STORIA DI CINQUECENTO VANESSE |
[Come dal germe] |
Come dal germe ai suoi perfetti giorni |
giunga una schiera di Vanesse; quali |
speranze buone e quali fantasie |
la crëatura per volar su nata |
susciti in cuore di colui che sogna |
col suo lento mutare e trasmutare, |
la maraviglia delle opposte maschere, |
la varia grazia delle varie specie, |
in versi canterò... Non vi par egli, |
non vi par egli d'essere in Arcadia? |
Dolce Parrasio! Dileguati giorni |
dell'Accademia, quando il Mascheroni |
con sottile argomento di metalli |
le risentite rane interrogava. |
Le querule presaghe della pioggia |
(altro presagio al secolo vicino!) |
stavano tronche il collo. Con sagace |
man le immolava vittime a Minerva |
su l'ara del saper l'abate illustre, |
e se all'argentea benda altra di stagno |
dalle vicine carni al lembo estremo |
appressava, le vittime risorte |
vibravan tutte con tremor frequente. |
L'orobia pastorella impallidiva |
sotto le fresche rose del belletto, |
meravigliando alla virtù che cieca |
passa per interposti umidi tratti |
dal vile stagno al ricco argento e torna |
da questo a quello con perenne giro. |
Di sua perplessità - dubito forte - |
si giovava l'abate bergamasco |
per cingere lo snello guardinfante |
e baciare furtivo (auspice Volta!) |
tra l'orecchio e la vasta chioma nivea |
la dotta pastorella sbigottita. |
Ma voi, sorella, non temete agguati |
dal fratello salvatico in odore |
di santità? Con certo ritüale |
arcadico (per gioco!) e bello stile |
(per gioco!) altosonante, come s'offre |
nova un'essenza in un cristallo arcaico, |
queste pagine v'offro, ove s'aduna |
non la galanteria settecentesca, |
ma il superstite amore adolescente |
per l'animato fiore senza stelo; |
offro al vostro tormento il mio tormento, |
vano spasimo oscuro d'esser vivi, |
a voi di me più tormentata, a voi |
che la sete d'esistere conduce |
per sempre false imagini di bene. |
Forse lo stanco spirito moderno |
altro bene non ha che rifugiarsi |
in poche forme prime, interrogando, |
meditando, adorando; altra salute |
non ha che nella cerchia disegnata |
intorno dall'assenza volontaria, |
come la cerchia disegnata in terra |
dal ramoscello dell'incantatore: |
magico segno che respinge tutte |
e le lusinghe e le insensate cure; |
solo rifugio dove il cuore spento |
vibri fraterno e riconosca l'Uomo, |
ché più non vede l'esemplare astratto, |
ma la specie universa eletta al regno |
del mondo. E come il Dio d'antichi tempi |
appariva all'asceta d'altri tempi, |
così l'asceta d'oggi senza Dio |
sente nel cuor pacificato un bene |
sommo, una grazia nova illuminante, |
lo Spirito immanente, l'acqua viva, |
e si disseta più che alle sorgenti |
che mai non troverete, o sitibonda... |
Queste, che dico, dissi a voi parole |
or è già molto, camminando a paro |
per una landa sconsolata e voi, |
mal soffrendo il velen dell'argomento, |
con la mano inguantata il ciuffo a sommo |
coglieste d'un'ortica e mi premeste |
sulla gota la fronda folgorante, |
tortuosamente. Non mi punse quella |
che più forte s'accosta e men ci punge; |
e nel gesto passare vidi un cumulo |
minuscolo di germi di Vanesse |
sulla villosa nervatura e forse |
dal vostro gesto, ancor agropungente, |
nato è il poema, poi che sul mistero |
del piccolo tesoro accumulato, |
già in quell'istante, con parole sciolte |
taluna esposi delle meraviglie |
che più tardi nel mio silenzio attento |
passo passo tentai chiudere in versi. |
|
Dei bruchi |
Redimita di fronde agropungenti - |
ahi! non d'alloro - la mia Musa canta. |
Alti cespi d'ortica alzano intorno |
alle mie carte un cerchio folgorante, |
mensa ed albergo ai numerosi alunni. |
Dalle schiuse finestre entra l'Estate; |
brilla sui campi, sul tripudio verde, |
puro l'abisso cerulo del cielo. |
A me dintorno un crepitìo di pioggia |
fanno le lime assidue infinite |
degli alunni famelici. Da tempo |
convivo solo, con la mia brigata. |
Animarsi dal cumulo dei semi |
li vidi quasi miglio germinante, |
piccoli, inermi, sotto tende lievi, |
in groppo avvinti, trarre i giorni primi. |
Volsero i giorni, crebbero gli alunni; |
per ben tre volte usciti di se stessi |
tre volte tanto apparvero voraci. |
Or fatti pesi, flettono le cime |
della mia selva, ammantano le foglie |
con loro mole fosca, irta di punte. |
Inorridite? Nulla v'ha d'orrendo |
per chi fissa le linee le tinte |
con occhi nuovi, sempre bene aperti. |
Meditiamo i villosi prigionieri |
senza ribrezzo, con pietà fors'anco, |
se pietà di lor vita oscura e prona |
non dileguasse la speranza certa: |
il guiderdone del risveglio alato. |
Tratto ad inganno un bruco, ecco, abbandona |
l'ospiti foglie, segue la mia mano: |
considerate senza abbrividire |
quanta pose Natura intorno a lui, |
dotta nei suoi lavori, intima cura! |
E quanti occhi gli diede a che d'intorno |
scorger potesse in ogni dove e quante |
ha per muoversi zampe e varie: alcune |
