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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

PRINCIPJ DI SCIENZA NUOVA

D'INTORNO ALLA COMUNE NATURA DELLE NAZIONI,

IN QUESTA TERZA IMPRESSIONE DAL MEDESIMO AUTORE

IN UN GRAN NUMERO DI LUOGHI CORRETTA,

SCHIARITA. E NOTABILMENTE ACCRESCIUTA

1744

Giambattista Vico

 

LIBRO PRIMO

DELLO STABILIMENTO DE' PRINCÌPI.

I ANNOTAZIONI...

II DEGLI ELEMENTI.

III DE' PRINCÌPI.

IV DEL METODO

ANNOTAZIONI ALLA TAVOLA CRONOLOGICA NELLE QUALI SI FA L'APPARECCHIO DELLE MATERIE.

 I

[Tavola cronologica, descritta sopra le tre epoche de' tempi degli egizi, che dicevano tutto il mondo innanzi essere scorso per tre età: degli dèi, degli eroi e degli uomini ]

Questa Tavola cronologica spone in comparsa il mondo delle nazioni antiche, il quale dal diluvio universale girasi dagli ebrei per gli caldei, sciti, fenici, egizi, greci e romani fin alla loro guerra seconda cartaginese. E vi compariscono uomini o fatti romorosissimi, determinati in certi tempi o in certi luoghi dalla comune de' dotti, i quali uomini o fatti o non furono ne' tempi o ne' luoghi ne' quali sono stati comunemente determinati, non furon affatto nel mondo; e da lunghe densissime tenebre, ove giaciuti erano seppelliti, v'escon uomini insigni e fatti rilevantissimi, da' quali e co' quali son avvenuti grandissimi momenti di cose umane. Lo che tutto si dimostra in queste Annotazioni, per dar ad intendere quanto l'umanità delle nazioni abbia incerti a sconci o difettuosi o vani i princìpi.

Di più, ella si propone tutta contraria al Canone cronico egiziaco, ebraico e greco di Giovanni Marshamo, ove vuol provare che gli egizi nella polizia e nella religione precedettero a tutte le nazioni del mondo, e che i di loro riti sagri ed ordinamenti civili, trasportati ad altri popoli, con qualche emendazione si ricevettero dagli ebrei. Nella qual oppenione il seguitò lo Spencero nella dissertazione De Urim et Thummim, ove oppina che gl'israeliti avessero apparato dagli egizi tutta la scienza delle divine cose per mezzo della sagra Cabbala. Finalmente al Marshamo acclamò l'Ornio nell'Antichità della barbaresca filosofia, ove, nel libro intitolato Chaldaicus, scrive che Mosè, addottrinato nella scienza delle divine cose dagli egizi, l'avesse portate nelle sue leggi agli ebrei. Surse allo 'ncontro Ermanno Witzio, nell'opera intitolata Ægyptiaca sive de ægyptiacorum sacrorum cum hebraicis collatione, e stima che 'l primo autor gentile, che n'abbia dato le prime certe notizie degli egizi, egli sia stato Dion Cassio, il quale fiorì sotto Marco Antonino filosofo. Di che può essere confutato con gli Annali di Tacito, ove narra che Germanico, passato nell'Oriente, quindi portossi in Egitto per vedere l'antichità famose di Tebe, e quivi da un di quei sacerdoti si fece spiegare i geroglifici iscritti in alcune moli, il quale, vaneggiando, gli riferì che que' caratteri conservavano le memorie della sterminata potenza ch'ebbe il loro re Ramse nell'Affrica, nell'Oriente e fino nell'Asia Minore, eguale alla potenza romana di quelli tempi, che fu grandissima: il qual luogo, perché gli era contrario, forse il Witzio si tacque.

Ma, certamente, cotanto sterminata antichità non fruttò molto di sapienza riposta agli egizi mediterranei. Imperciocché ne' tempi di Clemente l'alessandrino, com'esso narra negli Stromati, andavano attorno i loro libri detti "sacerdotali" al numero di quarantadue, i quali in filosofia ed astronomia contenevano de' grandissimi errori, de' quali Cheremone, maestro di san Dionigi areopagita, sovente è messo in favola da Strabone; - le cose della medicina si truovano da Galeno ne' libri de medicina mercuriali essere manifeste ciance e mere imposture; - la morale era dissoluta, la quale, nonché tollerate o lecite, faceva oneste le meretrici; - la teologia era piena di superstizioni, prestigi e stregonerie. E la magnificenza delle loro moli e piramidi poté ben esser parto della barbarie, la quale si comporta col grande: però la scoltura e la fonderia egiziaca s'accusano ancor oggi essere state rozzissime. Perché la dilicatezza è frutto delle filosofie; onde la Grecia, che fu la nazion de' filosofi, sola sfolgorò di tutte le belle arti ch'abbia giammai truovato l'ingegno umano: pittura, scoltura, fonderia, arte d'intagliare, le quali sono dilicatissime, perché debbon astrarre le superficie da' corpi ch'imitano.

Innalzò alle stelle cotal antica sapienza degli egizi la fondatavi sul mare da Alessandro Magno Alessandria, la qual, unendo l'acutezza affricana con la dilicatezza greca, vi produsse chiarissimi filosofi in divinità, per li quali ella pervenne in tanto splendore d'alto divin sapere che 'l Museo alessandrino funne poi celebrato quanto unitamente erano stat'innanzi l'Accademia, il Liceo, la Stoa e 'l Cinosargi in Atene; e funne detta "la madre delle scienze" Alessandria e, per cotanta eccellenza, fu appellata da' greci Pólis come Aùstu Atene, "Urbs" Roma. Quindi provenne Maneto, o sia Manetone, sommo pontefice egizio, il quale trasportò tutta la storia egiziaca ad una sublime teologia naturale, appunto come i greci filosofi avevano fatto innanzi delle lor favole, quali qui truoverassi esser state le lor antichissime storie; onde s'intenda lo stesso esser avvenuto delle favole greche che de' geroglifici egizi.

Con tanto fasto d'alto sapere, la nazione, di sua natura boriosa (che ne furono motteggiati "gloriæ animalia"), in una città ch'era un grand'emporio del Mediterraneo e, per lo Mar Rosso, dell'Oceano e dell'Indie (tra gli cui costumi vituperevoli da Tacito, in un luogo d'oro, si narra questo: "novarum religionum avida"), tra per la pregiudicata oppenione della loro sformata antichità, la quale vanamente vantavano sopra tutte l'altre nazioni del mondo, e quindi d'aver signoreggiato anticamente ad una gran parte del mondo; e perché non sapevano la guisa come tra gentili, senza ch'i popoli sapessero nulla gli uni degli altri, divisamente nacquero idee uniformi degli dèi e degli eroi (lo che dentro appieno sarà dimostro), tutte le false divinitadi, ch'essi dalle nazioni che vi concorrevano per gli marittimi traffichi udivano essere sparse per lo resto del mondo, credettero esser uscite dal lor Egitto, e che 'l loro Giove Ammone fusse lo più antico di tutti (de' quali ogni nazione gentile n'ebbe uno), e che gli Ercoli di tutte l'altre nazioni (de' quali Varrone giunse a noverare quaranta) avessero preso il nome dal lor Ercole egizio, come l'uno e l'altro ci vien narrato da Tacito. E, con tutto ciò che Diodoro sicolo, il quale visse a' tempi d'Augusto, gli adorni di troppo vantaggiosi giudizi, non dà agli egizi maggior antichità che di duemila anni; e i di lui giudizi sono rovesciati da Giacomo Cappello nella sua Storia sagra ed egiziaca, che gli stima tali quali Senofonte aveva innanzi attaccati a Ciro e (noi aggiugniamo) Platone sovente finge de' persiani. Tutto ciò, finalmente, d'intorno alla vanità dell'altissima antica sapienza egiziaca si conferma con l'impostura del Pimandro smaltito per dottrina ermetica, il quale si scuopre dal Casaubuono non contenere dottrina più antica di quella de' platonici spiegata con la medesima frase, nel rimanente giudicata dal Salmasio per una disordinata e mal composta raccolta di cose.

Fece agli egizi la falsa oppenione di cotanta lor antichità questa propietà della mente umana - d'esser indiffinita, - per la quale, delle cose che non sa, ella sovente crede sformatamente più di quello che son in fatti esse cose. Perciò gli egizi furon in ciò somiglianti a' chinesi, i quali crebbero in tanto gran nazione chiusi a tutte le nazioni straniere, come gli egizi lo erano stati fino a Psammetico e gli sciti fin ad Idantura, da' quali è volgar tradizione che furono vinti gli egizi in pregio d'antichità. La qual volgar tradizione è necessario ch'avesse avuto indi motivo onde incomincia la storia universale profana, la qual, appresso Giustino, come antiprincìpi propone innanzi alla monarchia degli assiri due potentissimi re, Tanai scita e Sesostride egizio, i quali finor han fatto comparire il mondo molto più antico di quel ch'è in fatti; e che per l'Oriente prima Tanai fusse ito con un grandissimo esercito a soggiogare l'Egitto, il qual è per natura difficilissimo a penetrarsi con l'armi, e che poi Sesostride con altrettante forze si fusse portato a soggiogare la Scizia, la qual visse sconosciuta ad essi persiani (ch'avevano stesa la loro monarchia sopra quella de' medi, suoi confinanti) fin a' tempi di Dario detto "maggiore", il qual intimò al di lei re Idantura la guerra; il qual si truova cotanto barbaro a' tempi dell'umanissima Persia, che gli risponde con cinque parole reali di cinque corpi, che non seppe nemmeno scrivere per geroglifici. E questi due potentissimi re attraversano con due grandissimi eserciti l'Asia, e non la fanno provincia o di Scizia o d'Egitto, e la lasciano in tanta libertà ch'ivi poi surse la prima monarchia delle quattro più famose del mondo, che fu quella d'Assiria!

Perciò, forse, in cotal contesa d'antichità non mancarono d'entrar in mezzo i caldei, pur nazione mediterranea e, come dimostreremo, più antica dell'altre due, i quali vanamente vantavano di conservare le osservazioni astronomiche di ben ventiottomila anni: che forse diede il motivo a Flavio Giuseppe ebreo di credere con errore l'osservazioni avantidiluviane descritte nelle due colonne, una di marmo ed un'altra di mattoni, innalzate incontro a' due diluvi, e d'aver esso veduta nella Siria quella di marmo. Tanto importava alle nazioni antiche di conservare le memorie astronomiche, il qual senso fu morto affatto tralle nazioni che loro vennero appresso! Onde tal colonna è da riporsi nel museo della credulità.

Ma così i chinesi si sono trovati scriver per geroglifici, come anticamente gli egizi e, più degli egizi, gli sciti, i quali nemmeno gli sapevano scrivere. E, non avendo per molte migliaia d'anni avuto commerzio con altre nazioni dalle quali potesser esser informati della vera antichità del mondo, com'uomo, che dormendo sia chiuso in un'oscura picciolissima stanza, nell'orror delle tenebre la crede certamente molto maggiore di quello che con mani la toccherà; così, nel buio della loro cronologia, han fatto i chinesi e gli egizi e, con entrambi, i caldei. Pure, benché il padre Michel di Ruggiero, gesuita, affermi d'aver esso letti libri stampati innanzi la venuta di Gesù Cristo; e benché il padre Martini, pur gesuita, nella sua Storia chinese narri una grandissima antichità di Confucio, la qual ha indotti molti nell'ateismo, al riferire di Martino Scoockio in Demonstratione Diluvii universalis, onde Isacco Pereyro, autore della Storia preadamitica, forse perciò abbandonò la fede catolica, e quindi scrisse che 'l diluvio si sparse sopra la terra de' soli ebrei: però Niccolò Trigaulzio, meglio del Ruggieri e del Martini informato, nella sua Christiana expeditione apud Sinas scrive la stampa appo i chinesi essersi truovata non più che da due secoli innanzi degli europei, e Confucio aver fiorito non più che cinquecento anni innanzi di Gesù Cristo. E la filosofia confuciana, conforme a' libri sacerdotali egiziaci, nelle poche cose naturali ella è rozza e goffa, e quasi tutta si rivolge ad una volgar morale, o sia moral comandata a que' popoli con le leggi.

Da sì fatto ragionamento d'intorno alla vana oppenione ch'avevano della lor antichità queste gentili nazioni, e sopra tutte gli egizi, doveva cominciare tutto lo scibile gentilesco, tra per sapere con iscienza quest'importante principio: - dove e quando egli ebbe i suoi primi incominciamenti nel mondo, - e per assistere con ragioni anco umane a tutto il credibile cristiano, il quale tutto incomincia da ciò: che 'l primo popolo del mondo fu egli l'ebreo, di cui fu principe Adamo, il quale fu criato dal vero Dio con la criazione del mondo. E che la prima scienza da doversi apparare sia la mitologia, ovvero l'interpetrazion delle favole (perché, come si vedrà, tutte le storie gentilesche hanno favolosi i princìpi), e che le favole furono le prime storie delle nazioni gentili. E con sì fatto metodo rinvenire i princìpi come delle nazioni così delle scienze, le quali da esse nazioni son uscite e non altrimente: come per tutta quest'opera sarà dimostro ch'alle pubbliche necessità o utilità de' popoli elleno hanno avuto i lor incominciamenti, e poi, con applicarvi la riflessione acuti particolari uomini, si sono perfezionate. E quindi cominciar debbe la storia universale, che tutti i dotti dicono mancare ne' suoi princìpi.

E, per ciò fare, l'antichità degli egizi in ciò grandemente ci gioverà, che ne serbarono due grandi rottami non meno maravigliosi delle loro piramidi, che sono queste due grandi verità filologiche. Delle quali una è narrata da Erodoto: ch'essi tutto il tempo del mondo ch'era corso loro dinanzi riducevano a tre età: la prima degli dèi, la seconda degli eroi e la terza degli uomini. L'altra è che, con corrispondente numero ed ordine, per tutto tal tempo si erano parlate tre lingue: la prima geroglifica ovvero per caratteri sagri, la seconda simbolica o per caratteri eroici, la terza pistolare o per caratteri convenuti da' popoli, al riferire dello Scheffero, De philosophia italica. La qual divisione de' tempi egli è necessario che Marco Terenzio Varrone - perch'egli, per la sua sterminata erudizione, meritò l'elogio con cui fu detto il "dottissimo de' romani" ne' tempi loro più illuminati, che furon quelli di Cicerone - dobbiam dire, non già ch'egli non seppe seguire, ma che non volle; perché, forse, intese della romana ciò che, per questi princìpi, si truoverà vero di tutte le nazioni antiche, cioè che tutte le divine ed umane cose romane erano native del Lazio: onde si studiò dar loro tutte latine origini nella sua gran opera Rerum divinarum et humanarum, della quale l'ingiuria del tempo ci ha privi (tanto Varrone credette alla favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene in Roma!), e divise tutti i tempi del mondo in tre, cioè: tempo oscuro, ch'è l'età degli dèi; quindi tempo favoloso, ch'è l'età degli eroi; e finalmente tempo istorico, ch'è l'età degli uomini che dicevano gli egizi.

Oltracciò, l'antichità degli egizi gioveracci con due boriose memorie, di quella boria delle nazioni, le quali osserva Diodoro sicolo che, o barbare o umane si fussero, ciascheduna si è tenuta la più antica di tutte e serbare le sue memorie fin dal principio del mondo; lo che vedremo essere stato privilegio de' soli ebrei. Delle quali due boriose memorie una osservammo esser quella che 'l loro Giove Ammone era il più vecchio di tutti gli altri del mondo, l'altra che tutti gli altri Ercoli dell'altre nazioni avevano preso il nome dal loro Ercole egizio: cioè ch'appo tutte prima corse l'età degli dèi, re de' quali appo tutte fu creduto esser Giove; e poscia l'età degli eroi, che si tenevano esser figliuoli degli dèi, il massimo de' quali fu creduto esser Ercole.

II

[Ebrei ]

S'innalza la prima colonna agli ebrei, i quali, per gravissime autorità di Flavio Giuseppe ebreo e di Lattanzio Firmiano ch'appresso s'arrecheranno, vissero sconosciuti a tutte le nazioni gentili. E pur essi contavano giusta la ragione de' tempi corsi del mondo, oggi dagli più severi critici ricevuta per vera, secondo il calcolo di Filone giudeo; la qual se varia da quel d'Eusebio, il divario non è che di mille e cinquecento anni, ch'è brievissimo spazio di tempo a petto di quanto l'alterarono i caldei, gli sciti, gli egizi e, fin al dì d'oggi, i chinesi. Che dev'esser un invitto argomento che gli ebrei furono il primo popolo del nostro mondo ed hanno serbato con verità le loro memorie nella storia sagra fin dal principio del mondo.

III

[Caldei ]

Si pianta la seconda colonna a' caldei, tra perché in geografia si mostra in Assiria essere stata la monarchia più mediterranea di tutto il mondo abitabile, e perché in quest'opera si dimostra che si popolarono prima le nazioni mediterranee, dappoi le marittime. E certamente i caldei furono i primi sappienti della gentilità, il principe de' quali dalla comune de' filologi è ricevuto Zoroaste caldeo. E senza veruno scrupolo la storia universale prende principio dalla monarchia degli assiri, la quale aveva dovuto incominciar a formarsi dalla gente caldea; dalla quale, cresciuta in un grandissimo corpo, dovette passare nella nazion degli assiri sotto di Nino, il quale vi dovette fondare tal monarchia, non già con gente menata colà da fuori, ma nata dentro essa Caldea medesima, con la qual egli spense il nome caldeo e vi produsse l'assirio: che dovetter esser i plebei di quella nazione, con le forze de' quali Nino vi surse monarca, come in quest'opera tal civile costume di quasi tutte, come si ha certamente della romana, vien dimostrato. Ed essa storia pur ci racconta che fu Zoroaste ucciso da Nino; lo che truoveremo esser stato detto, con lingua eroica, in senso che 'l regno, il qual era stato aristocratico de' caldei (de' quali era stato carattere eroico Zoroaste), fu rovesciato per mezzo della libertà popolare da' plebei di tal gente, i quali ne' tempi eroici si vedranno essere stati altra nazione da' nobili, e che col favore di tal nazione Nino vi si fusse stabilito monarca. Altrimente, se non istanno così queste cose, n'uscirebbe questo mostro di cronologia nella storia assiriaca; che nella vita d'un sol uomo, di Zoroaste, da vagabondi eslegi si fusse la Caldea portata a tanta grandezza d'imperio che Nino vi fondò una grandissima monarchia. Senza i quali princìpi, avendoci Nino dato il primo incominciamento della storia universale, ci ha fatto finor sembrare la monarchia dell'Assiria, come una ranocchia in una pioggia d'està, esser nata tutta ad un tratto.

IV

[Sciti ]

Si fonda la terza colonna agli sciti, i quali vinsero gli egizi in contesa d'antichità, come testé l'hacci narrato una tradizione volgare.

V

[Fenici ]

La quarta colonna si stabilisce a' fenici innanzi degli egizi, ai quali i fenici, da' caldei, portarono la pratica del quadrante e la scienza dell'elevazione del polo, di che è volgare tradizione; e appresso dimostraremo che portarono anco i volgari caratteri.

VI

[Egizi ]

Per tutte le cose sopra qui ragionate, quelli egizi che nel suo Canone vuol il Marshamo essere stati gli più antichi di tutte le nazioni, meritano il quinto luogo su questa Tavola cronologica.

VII

[Zoroaste, o regno de' caldei. - Anni del mondo 1756 ]

Zoroaste si truova in quest'opera essere stato un carattere poetico di fondatori di popoli in Oriente, onde se ne truovano tanti sparsi per quella gran parte del mondo quanti sono gli Ercoli per l'altra opposta dell'Occidente; e forse gli Ercoli, i quali con l'aspetto degli occidentali osservò Varrone anco in Asia (come il tirio, il fenicio), dovettero agli orientali essere Zoroasti. Ma la boria de' dotti, i quali ciò ch'essi sanno vogliono che sia antico quanto ch'è il mondo, ne ha fatto un uomo particolare ricolmo d'altissima sapienza riposta e gli ha attaccato gli oracoli della filosofia, i quali non ismaltiscono altro che per vecchia una troppo nuova dottrina, ch'è quella de' pittagorici e de' platonici. Ma tal boria de' dotti non si fermò qui, ché gonfiò più col fingerne anco la succession delle scuole per le nazioni: che Zoroaste addottrinò Beroso, per la Caldea; Beroso, Mercurio Trimegisto, per l'Egitto; Mercurio Trimegisto, Atlante, per l'Etiopia; Atlante, Orfeo, per la Tracia; e che, finalmente, Orfeo fermò la sua scuola in Grecia. Ma quindi a poco si vedrà quanto furono facili questi lunghi viaggi per le prime nazioni, le quali, per la loro fresca selvaggia origine, dappertutto vivevano sconosciute alle loro medesime confinanti, e non si conobbero tra loro che con l'occasion delle guerre o per cagione de' traffichi.

