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Biblioteca Telematica |
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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA |
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L'Olimpiade | ||
di: Pietro Metastasio |
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ATTO
TERZO SCENA PRIMA Bipartita, che si forma dalle rovine di un antico ippodromo, già ricoperte in gran parte d'edera, di spini e d'altre piante selvagge. MEGACLE, trattenuto da AMINTA per una parte, e dopo ARISTEA, trattenuta da ARGENE per l'altra: ma quelli non veggono queste. MEG. Lasciami. In van t'opponi. AMI. Ah torna, amico, una volta in te stesso. In tuo soccorso pronta sempre la mano del pescator, ch'or ti salvò dall'onde, credimi, non avrai. Si stanca il Cielo d'assister chi l'insulta. MEG. Empio soccorso, inumana pietà! negar la morte a chi vive morendo. Aminta, oh Dio! lasciami. AMI. Non fia ver. ARI. Lasciami, Argene. ARG. Non lo sperar. MEG. Senz'Aristea non posso, non deggio viver più. ARI. Morir vogl'io dove Megacle è morto. AMI. Attendi. ARG. Ascolta. MEG. Che attender? ARI. Che ascoltar? MEG. Non si ritrova più conforto per me. ARI. Per me nel mondo non v'è più che sperar. MEG. Serbarmi in vita... ARI. Impedirmi la morte... MEG. Indarno tu pretendi. ARI. In van presumi. AMI. Ferma. ARG. Senti, infelice. ARI. Oh stelle! MEG. Oh numi! ARI. Megacle! MEG. Principessa! ARI. Ingrato! E tanto m'odii dunque e mi fuggi, che, per esserti unita s'io m'affretto a morir, tu torni in vita? MEG. Vedi a qual segno è giunta, adorata Aristea, la mia sventura; io non posso morir: trovo impedite tutte le vie, per cui si passa a Dite. ARI. Ma qual pietosa mano... SCENA II ALC. Oh sacrilego! Oh insano! Oh scellerato ardir! ARI. Vi sono ancora nuovi disastri, Alcandro? ALC. In questo istante rinasce il padre tuo. ARI. Come! ALC. Che orrore, che ruina, che lutto, se 'l Ciel non difendea, n'avrebbe involti! ARI. Perché? ALC. Già sai che per costume antico questo festivo dì con un solenne sacrifizio si chiude. Or mentre al tempio venìa fra' suoi custodi la sacra pompa a celebrar Clistene, perché non so, né da qual parte uscito, Licida impetuoso ci attraversa il cammin. Non vidi mai più terribile aspetto. Armato il braccio, nuda la fronte avea, lacero il manto, scomposto il crin. Dalle pupille accese uscia torbido il guardo; e per le gote, d'inaridite lagrime segnate, traspirava il furore. Urta, rovescia i sorpresi custodi; al re s'avventa: «Mori», grida fremendo, e gli alza in fronte il sacrilego ferro. ARI. Oh Dio! ALC. Non cangia il re sito o color. Severo il guardo gli ferma in faccia; e in grave suon gli dice: «Temerario, che fai?». (Vedi se il Cielo veglia in cura de' re!) Gela a que' detti il giovane feroce. Il braccio in alto sospende a mezzo il colpo. Il regio aspetto attonito rimira: impallidisce; incomincia a tremar: gli cade il ferro; e dal ciglio, che tanto minaccioso parea, prorompe il pianto. ARI. Respiro. ARG. Oh folle! AMI. Oh sconsigliato! ARI. Ed ora il genitor che fa? ALC. Di lacci avvolto ha il colpevole innanzi. AMI. (Ah! si procuri di salvar l'infelice). MEG. E Licida che dice? ALC. Alle richieste nulla risponde. E` reo di morte, e pare che nol sappia, o nol curi. Ognor piangendo il suo Megacle chiama: a tutti il chiede, lo vuol da tutti; e fra' suoi labbri, come altro non sappia dir, sempre ha quel nome. MEG. Più resister non posso. Al caro amico per pietà chi mi guida? ARI. Incauto! E quale sarebbe il tuo disegno? Il genitore sa che tu l'ingannasti; sa che Megacle sei; perdi te stesso presentandoti al re; non salvi altrui. MEG. Col mio principe insieme almen mi perderò. ARI. Senti. E non stimi consiglio assai