squammose adunche forti, zampe vere |
della farfalla apparitura: alcune |
brevi aderenti flaccide contrattili: |
atte al passo del bruco sulle foglie, |
come ginnasta bene assicurato. |
Mirabile è la bocca, ordigno armato |
d'acute lime in gemina ordinanza. |
Concavo un labbro chiude nell'incavo |
il margine fogliare che due salde |
mandibole con moto orrizzontale |
tagliano a scatto, in guisa di cesoja. |
Sotto queste maggiori altre minori |
mandibole triturano le fibre, |
quattro palpi n'adunano il tritume; |
tra quelli e queste un foro sericìparo |
svolge all'aria un sottil filo di seta. |
Ma piaccia a voi questo cristallo terso |
all'occhio intento sottoporre, mentre |
con lama breve, dentro chiara coppa, |
la necessaria vittima divido. |
Come in un bosco l'intrecciata massa |
di rami e ramuscei fende le nubi, |
così, ma con più bello ordin, vedete |
quale per lungo dell'aperto dorso |
va di tremila muscoli la selva: |
ecco il sangue che scorre i molti vasi |
di rete in guisa da Natura orditi |
e le vie mirabili dell'aria |
ad ogni nodo rinnovate e il cuore |
come collana multipla che pulsa |
del corpo in ogni dove e i molti ventri |
e del dorso la spina in tanti nodi |
divisa e l'ammirabile del capo |
figura interïor eccovi aperta. |
Questo - benché più delicato ordigno |
offra il bombice industre - è il laberinto |
misterïoso della seta fusa. |
Discende il vaso dall'estrema bocca, |
come fiume che va, poi si biparte; |
dall'una e l'altra banda i rami pari |
s'avvolgono ai precordi intimi e dove |
l'uno si fa maggior pur l'altro è tale; |
poi, quasi giunti al fin, piegano e al capo |
ascendono e giù tornano ed ascendono, |
elaborato alfin recano al labbro |
l'umor tenace che diventa seta; |
non altrimenti il sangue dei vulcani |
s'addensa all'aria in rivoli di lava. |
Ma, oimè, che vedo? Addormentata quasi, |
esanimi gli sguardi, con la mano |
un mal frenate languido sbadiglio! |
Che più? Si tace il crepitìo di pioggia: |
i bruchi alunni in vario atteggiamento |
mi stanno intorno addormentati tutti |
mirabilmente! Vince Anatomia |
le droghe oppiate dell'Arabia estrema. |
Amica sonnacchiosa e perdonate, |
voi nata al sogno libero e alla grazia, |
perdonate la Musa pazïente |
osservatrice. Ben s'addice al lento |
trasmutare dei bruchi prigionieri; |
più tardi, al tempo del risveglio alato, |
anch'essa certo spiegherà nei cieli |
l'ali del sogno per seguirli a volo. |
Eccoli intanto, bruchi tuttavia, |
stinto il velluto, tumefatti i nodi, |
eretto il capo immobile, le zampe |
fisse alle foglie da sottili bave, |
giacersi infermi nella sesta muta. |
Per tutto un giorno in torpida quiete |
uno spasimo ignoto li tormenta: |
essere un altro, uscire di se stessi! |
Uscire di se stessi! E li vedete |
or gonfiarsi, or contrarsi, ora dibattersi, |
or delle membra tremule far arco, |
fin che sul terzo nodo ecco si fende |
l'antica spoglia e sul velluto stinto |
vivida splende la divisa nuova. |
Ed uno appare in due e due in uno, |
ma già l'infermo tutto si distorce, |
come da un casco liberando il capo |
dal capo antico, dalle antiche zampe |
le antiche zampe liberando, lento |
movendo già, lasciandosi alle spalle |
quegli che fu, come guaina floscia. |
|
Delle crisalidi |
Ma il sesto dì la mia famiglia trovo |
dispersa tutta lungo le pareti. |
Come le sacre vittime d'un tempo |
s'apprestavano degne col digiuno, |
i bruchi alunni mondano i precordi, |
ricusano la fronda. È giunta l'ora. |
Consapevoli quasi del mistero |
imminente, s'ammusano l'un l'altro, |
lenti volgendo ad ora ad or la testa, |
esplorano gli arredi gli scaffali |
le cimase gli spigoli, un rifugio |
cercando eccelso come gli stiliti. |
Cercano in vero il luogo ove celarsi |
dai nemici del cielo e della terra; |
quale vigilia torpida li attenda |
ben sanno e sotto quale spoglia inerte |
pendula ignuda, senza la custodia |
del bombice di sua seta fasciato; |
ché le Diurne mutansi in crisalidi |
non difese che dalla forma subdola, |
dalla tinta sfuggente, non armate |
che di silenzio immobile e d'attesa. |
Dato è perciò seguire nel mistero |
i pellegrini della forma. Eletto |
un rifugio sicuro, il bruco intreccia |
poche fila in un cumulo, a sostegno, |
v'infigge i ganci delle zampe estreme |
e s'abbandona capovolto come |
l'acrobata al trapezio. Un giorno intero |
resta pendulo immoto, in doglia grande, |
fin che si fende a sommo e la crisalide |
convulsa vibra, si sguaina lenta |
dalla spoglia villosa che risale, |
s'aggrinza, cade all'ultimo sussulto. |
Ogni forma di bruco è dileguata: |
la crisalide splende, il nuovo mostro |
inquietante ambigüo diverso |
da ciò che fu da ciò che dovrà essere! |
Pendula, immota, senza membra, fusa |
nel bronzo verde maculato d'oro, |
cosa rimorta la direste, cosa |
d'arte, monile antico dissepolto; |
un minuscolo drago vi ricorda |
il dorso formidabile di punte, |