Ma de' caldei gli stessi filologi, sbalorditi dalle varie volgari tradizioni che ne hanno essi raccolte, non sanno s'eglino fussero stati particolari uomini o intiere famiglie o tutto un popolo o nazione. Le quali dubbiezze tutte si solveranno con questi princìpi: che prima furono particolari uomini, dipoi intiere famiglie, appresso tutto un popolo e finalmente una gran nazione, sulla quale si fondò la monarchia dell'Assiria; e 'l lor sapere fu prima in volgare divinità (con la qual indovinavano l'avvenire dal tragitto delle stelle cadenti la notte) e poi in astrologia giudiziaria, com'a' latini l'astrologo giudiziario restò detto "chaldæus".

VIII

[Giapeto, dal quale provvengon i giganti - Anni del mondo 1856 ]

I quali, con istorie fisiche truovate dentro le greche favole, e pruove come fisiche così morali tratte da dentro l'istorie civili, si dimostreranno essere stati in natura appo tutte le prime nazioni gentili.

IX

[Nebrod, o confusione delle lingue. - Anni del mondo 1856 ]

La quale avvenne in una maniera miracolosa, onde all'istante si formarono tante favelle diverse. Per la qual confusione di lingue vogliono i Padri che si venne tratto tratto a perdere la purità della lingua santa avantidiluviana. Lo che si deve intendere delle lingue de' popoli d'Oriente, tra' quali Sem propagò il gener umano. Ma delle nazioni di tutto il restante mondo altrimente dovette andar la bisogna. Perocché le razze di Cam e Giafet dovettero disperdersi per la gran selva di questa terra con un error ferino di dugento anni; e così, raminghi e soli, dovettero produrre i figliuoli, con una ferina educazione, nudi d'ogni umano costume e privi d'ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali. E tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la terra, disseccata dall'umidore dell'universale diluvio, potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de' fulmini, da' quali gli uomini storditi e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta e gli egizi dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti. E si diedero ad una spezie di divinazione d'indovinar l'avvenire da' tuoni e da' fulmini e da' voli dell'aquile, che credevano essere uccelli di Giove. Ma appo gli orientali nacque una spezie di divinazione più dilicata dall'osservare i moti de' pianeti e gli aspetti degli astri: onde il primo sapiente della gentilità si celebra Zoroaste, che 'l Bocarto vuol detto "contemplatore degli astri". E, siccome tra gli orientali nacque la prima volgar sapienza, così tra essi surse la prima monarchia, che fu quella d'Assiria.

Per sì fatto ragionamento vengono a rovinare tutti gli etimologi ultimi, che vogliono rapportare tutte le lingue del mondo all'origini dell'orientali; quando tutte le nazioni provenute da Cam e Giafet si fondarono prima le lingue natie dentro terra, e poi, calate al mare, cominciarono a praticar co' fenici, che furono celebri ne' lidi del Mediterraneo e dell'Oceano per la navigazione e per le colonie. Come nella Scienza nuova la prima volta stampata l'abbiam dimostro nelle origini della lingua latina, e, ad esempio della latina, doversi lo stesso intendere dell'altre tutte.

X

[Un de' quali [giganti], Prometeo, ruba il fuoco dal sole. - Anni del mondo 1856 ]

Da questa favola si scorge il Cielo avere regnato in terra, quando fu creduto tant'alto quanto le cime de' monti, come ve n'ha la volgare tradizione, che narra anco aver lasciato de' molti e grandi benefizi al gener umano.

XI

[Deucalione ]

Al cui tempo Temi, o sia la giustizia divina, aveva un templo sopra il monte Parnaso; e ch'ella giudicava in terra le cose degli uomini.

XII

[Mercurio Trimegisto il vecchio, ovvero età degli dèi d'Egitto ]

Questo è 'l Mercurio, ch'al riferire di Cicerone, De natura deorum, fu dagli egizi detto "Theut" (dal quale a' greci fusse provenuto theós), il quale truovò le lettere e le leggi agli egizi, e questi (per lo Marshamo) l'avesser insegnate all'altre nazioni del mondo. Però i greci non iscrissero le loro leggi co' geroglifici, ma con le lettere volgari, che finora si è oppinato aver loro portato Cadmo dalla Fenicia, delle quali, come vedrassi, non si servirono per settecento anni e più appresso. Dentro il qual tempo venne Omero, che in niuno de' suoi poemi nomina nómos (ch'osservò il Feizio nell'Omeriche antichità), e lasciò i suoi poemi alla memoria de' suoi rapsòdi, perché al di lui tempo le lettere volgari non si erano ancor truovate, come risolutamente Flavio Giuseffo ebreo il sostiene contro Appione, greco gramatico. E pure, dopo Omero, le lettere greche uscirono tanto diverse dalle fenicie.

Ma queste sono minori difficultà a petto di quelle: come le nazioni, senza le leggi, possano truovarsi di già fondate? e come dentro esso Egitto, innanzi di tal Mercurio, si erano già fondate le dinastie? Quasi fussero d'essenza delle leggi le lettere, e sì non fussero leggi quelle di Sparta, ove per legge d'esso Ligurgo erano proibiti saper di lettera! Quasi non vi avesse potuto essere quest'ordine in natura civile: - di concepire a voce le leggi e pur a voce di pubblicarle, - e non si truovassero di fatto appo Omero due sorte d'adunanze: una detta bulé segreta, dove si adunavano gli eroi per consultar a voce le leggi; ed un'altra detta agorá, pubblica, nella quale pur a voce le pubblicavano! Quasi, finalmente, la provvedenza non avesse provveduto a questa umana necessità: che, per la mancanza delle lettere, tutte le nazioni nella loro barbarie si fondassero prima con le consuetudini e, ingentilite, poi si governassero con le leggi! Siccome nella barbarie ricorsa i primi diritti delle nazioni novelle d'Europa sono nati con le consuetudini, delle quali tutte le più antiche son le feudali; lo che si dee ricordare per ciò ch'appresso diremo: ch'i feudi sono state le prime sorgive di tutti i diritti che vennero appresso appo tutte le nazioni così antiche come moderne, e quindi il diritto natural delle genti, non già con leggi, ma con essi costumi umani essersi stabilito.

Ora, per ciò ch'attiensi a questo gran momento della cristiana religione: - che Mosè non abbia apparato dagli egizi la sublime teologia degli ebrei, - sembra fortemente ostare la cronologia, la qual alloga Mosè dopo di questo Mercurio Trimegisto. Ma tal difficultà, oltre alle ragioni con le quali sopra si è combattuta, ella si vince affatto per questi princìpi, fermati in un luogo veramente d'oro di Giamblico, De mysteriis ægyptiorum, dove dice che gli egizi tutti i loro ritruovati necessari o utili alla vita umana civile riferivano a questo loro Mercurio; talché egli dee essere stato, non un particolare uomo ricco di sapienza riposta che fu poi consagrato dio, ma un carattere poetico de' primi uomini dell'Egitto sappienti di sapienza volgare, che vi fondarono prima le famiglie e poi i popoli che finalmente composero quella gran nazione. E per questo stesso luogo arrecato testé di Giamblico, perché gli egizi costino con la loro divisione delle tre età degli dèi, degli eroi e degli uomini, e questo Trimegisto fu loro dio, perciò nella vita di tal Mercurio dee correre tutta l'età degli dèi degli egizi.

XIII

[Età dell'oro, ovvero età degli dèi di Grecia ]

Una delle cui particolarità la storia favolosa ci narra: che gli dèi praticavano in terra con gli uomini. E, per dar certezza a' princìpi della cronologia, meditiamo in quest'opera una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi, fatta naturalmente nelle fantasie de' greci a certe occasioni di umane necessità o utilità, ch'avvertirono essere state loro soccorse o somministrate ne' tempi del primo mondo fanciullo, sorpreso da spaventosissime religioni: che tutto ciò che gli uomini o vedevano o immaginavano o anco essi stessi facevano, apprendevano essere divinità. E, de' famosi dodici dèi delle genti che furon dette "maggiori", o sieno dèi consagrati dagli uomini nel tempo delle famiglie, faccendo dodici minute epoche, con una cronologia ragionata della storia poetica si determina all'età degli dèi la durata di novecento anni; onde si danno i princìpi alla storia universale profana.

XIV

[Elleno, figliuolo di Deucalione, nipote di Prometeo, pronipote di Giapeto, per tre suoi figliuoli sparge nella Grecia tre dialetti. - Anni del mondo 2082 ]

Da quest'Elleno i greci natii si disser "elleni"; ma i greci d'Italia si dissero "graii"; e la loro terra Graikía, onde "græci" vennero detti a' latini. Tanto i greci d'Italia seppero il nome della nazion greca principe, che fu quella oltramare, ond'essi erano venuti colonie in Italia! Perché tal voce Graikía non si truova appresso greco scrittore, come osserva Giovanni Palmerio nella Descrizion della Grecia.

XV

[Cecrope egizio mena dodici colonie nell'Attica, delle quali poi Teseo compose Atene ]

Ma Strabone stima che l'Attica, per l'asprezza delle sue terre, non poteva invitare stranieri che vi venissero ad abitare, per pruovare che 'l dialetto attico è de' primi tra gli altri natii di Grecia.

XVI

[Cadmo fenice fonda Tebe in Beozia, ed introduce in Grecia le lettere volgari. - Anni del mondo 2448 ]

E vi porrò le lettere fenicie: onde Beozia, fin dalla sua fondazione letterata, doveva essere la più ingegnosa di tutte l'altre nazioni di Grecia; ma produsse uomini di menti tanto balorde che passò in proverbio "beoto" per uomo d'ottuso ingegno.

XVII

[Saturno, ovvero l'età degli dèi del Lazio. - Anni del mondo 2491 ]

Questa è l'età degli dèi che comincia alle nazioni del Lazio, corrispondente nelle propietà all'età dell'oro de' greci, a' quali il primo oro si ritruoverà per la nostra mitologia essere stato il frumento, con le cui raccolte per lunghi secoli le prime nazioni numerarono gli anni. E Saturno da' latini fu detto a "satis", da' seminati, e si dice Chrónos da' greci, appo i quali chrónos è il tempo, da cui vien detta essa "cronologia".

XVIII

[Mercurio Trimegisto il giovine, o età degli eroi d'Egitto. Anni del mondo 2553 ]

Questo Mercurio il giovine dev'essere carattere poetico dell'età degli eroi degli egizi. La qual a' greci non succedé che dopo novecento anni, per gli quali va a finire l'età degli dèi di Grecia; ma agli egizi corre per un padre, figlio e nipote. A tal anacronismo nella storia egiziaca osservammo uno somigliante nella storia assiriaca nella persona di Zoroaste.

XIX

[Danao egizio caccia gl'Inachidi dal regno d'Argo. Anni del mondo 2553 ]

Queste successioni reali sono gran canoni di cronologia: come Danao occupa il regno d'Argo, signoreggiato innanzi da nove re della casa d'Inaco, per gli quali dovevano correre trecento anni (per la regola de' cronologi), come presso a cinquecento per gli quattordici re latini che regnarono in Alba.

Ma Tucidide dice che ne' tempi eroici gli re si cacciavano tutto giorno di sedia l'un l'altro; come Amulio caccia Numitore dal regno d'Alba, e Romolo ne caccia Amulio e rimettevi Numitore. Lo che avveniva tra per la ferocia de' tempi, e perch'erano smurate l'eroiche città, né eran in uso ancor le fortezze, come dentro si rincontra de' tempi barbari ritornati.

XX

[Eraclidi sparsi per tutta Grecia, che vi fanno l'età degli eroi. - Cureti in Creta, Saturnia, ovvero Italia, ed in Asia, che vi fanno regni di sacerdoti. - Anni del mondo 2682 ]

Questi due grandi rottami d'antichità si osservano da Dionigi Petavio gittati dentro la greca storia avanti il tempo eroico de' greci. E sono sparsi per tutta Grecia gli Eraclidi, o sieno i figliuoli d'Ercole, più di cento anni innanzi di provenirvi Ercole loro padre, il quale, per propagarli in tanta generazione, doveva esser nato molti secoli prima.

XXI

[Didone da Tiro va a fondar Cartagine ]

La quale noi poniamo nel fine del tempo eroico de' fenici, e sì, cacciata da Tiro perché vinta in contesa eroica, com'ella il professa d'esserne uscita per l'odio del suo cognato. Tal moltitudine d'uomini tirii con frase eroica fu detta "femmina", perché di deboli e vinti.

XXII

[Orfeo, e con essolui l'età de' poeti teologi ]

Quest'Orfeo, che riduce le fiere di Grecia all'umanità, si truova esser un vasto covile di mille mostri. Viene da Tracia, patria di fieri Marti, non d'umani filosofi, perché furono, per tutto il tempo appresso, cotanto barbari ch'Androzione filosofo tolse Orfeo dal numero de' sappienti solamente per ciò che fusse nato egli in Tracia. E, ne' di lei princìpi, ne uscì tanto dotto di greca lingua che vi compose in versi di maravigliosissima poesia, con la quale addimestica i barbari per gli orecchi; i quali, composti già in nazioni, non furono ritenuti dagli occhi di non dar fuoco alle città piene di maraviglie. E truova i greci ancor fiere bestie; a' quali Deucalione, da un mille anni innanzi, aveva insegnato la pietà col riverire e temere la giustizia divina, col cui timore, innanzi al di lei templo posto sopra il monte Parnaso (che fu poi la stanza delle muse e d'Apollo, che sono lo dio e l'arti dell'umanità), insieme con Pirra sua moglie, entrambi co' capi velati (cioè col pudore del concubito umano, volendo significare col matrimonio), le pietre ch'erano loro dinanzi i piedi (cioè gli stupidi della vita innanzi ferina), gittandole dietro le spalle, fanno divenir uomini (cioè con l'ordine della disciplina iconomica, nello stato delle famiglie); - Elleno, da settecento anni innanzi, aveva associati con la lingua e v'aveva sparso per tre suoi figliuoli tre dialetti; - la casa d'Inaco dimostrava esservi da trecento anni innanzi fondati i regni e scorrervi le successioni reali. Viene finalmente Orfeo ad insegnarvi l'umanità; e, da un tempo che la truova tanto selvaggia, porta la Grecia a tanto lustro di nazione ch'esso è compagno di Giasone nell'impresa navale del vello d'oro (quando la navale e la nautica sono gli ultimi ritruovati de' popoli), e vi s'accompagna con Castore e Polluce, fratelli d'Elena, per cui fu fatta la tanto romorosa guerra di Troia. E, nella vita d'un sol uomo, tante civili cose fatte, alle quali appena basta la scorsa di ben mill'anni! Tal mostro di cronologia sulla storia greca nella persona d'Orfeo è somigliante agli altri due osservati sopra: uno sulla storia assiriaca nella persona di Zoroaste, ed un altro sull'egiziaca in quelle de' due Mercuri. Per tutto ciò, forse, Cicerone, De natura deorum, sospettò ch'un tal Orfeo non fusse giammai stato nel mondo.

A queste grandissime difficultà cronologiche s'aggiungono non minori altre morali e politiche: che Orfeo fonda l'umanità della Grecia sopra esempli d'un Giove adultero, d'una Giunione nimica a morte della virtù degli Ercoli, d'una casta Diana che solecita gli addormentati Endimioni di notte, d'un Apollo che risponde oracoli ed infesta fin alla morte le pudiche donzelle Dafni, d'un Marte che, come non bastasse agli dèi di commettere adultèri in terra, gli trasporta fin dentro il mare con Venere. Né tale sfrenata libidine degli dèi si contenta de' vietati concubiti con le donne: arde Giove di nefandi amori per Ganimede; né pur qui si ferma: eccede finalmente alla bestiale, e Giove, trasformato in cigno, giace con Leda: la qual libidine, esercitata negli uomini e nelle bestie, fece assolutamente l'infame nefas del mondo eslege. Tanti dèi e dèe nel cielo non contraggono matrimoni; ed uno ve n'ha, di Giove con Giunone, ed è sterile; né solamente sterile, ma anco pieno d'atroci risse; talché Giove appicca in aria la pudica gelosa moglie, ed esso partorisce Minerva dal capo; ed infine, se Saturno fa figliuoli, gli si divora. I quali esempli, e potenti esempli divini (contengansi pure cotali favole tutta la sapienza riposta, disiderata da Platone infino a' nostri tempi da Bacone di Verulamio, De sapientia veterum), come suonano, dissolverebbero i popoli più costumati e gl'istigherebbero ad imbrutirsi in esse fiere d'Orfeo: tanto sono acconci e valevoli a ridurre gli uomini da bestie fiere all'umanità! Della qual riprensione è una particella quella che degli dèi della gentilità fa sant'Agostino nella Città di Dio, per questo motivo dell'Eunuco di Terenzio: che 'l Cherea, scandalezzato da una dipintura di Giove ch'in pioggia d'oro si giace con Danae, prende quell'ardire, che non aveva avuto, di violare la schiava, della quale pur era impazzato d'un violentissimo amore.

Ma questi duri scogli di mitologia si schiveranno co' princìpi di questa Scienza, la quale dimostrerà che tali favole, ne' loro princìpi, furono tutte vere e severe e degne di fondatori di nazioni, e che poi, con lungo volger degli anni, da una parte oscurandosene i significati, e dall'altra col cangiar de' costumi che da severi divennero dissoluti, perché gli uomini per consolarne le lor coscienze volevano peccare con l'autorità degli dèi, passarono ne' laidi significati co' quali sonoci pervenute. L'aspre tempeste cronologiche ci saranno rasserenate dalla discoverta de' caratteri poetici, un de' quali fu Orfeo, guardato per l'aspetto di poeta teologo, il quale con le favole, nel primo loro significato, fondò prima e poi raffermò l'umanità della Grecia. Il quale carattere spiccò più che mai nell'eroiche contese co' plebei delle greche città; ond'in tal età si distinsero i poeti teologi, com'esso Orfeo, Lino, Museo, Anfione, il quale de' sassi semoventi (de' balordi plebei) innalzò le mura di Tebe, che Cadmo aveva da trecento anni innanzi fondata; appunto come Appio, nipote del decemviro, circa altrettanto tempo dalla fondazione di Roma, col cantar alla plebe la forza degli dèi negli auspìci, della quale avevano la scienza i patrizi, ferma lo stato eroico a' romani. Dalle quali eroiche contese ebbe nome il secolo eroico.

XXIII

[Ercole, con cui è al colmo il tempo eroico di Grecia ]

Le stesse difficultà ricorrono in Ercole, preso per un uom vero, compagno di Giasone nella spedizione di Colco; quando egli non sia, come si truoverà, carattere eroico di fondatore di popoli per l'aspetto delle fatighe.

XXIV

[Sancuniate scrive storie in lettere volgari. - Anni del mondo 2800 ]

Detto anco Sancunazione, chiamato "lo storico della verità" (al riferire di Clemente alessandrino negli Stromati), il quale scrisse in caratteri volgari la storia fenicia, mentre gli egizi e gli sciti, come abbiam veduto, scrivevano per geroglifici, come si sono truovati scrivere fin al dì d'oggi i chinesi, i quali non meno degli sciti ed egizi vantano una mostruosa antichità, perché al buio del loro chiuso, non praticando con altre nazioni, non videro la vera luce de' tempi. E Sancuniate scrisse in caratteri fenici volgari, mentre le lettere volgari non si erano ancor truovate tra' greci, come sopra si è detto.

XXV

[Guerra troiana. - Anni del mondo 2820 ]

La quale, com'è narrata da Omero, avveduti critici giudicano non essersi fatta nel mondo; e i Ditti cretesi e i Dareti frigi, che la scrissero in prosa come storici del lor tempo, da' medesimi critici sono mandati a conservarsi nella libraria dell'impostura.

XXVI

[Sesostride regna in Tebe. - Anni del mondo 2949 ]

Il quale ridusse sotto il suo imperio le tre altre dinastie dell'Egitto; che si truova esser il re Ramse che 'l sacerdote egizio narra a Germanico appresso Tacito.

XXVII

[Colonie greche in Asia, in Sicilia, in Italia. Anni del mondo 2949 ]

Questa è una delle pochissime cose nelle quali non seguiamo l'autorità d'essa cronologia, forzati da una prepotente cagione. Onde poniamo le colonie de' greci menate in Italia ed in Sicilia da cento anni dopo la guerra troiana, e sì da un trecento anni innanzi al tempo ove l'han poste i cronologi, cioè vicino a' tempi ne' quali i cronologi pongono gli errori degli eroi, come di Menelao, di Enea, d'Antenore, di Diomede e d'Ulisse. Né dee recare ciò maraviglia, quando essi variano di quattrocensessant'anni d'intorno al tempo d'Omero, ch'è 'l più vicino autore a sì fatte cose de' greci. Perché la magnificenza e dilicatezza di Siragosa a' tempi delle guerre cartaginesi non avevano che invidiare a quelle d'Atene medesima; quando nell'isole più tardi che ne' continenti s'introducono la morbidezza e lo splendor de' costumi, e, ne' di lui tempi, Cotrone fa compassione a Livio del suo poco numero d'abitatori, la quale aveva abitato innanzi più millioni.

