greci; perché tal costume osserviamo celebrarsi dalle nazioni dopo c'hanno molto e lungo tempo praticato con istranieri.

3.

DELLA NOMINAZIONE E DESCRIZIONE DELLE CITTÀ EROICHE.

Ora, perché sono parti della geografia la nomenclatura e la corografia, o sieno nominazione e descrizione de' luoghi, principalmente delle città, per compimento della sapienza poetica ci rimane di queste da ragionare.

Se n'è detto sopra che le città eroiche si ritruovarono dalla provvedenza fondate in luoghi di forti siti, che gli antichi latini con vocabolo sagro, ne' loro tempi divini, dovettero chiamare "aras" e appellar anco "arces" tai luoghi forti di sito, perché ne' tempi barbari ritornati da "rocce", rupi erte e scoscese, si dissero poi le "ròcche", e quindi "castella" le signorie. E, alla stessa fatta, tal nome di "are" si dovette stendere a tutto il distretto di ciascun'eroica città, il quale, come sopra si è osservato, si disse "ager" in ragionamento di "confini con istranieri" e "territorium" in ragionamento di "giurisdizione sui cittadini". Di tutto ciò vi ha un luogo d'oro appo Tacito, ove descrive l'ara massima d'Ercole in Roma, il quale, perché troppo gravemente appruova questi princìpi, rapportiamo qui intiero: "Igitur a foro boario, ubi æneum bovis simulacrum adspicimus, quia id genius animalium aratro subditur, sulcus designandi oppidi captus, ut magnam Herculis aram complecteretur, ara Herculis erat"; - un altro pur d'oro appresso Sallustio, ove narra la famosa ara de' fratelli Fileni rimasta per confine dell'imperio cartaginese e del cirenaico.

Di sì fatte are è sparsa tutta l'antica geografia. E, incominciando dall'Asia, osserva il Cellari nella sua Antica geografia che tutte le città della Siria si dissero "are" con innanzi o dopo i loro propi vocaboli, ond'essa Siria se ne disse Aramea ed Aramia. Ma nella Grecia fondò Teseo la città d'Atene sul famoso altare degl'infelici, estimando con la giusta idea d'"infelici" gli uomini eslegi ed empi, che dalle risse della infame comunione ricorrevano alle terre forti de' forti, come sopra abbiam detto, tutti soli, deboli e bisognosi di tutti i beni ch'aveva a' pii produtto l'umanità; onde da' greci si disse ára anco il "voto". Perché, come pur sopra abbiam ragionato, sopra tali prime are del gentilesimo le prime ostie, le prime vittime (dette "Saturni hostiæ", come sopra vedemmo), i primi anathémata (ch'in latino si trasportano "diris devoti"), che furono gli empi violenti, ch'osavano entrare nelle terre arate de' forti per inseguire i deboli, che per campare da essi vi rifuggivano (ond'è forse detto "campare" per "salvarsi"), quivi essi da Vesta vi erano consagrati ed uccisi; e ne restò a' latini "supplicium" per significare "pena" e "sagrifizio", ch'usa fra gli altri Sallustio. Nelle quali significazioni troppo acconciamente a' latini rispondono i greci, a' quali la voce ára, che, come si è detto, vuol dire "votum", significa altresì "noxa", ch'è 'l corpo c'ha fatto il danno, e significa "diræ" che son esse Furie, quali appunto erano questi primi devoti che qui abbiam detto (e più ne diremo nel libro IV), ch'erano consagrati alle Furie e dappoi sagrificati sopra questi primi altari della gentilità. Talché la voce "hara", che ci restò a significare la "mandria", dovette agli antichi latini significare la "vittima"; dalla qual voce certamente è detto "aruspex" l'indovinatore, dall'interiore delle vittime uccise innanzi agli altari.

E da ciò che testé si è detto dell'ara massima d'Ercole, dovette Romolo sopra un'ara somigliante a quella di Teseo fondar Roma dentro l'asilo aperto nel luco, perché restò a' latini che nommai mentovassero luco o bosco sagro, ch'ivi non fusse alcun'ara alzata a qualche divinità: talché per quello che Livio ci disse sopra generalmente, che gli asili furono "vetus urbes condentium consilium", ci si scuopre la ragione perché nell'antica geografia si leggono tante città col nome di "are". Laonde bisogna confessare che da Cicerone con iscienza di quest'antichità il senato fu detto "ara sociorum", perocché al senato portavano le provincie le querele di sindacato contro i governadori ch'avaramente l'avevano governate, richiamandone l'origine da questi primi soci del mondo.

Già dunque abbiamo dimostro dirsi "are" le città eroiche nell'Asia e, per l'Europa, in Grecia e in Italia. Nell'Affrica restò, appo Sallustio, famosa l'ara de' fratelli Fileni poc'anzi detta. Nel Settentrione, ritornando in Europa, tuttavia si dicono "are de' cicoli", nella Transilvania, le città abitate da un'antichissima nazione unna, tutta di nobili contadini e pastori, che con gli ungheri e sassoni compongono quella provincia. Nella Germania, appo Tacito, si legge l'"ara degli ubi". In Ispagna ancor dura a molte il nome di "ara". Ma in lingua siriaca la voce "ari" vuol dir "lione"; e noi sopra, nella teogonia naturale delle dodici maggiori divinità, dimostrammo che dalla difesa dell'are nacque a' greci l'idea di Marte, che loro si dice Aùres; talché, per la stessa idea di fortezza, ne' tempi barbari ritornati tante città e case nobili caricano di lioni le lor insegne. Cotal voce, di suono e significato uniforme in tante nazioni, per immensi tratti di luoghi e tempi e costumi tra lor divise e lontane, dovette dar a' latini la voce "aratrum", la cui curvatura si disse "urbs"; quindi a' medesimi dovettero venire e "arx" e "arceo", dond'è "ager arcifinius" agli scrittori de limitibus agrorum, e dovettero venir altresì le voci "arma" e "arcus", riponendo, con giusta idea, la fortezza in arretrare e tener lontana l'ingiuria.

Ed ecco la sapienza poetica dimostrata meritar con giustizia quelle due somme e sovrane lodi: delle quali una certamente e con costanza l'è attribuita, d'aver fondato il gener umano della gentilità, che le due borie, l'una delle nazioni, l'altra de' dotti, quella con l'idee di una vana magnificenza, questa con l'idee d'un'importuna sapienza filosofica, volendogliele affermare, gliel'hanno più tosto niegata; l'altra, della quale pure una volgar tradizione n'è pervenuta, che la sapienza degli antichi faceva i suoi saggi, con uno spirito, egualmente grandi e filosofi e legislatori e capitani ed istorici ed oratori e poeti, ond'ella è stata cotanto disiderata. Ma quella gli fece o, più tosto, gli abbozzò tali, quali l'abbiamo truovati dentro le favole, nelle quali, com'in embrioni o matrici, si è discoverto essere stato abbozzato tutto il sapere riposto; che puossi dire dentro di quelle per sensi umani essere stati dalle nazioni rozzamente descritti i princìpi di questo mondo di scienze, il quale poi con raziocinî e con massime ci è stato schiarito dalla particolare riflessione de' dotti. Per lo che tutto, si ha ciò che 'n questo libro dovevasi dimostrare: che i poeti teologi furono il senso, i filosofi furono l'intelletto dell'umana sapienza.

home

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento:

17/07/05 01.23.50

email

top top