la maschera d'un satiro v'appare |
nel profilo gibboso e bicornuto. |
Dove il bruco defunto, la farfalla |
apparitura? La Natura, scaltra |
nasconditrice, deviò lo sguardo |
dell'uomo del ramarro della passera. |
Ma la farfalla tutta, se badate |
ben sottilmente, appare a parte a parte |
in rilievo leggiero: il capo chino |
tra l'ali ripiegate come bende, |
l'antenne la proboscide le zampe |
giustacongiunte al petto. La crisalide |
ritrae la farfalla mascherata |
come il coperchio egizio ritraeva |
le membra della vergine defunta. |
Ma già - mentre ch'io parlo - i bruchi tutti |
sono vòlti in crisalidi. Al soffitto |
agli scaffali al dorso dei volumi |
famosi, alle cornici delle stampe, |
financo - irriverenza - al naso adunco, |
alla mascella scarna del Poeta, |
ovunque la mia stanza è un scintillare |
di pendule crisalidi sopite. |
Guardo e sorrido. E un velo di tristezza |
mi tiene già gli alunni ripensando |
che più non sono e loro schiera bruna |
raccolta intorno alle mie carte quando |
rinnovavo la selva agropungente |
e m'era caro il crepitìo di lime |
dei compagni famelici a seguirne |
i moti e l'attitudini e ritrarne |
col pennello e col verso il divenire. |
Oggi tutto è silenzio di clausura, |
digiuno, attesa immobile, sgomento |
di necropoli tetra. Alle pareti |
ogni defunto è un pendulo monile, |
ogni monile un'anima che attende |
l'ora certa del volo. Ed io mi sono |
quel negromante che nel suo palagio |
senza fine, in clessidre senza fine, |
custodisce gli spiriti captivi |
dei trapassati, degli apparituri. |
Veramente la mia stanza modesta |
è la reggia del non essere più, |
del non essere ancora. E qui la vita |
sorride alla sorella inconciliabile |
e i loro volti fanno un volto solo. |
Un volto solo. Mai la Morte s'ebbe |
più delicato simbolo di Psiche: |
psiche ad un tempo anima e farfalla |
scolpita sulle stele funerarie |
da gli antichi pensosi del prodigio. |
Un volto solo... |
|
MONOGRAFIA DI VARIE SPECIE |
Del parnasso |
Parnassus Apollo
|
Non sente la montagna chi non sente |
questa farfalla, simbolo dell'Alpi... |
Segantini pittore fu compagno |
intimo del Parnasso. Tutta l'arte |
del maestro non è che la montagna |
intravista dall'ala trasparente... |
Voi sorridete, incredula, scorrendo |
l'ali chiare. Passate sui Papili, |
le Pieridi, le Coliadi, l'Antocari, |
cercate invano, sorridendo muta. |
Ma il vostro riso incredulo s'arresta, |
sostate appena sopra una farfalla |
ignota e dite risoluta: - È questa! - |
Questa e non altra. Tolgo l'esemplare: |
osservate la grazia! Col Papilio |
e la Vanessa, è certo la farfalla |
dei nostri climi più meravigliosa. |
Ma pure al vostro sguardo di novizia |
non è questa bellezza singolare? |
Mentre pensate il volo del Papilio |
sul trifoglio fiorito e la Vanessa |
in larghe rote lente sulle ajole, |
non tollerate il volo del Parnasso |
in un campo, in un orto, in un giardino: |
evocate un pendio di rododendri, |
coronato d'abeti, e di nevai, |
e la bella farfalla ecco s'adagia |
sullo scenario, in armonia perfetta. |
È giusto. Meditate l'ali tonde |
(frastagli e dentature le sarebbero |
d'impaccio contro i venti delle alture) |
meditate quest'ali trasparenti, |
lastre di ghiaccio lucide all'esterno, |
nell'interno soffuse di nevischio, |
gelide in vista tanto che vi sembra |
di vederle squagliare a poco a poco; |
spiccano sul candore alcune chiazze |
vermiglie come fior di rododendro, |
come stille di sangue sulla neve, |
cerchiano l'ali zone bigio-nere |
che tengono del musco e del macigno: |
il corsaletto è fitto di pelurie |
bianca, d'argento come il leontopodi |
e l'antenne le zampe la proboscide |
n'escono brevi come dalla giubba |
folta d'un alpigiano freddoloso. |
La Natura, l'esteta insuperabile, |
la mima senza pari, volle esprimere |
la montagna in un essere dell'aria; |
si giovò della gamma circostante, |
diede l'ali alla neve ed al ghiacciaio, |
al macigno al lichene al rododendro; |
ma da quanti millenni, ma da quali |
misteri giunse il genïetto alato? |
In altra età, per certo, quando l'Alpi |
erano miti come Taprobane, |
la farfalla aveva l'abito conforme |
con le felci i palmizi l'orchidee |
dei nostri monti in quell'età remote. |
Com'era allora il genïetto? Certo |
non trasparente, candido, villoso... |
Voi contemplate, amica, la farfalla |
infissa da molt'anni. Ben più dolce |
è meditarla viva nel suo regno. |
La rivedo con gioia ad ogni estate; |
sfuggito all'afa cittadina, appena |
giunto al rifugio sospirato, indago |
con occhi inquieti lo scenario alpestre: |
senza l'ospite candida le nevi |
sarebbero per me senza commento. |
Ma rade volte scende a valle. Giova |
attenderla sull'orlo degli abissi, |
fra gli alti cardi i tassi i rododendri. |
In quel silenzio primo, intatto come |
quando non era l'uomo ed il dolore, |
ecco la bella principessa alpestre! |
Giunge dall'alto scende con un volo |