XXVIII

[Giuochi olimpici, prima ordinati da Ercole, poi intermessi, e restituiti da Isifilo. - Anni del mondo 3223 ]

Perché si truova che da Ercole si noveravano gli anni con le raccolte; da Isifilo in poi, col corso del sole, per gli segni del zodiaco: onde da questi incomincia il tempo certo de' greci.

XXIX

[Fondazione di Roma. - Anni di Roma 1 ]

Ma, qual sole le nebbie, così sgombra tutte le magnifiche oppenioni che finora si sono avute de' princìpi di Roma, e di tutte l'altre città che sono state capitali di famosissime nazioni, un luogo d'oro di Varrone (appo sant'Agostino nella Città di Dio): ch'ella sotto gli re, che vi regnarono da dugencinquant'anni, manomise da più di venti popoli, e non distese più di venti miglia l'imperio.

XXX

[Omero, il quale venne in tempo che non si eran ancor truovate le lettere volgari, e 'l quale non vidde l'Egitto. Anni del mondo 3290, di Roma 35 ]

Del qual primo lume di Grecia ci ha lasciato al buio la greca storia d'intorno alle principali sue parti, cioè geografia e cronologia, poiché non ci è giunto nulla di certo né della di lui patria né dell'età. Il quale nel terzo di questi libri si truoverà tutt'altro da quello ch'è stato finor creduto. Ma, qualunque egli sia stato, non vide certamente l'Egitto; il quale nell'Odissea narra che l'isola ov'è il faro or d'Alessandria fosse lontana da terraferma quanto una nave scarica, con rovaio in poppa, potesse veleggiar un intiero giorno. Né vide la Fenicia; ove narra l'isola di Calipso, detta Ogigia, esser tanto lontana che Mercurio dio, e dio alato, difficilissimamente vi giunse, come se da Grecia, dove sul monte Olimpo egli nell'Iliade canta starsi gli dèi, fusse la distanza che vi è dal nostro mondo in America. Talché, se i greci a' tempi d'Omero avessero trafficato in Fenicia ed Egitto, egli n'arebbe perduto il credito a tutti e due i suoi poemi.

XXXI

[Psammetico apre l'Egitto a' soli greci di Ionia e di Caria. Anni del mondo 3334 ]

Onde da Psammetico comincia Erodoto a raccontar cose più accertare degli egizi. E ciò conferma che Omero non vide l'Egitto; e le tante notizie, ch'egli narra e di Egitto e d'altri paesi del mondo, o sono cose e fatti dentro essa Grecia, come si dimostrerà nella Geografia poetica; o sono tradizioni, alterate col lungo tempo, de' fenici, egizi, frigi, ch'avevano menate le loro colonie tra' greci; o sono novelle de' viaggiatori fenici, che da molto innanzi a' tempi d'Omero mercantavano nelle marine di Grecia.

XXXII

[Esopo, moral filosofo volgare. - Anni del mondo 3334 ]

Nella Logica poetica si truoverà Esopo non essere stato un particolar uomo in natura, ma un genere fantastico, ovvero un carattere poetico de' soci ovvero famoli degli eroi, i quali certamente furon innanzi a' sette saggi di Grecia.

XXXIII

[Sette savi di Grecia; de' quali uno, Solone, ordina la libertà popolare d'Atene; l'altro, Talete milesio, dà incominciamento alla filosofia con la fisica. - Anni del mondo 3406 ]

E cominciò da un principio troppo sciapito - dall'acqua, - forse perché aveva osservato con l'acqua crescer le zucche.

XXXIV

[Pittagora, di cui vivo dice Livio che nemmeno il nome poté sapersi in Roma. - Anni del mondo 3468, di Roma 225 ]

Ch'esso Livio pone a' tempi di Servio Tullio (tanto ebbe per vero che Pittagora fosse stato maestro di Numa in divinità!); e ne' medesimi tempi di Servio Tullio, che sono presso a dugento anni dopo di Numa, dice che 'n quelli tempi barbari dell'Italia mediterranea fosse stato impossibile, nonché esso Pittagora, il di lui nome, per tanti popoli di lingue e costumi diversi, avesse potuto da Cotrone giugnere a Roma. Onde s'intenda quanto furono spediti e facili tanti lunghi viaggi d'esso Pittagora in Tracia dagli scolari d'Orfeo, da' maghi nella Persia, da' caldei in Babillonia, da' ginnosofisti nell'India; quindi, nel ritorno, da' sacerdoti in Egitto e, quanto è larga l'Affrica attraversando, dagli scolari d'Atlante nella Mauritania; e di là, rivalicando il mare, da' druidi nella Gallia; ed indi fusse ritornato, ricco della sapienza barbaresca che dice l'Ornio, nella sua patria: da quelle barbare nazioni, alle quali, lunga età innanzi, Ercole tebano con uccider mostri e tiranni era andato per lo mondo disseminando l'umanità; ed alle quali medesime, lunga età dopo, essi greci vantavano d'averla insegnata, ma non con tanto profitto che pure non restassero barbare. Tanto ha di serioso e grave la succession delle scuole della filosofia barbaresca che dice l'Ornio, alquanto più sopra accennata, alla quale la boria de' dotti ha cotanto applaudito!

Che hassi a dire se fa necessità qui l'autorità di Lattanzio, che risolutamente niega Pittagora essere stato discepolo d'Isaia? La qual autorità si rende gravissima per un luogo di Giuseffo ebreo nell'Antichità giudaiche, che pruova gli ebrei, a' tempi di Omero e di Pittagora, aver vivuto sconosciuti ad esse vicine loro mediterranee, nonché all'oltramarine lontanissime nazioni. Perché a Tolomeo Filadelfo, che si maravigliava perché delle leggi mosaiche né poeta né storico alcuno avesse fatto veruna menzione giammai, Demetrio ebreo rispose essere stati puniti miracolosamente da Dio alcuni che attentato avevano di narrarle a' gentili, come Teopompo che ne fu privato del senno, e Teodette che lo fu della vista. Quindi esso Giuseffo confessa generosamente questa lor oscurezza, e ne rende queste cagioni: "Noi - dic'egli - non abitiamo sulle marine, né ci dilettiamo di mercantare e per cagione di traffichi praticare con gli stranieri". Sul qual costume Lattanzio riflette essere stato ciò consiglio della provvedenza divina, acciocché coi commerzi gentileschi non si profanasse la religione del vero Dio; nel qual detto egli è Lattanzio seguito da Pier Cuneo, De republica hebræorum. Tutto ciò si ferma con una confession pubblica d'essi ebrei, i quali per la versione de' Settanta facevan ogni anno un solenne digiuno nel dì otto di tebet, ovvero dicembre; perocché, quando ella uscì, tre giorni di tenebre furon per tutto il mondo, come sui libri rabbinici l'osservarono il Casaubuono nell'Esercitazioni sopra gli Annali del Baronio, il Buxtorfio nella Sinagoga giudaica e l'Ottingero nel Tesoro filologico. E perché i giudei grecanti, dett'"ellenisti", tra' quali fu Aristea, detto capo di essa versione, le attribuivano una divina autorità, i giudei gerosolomitani gli odiavano mortalmente.

Ma per la natura di queste cose civili [è da reputare impossibile] che, per confini vietati anco dagli umanissimi egizi (i quali furono così inospitali a' greci lunga età dopo ch'avevano aperto loro l'Egitto, ch'erano vietati d'usar pentola, schidone, coltello ed anco carne tagliata col coltello che fusse greco), per cammini aspri ed infesti, senza alcuna comunanza di lingue, tra gli ebrei, che solevano motteggiarsi da' gentili ch'allo straniero assetato non additassero il fonte, i profeti avessero profanato la loro sagra dottrina a' stranieri, uomini nuovi e ad essolor sconosciuti, la quale in tutte le nazioni del mondo i sacerdoti custodivano arcana al volgo delle loro medesime plebi, ond'ella ha avuto appo tutte il nome di "sagra", ch'è tanto dire quanto "segreta". E ne risulta una pruova più luminosa per la verità della cristiana religione: che Pittagora, che Platone, in forza di umana sublimissima scienza, si fussero alquanto alzati alla cognizione delle divine verità, delle quali gli ebrei erano stati addottrinati dal vero Dio; e, al contrario, ne nasce una grave confutazione dell'errore de' mitologi ultimi, i quali credono che le favole sieno storie sagre, corrotte dalle nazioni gentili e sopra tutti da' greci. E, benché gli egizi praticarono con gli ebrei nella loro cattività, però, per un costume comune de' primi popoli, che qui dentro sarà dimostro, di tener i vinti per uomini senza dèi, eglino della religione e storia ebraica fecero anzi beffe che conto; i quali, come narra il sagro Genesi, sovente per ischerno domandavano agli ebrei perché lo Dio ch'essi adoravano non veniva a liberargli dalle lor mani.

XXXV

[Servio Tullio re. - Anni del mondo 3468, di Roma 225 ]

Il quale, con comun errore, è stato finor creduto d'aver ordinato in Roma il censo pianta della libertà popolare, il quale dentro si truoverà essere stato censo pianta di libertà signorile. Il qual errore va di concerto con quell'altro onde si è pur creduto finora che, ne' tempi ne' quali il debitor ammalato doveva comparire sull'asinello o dentro la carriuola innanzi al pretore, Tarquinio Prisco avesse ordinato l'insegne, le toghe, le divise e le sedie d'avolio (de' denti di quelli elefanti che, perché i romani avevano veduto la prima volta in Lucania nella guerra con Pirro, dissero "boves lucas") e finalmente i cocchi d'oro da trionfare; nella quale splendida comparsa rifulse la romana maestà ne' tempi della repubblica popolare più luminosa.

XXXVI

[Esiodo. - Anni del mondo 3500 ]

Per le pruove che si faranno d'intorno al tempo che fra i greci si truovò la scrittura volgare, poniamo Esiodo circa i tempi d'Erodoto e alquanto innanzi; il quale da' cronologi con troppo risoluta franchezza si pone trent'anni innanzi d'Omero, della cui età variano quattrocensessant'anni gli autori. Oltreché, Porfirio (appresso Suida) e Velleo Patercolo voglion ch'Omero avesse di gran tempo preceduto ad Esiodo. E 'l treppiedi ch'Esiodo consagrò in Elicona ad Apollo, con iscrittovi ch'esso aveva vinto Omero nel canto, quantunque il riconosca Varrone (appresso Aulo Gellio), egli è da conservarsi nel museo dell'impostura, perché fu una di quelle che fanno tuttavia a' nostri tempi i falsatori delle medaglie per ritrarne con tal frode molto guadagno.

XXXVII

[Erodoto, Ippocrate. - Anni del mondo 3500 ]

Egli è Ippocrate posto da' cronologi nel tempo de' sette savi della Grecia. Ma, tra perché la di lui vita è troppo tinta di favole (ch'è raccontato figliuolo d'Eusculapio e nipote d'Apollo), e perch'è certo autore d'opere scritte in prosa con volgari caratteri, perciò egli è qui posto circa i tempi d'Erodoto, il qual egualmente e scrisse in prosa con volgari caratteri e tessé la sua storia quasi tutta di favole.

XXXVIII

[Idantura re di Scizia. - Anni del mondo 3530 ]

Il quale a Dario il maggiore, che gli aveva intimato la guerra, risponde con cinque parole reali (le quali, come dentro si mostrerà, i primi popoli dovettero usare prima che le vocali e, finalmente, le scritte); le quali parole reali furono una ranocchia, un topo, un uccello, un dente d'aratro ed un arco da saettare. Dentro, con tutta naturalezza e propietà se ne spiegheranno i significati; e c'incresce rapportare ciò che san Cirillo alessandrino riferisce del consiglio che Dario tenne su tal risposta, che da se stesso accusa le ridevoli interpetrazioni che le diedero i consiglieri. E questo è re di quelli sciti i quali vinsero gli egizi in contesa d'antichità, ch'a tali tempi sì bassi non sapevano nemmeno scrivere per geroglifici! Talché Idantura dovett'essere un degli re chinesi, che, fin a pochi secoli fa chiusi a tutto il rimanente del mondo, vantano vanamente un'antichità maggiore di quella del mondo e, 'n tanta lunghezza di tempi, si sono truovati scrivere ancora per geroglifici, e, quantunque per la gran mollezza del cielo abbiano dilicatissimi ingegni, co' quali fanno tanti a maraviglia dilicati lavori, però non sanno ancora dar l'ombre nella pittura, sopra le quali risaltar possano i lumi; onde, non avendo sporti né addentrati, la loro pittura è goffissima. E le statuette, ch'indi ci vengon di porcellana, gli ci accusano egualmente rozzi quanto lo furono gli egizi nella fonderia; ond'è da stimarsi che, come ora i chinesi, così furono rozzi gli egizi nella pittura.

Di questi sciti è quell'Anacarsi, autore degli oracoli scitici, come Zoroaste lo fu de' caldaici; che dovettero dapprima esser oracoli d'indovini, che poi per la boria de' dotti passarono in oracoli di filosofi. Se dagli iperborei della Scizia presente, o da altra nata anticamente dentro essa Grecia, sieno venuti a' greci i due più famosi oracoli del gentilesimo, il delfico e 'l dodoneo, come il credette Erodoto e, dopo lui, Pindaro e Ferenico, seguiti da Cicerone, De natura deorum, onde forse Anacarsi fu gridato famoso autore d'oracoli e fu noverato tra gli antichissimi dèi fatidici, si vedrà nella Geografia poetica. Vaglia, per ora intendere quanto la Scizia fusse stata dotta in sapienza riposta, che gli sciti ficcavano un coltello in terra e l'adoravan per dio, perché con quello giustificassero l'uccisioni ch'avevan essi da fare; dalla qual fiera religione uscirono le tante virtù morali e civili narrate da Diodoro sicolo, Giustino, Plinio, e innalzate con le lodi al cielo da Orazio. Laonde Abari, volendo ordinare la Scizia con le leggi di Grecia, funne ucciso da Cadvido, suo fratello. Tanto egli profittò nella filosofia barbaresca dell'Ornio, che non intese da sé le leggi valevoli di addimesticare una gente barbara ad un'umana civiltà, e dovette appararle da' greci! Ch'è lo stesso, appunto, de' greci in rapporto degli sciti, che poco fa abbiam detto de' medesimi a riguardo degli egizi: che, per la vanità di dar al loro sapere romorose origini d'antichità forastiera, meritarono con verità la riprensione ch'essi stessi sognarono d'aver fatta il sacerdote egizio a Solone (riferita da Crizia, appresso Platone in uno degli Alcibiadi): ch'i greci fussero sempre fanciulli. Laonde hassi a dire che per cotal boria i greci, a riguardo degli sciti e degli egizi, quanto essi guadagnarono di vanagloria, tanto perderono di vero merito.

XXXIX

[Guerra peloponnesiaca. Tucidide, il qual scrive che fin a suo padre i greci non seppero nulla delle antichità loro propie, onde si diede a scrivere di cotal guerra. - Anni del mondo 3530 ]

Il qual era giovinetto nel tempo ch'era Erodoto vecchio, che gli poteva esser padre, e visse nel tempo più luminoso di Grecia, che fu quello della guerra peloponnesiaca, di cui fu contemporaneo, e perciò, per iscrivere cose vere, ne scrisse la storia; da cui fu detto ch'i greci fin al tempo di suo padre, ch'era quello d'Erodoto, non seppero nulla dell'antichità loro propie. Che hassi a stimare delle cose straniere che essi narrano, e quanto essi ne narrano tanto noi sappiamo dell'antichità gentilesche barbare? Che hassi a stimare, fin alle guerre cartaginesi, delle cose antiche di que' romani che fin a que' tempi non avevan ad altro atteso ch'all'agricoltura ed al mestiero dell'armi, quando Tucidide stabilisce questa verità de' suoi greci, che provennero tanto prestamente filosofi? Se non, forse, vogliam dire ch'essi romani n'avesser avuto un particolar privilegio da Dio.

XL

[Socrate dà principio alla filosofia morale ragionata. Platone fiorisce nella metafisica. Atene sfolgora di tutte l'arti della più colta umanità ]

Nel qual tempo da Atene si porta in Roma la legge delle XII Tavole, tanto incivile, rozza, inumana, crudele e fiera quanto ne' Princìpi del Diritto universale sta dimostrata.

XLI

[Senofonte, con portar l'armi greche nelle viscere della Persia, è 'l primo a sapere con qualche certezza le cose persiane. Anni del mondo 3583, di Roma 333 ]

Come osserva san Girolamo, Sopra Daniello. E dopo che, per l'utilità de' commerzi, avevano cominciato i greci sotto Psammetico a sapere le cose di Egitto (onde da quel tempo Erodoto incomincia a scrivere cose più accertate degli egizi), da Senofonte la prima volta, per la necessità delle guerre, cominciaron a saper i greci cose più accertare de' persiani; de' quali pure Aristotile, portatovisi con Alessandro magno, scrive che, innanzi, da' greci se n'erano dette favole, come si accenna in questa Tavola cronologica. In cotal guisa cominciaron i greci ad avere certa contezza delle cose straniere.

XLII

[Legge Publilia. - Anni del mondo 3658, di Roma 416 ]

Questa legge fu comandata negli anni di Roma CCCCXVI, e contiene un punto massimo d'istoria romana, ché con questa legge si dichiarò la romana repubblica mutata di stato da aristocratica in popolare; onde Publilio Filone, che ne fu autore, ne fu detto "dittator popolare". E non si è avvertita, perché non si è saputo intendere il di lei linguaggio. Lo che appresso sarà da noi ad evidenza dimostrato di fatto: basta qui che ne diamo un'idea per ipotesi.

Giacque sconosciuta questa e la seguente legge Petelia, ch'è d'ugual importanza che la Publilia, per queste tre parole non diffinite: "popolo", "regno" e "libertà", per le quali si è con comun errore creduto che 'l popolo romano fin da' tempi di Romolo fusse stato di cittadini come nobili così plebei, che 'l romano fusse stato regno monarchico, e che la ordinatavi da Bruto fusse stata libertà popolare. E queste tre voci non diffinite han fatto cader in errore tutti i critici, storici, politici e giureconsulti, perché da niuna delle presenti poterono far idea delle repubbliche eroiche, le quali furono d'una forma aristocratica severissima e quindi a tutto cielo diverse da queste de' nostri tempi.

Romolo dentro l'asilo aperto nel luco egli fondò Roma sopra le clientele, le quali furono protezioni nelle quali i padri di famiglia tenevano i rifuggiti all'asilo in qualità di contadini giornalieri, che non avevano niun privilegio di cittadino, e sì niuna parte di civil libertà; e, perché v'erano rifuggiti per aver salva la vita, i padri proteggevano loro la libertà naturale col tenergli partitamente divisi in coltivar i di loro campi, de' quali così dovette comporsi il fondo pubblico del territorio romano, come di essi padri Romolo compose il senato.

Appresso, Servio Tullio vi ordinò il censo, con permettere a' giornalieri il dominio bonitario de' campi ch'erano propi de' padri, i quali essi coltivassero per sé, sotto il peso del censo, con l'obbligo di servir loro a propie spese nelle guerre, conforme, di fatto, i plebei ad essi patrizi servirono dentro cotesta finor sognata libertà popolare. La qual legge di Servio Tullio fu la prima legge agraria del mondo, ordinatrice del censo pianta delle repubbliche eroiche, ovvero antichissime aristocrazie di tutte le nazioni.

Dappoi, Giunio Bruto, con la discacciata de' tiranni Tarquini, restituì la romana repubblica a' suoi princìpi, e, con ordinarvi i consoli, quasi due re aristocratici annali (come Cicerone gli appella nelle sue Leggi) invece di uno re a vita, vi riordinò la libertà de' signori da' lor tiranni, non già la libertà del popolo da' signori. Ma, i nobili mal serbando l'agraria di Servio a' plebei, questi si criarono i tribuni della plebe, e gli si fecero giurare dalla nobiltà, i quali difendessero alla plebe tal parte di natural libertà del dominio bonitario de' campi: siccome perciò, disiderando i plebei riportarne da' nobili il dominio civile, i tribuni della plebe cacciarono da Roma Marcio Coriolano, per aver detto ch'i plebei andassero a zappare, cioè che, poiché non eran contenti dell'agraria di Servio Tullio e volevano un'agraria più piena e più ferma, si riducessero a' giornalieri di Romolo. Altrimente, che stolto fasto de' plebei sdegnare l'agricoltura, la quale certamente sappiamo che si recavano ad onore esercitar essi nobili? e per sì lieve cagione accendere sì crudel guerra, che Marcio, per vendicarsi dell'esiglio, era venuto a rovinar Roma, senonsé le pietose lagrime della madre e della moglie l'avessero distolto dall'empia impresa?

