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Biblioteca Telematica |
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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA |
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L'Olimpiade | ||
di: Pietro Metastasio |
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ATTO
SECONDO SCENA I ARG. Ed ancor della pugna l'esito non si sa? ARI. No, bella Argene. E` pur dura la legge, onde n'è tolto d'esserne spettatrici! ARG. Ah! che sarebbe forse pena maggior veder chi s'ama in cimento sì grande, e non potergli porger soccorso: esser presente... ARI. Io sono presente ancor lontana: anzi mi fingo forse quel che non è. Se tu vedessi come sta questo cor! Qui dentro, amica, qui dentro si combatte; e più che altrove qui la pugna è crudele. Ho innanzi agli occhi Megacle, la palestra, i giudici, i rivali. Io mi figuro questi più forti e quei men giusti. Io provo doppiamente nell'alma ciò che or soffre il mio ben, gli urti, le scosse, gl'insulti, le minacce. Ah! che presente solo il ver temerei; ma il mio pensiero fa ch'io tema lontana il falso e il vero. ARG. Né ancor si vede alcun. ARI. Né alcuno... Oh Dio! ARG. Che avvenne? ARI. Oh come io tremo, come palpito adesso! ARG. E la cagione? ARI. E` deciso il mio fato: vedi Alcandro, che arriva. ARG. Alcandro, ah corri: consolane. Che rechi? SCENA II ALC. Fortunate novelle. Il re m'invia nunzio felice, o principessa. Ed io... ARI. La pugna terminò? ALC. Sì; ascolta. Intorno già impazienti... ARG. Il vincitor si chiede. ALC. Tutto dirò. Già impazienti intorno le turbe spettatrici... ARI. Eh ch'io non cerco questo da te. ALC. Ma in ordine distinto... ARI. Chi vinse dimmi sol. ALC. Licida ha vinto. ARI. Licida! ALC. Appunto. ARG. Il principe di Creta! ALC. Sì, che giunse poc'anzi a queste arene. ARI. (Sventurata Aristea!) ARG. (Povera Argene!) ALC. Oh te felice! Oh quale sposo ti diè la sorte! ARI. Alcandro, parti. ALC. T'attende il re. ARI. Parti, verrò. ALC. T'attende nel gran tempio adunata... ARI. Né parti ancor? ALC. (Che ricompensa ingrata!) SCENA III ARG. Ah dimmi, o principessa, v'è sotto il ciel chi possa dirsi, oh Dio! più misera di me? ARI. Sì, vi son io. ARG. Ah non ti faccia amore provar mai le mie pene! Ah tu non sai qual perdita è la mia! Quanto mi costa quel cor che tu m'involi! ARI. E tu non senti, non comprendi abbastanza i miei tormenti. Grandi, è ver, son le tue pene: perdi, è ver, l'amato bene; ma sei tua, ma piangi intanto, ma domandi almen pietà. Io dal fato io sono oppressa: perdo altrui, perdo me stessa; né conservo almen del pianto l'infelice libertà. SCENA IV ARG. E trovar non poss'io né pietà né soccorso? AMI. Eterni dei! parmi Argene colei. ARG. Vendetta almeno, vendetta si procuri. AMI. Argene, e come tu in Elide! Tu sola! Tu in sì ruvide spoglie! ARG. I neri inganni a secondar del prence dunque ancor tu venisti? A saggio in vero regolator commise il re di Creta di Licida la cura. Ecco i bei frutti di tue dottrine. Hai gran ragione, Aminta, d'andarne altier. Chi vuol sapere appieno se fu attento il cultor, guardi il terreno. AMI. (Tutto già sa). Non da' consigli miei... ARG. Basta... Chi sa: nel Cielo v'è giustizia per tutti; e si ritrova talvolta anche nel mondo. Io chiederolla agli uomini, agli dei. S'ei non ha fede, ritegni io non avrò. Vuo' che Clistene, vuo' che la Grecia, il mondo sappia ch'è un traditore, acciò per tutto questa infamia lo siegua; acciò che ognuno l'abborrisca, l'evìti, e con orrore, a chi nol sa, l'addìti. AMI. Non son questi pensieri degni d'Argene. Un consigliero infido, anche giusto, è lo sdegno. Io nel tuo caso più dolci mezzi adoprerei. Procura ch'ei ti rivegga: a lui favella: a lui le promesse rammenta. E` sempre meglio il racquistarlo amante che