solenne e stanco, noto all'entomologo, |
s'arresta sulle cuspidi dei cardi, |
s'adonta di un erebia, d'un virgaurea, |
suoi commensali sullo stesso fiore; |
s'avvia, s'innalza, saggia il vento, scende, |
vibra, si libra, s'equilibra, esplora |
l'abisso, cade lungo le pareti |
vertiginose ad ali tese: morta. |
Dispare, appare sui macigni opposti, |
dispare sul candore delle spume, |
appare sopra il verde degli abeti, |
dispare sul candore dei nevai, |
appare, spare, minima... Si perde... |
Parnasso Apollo!... Il genïetto lascia |
un solco di mistero al suo passaggio. |
Il volo stanco, ritmico, diverso |
dall'aliar plebeo delle pieridi, |
ha un che di malinconico e s'accorda |
mirabilmente con la gamma chiara |
dell'alte solitudini montane. |
E il poeta disteso sull'abisso, |
col mento chiuso tra le palme, oblia |
la pagina crudele di sofismi, |
segue con occhi estatici il Parnasso |
e bene intende il sorgere dei miti |
nei primi giorni dell'umanità; |
pensa una principessa delle nevi |
volta in farfalla per un malefizio... |
|
Della cavolaia |
Pieris brassicae
|
Se la Vanessa ed il Papilio sono |
nobili forme alate e dànno immagine |
d'un cavaliere e d'una principessa, |
la Pieride comune fa pensare |
una fantesca od una contadina. |
È volgare, dal nome alla divisa |
scialba, dal volo vagabondo al bruco |
nero-verde, flagello delle ortaglie. |
Ridotte queste a nuda nervatura, |
i bruchi vanno su pei muri a mille, |
fissano le crisalidi alle mensole, |
ai capitelli, ai pepli delle statue, |
curïose crisalidi, sorrette |
alla vita da un filo e non appese, |
angolari, sfuggevoli, aderenti, |
concolori così col marmo e il muro |
che lo sguardo le fissa e non le vede. |
Se tutte si schiudessero, la Terra |
sarebbe invasa d'ali senza fine. |
Ma gran parte ha con sé, già nello stato |
di bruco, i germi della morte certa. |
Chi s'aggiri in un orto vede all'opra |
il Microgastro, piccolo imenottero |
dall'ali e dall'antenne rivibranti, |
smilzo, cornuto, negro come un dèmone. |
Vola, scorre sui bruchi delle Pieridi, |
inarca, infigge l'ovopositore, |
immerge nei segmenti della vittima |
il germe della morte ad ogni assalto. |
Ad ogni assalto il bruco si contorce, |
ma quando il Microgastro l'abbandona |
non sembra risentirsi dell'offesa: |
cresce, vive coi germi della morte... |
Vive e i germi si schiudono, le larve |
del parassita invadono la vittima |
ignara; ne divorano i tessuti, |
ma, rette dall'istinto prodigioso, |
non intaccano gli organi vitali. |
Il bruco vive ancora, si tramuta |
sognando il giorno del risveglio alato; |
ma gli ospiti hanno uccisa la crisalide, |
la fendono sul dorso e dalla spoglia |
non la Pieride bianca, ma s'invola |
uno sciame ronzante d'imenotteri. |
Come in questa vicenda e in altre molte, |
la Natura, che i retori vantarono |
perfetta ed infallibile, si svela |
stretta parente col pensiero umano! |
Non divina e perfetta, ma potenza |
maldestra, spesso incerta, esita, inventa, |
tenta ritenta elimina corregge. |
Popola il campo semplice del Tutto |
d'opposte leggi e d'infiniti errori. |
Madre cieca e veggente, avara e prodiga, |
grande meschina, tenera e crudele, |
per non perder pietà si fa spietata. |
E quando vede rotta l'armonia |
riconosce l'errore, vi rimedia |
con nascite novelle ed ecatombi. |
Essa accenna alla Vita ed alla Morte; |
e le custodi appaiono, cancellano, |
ritracciano la strada ed i confini. |
La Cavolaia predilige gli orti, |
l'attira il bianco delle case umane; |
se scorge un muro, subito s'innalza, |
lo valica, discende alla ricerca |
di compagne festevoli ed ortaglie. |
E l'istinto sovente la sospinge |
nel cuor della città. Da primavera |
a tardo autunno, giunge nelle vie. |
E nulla è strano, come l'apparire, |
dell'invïata candida degli orti |
tra il rombo turbinoso cittadino. |
Allora s'interrompe il ragionare |
dell'amico loquace: - Una farfalla! - |
Com'è giunta nel cuor della città? |
Aveva la crisalide sui colli |
oltre il fiume, nell'orto di una villa. |
L'istinto delle razze numerose |
sospinge la farfalla ad emigrare; |
discese al piano, trasvolò sul fiume, |
valicò gli edifici, immaginando |
orti propizi e si trovò perduta, |
prigioniera nel grande laberinto |
di pietra che costrussero gli uomini. |
Da ore ed ore, forse dal mattino, |
s'aggira stanca per le vie diritte |
dove non cresce un filo d'erba o un fiore. |
Come si specchia nei diciottomila |
occhi stupiti il turbinìo dell'uomo? |
Forse a quei sensi minimi, la folla, |
le case, i carri, quei corpi grandi |
sono come la frana, il fuoco, l'acqua, |
fenomeni malvagi da fuggirsi. |
Fugge. L'attira un cespo semovente |
di fiori finti, un cencio verde, azzurro, |
si libra sulla folla, sull'intrico |
metallico, tra il rombo e le faville, |
e va senza riposo, un carro passa |
e la travolge nella scia ventosa... |
Con volo ravvivato dal terrore |
cerca uno scampo in alto, sale obliqua |