Per tutto ciò, pur seguitando i nobili a ritogliere i campi a' plebei poi che quelli gli avevano coltivati, né avendo questi azion civile da vendicargli, quivi i tribuni della plebe fecero la pretensione della legge delle XII Tavole (dalla quale, come ne' Princìpi del Diritto universale si è dimostrato, non si dispose altro affare che questo), con la qual legge i nobili permisero il dominio quiritario de' campi a' plebei; il qual dominio civile, per diritto natural delle genti, permettesi agli stranieri. E questa fu la seconda legge agraria dell'antiche nazioni.

Quindi - accorti i plebei che non potevan essi trammandar ab intestato i campi a' loro congionti, perché non avevano suità, agnazioni, gentilità (per le quali ragioni correvano allora le successioni legittime), perché non celebravano matrimoni solenni, e nemmeno ne potevano disponere in testamento, perché non avevano privilegio di cittadini - fecero la pretensione de' connubi de' nobili, o sia della ragione di contrarre nozze solenni (ché tanto suona "connubium"), la cui maggior solennità erano gli auspìci, ch'erano propi de' nobili (i quali auspìci furono il gran fonte di tutto il diritto romano, privato e pubblico); e sì fu da' padri comunicata a' plebei la ragion delle nozze, le quali, per la diffinizione di Modestino giureconsulto, essendo "omnis divini et humani iuris communicatio", ch'altro non è la cittadinanza, dieder essi a' plebei il privilegio di cittadini. Quindi, secondo la serie degli umani disidèri, ne riportarono i plebei da' padri comunicate tutte le dipendenze degli auspìci ch'erano di ragion privata, come patria potestà, suità, agnazioni, gentilità e, per questi diritti, le successioni legittime, i testamenti e le tutele. Dipoi ne pretesero le dipendenze di ragion pubblica, e prima ne riportarono comunicati gl'imperi coi consolati, e finalmente i sacerdozi e i ponteficati e, con questi, la scienza ancor delle leggi.

In cotal guisa i tribuni della plebe, sulla pianta sopra la qual erano stati criati di proteggerle la libertà naturale, tratto tratto si condussero a farle conseguire tutta la libertà civile. E 'l censo ordinato da Servio Tullio - con disponersi dappoi che non più si pagasse privatamente a' nobili, ma all'erario, perché l'erario somministrasse le spese nelle guerre a' plebei, - da pianta di libertà signorile, andò da se stesso, naturalmente, a formar il censo pianta della libertà popolare; di che dentro truoverassi la guisa.

Con uguali passi i medesimi tribuni s'avanzarono nella potestà di comandare le leggi. Perché le due leggi Orazia ed Ortensia non poterono accordar alla plebe ch'i di lei plebisciti obbligassero tutto il popolo senonsé nelle due particolari emergenze, per la prima delle quali la plebe si era ritirata nell'Aventino gli anni di Roma CCCIV, nel qual tempo, come qui si è detto per ipotesi e dentro mostrerassi di fatto, i plebei non erano ancor cittadini; e per la seconda ritirossi nel Gianicolo gli anni CCCLXVII, quando la plebe ancora contendeva con la nobiltà di comunicarlesi il consolato. Ma, sulla pianta delle suddette due leggi, la plebe finalmente si avanzò a comandare leggi universali: per lo che dovetter avvenire in Roma de' grandi movimenti e rivolte; onde fu bisogno di criare Publilio Filone dittatore, il quale non si criava se non negli ultimi pericoli della repubblica, siccome in questo, ch'ella era caduta in un tanto grande disordine di nudrire dentro il suo corpo due potestà somme legislatrici, senza essere di nulla distinte né di tempi né di materie né di territori, con le quali doveva prestamente andare in una certa rovina. Quindi Filone, per rimediare a tanto civil malore, ordinò che ciò che la plebe avesse co' plebisciti comandato ne' comizi tributi, "omnes quirites teneret", obbligasse tutto il popolo ne' comizi centuriati, ne' quali "omnes quirites" si ragunavano (perché i romani non si appellavano "quirites" che nelle pubbliche ragunanze, né "quirites" nel numero del meno si disse in volgar sermone latino giammai); con la qual formola Filone volle dire che non si potessero ordinar leggi le quali fussero a' plebisciti contrarie. Per tutto ciò - essendo già, per leggi nelle quali essi nobili erano convenuti, la plebe in tutto e per tutto uguagliata alla nobiltà; e per quest'ultimo tentativo, al quale i nobili non potevano resistere senza rovinar la repubblica, ella era divenuta superiore alla nobiltà, ché senza l'autorità del senato comandava leggi generali a tutto il popolo; e sì essendo già naturalmente la romana repubblica divenuta libera popolare; - Filone, con questa legge, tale la dichiarò e ne fu detto "dittator popolare".

In conformità di tal cangiata natura, le diede due ordinamenti, che si contengono negli altri due capi della legge Publilia. Il primo fu che l'autorità del senato, la qual era stata autorità di signori, per la quale, di ciò che 'l popolo avesse disposto prima, "deinde patres fierent autores" (talché le criazioni de' consoli, l'ordinazioni delle leggi, fatte dal popolo per lo innanzi, erano state pubbliche testimonianze di merito e domande pubbliche di ragione), questo dittatore ordinò ch'indi in poi fussero i padri autori al popolo, ch'era già sovrano libero, "in incertum comitiorum eventum", come tutori del popolo, signor del romano imperio; che, se volesse comandare le leggi, le comandasse secondo la formola portata a lui dal senato, altrimente si servisse del suo sovrano arbitrio e l'"antiquasse" (cioè dichiarasse di non voler novità); talché tutto ciò ch'indi in poi ordinasse il senato d'intorno a' pubblici affari, fussero o istruzioni da esso date al popolo, o commessioni del popolo date a lui. Restava finalmente che, perché il censo, per tutto il tempo innanzi, essendo stato l'erario de' nobili, i soli nobili se n'erano criati censori: poi che egli per cotal legge divenne patrimonio di tutto il popolo, ordinasse Filone nel terzo capo che si comunicasse alla plebe ancor la censura, il qual maestrato solo restava da comunicarsi alla plebe.

Se sopra quest'ipotesi si legga quindi innanzi la storia romana, a mille pruove si truoverà che vi reggono tutte le cose che narra, le quali, per le tre voci non diffinite anzidette, non hanno né alcun fondamento comune, né tra loro alcun convenevole rapporto particolare; onde quest'ipotesi perciò si dovrebbe ricever per vera. Ma, se ben si considera, questa non è tanto ipotesi quanto una verità meditata in idea, che poi con l'autorità truoverassi di fatto. E - posto ciò che Livio dice generalmente: gli asili essere stati "vetus urbes condentium consilium", come Romolo entro l'asilo aperto nel luco egli fondò la romana - ne dà l'istoria di tutte l'altre città del mondo de' tempi finora disperati a sapersi. Lo che è un saggio d'una storia ideal eterna (la quale dentro si medita e si ritruova), sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni.

XLIII

[Legge Petelia. - Anni del mondo 3661, di Roma 419 ]

Quest'altra legge fu comandata negli anni di Roma CCCCXIX, detta de nexu (e, sì, tre anni dopo la Publilia), da' consoli Caio Petelio e Lucio Papirio Mugilano; e contiene un altro punto massimo di cose romane, poiché con quella si rillasciò a' plebei la ragion feudale d'essere vassalli ligi de' nobili per cagion di debiti, per gli quali quelli tenevano questi, sovente tutta la vita, a lavorare per essi nelle loro private prigioni. Ma restò al senato il sovrano dominio ch'esso aveva sopra i fondi dell'imperio romano, ch'era già passato nel popolo, e per lo senato consulto che chiamavano "ultimo", finché la romana fu repubblica libera, se 'l mantenne con la forza dell'armi; onde, quante volte il popolo ne volle disponere con le leggi agrarie de' Gracchi, tante il senato armò i consoli, i quali dichiararono rubelli ed uccisero i tribuni della plebe che n'erano stati gli autori. Il quale grand'effetto non può altrove reggere che sopra una ragione di feudi sovrani soggetti a maggiore sovranità; la qual ragione ci vien confermata con un luogo di Cicerone in una Catilinaria, dove afferma che Tiberio Gracco con la legge agraria guastava lo stato della repubblica, e che con ragione da Publio Scipione Nasica ne fu ammazzato, per lo diritto dettato nella formola con la qual il consolo armava il popolo contro gli autori di cotal legge: "Qui rempublicam salvam velit consulem sequatur".

XLIV

[Guerra di Taranto, ove s'incomincian a conoscer tra loro i latini co' greci. - Anni del mondo, 3708, di Roma 489 ]

La cui cagione fu ch'i tarantini maltrattarono le navi romane ch'approdavano al loro lido e gli ambasciadori altresì, perché, per dirla con Floro, essi si scusavano che "qui essent aut unde venirent ignorabant". Tanto tra loro, quantunque dentro brievi continenti, si conoscevano i primi popoli!

XLV

[Guerra cartaginese seconda, da cui comincia la storia certa romana a Livio, il qual pur professa non saperne tre massime circostanze. - Anni del mondo 3849, di Roma 552 ]

Della qual guerra pur Livio - il quale si era professato dalla seconda guerra cartaginese scrivere la storia romana con alquanto più di certezza, promettendo di scrivere una guerra la più memorabile di quante mai si fecero da' romani, e, 'n conseguenza di cotanta incomparabil grandezza, ne debbono, come di tutte più romorose, esser più certe le memorie che scrive - non ne seppe, ed apertamente dice di non sapere, tre gravissime circostanze. La prima, sotto quali consoli, dopo aver espugnato Sagunto, avesse Annibale preso dalla Spagna il cammino verso l'Italia. La seconda, per quali Alpi vi giunse, se per le Cozie o l'Appennine. La terza, con quante forze; di che truova negli antichi annali tanto divario, ch'altri avevano lasciato scritto seimila cavalieri e ventimila pedoni, altri ventimila di quelli e ottantamila di questi.

[Conclusione]

Per lo che tutto ragionato in queste Annotazioni, si vede che quanto ci è giunto dell'antiche nazioni gentili, fin a' tempi diterminati su questa Tavola, egli è tutto incertissimo. Onde noi in tutto ciò siamo entrati come in cose dette "nullius", delle quali è quella regola di ragione che "occupanti conceduntur", e perciò non crediamo d'offendere il diritto di niuno se ne ragioneremo spesso diversamente ed alle volte tutto il contrario all'oppenioni che finora si hanno avute d'intorno a' principi dell'umanità delle nazioni. E, con far ciò, gli ridurremo a princìpi di scienza, per gli quali ai fatti della storia certa si rendano le loro primiere origini, sulle quali reggano e per le quali tra essoloro convengano; i quali finora non sembrano aver alcun fondamento comune né alcuna perpetuità di séguito né alcuna coerenza tra lor medesimi.

II

DEGLI ELEMENTI.

Per dar forma adunque alle materie qui innanzi apparecchiate sulla Tavola cronologica, proponiamo ora qui i seguenti assiomi o degnità così filosofiche come filologiche, alcune poche, ragionevoli e discrete domande, con alquante schiarite diffinizioni; le quali, come per lo corpo animato il sangue, così deono per entro scorrervi ed animarla in tutto ciò che questa Scienza ragiona della comune natura delle nazioni.

I

L'uomo, per l'indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sé regola dell'universo.

Questa degnità è la cagione di que' due comuni costumi umani: uno che "fama crescit eundo", l'altro che "minuit præsentia famam", la qual, avendo fatto un cammino lunghissimo quanto è dal principio del mondo, è stata la sorgiva perenne di tutte le magnifiche oppenioni che si sono finor avute delle sconosciute da noi lontanissime antichità, per tal proprietà della mente umana avvertita da Tacito nella Vita d'Agricola con quel motto: "Omne ignotum pro magnifico est".

II

È altra propietà della mente umana ch'ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti.

Questa degnità addita il fonte inesausto di tutti gli errori presi dall'intiere nazioni e da tutt'i dotti d'intorno a' princìpi dell'umanità; perocché da' loro tempi illuminati, colti e magnifici, ne' quali cominciarono quelle ad avvertirle, questi a ragionarle, hanno estimato l'origini dell'umanità, le quali dovettero per natura essere picciole, rozze, oscurissime.

A questo genere sono da richiamarsi due spezie di borie che si sono sopra accennate: una delle nazioni un'altra de' dotti.

III

Della boria delle nazioni udimmo quell'aureo detto di Diodoro sicolo: che le nazioni, o greche o barbare, abbiano avuto tal boria: d'aver esse prima di tutte l'altre ritruovati i comodi della vita umana e conservar le memorie delle loro cose fin dal principio del mondo.

Questa degnità dilegua ad un fiato la vanagloria de' caldei, sciti, egizi, chinesi, d'aver essi i primi fondato l'umanità dell'antico mondo. Ma Flavio Giuseffo ebreo ne purga la sua nazione, con quella confessione magnanima ch'abbiamo sopra udito: che gli ebrei avevano vivuto nascosti a tutti i gentili; e la sagra storia ci accerta l'età del mondo essere quasi giovine a petto della vecchiezza che ne credettero i caldei, gli sciti, gli egizi e fin al dì d'oggi i chinesi. Lo che è una gran pruova della verità della storia sagra.

IV

A tal boria di nazioni s'aggiugne qui la boria de' dotti, i quali, ciò ch'essi sanno, vogliono che sia antico quanto che 'l mondo.

Questa degnità dilegua tutte le oppinioni de' dotti d'intorno alla sapienza innarrivabile degli antichi; convince d'impostura gli oracoli di Zoroaste caldeo, d'Anacarsi scita, che non ci son pervenuti, il Pimandro di Mercurio Trimegisto, gli orfici (o sieno versi d'Orfeo), il Carme aureo di Pittagora, come tutti gli più scorti critici vi convengono; e riprende d'importunità tutti i sensi mistici dati da' dotti a' geroglifici egizi e l'allegorie filosofiche date alle greche favole.

V

La filosofia, per giovar al gener umano, dee sollevar e reggere l'uomo caduto e debole, non convellergli la natura né abbandonarlo nella sua corrozione.

Questa degnità allontana dalla scuola di questa Scienza gli stoici, i quali vogliono l'ammortimento de' sensi, e gli epicurei, che ne fanno regola, ed entrambi niegano la provvedenza, quelli faccendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso, e i secondi oppinando che muoiano l'anime umane coi corpi, i quali entrambi si dovrebbero dire "filosofi monastici o solitari". E vi ammette i filosofi politici, e principalmente i platonici, i quali convengono con tutti i legislatori in questi tre principali punti: che si dia provvedenza divina, che si debbano moderare l'umane passioni e farne umane virtù, e che l'anime umane sien immortali. E, 'n conseguenza, questa degnità ne darà gli tre princìpi di questa Scienza.

VI

La filosofia considera l'uomo quale dev'essere, e sì non può fruttare ch'a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo.

VII

La legislazione considera l'uomo qual è, per farne buoni usi nell'umana società; come della ferocia, dell'avarizia, dell'ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sì la fortezza, l'opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l'umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità.

Questa degnità pruova esservi provvedenza divina e che ella sia una divina mente legislatrice, la quale delle passioni degli uomini, tutti attenuti alle loro private utilità, per le quali viverebbono da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatto gli ordini civili per gli quali vivano in umana società.

VIII

Le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano.

Questa degnità sola, poiché 'l gener umano, da che si ha memoria del mondo, ha vivuto e vive comportevolmente in società, ella determina la gran disputa, della quale i migliori filosofi e i morali teologi ancora contendono con Carneade scettico e con Epicuro (né Grozio l'ha pur inchiovata): se vi sia diritto in natura, o se l'umana natura sia socievole, che suonano la medesima cosa.

Questa medesima degnità, congionta con la settima e 'l di lei corollario, pruova che l'uomo abbia libero arbitrio, però debole, di fare delle passioni virtù; ma che da Dio è aiutato naturalmente con la divina provvedenza, e soprannaturalmente dalla divina grazia.

IX

Gli uomini che non sanno il vero delle cose proccurano d'attenersi al certo, perché, non potendo soddisfare l'intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza.

X

La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l'autorità dell'umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo.

Questa degnità per la seconda parte diffinisce i filologi essere tutti i gramatici, istorici, critici, che son occupati d'intorno alla cognizione delle lingue e de' fatti de' popoli, così in casa, come sono i costumi e le leggi, come fuori, quali sono le guerre, le paci, l'alleanze, i viaggi, i commerzi.

Questa medesima degnità dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l'autorità de' filologi, come i filologi che non curarono d'avverare le loro autorità con la ragion de' filosofi; lo che se avessero fatto, sarebbero stati più utili alle repubbliche e ci avrebbero prevenuto nel meditar questa Scienza.

XI

L'umano arbitrio, di sua natura incertissimo, egli si accerta e determina col senso comune degli uomini d'intorno alle umane necessità o utilità, che son i due fonti del diritto naturale delle genti.

XII

Il senso comune è un giudizio senz'alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il gener umano.

Questa degnità con la seguente diffinizione ne darà una nuova arte critica sopra essi autori delle nazioni, tralle quali devono correre assai più di mille anni per provenirvi gli scrittori, sopra i quali finora si è occupata la critica.

XIII

Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero.

Questa degnità è un gran principio, che stabilisce il senso comune del gener umano esser il criterio insegnato alle nazioni dalla provvedenza divina per diffinire il certo d'intorno al diritto natural delle genti, del quale le nazioni si accertano con intendere l'unità sostanziali di cotal diritto, nelle quali con diverse modificazioni tutte convengono. Ond'esce il dizionario mentale, da dar l'origini a tutte le lingue articolate diverse, col quale sta conceputa la storia ideal eterna che ne dia le storie in tempo di tutte le nazioni; del qual dizionario e della qual istoria si proporranno appresso le degnità loro propie.

Questa stessa degnità rovescia tutte l'idee che si sono finor avute d'intorno al diritto natural delle genti, il quale si è creduto esser uscito da una prima nazione da cui l'altre l'avessero ricevuto; al qual errore diedero lo scandalo gli egizi e i greci, i quali vanamente vantavano d'aver essi disseminata l'umanità per lo mondo: il qual error certamente dovette far venire la legge delle XII Tavole da' greci a' romani. Ma, in cotal guisa, egli sarebbe un diritto civile comunicato ad altri popoli per umano provvedimento, e non già un diritto con essi costumi umani naturalmente dalla divina provvidenza ordinato in tutte le nazioni. Questo sarà uno de' perpetui lavori che si farà in questi libri: in dimostrare che 'l diritto natural delle genti nacque privatamente appo i popoli senza sapere nulla gli uni degli altri; e che poi, con l'occasioni di guerre, ambasciarie, allianze, commerzi, si riconobbe comune a tutto il gener umano.

XIV

Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose.

XV

Le propietà inseparabili da' subbietti devon essere produtte dalla modificazione o guisa con che le cose son nate; per lo che esse ci posson avverare tale e non altra essere la natura o nascimento di esse cose.

XVI

Le tradizioni volgari devon avere avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempi.

Questo sarà altro grande lavoro di questa Scienza: di ritruovarne i motivi del vero, il quale, col volger degli anni e col cangiare delle lingue e costumi, ci pervenne ricoverto di falso.

XVII

I parlari volgari debbon esser i testimoni più gravi degli antichi costumi de' popoli, che si celebrarono nel tempo ch'essi si formaron le lingue.

XVIII

Lingua di nazione antica, che si è conservata regnante finché pervenne al suo compimento, dev'esser un gran testimone de' costumi de' primi tempi del mondo.

Questa degnità ne assicura che le pruove filologiche del diritto naturale delle genti (del quale, senza contrasto, sappientissima sopra tutte l'altre del mondo fu la romana) tratte da' parlari latini sieno gravissime. Per la stessa ragione potranno far il medesimo i dotti della lingua tedesca, che ritiene questa stessa propietà della lingua romana antica.

XIX

Se la legge delle XII Tavole furono costumi delle genti del Lazio, incominciativisi a celebrare fin dall'età di Saturno, altrove sempre andanti e da' romani fissi nel bronzo e religiosamente custoditi dalla romana giurisprudenza, ella è un gran testimone dell'antico diritto naturale delle genti del Lazio.

Ciò si è da noi dimostro esser vero di fatto, da ben molti anni fa, ne' Princìpi del Diritto universale; lo che più illuminato si vedrà in questi libri.

XX

Se i poemi d'Omero sono storie civili degli antichi costumi greci, saranno due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia.

Questa degnità ora qui si suppone: dentro sarà dimostrata di fatto.