opprimerlo nemico. ARG. E credi, Aminta, ch'ei tornerebbe a me? AMI. Lo spero. Al fine fosti l'idolo suo. Per te languiva, delirava per te. Non ti sovviene che cento volte e cento... ARG. Tutto, per pena mia, tutto rammento. Che non mi disse un dì! Quai numi non giurò! E come, oh Dio! si può, come si può così mancar di fede? Tutto per lui perdei; oggi lui perdo ancor. Poveri affetti miei! Questa mi rendi, Amor, questa mercede? SCENA V AMI. Insana gioventù! Qualora esposta ti veggo tanto agl'impeti d'amore, di mia vecchiezza io mi consolo e rido. Dolce è il mirar dal lido chi sta per naufragar; non che ne alletti il danno altrui, ma sol perché l'aspetto d'un mal, che non si soffre, è dolce oggetto. Ma che! l'età canuta non ha le sue tempeste? Ah che pur troppo ha le sue proprie; e dal timor dell'altre sciolta non è. Son le follie diverse, ma folle è ognuno: e a suo piacer ne aggira l'odio o l'amor, la cupidigia o l'ira. Siam navi all'onde algenti lasciate in abbandono: impetuosi venti i nostri affetti sono: ogni diletto è scoglio: tutta la vita è mar. Ben, qual nocchiero, in noi veglia ragion; ma poi pur dall'ondoso orgoglio si lascia trasportar. SCENA VI CORO Del forte Licida nome maggiore d'Alfeo sul margine mai non sonò. PARTE DEL CORO Sudor più nobile del suo sudore l'arena olimpica mai non bagnò. ALTRA PARTE. L'arti ha di Pallade, l'ali ha d'Amore: d'Apollo e d'Ercole l'ardir mostrò. CORO No, tanto merito, tanto valore l'ombra de' secoli coprir non può. CLIST. Giovane valoroso, che in mezzo a tanta gloria umìl ti stai, quell'onorata fronte lascia ch'io baci e che ti stringa al seno. Felice il re di Creta, che un tal figlio sortì! Se avessi anch'io serbato il mio Filinto, chi sa, sarebbe tal. Rammenti, Alcandro, con qual dolor tel consegnai? Ma pure... ALC. Tempo or non è di rammentar sventure. CLIST. (E` ver). Premio Aristea sarà del tuo valor. S'altro donarti Clistene può, chiedilo pur, che mai quanto dar ti vorrei non chiederai. MEG. (Coraggio, o mia virtù). Signor, son figlio, e di tenero padre. Ogni contento, che con lui non divido, è insipido per me. Di mie venture pria d'ogni altro io vorrei giungergli apportator: chieder l'assenso per queste nozze; e, lui presente, in Creta legarmi ad Aristea. CLIST. Giusta è la brama. MEG. Partirò, se il concedi, senz'altro indugio. In vece mia rimanga questi, della mia sposa servo, compagno e condottier. CLIST. (Che volto è questo mai! Nel rimirarlo il sangue mi si riscuote in ogni vena). E questi chi è? Come s'appella? MEG. Egisto ha nome, Creta è sua patria. Egli deriva ancora dalla stirpe real: ma più che 'l sangue, l'amicizia ne stringe; e son fra noi sì concordi i voleri, comuni a segno e l'allegrezza e 'l duolo, che Licida ed Egisto è un nome solo. LIC. (Ingegnosa amicizia!) CLIST. E ben, la cura di condurti la sposa Egisto avrà. Ma Licida non debbe partir senza vederla. MEG. Ah no, sarebbe pena maggior. Mi sentirei morire nell'atto di lasciarla. Ancor da lunge tanta pena io ne provo... CLIST. Ecco che giunge. MEG. (Oh me infelice!) SCENA VII ARI. (All'odiose nozze come vittima io vengo all'ara avanti). LIC. (Sarà mio quel bel volto in pochi istanti). CLIST. Avvicinati, o figlia; ecco il tuo sposo. MEG. (Ah! non è ver). ARI. Lo sposo mio! CLIST. Sì. Vedi se giammai più bel nodo in Ciel si strinse. ARI. (Ma se Licida vinse, come il mio bene?... Il genitor m'inganna?) LIC. (Crede Megacle sposo e se ne affanna). ARI. E questi, o padre, è il vincitor? CLIST. Mel chiedi? Non lo ravvisi al volto di polve asperso? All'onorate stille, che gli rigan la fronte? A quelle foglie, che son di chi trionfa l'ornamento primiero? ARI. Ma che dicesti, Alcandro? ALC. Io dissi il vero. CLIST. Non più dubbiezze. Ecco il consorte, a cui il Ciel t'accoppia: e nol potea più degno