miglior, che il padre offeso vada a placare io stessa? MEG. Ah! che di tanto lusingarmi non so. ARI. Sì, questo ancora per te si faccia. MEG. Oh generosa, oh grande, oh pietosa Aristea! Facciano i numi quell'alma bella in questa bella spoglia lungamente albergar. Ben lo diss'io, quando pria ti mirai, che tu non eri cosa mortal. Va, mio conforto... ARI. Ah basta; non fa d'uopo di tanto. Un sol de' guardi tuoi mi costringe a voler ciò che tu vuoi. Caro, son tua così, che per virtù d'amor i moti del tuo cor risento anch'io. Mi dolgo al tuo dolor; gioisco al tuo gioir; ed ogni tuo desir diventa il mio. SCENA III MEG. Deh secondate, o numi, la pietà d'Aristea. Chi sa se il padre però si placherà. Troppa ragione ha di punirlo, è ver; ma della figlia lo vincerà l'amore. E se nol vince? Oh Dio! Potessi almeno veder come l'ascolta. Argene, io voglio seguitarla da lungi. ARG. Ah tanta cura non prender di costui. Vedi che 'l Cielo è stanco di soffrirlo. Al suo destino lascialo in abbandono. MEG. Lasciar l'amico! Ah così vil non sono. Lo seguitai felice quand'era il ciel sereno, alle tempeste in seno voglio seguirlo ancor. Come dell'oro il fuoco scopre le masse impure, scoprono le sventure de' falsi amici il cor. SCENA IV ARG. E pure a mio dispetto sento pietade anch'io. Tento sdegnarmi, ne ho ragion, lo vorrei; ma in mezzo all'ira, mentre il labbro minaccia, il cor sospira. Sarai debole, Argene, dunque a tal segno? Ah no. Spergiuro! Ingrato! non sarà ver. Detesto la mia pietà. Mai più mirar non voglio quel volto ingannator. L'odio: mi piace di vederlo punir. Trafitto a morte se mi cadesse accanto, non verserei per lui stilla di pianto. AMI. Misero dove fuggo? Oh dì funesto! Oh Licida infelice! ARG. E` forse estinto quel traditor? AMI. No, ma il sarà fra poco. ARG. Non lo credere, Aminta. Hanno i malvagi molti compagni; onde giammai non sono poveri di soccorso. AMI. Or ti lusinghi: non v'è più che sperar. Contro di lui gridan le leggi, il popolo congiura, fremono i sacerdoti. Un sangue chiede l'offesa maestà. De' sagrifizi, che una colpa interrompe, è il delinquente vittima necessaria. Ha già deciso il pubblico consenso. Egli svenato fia su l'ara di Giove. Esser vi deve l'offeso re presente; e al sacerdote porgere il sacro acciaro. ARG. E non potrebbe rivocarsi il decreto? AMI. E come? Il reo già in bianche spoglie è avvolto. Il crin di fiori io coronar gli vidi; e 'l vidi, oh Dio! incamminarsi al tempio. Ah! fors'è giunto: ah! forse adesso, Argene, la bipenne fatal gli apre le vene. ARG. Ah no, povero prence! AMI. Che giova il pianto? ARG. Ed Aristea non giunse? AMI. Giunse; ma nulla ottenne. Il re non vuole, o non può compiacerla. ARG. E Megacle? AMI. Il meschino ne' custodi s'avvenne, che ne andavano in traccia. Or l'ascoltai chieder fra le catene di morir per l'amico: e, se non fosse ancor ei delinquente, ottenuto l'avria. Ma un reo per l'altro morir non può. ARG. L'ha procurato almeno. Oh forte! Oh generoso! Ed io l'ascolto senza arrossir? Dunque ha più saldi nodi l'amistà che l'amore? Ah quali io sento d'un'emula virtù stimoli al fianco! Sì, rendiamoci illustri. In fin che dura, parli il mondo di noi. Faccia il mio caso meraviglia e pietà: né si ritrovi nell'universo tutto chi ripeta il mio nome a ciglio asciutto. Fiamma ignota nell'alma mi scende: sento il nume; m'inspira, m'accende, di me stessa mi rende maggior. Ferri, bende, bipenni, ritorte, pallid'ombre, compagne di morte, già vi guardo, ma senza terror. SCENA V AMI. Fuggi, salvati, Aminta. In queste sponde tutto è orror, tutto è morte. E dove, oh Dio! senza Licida io vado? Io l'educai con sì lungo sudore: a regie fasce io l'innalzai da sconosciuta cuna; ed or potrei senz'esso partir così? No. Si ritorni al