XXI

I greci filosofi affrettarono il natural corso che far doveva la loro nazione, col provenirvi essendo ancor cruda la lor barbarie, onde passarono immediatamente ad una somma dilicatezza, e nello stesso tempo serbaronv'intiere le loro storie favolose così divine com'eroiche; ove i romani, i quali ne' lor costumi caminarono con giusto passo, affatto perderono di veduta la loro storia degli dèi (onde l'"età degli dèi", che gli egizi dicevano, Varrone chiama "tempo oscuro" d'essi romani), e conservarono con favella volgare la storia eroica che si stende da Romolo fino alle leggi Publilia e Petelia, che si truoverà una perpetua mitologia storica dell'età degli eroi di Grecia.

Questa natura di cose umane civili ci si conferma nella nazione francese, nella quale perché di mezzo alla barbarie del mille e cento s'aprì la famosa scuola parigina, dove il celebre maestro delle sentenze Piero Lombardo si diede ad insegnare di sottilissima teologia scolastica, vi restò come un poema omerico la storia di Turpino vescovo di Parigi, piena di tutte le favole degli eroi di Francia che si dissero "i paladini", delle quali s'empieron appresso tanti romanzi e poemi. E, per tal immaturo passaggio dalla barbarie alle scienze più sottili, la francese restonne una lingua dilicatissima, talché, di tutte le viventi, sembra avere restituito a' nostri tempi l'atticismo de' greci e più ch'ogni altra è buona a ragionar delle scienze, come la greca; e come a' greci così a' francesi restarono tanti dittonghi, che sono propi di lingua barbara, dura ancor e difficile a comporre le consonanti con le vocali. In confermazione di ciò ch'abbiamo detto di tutte e due queste lingue, aggiugniamo l'osservazione che tuttavia si può fare ne' giovani, i quali, nell'età nella qual è robusta la memoria, vivida la fantasia e focoso l'ingegno - ch'eserciterebbero con frutto con lo studio delle lingue e della geometria lineare, senza domare con tali esercizi cotal acerbezza di menti contratta dal corpo, che si potrebbe dire la barbarie degl'intelletti, - passando ancor crudi agli studi troppo assottigliati di critica metafisica e d'algebra, divengono per tutta la vita affilatissimi nella loro maniera di pensare e si rendono inabili ad ogni grande lavoro.

Ma, col più meditare quest'opera, ritruovammo altra cagione di tal effetto, la qual forse è più propia: che Romolo fondò Roma in mezzo ad altre più antiche città del Lazio, e fondolla con aprirvi l'asilo, che Livio diffinisce generalmente "vetus urbes condentium consilium", perché, durando ancora le violenze, egli naturalmente ordinò la romana sulla pianta sulla quale si erano fondate le prime città del mondo. Laonde, da tali stessi princìpi progredendo i romani costumi, in tempi che le lingue volgari del Lazio avevano fatto di molti avvanzi, dovette avvenire che le cose civili romane, le qual'i popoli greci avevano spiegato con lingua eroica, essi spiegarono con lingua volgare; onde la storia romana antica si truoverà essere una perpetua mitologia della storia eroica de' greci. E questa dev'essere la cagione perché i romani furono gli eroi del mondo: perocché Roma manomise l'altre città del Lazio, quindi l'Italia e per ultimo il mondo, essendo tra' romani giovine l'eroismo; mentre tra gli altri popoli del Lazio, da' quali, vinti, provenne tutta la romana grandezza, aveva dovuto incominciar a invecchiarsi.

XXII

È necessario che vi sia nella natura delle cose umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente intenda la sostanza delle cose agibili nell'umana vita socievole, e la spieghi con tante diverse modificazioni per quanti diversi aspetti possan aver esse cose; siccome lo sperimentiamo vero ne' proverbi, che sono massime di sapienza volgare, l'istesse in sostanza intese da tutte le nazioni antiche e moderne, quante elleno sono, per tanti diversi aspetti significate.

Questa lingua è propia di questa Scienza, col lume della quale se i dotti delle lingue v'attenderanno, potranno formar un vocabolario mentale comune a tutte le lingue articolate diverse, morte e viventi, di cui abbiamo dato un saggio particolare nella Scienza nuova la prima volta stampata, ove abbiamo provato i nomi de' primi padri di famiglia, in un gran numero di lingue morte e viventi, dati loro per le diverse propietà ch'ebbero nello stato delle famiglie e delle prime repubbliche, nel qual tempo le nazioni si formaron le lingue. Del qual vocabolario noi, per quanto ci permette la nostra scarsa erudizione, facciamo qui uso in tutte le cose che ragioniamo.

Di tutte l'anzidette proposizioni, la prima, seconda, terza e quarta ne danno i fondamenti delle confutazioni di tutto ciò che si è finor oppinato d'intorno a' princìpi dell'umanità, le quali si prendono dalle inverisimiglianze, assurdi, contradizioni, impossibilità di cotali oppenioni. Le seguenti, dalla quinta fin alla decimaquinta, le quali ne danno i fondamenti del vero, serviranno a meditare questo mondo di nazioni nella sua idea eterna, per quella propietà di ciascuna scienza, avvertita da Aristotile, che "scientia debet esse de universalibus et æternis". L'ultime, dalla decimaquinta fin alla ventesimaseconda, le quali ne daranno i fondamenti del certo, si adopreranno a veder in fatti questo mondo di nazioni quale l'abbiamo meditato in idea, giusta il metodo di filosofare più accertato di Francesco Bacone signor di Verulamio, dalle naturali, sulle quali esso lavorò il libro Cogitata visa, trasportato all'umane cose civili.

Le proposizioni finora proposte sono generali e stabiliscono questa Scienza per tutto; le seguenti sono particolari, che la stabiliscono partitamente nelle diverse materie che tratta.

XXIII

La storia sagra è più antica di tutte le più antiche profane che ci son pervenute, perché narra tanto spiegatamente e per lungo tratto di più di ottocento anni lo stato di natura sotto de' patriarchi, o sia lo stato delle famiglie, sopra le quali tutti i politici convengono che poi sursero i popoli e le città; del quale stato la storia profana ce ne ha o nulla o poco e assai confusamente narrato.

Questa degnità pruova la verità della storia sagra contro la boria delle nazioni che sopra ci ha detto Diodoro sicolo, perocché gli ebrei han conservato tanto spiegatamente le loro memorie fin dal principio del mondo.

XXIV

La religion ebraica fu fondata dal vero Dio sul divieto della divinazione, sulla quale sursero tutte le nazioni gentili.

Questa degnità è una delle principali cagioni per le quali tutto il mondo delle nazioni antiche si divise tra ebrei e genti.

XXV

Il diluvio universale si dimostra non già per le pruove filologiche di Martino Scoockio, le quali sono troppo leggieri; né per l'astrologiche di Piero cardinale d'Alliac, seguìto da Giampico della Mirandola, le quali sono troppo incerte, anzi false, rigredendo sopra le Tavole alfonsine, confutate dagli ebrei ed ora da' cristiani, i quali, disappruovato il calcolo d'Eusebio e di Beda, sieguon oggi quello di Filone giudeo: ma si dimostra con istorie fisiche osservate dentro le favole, come nelle degnità qui appresso si scorgerà.

XXVI

I giganti furon in natura di vasti corpi, quali in piedi dell'America, nel paese detto de los patacones, dicono viaggiatori essersi truovati goffi e fierissimi. E, lasciate le vane o sconce o false ragioni che ne hanno arrecato i filosofi, raccolte e seguite dal Cassanione, De gigantibus, se n'arrecano le cagioni, parte fisiche e parte morali, osservate da Giulio Cesare e da Cornelio Tacito ove narrano della gigantesca statura degli antichi germani; e, da noi considerate, si compongono sulla ferina educazion de' fanciulli.

XXVII

La storia greca, dalla qual abbiamo tutto ciò ch'abbiamo (dalla romana in fuori) di tutte l'altre antichità gentilesche, ella dal diluvio e da' giganti prende i princìpi.

Queste due degnità mettono in comparsa tutto il primo gener umano diviso in due spezie: una di giganti, altra d'uomini di giusta corporatura; quelli gentili, questi ebrei (la qual differenza non può essere nata altronde che dalla ferina educazione di quelli e dall'umana di questi); e, 'n conseguenza, che gli ebrei ebbero altra origine da quella c'hanno avuto tutti i gentili.

XXVIII

Ci sono pur giunti due gran rottami dell'egiziache antichità, che si sono sopra osservati. De' quali uno è che gli egizi riducevano tutto il tempo del mondo scorso loro dinanzi a tre età, che furono: età degli dèi, età degli eroi ed età degli uomini. L'altro, che per tutte queste tre età si fussero parlate tre lingue, nell'ordine corrispondenti a dette tre età, che furono: la lingua geroglifica ovvero sagra, la lingua simbolica o per somiglianze, qual è l'eroica, e la pistolare o sia volgare degli uomini, per segni convenuti da comunicare le volgari bisogne della lor vita.

XXIX

Omero, in cinque luoghi di tutti e due i suoi poemi che si rapporteranno dentro, mentova una lingua più antica della sua, che certamente fu lingua eroica, e la chiama "lingua degli dèi".

XXX

Varrone ebbe la diligenza di raccogliere trentamila nomi di dèi (ché tanti pure ne noverano i greci), i quali nomi si rapportavano ad altrettante bisogne della vita o naturale o morale o iconomica o finalmente civile de' primi tempi.

Queste tre degnità stabiliscono che 'l mondo de' popoli dappertutto cominciò dalle religioni: che sarà il primo degli tre princìpi di questa Scienza.

XXXI

Ove i popoli son infieriti con le armi, talché non vi abbiano più luogo l'umane leggi, l'unico potente mezzo di ridurgli è la religione.

Questa degnità stabilisce che nello stato eslege la provvedenza divina diede principio a' fieri e violenti di condursi all'umanità ed ordinarvi le nazioni, con risvegliar in essi un'idea confusa della divinità, ch'essi per la lor ignoranza attribuirono a cui ella non conveniva; e così, con lo spavento di tal immaginata divinità, si cominciarono a rimettere in qualche ordine.

Tal principio di cose, tra i suoi "fieri e violenti", non seppe vedere Tommaso Obbes, perché ne andò a truovar i princìpi errando col "caso" del suo Epicuro; onde, con quanto magnanimo sforzo, con altrettanto infelice evento, credette d'accrescere la greca filosofia di questa gran parte, della quale certamente aveva mancato (come riferisce Giorgio Paschio, De eruditis huius sæculi inventis), di considerar l'uomo in tutta la società del gener umano. Né Obbes l'arebbe altrimente pensato, se non gliene avesse dato il motivo la cristiana religione, la quale inverso tutto il gener umano, nonché la giustizia, comanda la carità. E quindi incomincia a confutarsi Polibio di quel falso suo detto: che, se fussero al mondo filosofi, non farebber uopo religioni; ché, se non fussero al mondo repubbliche, le quali non posson esser nate senza religioni, non sarebbero al mondo filosofi.

XXXII

Gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose, ove non le possono spiegare nemmeno per cose simili, essi danno alle cose la loro propia natura, come il volgo, per esemplo, dice la calamita esser innamorata del ferro.

Questa degnità è una particella della prima: che la mente umana, per la sua indiffinita natura, ove si rovesci nell'ignoranza, essa fa sé regola dell'universo d'intorno a tutto quello che ignora.

XXXIII

La fisica degl'ignoranti è una volgar metafisica, con la quale rendono le cagioni delle cose ch'ignorano alla volontà di Dio, senza considerare i mezzi de' quali la volontà divina si serve.

XXXIV

Vera propietà di natura umana è quella avvertita da Tacito, ove disse "mobiles ad superstitionem perculsæ semel mentes": ch'una volta che gli uomini sono sorpresi da una spaventosa superstizione, a quella richiamano tutto ciò ch'essi immaginano, vedono ed anche fanno.

XXXV

La maraviglia è figliuola dell'ignoranza; e quanto l'effetto ammirato è più grande, tanto più a proporzione cresce la maraviglia.

XXXVI

La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio.

XXXVII

Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è propietà de' fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive.

Questa degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti.

XXXVIII

È un luogo d'oro di Lattanzio Firmiano quello ove ragiona dell'origini dell'idolatria, dicendo: "Rudes initio homines deos appellarunt sive ob miraculum virtutis (hoc vere putabant rudes adhuc et simplices); sive, ut fieri solet, in admirationem præsentis potentiæ; sive ob beneficia, quibus erant ad humanitatem compositi".

XXXIX

La curiosità, propietà connaturale dell'uomo, figliuola dell'ignoranza, che partorisce la scienza, all'aprire che fa della nostra mente la maraviglia, porta questo costume: ch'ove osserva straordinario effetto in natura, come cometa, parelio o stella di mezzodì, subito domanda che tal cosa voglia dire o significare.

XL

Le streghe, nel tempo stesso che sono ricolme di spaventose superstizioni, sono sommamente fiere ed immani; talché, se bisogna per solennizzare le loro stregonerie, esse uccidono spietatamente e fanno in brani amabilissimi innocenti bambini.

Tutte queste proposizioni, dalla ventesimottava incominciando fin alla trentesimottava, ne scuoprono i princìpi della poesia divina o sia della teologia poetica; dalla trentesimaprima, ne danno i princìpi dell'idolatria; dalla trentesimanona, i princìpi della divinazione; e la quarantesima finalmente ne dà con sanguinose religioni i princìpi de' sagrifizi, che da' primi crudi fierissimi uomini incominciarono con voti e vittime umane. Le quali, come si ha da Plauto, restarono a' latini volgarmente dette "Saturni hostiæ", e furono i sagrifizi di Moloc appresso i fenici, i quali passavano per mezzo alle fiamme i bambini consegrati a quella falsa divinità; delle quali consegrazioni si serbarono alquante nella legge delle XII Tavole. Le quali cose, come danno il diritto senso a quel motto:

Primos in orbe deos fecit timor

- che le false religioni non nacquero da impostura d'altrui, ma da propia credulità; - così l'infelice voto e sagrifizio che fece Agamennone della pia figliuola Ifigenia, a cui empiamente Lucrezio acclama:

Tantum relligio potuit suadere malorum!,

rivolgono in consiglio della provvedenza. Ché tanto vi voleva per addimesticare i figliuoli de' polifemi e ridurgli all'umanità degli Aristidi e de' Socrati, de' Leli e degli Scipioni affricani.

XLI

Si domanda, e la domanda è discreta, che per più centinaia d'anni la terra, insoppata dall'umidore dell'universale diluvio, non abbia mandato esalazioni secche, o sieno materie ignite, in aria, a ingenerarvisi i fulmini.

XLII

Giove fulmina ed atterra i giganti, ed ogni nazione gentile n'ebbe uno.

Questa degnità contiene la storia fisica che ci han conservato le favole: che fu il diluvio universale sopra tutta la terra.

Questa stessa degnità, con l'antecedente postulato, ne dee determinare che dentro tal lunghissimo corso d'anni le razze empie degli tre figliuoli di Noè fussero andate in uno stato ferino, e con un ferino divagamento si fussero sparse e disperse per la gran selva della terra, e con l'educazione ferina vi fussero provenuti e ritruovati giganti nel tempo che la prima volta fulminò il cielo dopo il diluvio.

XLIII

Ogni nazione gentile ebbe un suo Ercole, il quale fu figliuolo di Giove; e Varrone, dottissimo dell'antichità, ne giunse a noverare quaranta.

Questa degnità è 'l principio dell'eroismo de' primi popoli, nato da una falsa oppenione: gli eroi provenir da divina origine.

Questa stessa degnità con l'antecedente, che ne danno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercole tralle nazioni gentili - oltreché ne dimostrano che non si poterono fondare senza religione né ingrandire senza virtù, essendono elle ne' lor incominciamenti selvagge e chiuse, e perciò non sappiendo nulla l'una dell'altra, per la degnità che "idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti, debbon aver un motivo comune di vero", - ne danno di più questo gran principio: che le prime favole dovettero contenere verità civili, e perciò essere state le storie de' primi popoli.

XLIV

I primi sappienti del mondo greco furon i poeti teologi, i quali senza dubbio fioriron innanzi agli eroici, siccome Giove fu padre d'Ercole.

Questa degnità con le altre due antecedenti stabiliscono che tutte le nazioni gentili, poiché tutte ebbero i loro Giovi, i lor Ercoli, furono ne' loro incominciamenti poetiche; e che prima tra loro nacque la poesia divina: dopo, l'eroica.

XLV

Gli uomini sono naturalmente portati a conservar le memorie delle leggi e degli ordini che gli tengono dentro la loro società.

XLVI

Tutte le storie barbare hanno favolosi princìpi.

Tutte queste degnità, dalla quarantesimaseconda, ne danno il principio della nostra mitologia istorica.

XLVII

La mente umana è naturalmente portata a dilettarsi dell'uniforme.

Questa degnità, a proposito delle favole, si conferma dal costume c'ha il volgo, il quale degli uomini nell'una o nell'altra parte famosi, posti in tali o tali circostanze, per ciò che loro in tale stato conviene, ne finge acconce favole. Le quali sono verità d'idea in conformità del merito di coloro de' quali il volgo le finge; e in tanto sono false talor in fatti, in quanto al merito di quelli non sia dato ciò di che essi son degni. Talché, se bene vi si rifletta, il vero poetico è un vero metafisico, a petto del quale il vero fisico, che non vi si conforma, dee tenersi a luogo di falso. Dallo che esce questa importante considerazione in ragion poetica: che 'l vero capitano di guerra, per esemplo, è 'l Goffredo che finge Torquato Tasso; e tutti i capitani che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono veri capitani di guerra.

XLVIII

È natura de' fanciulli che con l'idee e nomi degli uomini, femmine, cose che la prima volta hanno conosciuto, da esse e con essi dappoi apprendono e nominano tutti gli uomini, femmine, cose c'hanno con le prime alcuna somiglianza o rapporto.

XLIX

È un luogo d'oro quel di Giamblico, De mysteriis ægyptiorum, sopra arrecato, che gli egizi tutti i ritruovati utili o necessari alla vita umana richiamavano a Mercurio Trimegisto.

Cotal detto, assistito dalla degnità precedente, rovescerà a questo divino filosofo tutti i sensi di sublime teologia naturale ch'esso stesso ha dato a' misteri degli egizi.

E queste tre degnità ne danno il principio de' caratteri poetici, i quali costituiscono l'essenza delle favole. E la prima dimostra la natural inchinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro. La seconda dimostra ch'i primi uomini, come fanciulli del gener umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti; per la qual simiglianza, le antiche favole non potevano fingersi che con decoro. Appunto come gli egizi tutti i loro ritruovati utili o necessari al gener umano, che sono particolari effetti di sapienza civile, riducevano al genere del "sappiente civile", da essi fantasticato Mercurio Trimegisto, perché non sapevano astrarre il gener intelligibile di "sappiente civile", e molto meno la forma di civile sapienza della quale furono sappienti cotal'egizi. Tanto gli egizi, nel tempo ch'arricchivan il mondo de' ritruovati o necessari o utili al gener umano, furon essi filosofi e s'intendevano di universali, o sia di generi intelligibili!

E quest'ultima degnità, in séguito dell'antecedenti, è 'l principio delle vere allegorie poetiche, che alle favole davano significati univoci, non analogi, di diversi particolari compresi sotto i loro generi poetici: le quali perciò si dissero "diversiloquia", cioè parlari comprendenti in un general concetto diverse spezie di uomini o fatti o cose.

L

Ne' fanciulli è vigorosissima la memoria; quindi vivida all'eccesso la fantasia, ch'altro non è che memoria o dilatata o composta.

Questa degnità è 'l principio dell'evidenza dell'immagini poetiche che dovette formare il primo mondo fanciullo.

LI

In ogni facultà uomini, i quali non vi hanno la natura, vi riescono con ostinato studio dell'arte; ma in poesia è affatto niegato di riuscire con l'arte chiunque non vi ha la natura.

Questa degnità dimostra che, poiché la poesia fondò l'umanità gentilesca, dalla quale e non altronde dovetter uscire tutte le arti, i primi poeti furono per natura.

LII

I fanciulli vagliono potentemente nell'imitare, perché osserviamo per lo più trastullarsi in assembrare ciò che son capaci d'apprendere.

Questa degnità dimostra che 'l mondo fanciullo fu di nazioni poetiche, non essendo altro la poesia che imitazione.

E questa degnità daranne il principio di ciò: che tutte l'arti del necessario, utile, comodo e 'n buona parte anco dell'umano piacere si ritruovarono ne' secoli poetici innanzi di venir i filosofi, perché l'arti non sono altro ch'imitazioni della natura e poesie in un certo modo reali.

LIII

Gli uomini prima sentono senz'avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura.

Questa degnità è 'l principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d'affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocinî: onde queste più s'appressano al vero quanto più s'innalzano agli universali, e quelle sono più certe quanto più s'appropriano a' particolari.

LIV

Gli uomini le cose dubbie ovvero oscure, che lor appartengono, naturalmente interpetrano secondo le loro nature e quindi uscite passioni e costumi.