ottener dagli dei l'amor paterno. ARI. (Che gioia!) MEG. (Che martìr!) LIC. (Che giorno eterno!) CLIST. E voi tacete? Onde il silenzio? MEG. (Oh Dio! come comincierò?) ARI. Parlar vorrei, ma... CLIST. Intendo. Intempestiva è la presenza mia. Severo ciglio, rigida maestà, paterno impero incomodi compagni sono agli amanti. Io mi sovvengo ancora quanto increbbero a me. Restate. Io lodo quel modesto rossor, che vi trattiene. MEG. (Sempre lo stato mio peggior diviene). CLIST. So ch'è fanciullo Amore, né conversar gli piace con la canuta età. Di scherzi ei si compiace; si stanca del rigore: e stan di rado in pace rispetto e libertà. SCENA VIII MEG. (Fra l'amico e l'amante, che farò sventurato!) LIC. All'idol mio è tempo ch'io mi scopra. MEG. (Aspetta). Oh Dio! ARI. Sposo, alla tua consorte non celar che t'affligge. MEGACLE (Oh pena! Oh morte!) LIC. L'amor mio, caro amico, non soffre indugio. ARI. Il tuo silenzio, o caro, mi cruccia, mi dispera. MEG. (Ardir mio core: finiamo di morir). Per pochi istanti allontanati, o prence. LIC. E qual ragione?... MEG. Va: fidati di me. Tutto conviene ch'io spieghi ad Aristea. LIC. Ma non poss'io esser presente? MEG. No: più che non credi delicato è l'impegno. LIC. E ben, tu 'l vuoi, io lo farò. Poco mi scosto: un cenno basterà perch'io torni. Ah! pensa, amico, di che parli, e per chi. Se nulla mai feci per te, se mi sei grato e m'ami, mostralo adesso. Alla tua fida aìta la mia pace io commetto e la mia vita. SCENA IX MEG. (Oh ricordi crudeli!) ARI. Al fin siam soli: potrò senza ritegni il mio contento esagerar; chiamarti mia speme, mio diletto, luce degli occhi miei... MEG. No, principessa, questi soavi nomi non son per me. Serbali pure ad altro più fortunato amante. ARI. E il tempo è questo di parlarmi così? Giunto è quel giorno... Ma semplice ch'io son: tu scherzi, o caro, ed io stolta m'affanno. MEG. Ah! non t'affanni senza ragion. ARI. Spiegati dunque. MEG. Ascolta: ma coraggio, Aristea. L'alma prepara a dar di tua virtù la prova estrema. ARI. Parla. Aimè! che vuoi dirmi? Il cor mi trema. MEG. Odi. In me non dicesti mille volte d'amar, più che 'l sembiante, il grato cor, l'alma sincera, e quella, che m'ardea nel pensier, fiamma d'onore? ARI. Lo dissi, è ver. Tal mi sembrasti, e tale ti conosco, t'adoro. MEG. E se diverso fosse Megacle un dì da quel che dici; se infedele agli amici, se spergiuro agli dei, se, fatto ingrato al suo benefattor, morte rendesse per la vita che n'ebbe; avresti ancora amor per lui? Lo soffriresti amante? L'accetteresti sposo? ARI. E come vuoi ch'io figurar mi possa Megacle mio sì scellerato? MEG. Or sappi che per legge fatale, se tuo sposo divien, Megacle è tale. ARI. Come! MEG. Tutto l'arcano ecco ti svelo. Il principe di Creta langue per te d'amor. Pietà mi chiede, e la vita mi diede. Ah principessa, se negarla poss'io, dillo tu stessa. ARI. E pugnasti... MEG. Per lui. ARI. Perder mi vuoi... MEG. Sì, per serbarmi sempre degno di te. ARI. Dunque io dovrò... MEG. Tu dèi coronar l'opra mia. Sì, generosa, adorata Aristea, seconda i moti d'un grato cor. Sia, qual io fui fin ora, Licida in avvenire. Amalo. E` degno di sì gran sorte il caro amico. Anch'io vivo di lui nel seno; e s'ei t'acquista, io non ti perdo appieno. ARI. Ah qual passaggio è questo! Io dalle stelle precipito agli abissi. Eh no: si cerchi miglior compenso. Ah! senza te la vita per me vita non è. MEG. Bella Aristea, non congiurar tu ancora contro la mia virtù. Mi costa assai il prepararmi a sì gran passo. Un solo di quei teneri sensi quant'opera distrugge! ARI. E di lasciarmi... MEG. Ho risoluto. ARI. Hai risoluto? E quando? MEG. Questo (morir mi sento) questo è l'ultimo addio. ARI. L'ultimo! Ingrato... Soccorretemi, o numi! Il piè vacilla: freddo sudor mi bagna il volto; e parmi