tempio: si vada incontro all'ira dell'oltraggiato re. Licida involva me ancor ne falli sui: si mora di dolor, ma accanto a lui. Son qual per mare ignoto naufrago passeggiero, già con la morte a nuoto ridotto a contrastar. Ora un sostegno ed ora perde una stella; al fine perde la speme ancora e s'abbandona al mar. SCENA VI Aspetto esteriore del gran tempio di Giove Olimpico, dal quale si scende per lunga e magnifica scala divisa in vari piani. Piazza innanzi al medesimo con ara ardente nel mezzo. Bosco all'intorno de' sacri ulivi silvestri, donde formavansi le corone per gli atleti vincitori. CORO I tuoi strali terror de' mortali ah! sospendi, gran padre de' numi, ah! deponi, gran nume de' re. PARTE DEL CORO Fumi il tempio del sangue d'un empio, che oltraggiò con insano furore, sommo Giove, un'immago di te. CORO I tuoi strali terror de' mortali ah! sospendi, gran padre de' numi, ah! deponi, gran nume de' re. PARTE DEL CORO L'onde chete del pallido Lete l'empio varchi; ma il nostro timore ma il suo fallo portando con sé. CORO I tuoi strali terror de' mortali ah! sospendi, gran padre de' numi, ah! deponi, gran nume de' re. CLIST. Giovane sventurato, ecco vicino de' tuoi miseri dì l'ultimo istante. Tanta pietade (e mi punisca Giove se adombro il ver) tanta pietà mi fai, che non oso mirarti. Il Ciel volesse che potess'io dissimular l'errore: ma non lo posso, o figlio. Io son custode della ragion del trono. Al braccio mio illesa altri la diede; e renderla degg'io illesa o vendicata a chi succede. Obbligo di chi regna necessario è così, come penoso, il dover con misura esser pietoso. Pur se nulla ti resta a desiar, fuor che la vita, esponi libero il tuo desire. Esserne io giuro fedele esecutor. Quanto ti piace, figlio, prescrivi; e chiudi i lumi in pace. LIC. Padre, che ben di padre, non di giudice e re, que' detti sono, non merito perdono, non lo spero, nol chiedo, e nol vorrei. Afflisse i giorni miei di tal modo la sorte, ch'io la vita pavento, e non la morte. L'unico de' miei voti è il riveder l'amico pria di spirar. Già ch'ei rimase in vita, l'ultima grazia imploro d'abbracciarlo una volta, e lieto io moro. CLIST. T'appagherò. Custodi, Megacle a me. ALC. Signor, tu piangi! E quale eccessiva pietà l'alma t'ingombra? CLIST. Alcandro, lo confesso, stupisco di me stesso. Il volto, il ciglio, la voce di costui nel cor mi desta un palpito improvviso, che lo risente in ogni fibra il sangue. Fra tutti i miei pensieri la cagion ne ricerco, e non la trovo. Che sarà, giusti dei, questo ch'io provo? Non so donde viene quel tenero affetto quel moto, che ignoto mi nasce nel petto; quel gel, che le vene scorrendo mi va. Nel seno a destarmi sì fieri contrasti non parmi che basti la sola pietà. SCENA VII LIC. Ah! vieni, illustre esempio di verace amistà: Megacle amato, caro Megacle, vieni. MEG. Ah qual ti trovo, povero prence! LIC. Il rivederti in vita mi fa dolce la morte. MEG. E che mi giova una vita, che in vano voglio offrir per la tua? Ma molto innanzi, Licida, non andrai. Noi passeremo ombre amiche indivise il guado estremo. LIC. O delle gioie mie, de' miei martiri, finché piacque al destin, dolce compagno, separarci convien. Poiché siam giunti agli ultimi momenti, quella destra fedel porgimi, e senti. Sia preghiera, o comando vivi; io bramo così. Pietoso amico chiudimi tu di propria mano i lumi; ricordati di me. Ritorna in Creta al padre mio... Povero padre! a questo preparato non sei colpo crudele. Deh tu l'istoria amara raddolcisci narrando. Il vecchio afflitto reggi, assisti, consola; lo raccomando a te. Se piange, il pianto tu gli asciuga sul ciglio; e in te, se un figlio vuol, rendigli un figlio. MEG. Taci: mi fai morir. CLIST. Non posso, Alcandro, resister più. Guarda