Questa degnità è un gran canone della nostra mitologia, per lo quale le favole, trovate da' primi uomini selvaggi e crudi tutte severe, convenevolmente alla fondazione delle nazioni che venivano dalla feroce libertà bestiale, poi, col lungo volger degli anni e cangiar de' costumi, furon impropiate, alterate, oscurate ne' tempi dissoluti e corrotti anco innanzi d'Omero. Perché agli uomini greci importava la religione, temendo di non avere gli dèi così contrari a' loro voti come contrari eran a' loro costumi, attaccarono i loro costumi agli dèi, e diedero sconci, laidi, oscenissimi sensi alle favole.

LV

È un aureo luogo quello d'Eusebio (dal suo particolare della sapienza degli egizi innalzato a quella di tutti gli altri gentili) ove dice: "Primam ægyptiorum theologiam mere historiam fuisse fabulis interpolatam; quarum quum postea puderet posteros, sensim coeperunt mysticos iis significatus affingere". Come fece Maneto, o sia Manetone, sommo pontefice egizio, che trasportò tutta la storia egiziaca ad una sublime teologia naturale, come pur sopra si è detto.

Queste due degnità sono due grandi pruove della nostra mitologia istorica, e sono insiememente due grandi turbini per confondere l'oppenioni della sapienza innarrivabile degli antichi, come due grandi fondamenti della verità della religion cristiana, la quale nella sagra storia non ha ella narrazioni da vergognarsene.

LVI

I primi autori tra gli orientali, egizi, greci e latini e, nella barbarie ricorsa, i primi scrittori nelle nuove lingue d'Europa si truovano essere stati poeti.

LVII

I mutoli si spiegano per atti o corpi c'hanno naturali rapporti all'idee ch'essi vogliono significare.

Questa degnità è 'l principio del parlar naturale, che congetturò Platone nel Cratilo, e, dopo di lui, Giamblico, De mysteriis ægyptiorum, essersi una volta parlato nel mondo. Co' quali sono gli stoici ed Origene, Contra Celso; e, perché 'l dissero indovinando, ebbero contrari Aristotile nella Perì ermeneia e Galeno, De decretis Hippocratis et Platonis: della qual disputa ragiona Publio Nigidio appresso Aulo Gellio. Alla qual favella naturale dovette succedere la locuzion poetica per immagini, somiglianze, comparazioni e naturali propietà.

LVIII

I mutoli mandan fuori i suoni informi cantando, e gli scilinguati pur cantando spediscono la lingua a prononziare.

LIX

Gli uomini sfogano le grandi passioni dando nel canto, come si sperimenta ne' sommamente addolorati e allegri.

Queste due degnità supposte [danno a congetturare]che gli autori delle nazioni gentili [poich']eran andat'in uno stato ferino di bestie mute; e che, per quest'istesso balordi, non si fussero risentiti ch'a spinte di violentissime passioni - dovettero formare le prime loro lingue cantando.

LX

Le lingue debbon aver incominciato da voci monosillabe; come, nella presente copia di parlari articolati ne' quali nascon ora, i fanciulli, quantunque abbiano mollissime le fibbre dell'istrumento necessario ad articolare la favella, da tali voci incominciano.

LXI

Il verso eroico è lo più antico di tutti e lo spondaico il più tardo, e dentro si truoverà il verso eroico esser nato spondaico.

LXII

Il verso giambico è 'l più somigliante alla prosa, e 'l giambo è "piede presto", come vien diffinito da Orazio.

Queste due degnità ultime danno a congetturare che andarono con pari passi a spedirsi e l'idee e le lingue.

Tutte queste degnità, dalla quarantesimasettima incominciando, insieme con le sopra proposte per princìpi di tutte l'altre, compiono tutta la ragion poetica nelle sue parti, che sono: la favola, il costume e suo decoro, la sentenza, la locuzione e la di lei evidenza, l'allegoria, il canto e per ultimo il verso. E le sette ultime convincon altresì che fu prima il parlar in verso e poi il parlar in prosa appo tutte le nazioni.

LXIII

La mente umana è inchinata naturalmente co' sensi a vedersi fuori nel corpo, e con molta difficultà per mezzo della riflessione ad intendere se medesima.

Questa degnità ne dà l'universal principio d'etimologia in tutte le lingue, nelle qual'i vocaboli sono trasportati da' corpi e dalle propietà de' corpi a significare le cose della mente e dell'animo.

LXIV

L'ordine dell'idee dee procedere secondo l'ordine delle cose.

LXV

L'ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l'accademie.

Questa degnità è un gran principio d'etimologia: che secondo questa serie di cose umane si debbano narrare le storie delle voci delle lingue natie, come osserviamo nella lingua latina quasi tutto il corpo delle sue voci aver origini selvagge e contadinesche. Come, per cagion d'esemplo, "lex", che dapprima dovett'essere "raccolta di ghiande", da cui crediamo detta "ilex", quasi "illex", l'elce (come certamente "aquilex" è 'l raccoglitore dell'acque), perché l'elce produce la ghianda, alla quale s'uniscono i porci. Dappoi "lex" fu "raccolta di legumi", dalla quale questi furon detti "legumina". Appresso, nel tempo che le lettere volgari non si eran ancor truovate con le quali fussero scritte le leggi, per necessità di natura civile "lex" dovett'essere "raccolta di cittadini", o sia il pubblico parlamento; onde la presenza del popolo era la legge che solennizzava i testamenti che si facevano "calatis comitiis". Finalmente il raccoglier lettere e farne com'un fascio in ciascuna parola fu detto "legere".

LXVI

Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all'utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze.

LXVII

La natura de' popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta.

LXVIII

Nel gener umano prima surgono immani e goffi, qual'i Polifemi; poi magnanimi ed orgogliosi, quali gli Achilli; quindi valorosi e giusti, quali gli Aristidi, gli Scipioni affricani; più a noi gli appariscenti con grand'immagini di virtù che s'accompagnano con grandi vizi, ch'appo il volgo fanno strepito di vera gloria, quali gli Alessandri e i Cesari; più oltre i tristi riflessivi, qual'i Tiberi; finalmente i furiosi dissoluti e sfacciati, qual'i Caligoli, i Neroni, i Domiziani.

Questa degnità dimostra che i primi abbisognarono per ubbidire l'uomo all'uomo nello stato delle famiglie, e disporlo ad ubbidir alle leggi nello stato ch'aveva a venire delle città; i secondi, che naturalmente non cedevano a' loro pari, per istabilire sulle famiglie le repubbliche di forma aristocratica; i terzi per aprirvi la strada alla libertà popolare; i quarti per introdurvi le monarchie; i quinti per istabilirle; i sesti per rovesciarle.

E questa con l'antecedenti degnità danno una parte de' princìpi della storia ideal eterna, sulla quale corrono in tempo tutte le nazioni ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini.

LXIX

I governi debbon essere conformi alla natura degli uomini governati.

Questa degnità dimostra che per natura di cose umane civili la scuola pubblica de' principi è la morale de' popoli.

LXX

Si conceda ciò che non ripugna in natura e qui poi truoverassi vero di fatto: che dallo stato nefario del mondo eslege si ritirarono prima alquanti pochi più robusti, che fondarono le famiglie, con le quali e per le quali ridussero i campi a coltura; e gli altri molti lunga età dopo se ne ritirarono, rifuggendo alle terre colte di questi padri.

LXXI

I natii costumi, e sopra tutto quello della natural libertà, non si cangiano tutti ad un tratto, ma per gradi e con lungo tempo.

LXXII

Posto che le nazioni tutte cominciarono da un culto di una qualche divinità, i padri nello stato delle famiglie dovetter esser i sappienti in divinità d'auspìci, i sacerdoti che sagrificavano per proccurargli o sia ben intendergli, e gli re che portavano le divine leggi alle loro famiglie.

LXXIII

È volgar tradizione che i primi i quali governarono il mondo furono re.

LXXIV

È altra volgar tradizione ch'i primi re si criavano per natura i più degni.

LXXV

È volgar tradizione ancora ch'i primi re furono sappienti, onde Platone con vano voto disiderava questi antichissimi tempi ne' quali o i filosofi regnavano o filosofavano i re.

Tutte queste degnità dimostrano che nelle persone de' primi padri andarono uniti sapienza, sacerdozio e regno, e 'l regno e 'l sacerdozio erano dipendenze della sapienza, non già riposta di filosofi, ma volgare di legislatori. E perciò, dappoi, in tutte le nazioni i sacerdoti andarono coronati.

LXXVI

È volgar tradizione che la prima forma di governo al mondo fusse ella stata monarchica.

LXXVII

Ma la degnità sessantesimasettima con l'altre seguenti, e 'n particolare col corollario della sessantesimanona, ne danno che i padri nello stato delle famiglie dovettero esercitare un imperio monarchico, solamente soggetto a Dio, così nelle persone come negli acquisti de' lor figliuoli e molto più de' famoli che si erano rifuggiti alle loro terre, e sì che essi furono i primi monarchi del mondo de' quali la storia sagra hassi da intendere ove gli appella "patriarchi", cioè "padri principi". Il qual diritto monarchico fu loro serbato dalla legge delle XII Tavole per tutti i tempi della romana repubblica: "Patrifamilias ius vitæ et necis in liberos esto"; di che è conseguenza: "Quicquid filius acquirit, patri acquirit".

LXXVIII

Le famiglie non posson essere state dette, con propietà d'origine, altronde che da questi famoli de' padri nello stato allor di natura.

LXXIX

I primi soci, che propiamente sono compagni per fine di comunicare tra loro l'utilità, non posson al mondo immaginarsi né intendersi innanzi di questi rifuggiti per aver salva la vita da' primi padri anzidetti e, ricevuti per la lor vita, obbligati a sostentarla con coltivare i campi di tali padri.

Tali si truovano i veri soci degli eroi, che poi furono i plebei dell'eroiche città, e finalmente le provincie de' popoli principi.

LXXX

Gli uomini vengono naturalmente alla ragione de' benefizi, ove scorgano o ritenerne o ritrarne buona e gran parte d'utilità, che son i benefizi che si possono sperare nella vita civile.

LXXXI

È propietà de' forti gli acquisti fatti con virtù non rillasciare per infingardaggine, ma, o per necessità o per utilità, rimetterne a poco a poco e quanto meno essi possono.

Da queste due degnità sgorgano le sorgive perenni de' feudi, i quali con romana eleganza si dicono "beneficia".

LXXXII

Tutte le nazioni antiche si truovano sparse di clienti e di clientele, che non si possono più acconciamente intendere che per vassalli e per feudi, né da' feudisti eruditi si truovano più acconce voci romane per ispiegarsi che "clientes" e "clientelæ".

Queste tre ultime degnità con dodici precedenti, dalla settantesima incominciando, ne scuoprono i princìpi delle repubbliche, nate da una qualche grande necessità (che dentro si determina) a' padri di famiglia fatta da' famoli, per la quale andarono da se stesse naturalmente a formarsi aristocratiche. Perocché i padri si unirono in ordini per resister a' famoli ammutinati contro essoloro; e, così uniti, per far contenti essi famoli e ridurgli all'ubbidienza, concedettero loro una spezie di feudi rustici; ed essi si truovaron assoggettiti i loro sovrani imperi famigliari (che non si posson intendere che sulla ragione di feudi nobili) all'imperio sovrano civile de' lor ordini regnanti medesimi; e i capi ordini se ne dissero "re", i quali, più animosi, dovettero lor far capo nelle rivolte de' famoli. Tal origine delle città se fusse data per ipotesi (che dentro si ritruova di fatto), ella, per la sua naturalezza e semplicità e per l'infinito numero degli effetti civili che sopra, come a lor propia cagione, vi reggono, dee fare necessità di esser ricevuta per vera. Perché in altra guisa non si può al mondo intendere come delle potestà famigliari si formò la potestà civile e de' patrimoni privati il patrimonio pubblico, e come truovossi apparecchiata la materia alle repubbliche d'un ordine di pochi che vi comandi e della moltitudine de' plebei la qual v'ubbidisca: che sono le due parti che compiono il subbietto della politica. La qual generazione degli Stati civili, con le famiglie sol di figliuoli, si dimostrerà dentro essere stata impossibile.

LXXXIII

Questa legge d'intorno a' campi si stabilisce la prima agraria del mondo; né per natura si può immaginar o intendere un'altra che possa essere più ristretta.

Questa legge agraria distinse gli tre domìni, che posson esser di natura civile, appo tre spezie di persone: il bonitario, appo i plebei; il quiritario, conservato con l'armi e, 'n conseguenza, nobile, appo i padri; e l'eminente, appo esso ordine, ch'è la Signoria, o sia la sovrana potestà, nelle repubbliche aristocratiche.

LXXXIV

È un luogo d'oro d'Aristotile ne' Libri politici ove, nella divisione delle repubbliche, novera i regni eroici, ne' quali gli re in casa ministravan le leggi, fuori amministravan le guerre, ed erano capi della religione.

Questa degnità cade tutta a livello ne' due regni eroici di Teseo e di Romolo, come di quello si può osservar in Plutarco nella di lui Vita, e di questo sulla storia romana, con supplire la storia greca con la romana, ove Tullo Ostilio ministra la legge nell'accusa d'Orazio. E gli re romani erano ancora re delle cose sagre, detti "reges sacrorum"; onde, cacciati gli re da Roma, per la certezza delle cerimonie divine ne criavano uno che si dicesse "rex sacrorum", ch'era il capo de' feciali o sia degli araldi.

LXXXV

È pur luogo d'oro d'Aristotile ne' medesimi libri, ove riferisce che l'antiche repubbliche non avevano leggi da punire l'offese ed ammendar i torti privati; e dice tal costume esser de' popoli barbari, perché i popoli per ciò ne' lor incominciamenti sono barbari perché non sono addimesticati ancor con le leggi.

Questa degnità dimostra la necessità de' duelli e delle ripresaglie ne' tempi barbari, perché in tali tempi mancano le leggi giudiziarie.

LXXXVI

È pur aureo negli stessi libri d'Aristotile quel luogo ove dice che nell'antiche repubbliche i nobili giuravano d'esser eterni nemici della plebe.

Questa degnità ne spiega la cagione de' superbi, avari e crudeli costumi de' nobili sopra i plebei, ch'apertamente si leggono sulla storia romana antica: che, dentro essa finor sognata libertà popolare, lungo tempo angariarono i plebei di servir loro a propie spese nelle guerre, gli anniegavano in un mar d'usure, che non potendo quelli meschini poi soddisfare, gli tenevano chiusi tutta la vita nelle loro private prigioni, per pagargliele co' lavori e fatighe, e quivi con maniera tirannica gli battevano a spalle nude con le verghe come vilissimi schiavi.

LXXXVII

Le repubbliche aristocratiche sono rattenutissime di venir alle guerre per non agguerrire la moltitudine de' plebei.

Questa degnità è 'l principio della giustizia dell'armi romane fin alle guerre cartaginesi.

LXXXVIII

Le repubbliche aristocratiche conservano le ricchezze dentro l'ordine de' nobili, perché conferiscono alla potenza di esso ordine.

Questa degnità è 'l principio della clemenza romana nelle vittorie, che toglievano a' vinti le sole armi e, sotto la legge di comportevol tributo, rillasciavano il dominio bonitario di tutto. Ch'è la cagione per che i padri resistettero sempre all'agrarie de' Gracchi: perché non volevano arricchire la plebe.

LXXXIX

L'onore è 'l più nobile stimolo del valor militare.

XC

I popoli debbon eroicamente portarsi in guerra, se esercitano gare di onore tra lor in pace, altri per conservarglisi, altri per farsi merito di conseguirgli.

Questa degnità è un principio dell'eroismo romano dalla discacciata de' tiranni fin alle guerre cartaginesi, dentro il qual tempo i nobili naturalmente si consagravano per la salvezza della lor patria, con la quale avevano salvi tutti gli onori civili dentro il lor ordine, e i plebei facevano delle segnalatissime imprese per appruovarsi meritevoli degli onori de' nobili.

XCI

Le gare, ch'esercitano gli ordini nelle città, d'uguagliarsi con giustizia sono lo più potente mezzo d'ingrandir le repubbliche.

Questo è l'altro principio dell'eroismo romano, assistito da tre pubbliche virtù: dalla magnanimità della plebe di volere le ragioni civili comunicate ad essolei con le leggi de' padri, dalla fortezza de' padri nel custodirle dentro il lor ordine e dalla sapienza de' giureconsulti nell'interpetrarle e condurne fil filo l'utilità a' nuovi casi che domandavano la ragione. Che sono le tre cagioni propie onde si distinse al mondo la giurisprudenza romana.

Tutte queste degnità, dalla otantesimaquarta incominciando, espongono nel suo giusto aspetto la storia romana antica: le seguenti tre vi si adoprano in parte.

XCII

I deboli vogliono le leggi; i potenti le ricusano; gli ambiziosi, per farsi séguito, le promuovono; i principi, per uguagliar i potenti co' deboli, le proteggono.

Questa degnità, per la prima e seconda parte, è la fiaccola delle contese eroiche nelle repubbliche aristocratiche, nelle qual'i nobili vogliono appo l'ordine arcane tutte le leggi, perché dipendano dal lor arbitrio e le ministrino con la mano regia: che sono le tre cagioni ch'arreca Pomponio giureconsulto, ove narra che la plebe romana desidera la legge delle XII Tavole, con quel motto che l'erano gravi "ius latens, incertum et manus regia". Ed è la cagione della ritrosia ch'avevano i padri di dargliele, dicendo "mores patrios servandos, leges ferri non oportere", come riferisce Dionigi d'Alicarnasso, che fu meglio informato che Tito Livio delle cose romane (perché le scrisse istrutto delle notizie di Marco Terenzio Varrone, il qual fu acclamato "il dottissimo de' romani"), e in questa circostanza è per diametro opposto a Livio, che narra intorno a ciò: i nobili, per dirla con lui, "desideria plebis non aspernari". Onde, per questa ed altre maggiori contrarietà osservate ne' Princìpi del Diritto universale, essendo cotanto tra lor opposti i primi autori che scrissero di cotal favola da presso a cinquecento anni dopo, meglio sarà di non credere a niun degli due. Tanto più che ne' medesimi tempi non la credettero né esso Varrone, il quale nella grande opera Rerum divinarum et humanarum diede origini tutte natie del Lazio a tutte le cose divine ed umane d'essi romani; né Cicerone, il qual in presenza di Quinto Muzio Scevola, principe de' giureconsulti della sua età, fa dire a Marco Crasso oratore che la sapienza de' decemviri di gran lunga superava quella di Dragone e di Solone, che diedero le leggi agli ateniesi, e quella di Ligurgo, che diedele agli spartani: ch'è lo stesso che la legge delle XII Tavole non era né da Sparta né da Atene venuta in Roma. E crediamo in ciò apporci al vero: che non per altro Cicerone fece intervenire Q. Muzio in quella sola prima giornata che - essendo al suo tempo cotal favola troppo ricevuta tra' letterati, nata dalla boria de' dotti di dare origini sappientissime al sapere ch'essi professavano (lo che s'intende da quelle parole che 'l medesimo Crasso dice: "Fremant omnes: dicam quod sentio") - perché non potessero opporgli ch'un oratore parlasse della storia del diritto romano, che si appartiene saper da' giureconsulti (essendo allora queste due professioni tra lor divise); se Crasso avesse d'intorno a ciò detto falso, Muzio ne l'avrebbe certamente ripreso, siccome, al riferir di Pomponio, riprese Servio Sulpizio, ch'interviene in questi stessi ragionamenti, dicendogli "turpe esse patricio viro ius, in quo versaretur ignorare".

Ma, più che Cicerone e Varrone, ci dà Polibio un invitto argomento di non credere né a Dionigi né a Livio, il quale senza contrasto seppe più di politica di questi due e fiorì da dugento anni più vicino a' decemviri che questi due. Egli (nel libro sesto, al numero quarto e molti appresso, dell'edizione di Giacomo Gronovio) a piè fermo si pone a contemplare la costituzione delle repubbliche libere più famose de' tempi suoi, ed osserva la romana esser diversa da quelle d'Atene e di Sparta e, più che di Sparta, esserlo da quella d'Atene, dalla quale, più che da Sparta, i pareggiatori del gius attico col romano vogliono esser venute le leggi per ordinarvi la libertà popolare già innanzi fondata da Bruto. Ma osserva, al contrario, somiglianti tra loro la romana e la cartaginese, la quale niuno mai si è sognato essere stata ordinata libera con le leggi di Grecia; lo che è tanto vero ch'in Cartagine era espressa legge che vietava a' cartaginesi sapere di greca lettera. Ed uno scrittore sappientissimo di repubbliche non fa sopra ciò questa cotanto naturale e cotanto ovvia riflessione, e non ne investiga la cagion della differenza: - Le repubbliche romana ed ateniese, diverse, ordinate con le medesime leggi; e le repubbliche romana e cartaginese, simili, ordinate con leggi diverse? - Laonde, per assolverlo d'un'oscitanza sì dissoluta, è necessaria cosa a dirsi che nell'età di Polibio non era ancor nata in Roma cotesta favola delle leggi greche venute da Atene ad ordinarvi il governo libero popolare.