contro le case, attinge i tetti, il sole; |
si ristora ad un cespo di geranii, |
fugge lasciando un lembo d'ala a un mostro |
tentacolare e candido: una mano; |
vola sopra il deserto delle tegole |
né più discende nelle vie profonde, |
va tra la selva di colmigni spessi, |
da tetto a tetto, va senza riposo. |
Ed ecco aprirsi sotto la randagia |
l'abisso verde di un giardino; scende |
scende verso il colore che l'attira. |
Il giardino è degli uomini: ingannevole. |
Vi trova l'erba tenera, le fronde, |
i fiori, una brigata di sorelle |
sbandite, riparate in quell'oàsi. |
Ma l'erba cittadina non ha steli; |
gli alberi, mostri ignoti d'oltremare, |
non hano nella fronda coriacea |
un fiore. E l'uomo meditò nel fiore |
l'ultima frode: suggellò il nettario, |
con arte maga trasmutò gli stami |
in multiple sorelle mostruose. |
Le Pieridi s'aggirano sui fiori |
tentano le azalee ed i giacinti, |
ma le corolle suggellate al bacio |
son come belle donne senza bocca. |
Poche Pieridi trovano la via |
dei campi. Grande parte è prigioniera |
del chiuso laberinto cittadino; |
e nel triste detrito che raccoglie |
la scopa mattinale delle vie |
biancheggiano falangi d'ali morte... |
|
Dell'aurora |
Anthocaris cardamines
|
Primavera per me non è la donna |
botticelliana dell'Allegoria. |
Primavera è per me questa farfalla |
fatta di grazia e di fragilità! |
Oggi, lungo il sentiero solatio |
dove sosta la lepre alle vedette, |
un orecchio diritto e l'altro floscio, |
tra il grano verdazzurro, lungo il rivo |
costellato di primule e d'anemoni, |
tra il biancospino, che fiorisce appena, |
ho rivisto l'Antòcari volare |
e il cuore mi sobbalza nell'attesa |
senza nome che tutte in me resuscita |
le primavere dell'adolescenza... |
Ma primavera non è giunta ancora. |
È la quinta stagione. Un chiaro Marzo |
canavesano, inverno già non più, |
non primavera ancora. È l'anno vecchio |
tinto a verde d'Enrico l'amarissimo. |
Se cantano le allodole perdute |
nella profonda cavità dei cieli, |
non s'odono le rondini garrire; |
lasciano appena il Delta o la Gran Sirte |
o riposano a Cipro ovver vïaggiano |
sul cordame d'un legno tunisino... |
Ma l'Antòcari vola e il cuore esulta! |
È la farfalla della novità, |
la messaggiera della Primavera, |
la grazia mite, l'anima del Marzo. |
Essa avviva la linfa nelle scorze, |
il brusio, il ronzio, lo stridio, |
risuscita l'incognito indistinto. |
Oh! Messaggiera della Primavera! |
La Terra attende. Il cielo che riempie |
il frastaglio dei rami e delle roccie |
sembra intagliato nel cristallo terso; |
il profilo dell'Alpi è puro argento; |
pallido è il verde primo, il pioppo è brullo, |
la quercia ancor non abbandona il fulvo |
stridulo manto che sfidò l'inverno; |
allieta lo squallore la pannocchia |
pendula verdechiara del nocciòlo, |
la nubecola timida del mandorlo; |
tiepido è il sole, ma la neve intatta |
sta nelle forre squallide, a bacìo. |
La Primavera non è giunta ancora, |
ma l'Antòcari vola e il cuore esulta! |
La messaggiera della Primavera |
è timida, sfuggevole alle dita, |
coscïente di sua fragilità; |
quasi non vola, s'abbandona al vento |
e visita la primula e l'anemone, |
la pervinca, il galanto, il bucaneve; |
il vento marzolino fa tremare |
petali ed ali dello stesso tremito |
e l'occhio mal discerne la farfalla: |
l'ali minori, marezzate in verde, |
chiudono come un calice l'insetto. |
Insetti e fiori; mimi scaltri, come |
v'accordaste nei tempi delle origini? |
Le pagine di pietra dissepolte |
attestano che i fiori precedettero |
gl'insetti sulla terra: fu l'anemone |
che alla farfalla ragionò così: |
«Sorella senza stelo, come sei |
fragile d'ali e debole di volo! |
Salvati dal ramarro e dalla passera: |
rivestiti di me, tingiti in verde |
ai lati, in bianco a mezzo, in fulvo a sommo, |
e con l'antenne simula i pistilli!». |
E il fior primaverile alla farfalla |
primaverile diede i suoi colori: |
dolce alleato nella vita breve... |
E la caduca musa marzolina |
sa che deve sparire con l'anemone, |
sparire prima della Primavera... |
Visita i fiori, intepidisce il regno |
per le grandi farfalle che verranno, |
poi, giunta al varco della vita breve, |
congeda il Marzo, volgesi all'Aprile: |
Aprile! Marzo andò: tu puoi venire!... |
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Dell'ornitottera |
Ornithoptera Pronomus
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Sopra l'astuccio nitido di lacca |
una fascia di seta giavanese |
evoca un mare calmo che scintilla |
tra i palmizi dai vertici svettanti. |
Mi saluta un mio pallido fratello |
navigatore in quelle parti calde |
d'India, mi parla delle mie raccolte, |
ricorda la mia grande tenerezza |
per le cose che vivono, rimpiange |
di non avermi seco nelle valli |
favolose, mi manda una farfalla |
che mi porti il saluto d'oltremare |
attraverso la mole della Terra, |