que' volti: osserva que' replicati amplessi, que' teneri sospiri e que' confusi fra le lagrime alterne ultimi baci. Povera umanità! ALC. Signor, trascorre l'ora permessa al sacrifizio. CLIST. E` vero. Olà, sacri ministri, la vittima prendete. E voi, custodi, dall'amico infelice dividete colui. MEG. Barbari! Ah voi avete dal mio sen svelto il cor mio! LIC. Ah dolce amico! MEG. Ah caro prence! LIC., MEG. Addio! CORO I tuoi strali terror de' mortali ah! sospendi, gran padre de' numi ah! deponi, gran nume de' re. (Nel tempo che si canta il coro, Licida va ad inginocchiarsi a piè dell'ara appresso al sacerdote. Il re prende la sacra scure, che gli vien presentata sopra un bacile da un de' ministri del tempio; e, nel porgerla al sacerdote canta i seguenti versi, accompagnati da grave sinfonia) CLIST. O degli uomini padre e degli dei, onnipotente Giove, al cui cenno si move il mar, la terra, il ciel; di cui ripieno è l'universo, e dalla man di cui pende d'ogni cagione e d'ogni evento la connessa catena; questa, che a te si svena, sacra vittima accogli. Essa i funesti, che ti splendono in man, folgori arresti. SCENA VIII ARG. Fermati, o re. Fermate, sacri ministri. CLIST. Oh insano ardir! Non sai, ninfa, qual opra turbi? ARG. Anzi più grata vengo a renderla a Giove. Una io vi reco vittima volontaria ed innocente, che ha valor, che ha desio di morir per quel reo. CLIST. Qual è? ARG. Son io. MEG. (Oh bella fede!) LIC. (Oh mio rossor!) CLIST. Dovresti saper che al debil sesso pel più forte morir non è permesso. ARG. Ma il morir non si vieta per lo sposo a una sposa. In questa guisa so che al tessalo Admeto serbò la vita Alceste; e so che poi l'esempio suo divenne legge a noi. CLIST. Che perciò? Sei tu forse di Licida consorte? ARG. Ei me ne diede in pegno la sua destra e la sua fede. CLIST. Licori, io, che t'ascolto, son più folle di te. D'un regio erede una vil pastorella dunque... ARG. Né vil son io, né son Licori. Argene ho nome: in Creta chiara è del sangue mio la gloria antica: e, se giurommi fé, Licida il dica. CLIST. Licida, parla. LIC. (E` l'esser menzognero questa volta pietà). No, non è vero. ARG. Come! E negar lo puoi? Volgiti, ingrato; riconosci i tuoi doni, se me non vuoi. L'aureo monile è questo, che nel punto funesto di giurarmi tua sposa ebbi da te. Ti risovvenga almeno che di tua man me ne adornasti il seno. LIC. (Pur troppo è ver). ARG. Guardalo, o re. CLIST. Dinanzi mi si tolga costei. ARG. Popoli, amici, sacri ministri, eterni dei, se pure n'è alcun presente al sacrifizio ingiusto, protesto innanzi a voi; giuro ch'io sono sposa a Licida, e voglio morir per lui: né... Principessa, ah! vieni; soccorrimi: non vuole udirmi il padre tuo. SCENA IX ARI. Credimi, o padre, è degna di pietà. CLIST. Dunque volete ch'io mi riduca a delirar con voi? Parla; ma siano brevi i detti tuoi. ARG. Parlino queste gemme, io tacerò. Van di tai fregi adorne in Elide le ninfe? CLIST. Aimè, che miro! Alcandro riconosci questo monil? ALC. Se il riconosco? E` quello che al collo avea, quando l'esposi all'onde, il tuo figlio bambin. CLIST. Licida (oh Dio! tremo da capo a piè). Licida, sorgi, guarda: è ver che costei l'ebbe in dono da te? LIC. Però non debbe morir per me. Fu la promessa occulta, non ebbe effetto; e col solenne rito l'imeneo non si strinse. CLIST. Io chiedo solo se il dono è tuo. LIC. Sì. CLIST. Da qual man ti venne? LIC. A me donollo Aminta. CLIST. E questo Aminta chi è? LIC. Quello a cui diede il genitor degli anni miei la cura. CLIST. Dove sta? LIC. Meco venne; meco in Elide è giunto. CLIST. Questo Aminta si cerchi. ARG. Eccolo appunto. <I>SCENA X</I> AMI. Ah, Licida... CLIST. T'accheta. Rispondi, e non mentir. Questo monile donde avesti? AMI. Signor, da mano