Questa stessa degnità, per la terza parte, apre la via agli ambiziosi nelle repubbliche popolari di portarsi alla monarchia, col secondare tal disiderio natural della plebe, che, non intendendo universali, d'ogni particolare vuol una legge. Onde Silla, capoparte di nobiltà, vinto Mario, capoparte di plebe, riordinando lo Stato popolare con governo aristocratico, rimediò alla moltitudine delle leggi con le "quistioni perpetue".

E questa degnità medesima per l'ultima parte è la ragione arcana perché, da Augusto incominciando, i romani prìncipi fecero innumerevoli leggi di ragion privata, e perché i sovrani e le potenze d'Europa dappertutto, ne' loro Stati reali e nelle repubbliche libere, ricevettero il Corpo del diritto civile romano e quello del diritto canonico.

XCIII

Poiché la porta degli onori nelle repubbliche popolari tutta si è con le leggi aperta alla moltitudine avara che vi comanda, non resta altro in pace che contendervi di potenza non già con le leggi ma con le armi, e per la potenza comandare leggi per arricchire, quali in Roma furon l'agrarie de' Gracchi; onde provengono nello stesso tempo guerre civili in casa ed ingiuste fuori.

Questa degnità, per lo suo opposto, conferma per tutto il tempo innanzi de' Gracchi il romano eroismo.

XCIV

La natural libertà è più feroce quanto i beni più a' propi corpi son attaccati, e la civil servitù s'inceppa co' beni di fortuna non necessari alla vita.

Questa degnità, per la prima parte, è altro principio del natural eroismo de' primi popoli; per la seconda, ella è 'l principio naturale delle monarchie.

XCV

Gli uomini prima amano d'uscir di suggezione e disiderano ugualità: ecco le plebi nelle repubbliche aristocratiche, le quali finalmente cangiano in popolari; dipoi si sforzano superare gli uguali: ecco le plebi nelle repubbliche popolari, corrotte in repubbliche di potenti; finalmente vogliono mettersi sotto le leggi: ecco l'anarchie, o repubbliche popolari sfrenate, delle quali non si dà piggiore tirannide, dove tanti son i tiranni quanti sono gli audaci e dissoluti delle città. E quivi le plebi, fatte accorte da' propi mali, per truovarvi rimedio vanno a salvarsi sotto le monarchie; ch'è la legge regia naturale con la quale Tacito legittima la monarchia romana sotto di Augusto, "qui cuncta, bellis civilibus fessa, nomine "principis" sub imperium accepit".

XCVI

Dalla natia libertà eslege i nobili, quando sulle famiglie si composero le prime città, furono ritrosi ed a freno ed a peso: ecco le repubbliche aristocratiche nelle qual'i nobili son i signori; dappoi dalle plebi, cresciute in gran numero ed agguerrite, indutti a sofferire e leggi e pesi egualmente coi lor plebei: ecco i nobili nelle repubbliche popolari; finalmente, per aver salva la vita comoda, naturalmente inchinati alla suggezione d'un solo: ecco i nobili sotto le monarchie.

Queste due degnità con l'altre innanzi, dalla sessantesimasesta incominciando, sono i princìpi della storia ideal eterna la quale si è sopra detta.

XCVII

Si conceda ciò che ragion non offende, col dimandarsi che dopo il diluvio gli uomini prima abitarono sopra i monti, alquanto tempo appresso calarono alle pianure, dopo lunga età finalmente si assicurarono di condursi a' lidi del mare.

XCVIII

Appresso Strabone è un luogo d'oro di Platone, che dice, dopo i particolari diluvi ogigio e deucalionio, aver gli uomini abitato nelle grotte sui monti, e gli riconosce ne' Polifemi, ne' quali altrove rincontra i primi padri di famiglia del mondo; dipoi, sulle falde, e gli avvisa in Dardano che fabbricò Pergamo, che divenne poi la ròcca di Troia; finalmente, nelle pianure, e gli scorge in Ilo, dal quale Troia fu portata nel piano vicino al mare e fu detta Ilio.

XCIX

È pur antica tradizione che Tiro prima fu fondata entro terra, e dipoi portata nel lido del mar Fenicio; com'è certa istoria indi essere stata tragittata in un'isola ivi da presso, quindi da Alessandro Magno riattaccata al suo continente.

L'antecedente postulato e le due degnità che gli vanno appresso ne scuoprono che prima si fondarono le nazioni mediterranee, dappoi le marittime. E ne danno un grand'argomento che dimostra l'antichità del popolo ebreo, che da Noè si fondò nella Mesopotamia, ch'è la terra più mediterranea del primo mondo abitabile, e sì fu l'antichissima di tutte le nazioni. Lo che vien confermato perché ivi fondossi la prima monarchia, che fu quella degli assiri, sopra la gente caldea, dalla qual eran usciti i primi sappienti del mondo, de' quali fu principe Zoroaste.

C

Gli uomini non s'inducono ad abbandonar affatto le propie terre, che sono naturalmente care a' natii, che per ultime necessità della vita; o di lasciarle a tempo che o per l'ingordigia d'arricchire co' traffichi, o per gelosia di conservare gli acquisti.

Questa degnità è 'l principio delle trasmigrazioni de' popoli, fatte con le colonie eroiche marittime, con le innondazioni de' barbari (delle quali sole scrisse Wolfango Lazio), con le colonie romane ultime conosciute e con le colonie degli europei nell'Indie.

E questa stessa degnità ci dimostra che le razze perdute degli tre figliuoli di Noè dovettero andar in un error bestiale, perché, col fuggire le fiere (delle quali la gran selva della terra doveva pur troppo abbondare) e coll'inseguire le schive e ritrose donne (ch'in tale stato selvaggio dovevan essere sommamente ritrose e schive), e poi per cercare pascolo ed acqua, si ritruovassero dispersi per tutta la terra nel tempo che fulminò la prima volta il cielo dopo il diluvio: onde ogni nazione gentile cominciò da un suo Giove. Perché, se avessero durato nell'umanità come il popolo di Dio vi durò, si sarebbero, come quello, ristati nell'Asia, che, tra per la vastità di quella gran parte del mondo e per la scarsezza allora degli uomini, non avevano niuna necessaria cagione d'abbandonare, quando non è natural costume ch'i paesi natii s'abbandonino per capriccio.

CI

I fenici furono i primi navigatori del mondo antico.

CII

Le nazioni nella loro barbarie sono impenetrabili, che si debbono irrompere da fuori con le guerre, o da dentro spontaneamente aprire agli stranieri per l'utilità de' commerzi. Come Psammetico aprì l'Egitto a' greci dell'Ionia e della Caria, i quali, dopo i fenici, dovetter essere celebri nella negoziazione marittima; onde, per le grandi ricchezze, nell'Ionia si fondò il templo di Giunione samia e nella Caria si alzò il mausoleo d'Artemisia, che furono due delle sette maraviglie del mondo: la gloria della qual negoziazione restò a quelli di Rodi, nella bocca del cui porto ergerono il gran colosso del Sole, ch'entrò nel numero delle maraviglie suddette. Così il Chinese, per l'utilità de' commerzi, ha ultimamente aperto la China a' nostri europei.

Queste tre degnità ne danno il principio d'un altro etimologico delle voci d'origine certa straniera, diverso da quello sopra detto delle voci natie. Ne può altresì dare la storia di nazioni dopo altre nazioni portatesi con colonie in terre straniere: come Napoli si disse dapprima Sirena con voce siriaca - ch'è argomento che i siri, ovvero fenici, vi avessero menato prima di tutti una colonia per cagione di traffichi; - dopo si disse Partenope con voce eroica greca, e finalmente con lingua greca volgare si disse Napoli - che sono pruove che vi fussero appresso passati i greci per aprirvi società di negozi: - ove dovette provenire una lingua mescolata di fenicia e di greca, della quale, più che della greca pura, si dice Tiberio imperadore essersi dilettato. Appunto come ne' lidi di Taranto vi fu una colonia siriaca detta Siri, i cui abitatori erano chiamati "siriti", e poi da' greci fu detta Polieo, e ne fu appellata Minerva "poliade", che ivi aveva un suo templo.

Questa degnità altresì dà i princìpi di scienza all'argomento di che scrisse il Giambullari: che la lingua toscana sia d'origine siriaca. La quale non poté provenire che dagli più antichi fenici, che furono i primi navigatori del mondo antico, come poco sopra n'abbiamo proposto una degnità; perché, appresso, tal gloria fu de' greci della Caria e dell'Ionia, e restò per ultimo a' rodiani.

CIII

Si domanda ciò ch'è necessario concedersi: che nel lido del Lazio fusse stata menata alcuna greca colonia, che poi, da' romani vinta e distrutta, fusse restata seppellita nelle tenebre dell'antichità.

Se ciò non si concede, chiunque riflette e combina sopra l'antichità, è sbalordito dalla storia romana ove narra Ercole, Evandro, arcadi, frigi dentro del Lazio, Servio Tullio greco, Tarquinio Prisco figliuolo di Demarato corintio, Enea fondatore della gente romana. Certamente le lettere latine Tacito osserva somiglianti all'antiche greche, quando a' tempi di Servio Tullio, per giudizio di Livio, non poterono i romani nemmeno udire il famoso nome di Pittagora, ch'insegnava nella sua celebratissima scuola in Cotrone, e non incominciaron a conoscersi co' greci d'Italia che con l'occasione della guerra di Taranto, che portò appresso quella di Pirro co' greci oltramare.

CIV

È un detto degno di considerazione quello di Dion Cassio: che la consuetudine è simile al re e la legge al tiranno; che deesi intendere della consuetudine ragionevole e della legge non animata da ragion naturale.

Questa degnità dagli effetti diffinisce altresì la gran disputa: "se vi sia diritto in natura o sia egli nell'oppenione degli uomini", la qual è la stessa che la proposta nel corollario dell'VIII: "se la natura umana sia socievole". Perché, il diritto natural delle genti essendo stato ordinato dalla consuetudine (la qual Dione dice comandare da re con piacere), non ordinato con legge (che Dion dice comandare da tiranno con forza), perocché egli è nato con essi costumi umani usciti dalla natura comune delle nazioni (ch'è 'l subbietto adeguato di questa Scienza), e tal diritto conserva l'umana società; né essendovi cosa più naturale (perché non vi è cosa che piaccia più) che celebrare i naturali costumi: per tutto ciò la natura umana, dalla quale sono usciti tali costumi, ella è socievole.

Questa stessa degnità, con l'ottava e 'l di lei corollario, dimostra che l'uomo non è ingiusto per natura assolutamente, ma per natura caduta e debole. E 'n conseguenza dimostra il primo principio della cristiana religione, ch'è Adamo intiero, qual dovette nell'idea ottima essere stato criato da Dio. E quindi dimostra i catolici princìpi della grazia: ch'ella operi nell'uomo, ch'abbia la privazione, non la niegazione delle buon'opere, e sì ne abbia una potenza inefficace, e perciò sia efficace la grazia; che perciò non può stare senza il principio dell'arbitrio libero, il quale naturalmente è da Dio aiutato con la di lui provvedenza (come si è detto sopra, nel secondo corollario della medesima ottava), sulla quale la cristiana conviene con tutte l'altre religioni. Ch'era quello sopra di che Grozio, Seldeno, Pufendorfio dovevano, innanzi ogni altra cosa, fondar i loro sistemi e convenire coi romani giureconsulti, che diffiniscono il diritto natural delle genti essere stato dalla divina provvedenza ordinato.

CV

Il diritto natural delle genti è uscito coi costumi delle nazioni, tra loro conformi in un senso comune umano, senza alcuna riflessione e senza prender essemplo l'una dall'altra.

Questa degnità, col detto di Dione riferito nell'antecedente, stabilisce la provvedenza essere l'ordinatrice del diritto natural delle genti, perch'ella è la regina delle faccende degli uomini.

Questa stessa stabilisce la differenza del diritto natural degli ebrei, del diritto natural delle genti e diritto natural de' filosofi. Perché le genti n'ebbero i soli ordinari aiuti dalla provvedenza; gli ebrei n'ebbero anco aiuti estraordinari dal vero Dio, per lo che tutto il mondo delle nazioni era da essi diviso tra ebrei e genti; e i filosofi il ragionano più perfetto di quello che 'l costuman le genti, i quali non vennero che da un duemila anni dopo essersi fondate le genti. Per tutte le quali tre differenze non osservate, debbon cadere gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio.

CVI

Le dottrine debbono cominciare da quando cominciano le materie che trattano.

Questa degnità, allogata qui per la particolar materia del diritto natural delle genti, ella è universalmente usata in tutte le materie che qui si trattano; ond'era da proporsi tralle degnità generali: ma si è posta qui, perché in questa più che in ogni altra particolar materia fa vedere la sua verità e l'importanza di farne uso.

CVII

Le genti cominciarono prima delle città, e sono quelle che da' latini si dissero "gentes maiores", o sia case nobili antiche, come quelle de' padri de' quali Romolo compose il senato e, col senato, la romana città: come, al contrario, si dissero "gentes minores" le case nobili nuove fondate dopo le città, come furono quelle de' padri de' quali Giunio Bruto, cacciati gli re, riempiè il senato, quasi esausto per le morti de' senatori fatti morire da Tarquinio Superbo.

CVIII

Tale fu la divisione degli dèi: tra quelli delle genti maggiori, ovvero dèi consagrati dalle famiglie innanzi delle città, - i quali appo i greci e latini certamente (e qui pruoverassi appo i primi assiri ovvero caldei, fenici, egizi) furono dodici (il qual novero fu tanto famoso tra i greci che l'intendevano con la sola parola dódeka), e vanno confusamente raccolti in un distico latino riferito ne' Princìpi del Diritto universale; i quali però qui, nel libro secondo, con una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi naturalmente fatta nelle menti de' greci, usciranno così ordinati: Giove, Giunone; Diana, Apollo; Vulcano, Saturno, Vesta; Marte, Venere; Minerva, Mercurio; Nettunno; - e gli dèi delle genti minori, ovvero dèi consegrati appresso dai popoli, come Romolo, il qual, morto, il popolo romano appellò dio Quirino.

Per queste tre degnità, gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio mancano ne loro princìpi, ch'incominciano dalle nazioni guardate tra loro nella società di tutto il gener umano, il quale, appo tutte le prime nazioni, come sarà qui dimostrato, cominciò dal tempo delle famiglie, sotto gli dèi delle genti dette "maggiori".

CIX

Gli uomini di corte idee stimano diritto quanto si è spiegato con le parole.

CX

È aurea la diffinizione ch'Ulpiano assegna dell'equità civile: ch'ella è "probabilis quædam ratio, non omnibus hominibus naturaliter cognita (com'è l'equità naturale), sed paucis tantum, qui, prudentia, usu, doctrina præditi, didicerunt quæ ad societatis humanæ conservationem sunt necessaria". La quale in bell'italiano si chiama "ragion di Stato".

CXI

Il certo delle leggi è un'oscurezza della ragione unicamente sostenuta dall'autorità, che le ci fa sperimentare dure nel praticarle, e siamo necessitati praticarle per lo di lor "certo", che in buon latino significa "particolarizzato" o, come le scuole dicono, "individuato"; nel qual senso "certum" e "commune", con troppa latina eleganza, son opposti tra loro.

Questa degnità, con le due seguenti diffinizioni, costituiscono il principio della ragion stretta, della qual è regola l'equità civile, al cui certo, o sia alla determinata particolarità delle cui parole, i barbari, d'idee particolari, naturalmente s'acquetano, e tale stimano il diritto che lor si debba. Onde ciò che in tali casi Ulpiano dice: "lex dura est, sed scripta est", tu diresti, con più bellezza latina e con maggior eleganza legale: "lex dura est, sed certa est".

CXII

Gli uomini intelligenti stimano diritto tutto ciò che detta essa uguale utilità delle cause.

CXIII

Il vero delle leggi è un certo lume e splendore di che ne illumina la ragion naturale; onde spesso i giureconsulti usan dire "verum est" per "æquum est".

Questa diffinizione come la centoundecimo sono proposizioni particolari per far le pruove nella particolar materia del diritto natural delle genti, uscite dalle due generali, nona e decima, che trattano del vero e del certo generalmente, per far le conchiusioni in tutte le materie che qui si trattano.

CXIV

L'equità naturale della ragion umana tutta spiegata è una pratica della sapienza nelle faccende dell'utilità, poiché "sapienza", nell'ampiezza sua, altro non è che scienza di far uso delle cose qual esse hanno in natura.

Questa degnità con l'altre due seguenti diffinizioni costituiscono il principio della ragion benigna, regolata dall'equità naturale, la qual è connaturale alle nazioni ingentilite; dalla quale scuola pubblica si dimostrerà esser usciti i filosofi.

Tutte queste sei ultime proposizioni fermano che la provvedenza fu l'ordinatrice del diritto natural delle genti, la qual permise che, poiché per lunga scorsa di secoli le nazioni avevano a vivere incapaci del vero e dell'equità naturale (la quale più rischiararono, appresso, i filosofi), esse si attenessero al certo ed all'equità civile, che scrupolosamente custodisce le parole degli ordini e delle leggi, e da queste fussero portate ad osservarle generalmente anco ne' casi che riuscissero dure, perché si serbassero le nazioni.

E queste istesse sei proposizioni, sconosciute dagli tre principi della dottrina del diritto natural delle genti, fecero ch'essi, tutti e tre, errassero di concerto nello stabilirne i loro sistemi; perc'han creduto che l'equità naturale nella sua idea ottima fusse stata intesa dalle nazioni gentili fin da' loro primi incominciamenti, senza riflettere che vi volle da un duemila anni perché in alcuna fussero provenuti i filosofi, e senza privilegiarvi un popolo con particolarità assistito dal vero Dio.

III

DE' PRINCÌPI.

Ora, per fare sperienza se le proposizioni noverate finora per elementi di questa Scienza debbano dare la forma alle materie apparecchiate nel principio sulla Tavola cronologica, preghiamo il leggitore che rifletta a quanto si è scritto d'intorno a' princìpi di qualunque materia di tutto lo scibile divino ed umano della gentilità, e combini se egli faccia sconcezza con esse proposizioni, o tutte o più o una; perché tanto si è con una quanto sarebbe con tutte, perché ogniuna di quelle fa acconcezza con tutte. Ché certamente egli, faccendo cotal confronto, s'accorgerà che sono tutti luoghi di confusa memoria, tutte immagini di mal regolata fantasia, e niun essere parto d'intendimento, il qual è stato trattenuto ozioso dalle due borie che nelle Degnità noverammo. Laonde, perché la boria delle nazioni, d'essere stata ogniuna la prima del mondo, ci disanima di ritruovare i princìpi di questa Scienza da' filologi; altronde la boria de' dotti, i quali vogliono ciò ch'essi sanno essere stato eminentemente inteso fin dal principio del mondo, ci dispera di ritruovargli da' filosofi: quindi, per questa ricerca, si dee far conto come se non vi fussero libri nel mondo.

Ma, in tal densa notte di tenebre ond'è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio; che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l'avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. Il quale stravagante effetto è provenuto da quella miseria, la qual avvertimmo nelle Degnità, della mente umana, la quale, restata immersa e seppellita nel corpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del corpo e dee usare troppo sforzo e fatiga per intendere se medesima, come l'occhio corporale che vede tutti gli obbietti fuori di sé ed ha dello specchio bisogno per vedere se stesso.

Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universali ed eterni, quali devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni.

Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture. Ché, per la degnità che "idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero", dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità, e per ciò si debbano santissimamente custodire da tutte perché 'l mondo non s'infierisca e si rinselvi di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali per tre primi princìpi di questa Scienza.

Né ci accusino di falso il primo i moderni viaggiatori, i quali narrano che popoli del Brasile, di Cafra ed altre nazioni del mondo nuovo (e Antonio Arnaldo crede lo stesso degli abitatori dell'isole chiamate Antille) vivano in società senza alcuna cognizione di Dio; da' quali forse persuaso, Bayle afferma nel Trattato delle comete che possano i popoli senza lume di Dio vivere con giustizia; che tanto non osò affermare Polibio, al cui detto da taluni s'acclama: che, se fussero al mondo filosofi, che 'n forza della ragione non delle leggi vivessero con giustizia, al mondo non farebbero uopo religioni. Queste sono novelle di viaggiatori, che proccurano smaltimento a' lor libri con mostruosi ragguagli. Certamente Andrea Rudigero nella sua Fisica magnificamente intitolata divina, che vuole che sia l'unica via di mezzo tra l'ateismo e la superstizione, egli da' censori dell'università di Genevra (nella qual repubblica, come libera popolare, dee essere alquanto più di libertà nello scrivere) è di tal sentimento gravemente notato che "'l dica con troppo di sicurezza", ch'è lo stesso dire che con non poco d'audacia. Perché tutte le nazioni credono in una divinità provvedente, onde quattro e non più si hanno potuto truovare religioni primarie per tutta la scorsa de' tempi e per tutta l'ampiezza di questo mondo civile: una degli ebrei, e quindi altra de' cristiani, che credono nella divinità d'una mente infinita libera; la terza de' gentili, che la credono di più dèi, immaginati composti di corpo e di mente libera, onde, quando vogliono significare la divinità che regge e conserva il mondo, dicono "deos immortales"; la quarta ed ultima de' maomettani, che la credono d'un dio infinita mente libera in un infinito corpo, perché aspettano piaceri de' sensi per premi nell'altra vita.