dalle selve incantate degli antipodi. |
Con un tremito lieve delle dita |
apro l'astuccio d'erba contessuta |
e in un bagliore d'oro e di smeraldo |
ecco m'appare la farfalla enorme |
che mi giunge di là, che riconosco. |
L'Ornithoptera Pronomus, la specie |
simbolica dell'isole remote, |
la meraviglia che i naturalisti |
del tempo andato, reduci da Giava, |
dalle Molucche, dalla Polinesia, |
ci descrissero in libri malinconici. |
L'Ornithoptera Pronomus, la mole |
abbagliante che supera ed offusca |
le più belle farfalle dei musei. |
Con un tremito lieve nelle dita, |
il tremito che forse l'entomologo |
comprende... estraggo delicatamente, |
esamino il magnifico esemplare. |
Mistero intraducibile ch'emana |
dalle farfalle esotiche! Lo sguardo |
si perde, si confonde sbigottito |
come da forme soprannaturali; |
misera veste delle nostre Arginnidi, |
delle nostre Vanesse, delle nostre |
più belle specie, comparate a questa |
meravigliosa forma d'oltremare! |
Medito a lungo e l'occhio indagatore |
pur già discerne qualche analogia; |
anche questa bellezza che m'abbaglia |
come una forma non terrestre, come |
una specie selenica, fa parte |
della grande catena armonïosa, |
ha remoti parenti anche tra noi. |
Le zampe lunghe speronate, l'ali |
angolari dal margine ondulato, |
l'addome snello pur nella sua mole, |
un po' ricurvo, il corsaletto breve, |
la breve testa dalle antenne a clava, |
fanno dell'Ornithoptera il cugino |
barbaro del Papilio Podalirio. |
Ma come travestito! L'ali sono |
immense, di velluto nero, accese |
da larghe zone d'una brace verde, |
un verde inconciliabile col nostro |
pallido sole settentrïonale, |
l'addome è giallo, un giallo polinese |
intollerando sotto i nostri climi. |
La farfalla è brevissima, tutt'ala, |
stupendamente barbara, inquietante |
come un gioiello d'oro e di smeraldo |
foggiato per la fronte tatüata |
d'un principe, da un orafo papuaso |
ch'abbia tolto a modello il Podalirio |
nostrano, ingigantendolo, avvivandolo |
di colori terribili, secondo |
l'arte dell'arcipelago selvaggio. |
E la farfalla, che non so pensare |
sui nostri fiori, sotto il nostro cielo, |
ben s'accorda coi mostri floreali: |
gnomi panciuti dalle barbe pendule, |
ampolle inusitate, coni lividi |
evocanti la peste e il malefizio; |
s'accorda coi paesi della favola |
sopravissuti al tempo delle origini: |
vulcani ardenti, moli di basalto, |
foreste dal profilo mïocenico |
dall'aria dolce senza mutamento, |
dove la luce tremola e scintilla |
tra il fasto delle felci arborescenti. |
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Della testa di morto |
Acherontia Atropos
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D'estate, in un sentiero di campagna, |
v'occorse certo d'incontrare un bruco |
enorme e glabro, verde e giallo, ornato |
di sette zone oblique turchiniccie. |
Il bruco errava in cerca della terra |
dove affondare e trasmutarsi in ninfa; |
e dalla gaia larva, a smalti chiari, |
nasceva nell'autunno la più tetra |
delle farfalle: l'Acherontia Atropos. |
Certo vi è nota questa cupa sfinge |
favoleggiata, dal massiccio addome, |
dal corsaletto folto, con impresso |
in giallo d'ocra il segno spaventoso. |
Natura, che dispensa alle Dïurne |
i colori dei fiori e delle gemme, |
Natura volle l'Acherontia Atropos |
simbolo della Notte e della Morte, |
messaggiera del Buio e del Mistero, |
e la segnò con la divisa fosca |
e d'un sinistro canto. L'entomologo |
tuttora indaga come l'Acherontia |
si lagni. Disse alcuno, col vibrare |
dei tarsi. Ma non è. Mozzato ho i tarsi |
all'Acherontia e s'è lagnata ancora. |
Parve ad altri col fremito dei palpi. |
Io cementai di mastice la bocca |
all'Acherontia e s'è librata ancora |
per la mia stanza, ha proseguito ancora |
più furibondo il grido d'oltretomba; |
grido che pare giungere da un'anima |
penante che preceda la farfalla, |
misterïoso lagno che riempie |
uomini e bestie d'un ignoto orrore: |
ho veduto il mio cane temerario |
abbiosciarsi tremando foglia a foglia, |
rifiutarsi d'entrare nella stanza |
dov'era l'Acherontia lamentosa. |
L'apicultore sa che questo lagno |
imita il lagno dell'ape regina |
quando è furente contro le rivali |
e concede alla sfinge d'aggirarsi |
pei favi, sazïandosi di miele. |
L'operaie non pungono l'intrusa, |
si dispongono in cerchio al suo passaggio, |
con l'ali chine e con l'addome alzato, |
l'atteggiamento mite e riverente |
detto «la rosa» dall'apicultore. |
E la nemica dell'apicultore |
col triste canto incanta l'alveare. |
All'alba solo, quando l'Acherontia |
intorpidita e sazia tace e dorme, |
l'operaie decretano la morte. |
Depone ognuna sopra l'assopita |
un granello di propoli, il cemento |
resinoso che tolgono alle gemme. |
E la nemica è rivestita in breve |
d'una guaina e non ha più risveglio. |
L'apicultore trova ad ogni autunno, |
tra i favi, questi grandi mausolei. |