ignota, già scorse il quinto lustro ch'io l'ebbi in don. CLIST. Dov'eri allor? AMI. Là, dove in mar presso a Corinto sbocca il torbido Asopo. ALC. (Ah! ch'io rinvengo delle note sembianze qualche traccia in quel volto. Io non m'inganno: certo egli è desso). Ah! d'un antico errore mio re, son reo. Deh mel perdona: io tutto fedelmente dirò. CLIST. Sorgi, favella. ALC. Al mar, come imponesti, non esposi il bambin: pietà mi vinse. Costui straniero, ignoto mi venne innanzi, e gliel donai, sperando che in rimote contrade tratto l'avrebbe. CLIST. E quel fanciullo, Aminta, dov'è? Che ne facesti? AMI. Io... (Quale arcano ho da scoprir!) CLIST. Tu impallidisci! Parla, empio; dì, che ne fu? Tacendo aggiungi all'antico delitto error novello. AMI. L'hai presente, o signor: Licida è quello. CLIST. Come! non è di Creta Licida il prence? AMI. Il vero prence in fasce finì la vita. Io, ritornato appunto con lui bambino in Creta, al re dolente l'offersi in dono: ei dell'estinto in vece al trono l'educò per mio consiglio. CLIST. Oh numi! ecco Filinto, ecco il mio figlio. ARI. Stelle! LIC. Io tuo figlio? CLIST. Sì. Tu mi nascesti gemello ad Aristea. Delfo m'impose d'esporti al mar bambino, un parricida minacciandomi in te. LIC. Comprendo adesso l'orror che mi gelò, quando la mano sollevai per ferirti. CLIST. Adesso intendo l'eccessiva pietà, che nel mirarti mi sentivo nel cor. AMI. Felice padre! ALC. Oggi molti in un punto puoi render lieti. CLIST. E lo desio. D'Argene Filinto il figlio mio, Megacle d'Aristea vorrei consorte; ma Filinto, il mio figlio, è reo di morte. MEG. Non è più reo, quando è tuo figlio. CLIST. E` forse la libertà de' falli permessa al sangue mio? Qui viene ogni altro valore a dimostrar, l'unico esempio esser degg'io di debolezza? Ah questo di me non oda il mondo. Olà, ministri, risvegliate su l'ara il sacro fuoco. Va, figlio, e mori. Anch'io morrò fra poco. AMI. Che giustizia inumana! ALC. Che barbara virtù! MEG. Signor, t'arresta. Tu non puoi condannarlo. In Sicione sei re, non in Olimpia. E` scorso il giorno, a cui tu presiedesti. Il reo dipende dal pubblico giudizio. CLIST. E ben s'ascolti dunque il pubblico voto. A prò del reo non prego, non comando, e non consiglio. CORO DI SACERDOTI E POPOLO Viva il figlio delinquente, perché in lui non sia punito l'innocente genitor. Né funesti il dì presente, né disturbi il sacro rito un'idea di tanto orror. LICENZA Ah no, l'augusto sguardo non rivolgere altrove, eccelsa Elisa. Ubbidirò. Tu ascolterai, se m'odi, (dura legge a compir!) voti e non lodi. Veggano ancor ben cento volte e cento i numerosi tuoi sudditi regni tornar sempre più chiaro questo giorno per te: per te, che sei la lor felicità, che nel tuo seno le più belle virtù, come in lor trono, l'una all'altra congiunte... Aimè! Perdono. Voti in mente io formai; ma dal mio labbro escon (per qual magia dir non saprei) trasformati in tua lode i voti miei. Errai: ma il mondo intero ho complice nel fallo; e (non sdegnarti) mi par bello l'error. L'anime grandi a vantaggio di tutti il Ciel produce. Nasconderne la luce perché, se agli altri il buon cammino insegna? Le lodi di chi regna sono scuola a chi serve. Il grande esempio innamora, corregge, persuade, ammaestra. Appresso al fonte tutti non sono: è ben ragion che alcuno disseti anche i lontani. Ah, non è reo chi, celebrando i pregi dell'anime reali, ubbidisce agli dei, giova a' mortali. Nube così profonda non può formarsi mai, che le tue glorie asconda, che ne trattenga il vol. Saria difficil meno torre alle stelle i rai, a' fulmini il baleno, la chiara luce al sol. FINE |
Edizione HTML a cura di : mail@debibliotheca.comUltimo Aggiornamento:17/07/2005 01.02 |
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