Niuna credette in un dio tutto corpo o pure in un dio tutto mente la quale non fusse libera. Quindi né gli epicurei, che non danno altro che corpo e, col corpo, il caso, né gli stoici, che danno Dio in infinito corpo infinita mente soggetta al fato (che sarebbero per tal parte gli spinosisti), poterono ragionare di repubblica né di leggi, e Benedetto Spinosa parla di repubblica come d'una società che fusse di mercadanti. Per lo che aveva la ragion Cicerone, il qual ad Attico, perch'egli era epicureo, diceva non poter esso con lui ragionar delle leggi, se quello non gli avesse conceduto che vi sia provvedenza divina. Tanto le due sètte stoica ed epicurea sono comportevoli con la romana giurisprudenza, la quale pone la provvedenza divina per principal suo principio!

L'oppenione poi ch'i concubiti, certi di fatto, d'uomini liberi con femmine libere senza solennità di matrimoni non contengano niuna naturale malizia, ella da tutte le nazioni del mondo è ripresa di falso con essi costumi umani, co' quali tutte religiosamente celebrano i matrimoni e con essi diffiniscono che, 'n grado benché rimesso, sia tal peccato di bestia. Perciocché, quanto è per tali genitori, non tenendogli congionti niun vincolo necessario di legge, essi vanno a disperdere i loro figliuoli naturali, i quali, potendosi i loro genitori ad ogni ora dividere, eglino, abbandonati da entrambi, deono giacer esposti per esser divorati da' cani; e, se l'umanità o pubblica o privata non gli allevasse, dovrebbero crescere senza avere chi insegnasse loro religione, né lingua, né altro umano costume. Onde, quanto è per essi, di questo mondo di nazioni, di tante belle arti dell'umanità arricchito ed adorno, vanno a fare la grande antichissima selva per entro a cui divagavano con nefario ferino errore le brutte fiere d'Orfeo, delle qual'i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole usavano la venere bestiale. Ch'è l'infame nefas del mondo eslege, che Socrate con ragioni fisiche poco propie voleva pruovare esser vietato dalla natura, essendo egli vietato dalla natura umana, perché tali concubiti appo tutte le nazioni sono naturalmente abborriti, né da talune furono praticati che nell'ultima loro corrozione, come da' persiani.

Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini uno stato ferino nel quale restino inseppolti i cadaveri umani sopra la terra ad esser ésca de' corvi e cani; ché certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonché disabitate le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, còlte dentro il marciume de' loro morti congionti. Onde a gran ragione le seppolture con quella espressione sublime "foedera generis humani" ci furono diffinite e, con minor grandezza, "humanitatis commercia" ci furono descritte da Tacito. Oltrecché, questo è un placito nel quale certamente son convenute tutte le nazioni gentili: che l'anime restassero sopra la terra inquiete ed andassero errando intorno a' loro corpi inseppolti, e 'n conseguenza che non muoiano co' loro corpi, ma che sieno immortali. E che tale consentimento fusse ancora stato dell'antiche barbare, ce ne convincono i popoli di Guinea, come attesta Ugone Linschotano; di quei del Perù e del Messico, Acosta, De indicis; degli abitatori della Virginia, Tommaso Ariot; di quelli della Nuova Inghilterra, Riccardo Waitbornio; di quelli del regno di Sciam, Giuseffo Scultenio. Laonde Seneca conchiude: "Quum de immortalitate loquimur non leve momentum apud nos habet consensus hominum aut timentium inferos aut colentium: hac persuasione publica utor".

IV

DEL METODO.

Per lo intiero stabilimento de' princìpi, i quali si sono presi di questa Scienza, ci rimane in questo primo libro di ragionare del metodo che debbe ella usare. Perché dovendo ella cominciare donde ne incominciò la materia, siccome si è proposto nelle Degnità, e sì avendo noi a ripeterla, per gli filologi, dalle pietre di Deucalione e Pirra, da' sassi d'Anfione, dagli uomini nati o da' solchi di Cadmo o dalla dura rovere di Virgilio e, per gli filosofi, dalle ranocchie d'Epicuro, dalle cicale di Obbes, da' semplicioni di Grozio, da' gittati in questo mondo senza niuna cura o aiuto di Dio di Pufendorfio, goffi e fieri quanto i giganti detti "los patacones", che dicono ritrovarsi presso lo stretto di Magaglianes, cioè da' polifemi d'Omero, ne' quali Platone riconosce i primi padri nello stato delle famiglie (questa scienza ci han dato de' princìpi dell'umanità così i filologi come i filosofi!); - e dovendo noi incominciar a ragionarne da che quelli incominciaron a umanamente pensare; - e, nella loro immane fierezza e sfrenata libertà bestiale, non essendovi altro mezzo, per addimesticar quella ed infrenar questa, ch'uno spaventoso pensiero d'una qualche divinità, il cui timore, come si è detto nelle Degnità, è 'l solo potente mezzo di ridurre in ufizio una libertà inferocita: - per rinvenire la guisa di tal primo pensiero umano nato nel mondo della gentilità, incontrammo l'aspre difficultà che ci han costo la ricerca di ben venti anni, e [dovemmo] discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani, le quali ci è affatto niegato d'immaginare e solamente a gran pena ci è permesso d'intendere.

Per tutto ciò dobbiamo cominciare da una qualche cognizione di Dio, della quale non sieno privi gli uomini, quantunque selvaggi, fieri ed immani. Tal cognizione dimostriamo esser questa: che l'uomo, caduto nella disperazione di tutti i soccorsi della natura, disidera una cosa superiore che lo salvasse. Ma cosa superiore alla natura è Iddio, e questo è il lume ch'Iddio ha sparso sopra tutti gli uomini. Ciò si conferma con questo comune costume umano: che gli uomini libertini, invecchiando, perché si sentono mancare le forze naturali, divengono naturalmente religiosi.

Ma tali primi uomini, che furono poi i principi delle nazioni gentili, dovevano pensare a forti spinte di violentissime passioni, ch'è il pensare da bestie. Quindi dobbiamo andare da una volgar metafisica (la quale si è avvisata nelle Degnità, e truoveremo che fu la teologia de' poeti), e da quelle ripetere il pensiero spaventoso d'una qualche divinità, ch'alle passioni bestiali di tal'uomini perduti pose modo e misura e le rendé passioni umane. Da cotal pensiero dovette nascere il conato, il qual è propio dell'umana volontà, di tener in freno i moti impressi alla mente dal corpo, per o affatto acquetargli, ch'è dell'uomo sappiente, o almeno dar loro altra direzione ad usi migliori, ch'è dell'uomo civile. Questo infrenar il moto de' corpi certamente egli è un effetto della libertà dell'umano arbitrio, e sì della libera volontà, la qual è domicilio e stanza di tutte le virtù e, tralle altre, della giustizia, da cui informata la volontà è 'l subbietto di tutto il giusto e di tutti i diritti che sono dettati dal giusto.

Perché dar conato a' corpi tanto è quanto dar loro libertà di regolar i lor moti, quando i corpi tutti sono agenti necessari in natura; e que' ch'i meccanici dicono "potenze", "forze", "conati" sono moti insensibili d'essi corpi, co' quali essi o s'appressano, come volle la meccanica antica, a' loro centri di gravità, o s'allontanano, come vuole la meccanica nuova, da' loro centri del moto.

Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, essendo tiranneggiati dall'amor propio, per lo quale non sieguono principalmente che la propia utilità; onde eglino, volendo tutto l'utile per sé e niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per indirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l'uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gl'imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l'uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l'utilità propia. Adunque, non da altri che dalla provvedenza divina deve esser tenuto dentro tali ordini a celebrare con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l'umana società; per gli quali ordini, non potendo l'uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò che dee dell'utilità: ch'è quel che dicesi "giusto". Onde quella che regola tutto il giusto degli uomini è la giustizia divina, la quale ci è ministrata dalla divina provvedenza per conservare l'umana società.

Perciò questa Scienza, per uno de' suoi principali aspetti, dev'essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina. La quale sembra aver mancato finora, perché i filosofi o l'hanno sconosciuta affatto, come gli stoici e gli epicurei, de' quali questi dicono che un concorso cieco d'atomi agita, quelli che una sorda catena di cagioni e d'effetti strascina le faccende degli uomini; o l'hanno considerata solamente sull'ordine delle naturali cose, onde "teologia naturale" essi chiamano la metafisica, nella quale contemplano questo attributo di Dio, e 'l confermano con l'ordine fisico che si osserva ne' moti de' corpi, come delle sfere, degli elementi, e nella cagion finale sopra l'altre naturali cose minori osservata. E pure sull'iconomia delle cose civili essi ne dovevano ragionare con tutta la propietà della voce, con la quale la provvedenza fu appellata "divinità" da "divinari", "indovinare", ovvero intendere o 'l nascosto agli uomini, ch'è l'avvenire, o 'l nascosto degli uomini, ch'è la coscienza; ed è quella che propiamente occupa la prima e principal parte del subbietto della giurisprudenza, che son le cose divine, dalle quali dipende l'altra che 'l compie, che sono le cose umane. Laonde cotale Scienza dee essere una dimostrazione, per così dire, di fatto istorico della provvedenza, perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del gener umano, ché, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e particolare, però gli ordini ch'ella v'ha posto sono universali ed eterni. Per tutto ciò, entro la contemplazione di essa provvedenza infinita ed eterna questa Scienza ritruova certe divine pruove, con le quali si conferma e dimostra. Impercioché la provvedenza divina, avendo per sua ministra l'onnipotenza, vi debbe spiegar i suoi ordini per vie tanto facili quanto sono i naturali costumi umani; perc'ha per consigliera la sapienza infinita, quanto vi dispone debbe essere tutto ordine; perc'ha per suo fine la sua stessa immensa bontà, quanto vi ordina debb'esser indiritto a un bene sempre superiore a quello che si han proposto essi uomini.

Per tutto ciò, nella deplorata oscurità de' princìpi e nell'innumerabile varietà de' costumi delle nazioni, sopra un argomento divino che contiene tutte le cose umane, qui pruove non si possono più sublimi disiderare che queste istesse che ci daranno la naturalezza, l'ordine e 'l fine, ch'è essa conservazione del gener umano. Le quali pruove vi riusciranno luminose e distinte, ove rifletteremo con quanta facilità le cose nascono ed a quali occasioni, che spesso da lontanissime parti, e talvolta tutte contrarie ai proponimenti degli uomini, vengono e vi si adagiano da se stesse; e tali pruove ne somministra l'onnipotenza. Combinarle e vederne l'ordine, a quali tempi e luoghi loro propi nascono le cose ora, che vi debbono nascer ora, e l'altre si differiscono nascer ne' tempi e ne' luoghi loro, nello che, all'avviso d'Orazio, consiste tutta la bellezza dell'ordine; e tali pruove ci apparecchia l'eterna sapienza. E finalmente considerare se siam capaci d'intendere se, a quelle occasioni, luoghi e tempi, potevano nascere altri benefìci divini, co' quali, in tali o tali bisogni o malori degli uomini, si poteva condurre meglio a bene e conservare l'umana società; e tali pruove ne darà l'eterna bontà di Dio.

Onde la propia continua pruova che qui farassi sarà il combinar e riflettere se la nostra mente umana, nella serie de' possibili la quale ci è permesso d'intendere, e per quanto ce n'è permesso, possa pensare o più o meno o altre cagioni di quelle ond'escono gli effetti di questo mondo civile. Lo che faccendo, il leggitore pruoverà un divin piacere, in questo corpo mortale, di contemplare nelle divine idee questo mondo di nazioni per tutta la distesa de' loro luoghi, tempi e varietà; e truoverassi aver convinto di fatto gli epicurei che 'l loro caso non può pazzamente divagare e farsi per ogni parte l'uscita, e gli stoici che la loro catena eterna delle cagioni, con la qual vogliono avvinto il mondo, ella penda dall'onnipotente, saggia e benigna volontà dell'Ottimo Massimo Dio.

Queste sublimi pruove teologiche naturali ci saran confermate con le seguenti spezie di pruove logiche: che, nel ragionare dell'origini delle cose divine ed umane della gentilità, se ne giugne a que' primi oltre i quali è stolta curiosità di domandar altri primi, ch'è la propia caratteristica de' princìpi; se ne spiegano le particolari guise del loro nascimento, che si appella "natura", ch'è la nota propissima della scienza; e finalmente si confermano con l'eterne propietà che conservano, le quali non posson altronde esser nate che da tali e non altri nascimenti, in tali tempi, luoghi e con tali guise, o sia da tali nature, come se ne sono proposte sopra due Degnità.

Per andar a truovare tali nature di cose umane procede questa Scienza con una severa analisi de' pensieri umani d'intorno all'umane necessità o utilità della vita socievole, che sono i due fonti perenni del diritto natural delle genti, come pure nelle Degnità si è avvisato. Onde, per quest'altro principale suo aspetto, questa Scienza è una storia dell'umane idee, sulla quale sembra dover procedere la metafisica della mente umana; la qual regina delle scienze, per la Degnità che "le scienze debbono incominciare da che n'incominciò la materia", cominciò d'allora ch'i primi uomini cominciarono a umanamente pensare, non già da quando i filosofi cominciaron a riflettere sopra l'umane idee (come ultimamente n'è uscito alla luce un libricciuolo erudito e dotto col titolo Historia de ideis, che si conduce fin all'ultime controversie che ne hanno avuto i due primi ingegni di questa età, il Leibnizio e 'l Newtone).

E per determinar i tempi e i luoghi a sì fatta istoria, cioè quando e dove essi umani pensieri nacquero, e sì accertarla con due sue propie cronologia e geografia, per dir così, metafisiche, questa Scienza usa un'arte critica, pur metafisica, sopra gli autori d'esse medesime nazioni, tralle quali debbono correre assai più di mille anni per potervi provenir gli scrittori, sopra i quali la critica filologica si è finor occupata. E 'l criterio di che si serve, per una Degnità sovraposta, è quello, insegnato dalla provvedenza divina, comune a tutte le nazioni; ch'è il senso comune d'esso gener umano, determinato dalla necessaria convenevolezza delle medesime umane cose, che fa tutta la bellezza di questo mondo civile. Quindi regna in questa Scienza questa spezie di pruove: che tali dovettero, debbono e dovranno andare le cose delle nazioni quali da questa Scienza son ragionate, posti tali ordini dalla provvedenza divina, fusse anco che dall'eternità nascessero di tempo in tempo mondi infiniti; lo che certamente è falso di fatto.

Onde questa Scienza viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna, sopra la quale corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. Anzi ci avvanziamo ad affermare ch'in tanto chi medita questa Scienza egli narri a se stesso questa storia ideal eterna, in quanto - essendo questo mondo di nazioni stato certamente fatto dagli uomini (ch'è 'l primo principio indubitato che se n'è posto qui sopra), e perciò dovendosene ritruovare la guisa dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana - egli, in quella pruova "dovette, deve, dovrà", esso stesso sel faccia; perché, ove avvenga che chi fa le cose esso stesso le narri, ivi non può essere più certa l'istoria. Così questa Scienza procede appunto come la geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il costruisce o 'l contempla, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze; ma con tanto più di realità quanta più ne hanno gli ordini d'intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie e figure. E questo istesso è argomento che tali pruove sieno d'una spezie divina e che debbano, o leggitore, arrecarti un divin piacere, perocché in Dio il conoscer e 'l fare è una medesima cosa.

Oltracciò, quando, per le diffinizioni del vero e del certo sopra proposte, gli uomini per lunga età non poteron esser capaci del vero e della ragione, ch'è 'l fonte della giustizia interna, della quale si soddisfano gl'intelletti - la qual fu praticata dagli ebrei, ch'illuminati dal vero Dio erano proibiti dalla di lui divina legge di far anco pensieri meno che giusti, de' quali niuno di tutti i legislatori mortali mai s'impacciò (perché gli ebrei credevano in un Dio tutto mente che spia nel cuor degli uomini, e i gentili credevano negli dèi composti di corpi e mente che nol potevano); e fu poi ragionata da' filosofi, i quali non provennero che duemila anni dopo essersi le loro nazioni fondate; - frattanto si governassero col certo dell'autorità, cioè con lo stesso criterio ch'usa questa critica metafisica, il qual è 'l senso comune d'esso gener umano (di cui si è la diffinizione sopra, negli Elementi, proposta), sopra il quale riposano le coscienze di tutte le nazioni. Talché, per quest'altro principale riguardo, questa Scienza vien ad essere una filosofia dell'autorità, ch'è 'l fonte della "giustizia esterna" che dicono i morali teologi. Della qual autorità dovevano tener conto gli tre principi della dottrina d'intorno al diritto natural delle genti, e non di quella tratta da' luoghi degli scrittori; della quale niuna contezza aver poterono gli scrittori, perché tal autorità regnò tralle nazioni assai più di mille anni innanzi di potervi provenir gli scrittori. Onde Grozio, più degli altri due come dotto così erudito, quasi in ogni particolar materia di tal dottrina combatte i romani giureconsulti; ma i colpi tutti cadono a vuoto, perché quelli stabilirono i loro princìpi del giusto sopra il certo dell'autorità del gener umano, non sopra l'autorità degli addottrinati.

Queste sono le pruove filosofiche ch'userà questa Scienza, e 'n conseguenza quelle che per conseguirla son assolutamente necessarie. Le filologiche vi debbono tenere l'ultimo luogo, le quali tutte a questi generi si riducono.

Primo, che sulle cose le quali si meditano vi convengono le nostre mitologie, non isforzate e contorte, ma diritte, facili e naturali, che si vedranno essere istorie civili de' primi popoli, i quali si truovano dappertutto essere stati naturalmente poeti.

Secondo, vi convengono le frasi eroiche, che vi si spiegano con tutta la verità de' sentimenti e tutta la propietà dell'espressioni.

Terzo, che vi convengono l'etimologie delle lingue natie, che ne narrano le storie delle cose ch'esse voci significano, incominciando dalla propietà delle lor origini e prosieguendone i naturali progressi de' lor trasporti secondo l'ordine dell'idee, sul quale dee procedere la storia delle lingue, come nelle Degnità sta premesso.

Quarto, vi si spiega il vocabolario mentale delle cose umane socievoli, sentite le stesse in sostanza da tutte le nazioni e per le diverse modificazioni spiegate con lingue diversamente, quale si è nelle Degnità divisato.

Quinto, vi si vaglia dal falso il vero in tutto ciò che per lungo tratto di secoli ce ne hanno custodito le volgari tradizioni, le quali, perocché sonosi per sì lunga età e da intieri popoli custodite, per una Degnità sopraposta debbon avere avuto un pubblico fondamento di vero.

Sesto, i grandi frantumi dell'antichità, inutili finor alla scienza perché erano giaciuti squallidi, tronchi e slogati, arrecano de' grandi lumi, tersi, composti ed allogati ne' luoghi loro.

Settimo ed ultimo, sopra tutte queste cose, come loro necessarie cagioni, vi reggono tutti gli effetti i quali ci narra la storia certa.

Le quali pruove filologiche servono per farci vedere di fatto le cose meditate in idea d'intorno a questo mondo di nazioni, secondo il metodo di filosofare del Verulamio, ch'è "cogitare videre"; ond'è che, per le pruove filosofiche innanzi fatte, le filologiche, le quali succedono appresso, vengono nello stesso tempo e ad aver confermata l'autorità loro con la ragione ed a confermare la ragione con la loro autorità.

Conchiudiamo tutto ciò che generalmente si è divisato d'intorno allo stabilimento de' princìpi di questa Scienza: che, poiché i di lei princìpi sono provvedenza divina, moderazione di passioni co' matrimoni e immortalità dell'anime umane con le seppolture; e 'l criterio che usa è che ciò che si sente giusto da tutti o la maggior parte degli uomini debba essere la regola della vita socievole (ne' quali princìpi e criterio conviene la sapienza volgare di tutti i legislatori e la sapienza riposta degli più riputati filosofi): questi deon esser i confini dell'umana ragione. E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l'umanità.

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 22.34.05

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