Farfalla strana, figlia della Notte, |
sorella della nottola e del gufo, |
opra non di Natura, ma di dèmoni, |
evocata con filtri e segni e cabale |
dalle profondità d'una caverna! |
Bimbo, ricordo, per le mie raccolte, |
sempre immolai con trepidanza questa |
cupa farfalla, quasi nel terrore |
di suscitare con la fosca vittima |
l'ira d'una potenza tenebrosa. |
E anche perché l'Atropo mi parla |
di cose rare, dell'antiche ville. |
Sul canterano dell'Impero, sotto |
la campana di vetro che racchiude |
le madrepore rare e le conchiglie, |
sta quasi sempre l'Acherontia Atropos |
depostavi da un nonno giovinetto. |
L'Acherontia frequenta le campagne, |
i giardini degli uomini, le ville; |
di giorno giace contro i muri e i tronchi, |
nei corridoi più cupi, nei solai |
più desolati, sotto le grondaie, |
dorme con l'ali ripiegate a tetto. |
E n'esce a sera. Nelle sere illuni |
fredde stellate di settembre, quando |
il crepuscolo già cede alla notte |
e le farfalle della luce sono |
scomparse, l'Acherontia lamentosa |
si libra solitaria nelle tenebre |
tra i camerops, le tuje, sulle ajole |
dove dianzi scherzavano i fanciulli, |
le Vanesse, le Arginnidi, i Papilî. |
L'Acherontia s'aggira: il pippistrello |
l'evita con un guizzo repentino. |
L'Acherontia s'aggira. Alto è il silenzio |
comentato, non rotto, dalle strigi, |
dallo stridio monotono dei grilli. |
La villa è immersa nella notte. Solo |
spiccano le finestre della sala |
da pranzo dove la famiglia cena. |
L'Acherontia s'appressa esita spia |
numera i commensali ad uno ad uno, |
sibila un nome, cozza contro i vetri |
tre quattro volte come nocca ossuta. |
La giovinetta più pallida s'alza |
con un sussulto, come ad un richiamo. |
«Chi c'è?» Socchiude la finestra, esplora |
il giardino invisibile, protende |
il capo d'oro nella notte illune. |
«Chi c'è? Chi c'è?» «Non c'è nessuno. Mamma!» |
Richiude i vetri, con un primo brivido, |
risiede a mensa, tra le sue sorelle. |
Ma già s'ode il garrito dei fanciulli |
giubilante per l'ospite improvvisa, |
per l'ospite guizzata non veduta. |
Intorno al lume turbina ronzando |
la cupa messaggiera funeraria. |
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Della passera dei santi |
Macroglossa Stellatarum
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Non tenebrosa come l'Acherontia - |
benché sfinge e parente - ma latrice |
di pace, messaggiera di speranze: |
portanovelle, passera dei Santi, |
col mattino chiarissimo di giugno |
penetrò nella mia stanza tranquilla |
la macroglossa rapida. L'illuse |
questa banda di sole, questa rosa |
vermiglia che rallegra le mie carte, |
turbinò prigioniera visitando |
le dipinte ghirlande del soffitto, |
rapida giù per le finestre aperte |
si dileguò come da corda cocca. |
Certo in giardino la ritroveremo |
sul caprifoglio che ricopre i muri |
d'una cortina folta innebriante. |
Eccola in opra sui corimbi; guizza |
da fiore a fiore come una saetta, |
sosta, si libra, immobile nell'aria, |
immerge la proboscide nel calice, |
e il corpo appare immoto nell'aureola |
dell'ali rivibranti: spola aerea, |
prodigio di sveltezza equilibrata! |
Tutto - nel capo aguzzo, nelle antenne |
reclini sotto i palpi, nelle zampe |
brevi aderenti al corsaletto lustro, |
nell'addome sfuggente affusolato, |
munito d'una spata di pelurie |
mobile forte come cocca espansa |
atta a guidare e a mitigare il volo - |
tutto s'affina nella macroglossa |
a fender l'aria, vincere lo spazio |
visitare i giardini più remoti |
in brev'istanza, messaggiera arcana |
da fiore a fiore. E i fiori si protendono |
verso l'insetto, come ad un'offerta. |
Amica, sotto il nostro sguardo ignaro |
si celebra tra il fiore e la farfalla |
il rito più mirabile, il mistero |
più tenero: le nozze floreali. |
«Mariti uxores unoeodemque thalamo |
gaudent...», Linneo meditabondo scrive. |
Degli sposi gran parte nasce vive |
ama nel tabernacolo smagliante |
della stessa corolla; sul pistillo |
giunge dall'alto degli stami il bacio |
desiderato, il polline fecondo. |
Ma dopo esperïenze millenarie |
molti fiori s'avvidero che il bacio |
nella stessa corolla, che lo stimma |
fecondato dal polline fraterno, |
conduceva la stirpe in decadenza, |
e vollero l'amplesso dell'amante |
lontano e meditarono le nozze |
non possibili. Alcuni, gli anemofili |
affidarono i baci d'oro al vento; |
gli entomofili vollero gli insetti |
paraninfi discreti e vigilanti. |
Ma il fiore - che sa tutto - non ignora |
che vano è al mondo attendere conforto |
se non da noi, che la farfalla esiste |
pel suo bene soltanto e la sua specie; |
ed ecco le scaltrezze del richiamo: |
i colori magnifici, i profumi |
ineffabili, il nettare che il fiore |
distilla in fondo al calice, a compenso |
del messaggio d'amore, per attingere |
la coppa ambrosia con la sua proboscide, |
la macroglossa deve tutti compiere |
i riti delle nozze floreali. |
Dall'epoca dell'arco e della clava |
ai giorni più recenti del telaio, |
del paranco, del fuso , dell'ariete, |
quando - e fu ieri - nostre meraviglie |
erano l'archibugio e l'orologio, |
i piccoli inventori propagavano |
la specie con mirabili congegni: |
l'elica rapidissima, il velivolo |
dell'acero, del tiglio, il vagabondo |
paracadute argenteo del cardo, |
la capsula esplosiva dell'euforbia, |
l'arma della mormodica potente, |
il gioco delle valvole, dei tubi |
intercomunicanti d'Archimede |
bene eseguito dalle piante acquatiche, |
l'ampolla chiusa, i piani inclini della |
ginestra, i raffi che lo scantio aggancia |
al pelo od alla veste del passante, |
tutti gli ordegni meditati, tutti |
gli accorgimenti per coperte vie, |
adatti a propagare la semenza |
schiusa dall'ombra torpida materna. |
Questo popolo verde che ci appare |
inerte e rassegnato, è il più ribelle |
alla fatalità che lo condanna |
in terra, dalla nascita alla morte. |
Un desiderio senza tregua, come |
di trasformarsi, sale dalla tenebra |
delle radici, grida nella luce |
delle corolle, cerca la sua legge: |
liberarsi, fuggire, modulare |
l'ali, imitare le farfalle al volo. |
A tante meraviglie il nostro vano |
orgoglio mal s'oppone col sofisma |
che l'intesa tra il fiore e la farfalla |
è fissa, che il mirabile congegno |
non muta. Ma il convolvo domestico |
abolisce il nettario, più non chiama |
la macroglossa da che sente l'uomo |
paraninfo sicuro e vigilante; |
altri fiori depongono gli aculei, |
il latice, i viticci, da che l'uomo |
li difende li guida li sorregge. |
I fiori precedettero gli insetti |
sulla terra nel tempo delle origini; |
questa sola certezza ci rivela |
un'intesa tra il fiore e la farfalla, |
ci rivela che i piccoli inventori |
sovvertono le leggi ed i modelli. |
All'apparire della macroglossa |
il caprifoglio congegnò se stesso |
all'indole dell'ospite imprevista. |
Altri dica: è Natura, e non il fiore, |
è Natura che fa tanto sottili |
provvedimenti! Menoma per questo |
forse il fervore della nostra indagine? |
Un enimma più forte ci tormenta: |
penetrare lo spirito immanente, |
l'anima sparsa, il genio della Terra, |
la virtù somma (poco importa il nome!), |
leggere la sua meta ed il suo primo |
perché nel suo visibile parlare. |
Per chi cerca il volume a foglio a foglio |
il genio della Terra - il genio certo |
dell'Universo intero - si comporta |
non come Dio ma come Uomo, attinge |
le stesse mete con gli stessi metodi: |
tenta s'inganna elimina corregge |
sosta dispera spera come noi; |
scopre ed inventa lento come il fisico, |
calcola incerto come il matematico, |
orna la terra come il buono artista. |
Come noi lotta con la massa oscura |
pesante enorme della sua materia; |
non sa meglio di noi dov'esso vada, |
agogna verso un ideale solo: |
elaborare tutto ciò che vive |
in sostanza più duttile e sottile, |
trarre dalla materia il puro spirito. |
Dispone d'alleanze innumerevoli, |
ma le sue forze intellettive sono |
pari alle nostre, nella nostra sfera. |
E se non sdegna gli argomenti umani, |
se tutto ciò che vibra in noi rivibra |
in lui; se attende come noi quel Bene |
sommo che la speranza ci promette, |
giusto è pensare che su questa Terra |
la traccia nostra non è fuor di strada, |
giusto è pensare che un'intelligenza |
sola, universa, sparsa ed immanente |
penetra in guisa varia i corpi buoni |
men buoni conduttori dello spirito; |
giusto è pensare che tra questi l'uomo |
è lo stromento dove più rivibra |
la grande volontà dell'Universo. |
Se la Natura mai non s'ingannasse |
e tutto conoscesse e ovunque e sempre |
rivelasse un ingegno senza fine, |
noi dovremmo temere dell'enigma, |
vacillare tremanti e sbigottiti; |
ma il genio della Terra e il nostro spirito |
attingono fraterni a una sorgente |
sola; noi siamo nello stesso mondo |
ribelli alla materia, eguali, a fronte |
non di numi tremendi inaccessibili |
ma di fraterne volontà velate. |
Amica, forse troppo a lungo e troppo |
superbamente noi c'immaginammo |
creature divine incomparabili |
senza parenti sulla Terra. Meglio |
ritrovarsi tra i fiori e le farfalle, |
essere peregrin come son quelli, |
verso la meta sconosciuta e certa. |
Certa è la meta. Com'è dato leggere |
tutto il destino della Macroglossa |
in ogni parte del suo corpo aereo |
foggiato ad eternare la bellezza |
d'una fragile stirpe floreale, |
chiaro si legge il compito dell'uomo |
nel suo cervello e nei suoi nervi acuti. |
Nessuno s'ebbe più palese il dono |
d'elaborare la materia sorda |
in un'essenza non mortale: anelito |
di tutto ciò che vive sulla Terra |
fluido strano ch'ebbe nome Spirito, |
Pensiero, Intelligenza, Anima, fluido |
dai mille nomi e dall'essenza unica. |
Tutto di noi gli è dato in sacrificio: |
la ricchezza del sangue, l'equilibrio |
degli organi, la forza delle membra, |
l'agilità dei muscoli, la bella |
bestialità, l'istinto della vita. |