ch'una gelida man m'opprima il core! MEG. Sento che il mio valore mancando va. Più che a partir dimoro, meno ne son capace. Ardir. Vado, Aristea: rimanti in pace. ARI. Come! Già m'abbandoni? MEG. E` forza, o cara, separarsi una volta. ARI. E parti... MEG. E parto per non tornar più mai. ARI. Senti. Ah no... Dove vai? MEG. A spirar, mio tesoro, lungi dagli occhi tuoi. ARI. Soccorso... Io... moro. MEG. Misero me, che veggo! Ah l'oppresse il dolor! Cara mia speme, bella Aristea, non avvilirti; ascolta: Megacle è qui. Non partirò. Sarai... Che parlo? Ella non m'ode. Avete, o stelle, più sventure per me? No, questa sola mi restava a provar. Chi mi consiglia? Che risolvo? Che fo? Partir? Sarebbe crudeltà, tirannia. Restar? che giova? forse ad esserle sposo? E 'l re ingannato, e l'amico tradito, e la mia fede, e l'onor mio lo soffrirebbe? Almeno partiam più tardi. Ah che sarem di nuovo a quest'orrido passo! Ora è pietade l'esser crudele. Addio, mia vita: addio, mia perduta speranza. Il Ciel ti renda più felice di me. Deh, conservate questa bell'opra vostra, eterni dei; e i dì, ch'io perderò, donate a lei. Licida... Dov'è mai? Licida. SCENA X LIC. Intese tutto Aristea? MEG. Tutto. T'affretta, o prence; soccorri la tua sposa. LIC. Aimè, che miro! Che fu? MEG. Doglia improvvisa le oppresse i sensi. LIC. E tu mi lasci? MEG. Io vado... Deh pensa ad Aristea. (Che dirà mai quando in sé tornerà? Tutte ho presenti tutte le smanie sue). Licida, ah senti. Se cerca, se dice: «L'amico dov'è?». «L'amico infelice», rispondi, «morì». Ah no! sì gran duolo non darle per me: rispondi ma solo: «Piangendo partì». Che abisso di pene lasciare il suo bene, lasciarlo per sempre, lasciarlo così! SCENA XI LIC. Che laberinto è questo! Io non l'intendo. Semiviva Aristea... Megacle afflitto... ARI. Oh Dio! LIC. Ma già quell'alma torna agli usati uffizi. Apri i bei lumi, principessa, ben mio. ARI. Sposo infedele! LIC. Ah! non dirmi così. Di mia costanza ecco in pegno la destra. ARI. Almeno... Oh stelle! Megacle ov'è? LIC. Partì. ARI. Partì l'ingrato? Ebbe cor di lasciarmi in questo stato? LIC. Il tuo sposo restò. ARI. Dunque è perduta l'umanità, la fede, l'amore, la pietà! Se questi iniqui incenerir non sanno, numi, i fulmini vostri in ciel che fanno? LIC. Son fuor di me. Dì, che t'offese, o cara? Parla; brami vendetta? Ecco il tuo sposo, ecco Licida... ARI. Oh dei! Tu quel Licida sei! Fuggi, t'invola, nasconditi da me. Per tua cagione, perfido, mi ritrovo a questo passo. LIC. E qual colpa ho commessa? Io son di sasso. ARI. Tu me da me dividi; barbaro, tu m'uccidi: tutto il dolor, ch'io sento, tutto mi vien da te. No, non sperar mai pace. Odio quel cor fallace: oggetto di spavento sempre sarai per me. SCENA XII LIC. A me «barbaro»! Oh numi! «Perfido» a me! Voglio seguirla; e voglio sapere almen che strano enigma è questo. ARG. Fermati, traditor. LIC. Sogno o son desto! ARG. Non sogni no: son io l'abbandonata Argene. Anima ingrata, riconosci quel volto, che fu gran tempo il tuo piacer; se pure in sorte sì funesta delle antiche sembianze orma vi resta. LIC. (Donde viene; in qual punto mi sorprende costei! Se più mi fermo, Aristea non raggiungo). Io non intendo bella ninfa, i tuoi detti. Un'altra volta potrai meglio spiegarti. ARG. Indegno, ascolta. LIC. (Misero me!) ARG. Tu non m'intendi? Intendo ben io la tua perfidia. I nuovi amori, le frodi tue tutte riseppi; e tutto saprà da me Clistene per tua vergogna. LIC. Ah no! Sentimi, Argene. Non sdegnarti: perdona, se tardi ti ravviso. Io mi rammento gli antichi affetti; e, se tacer saprai, forse... chi sa. ARG. Si può soffrir di questa ingiuria più crudel! «Chi sa», mi dici? In vero io son la rea. Picciole prove di tua bontà non sono le vie che m'offri a meritar perdono. LIC. Ascolta. Io volli dir... ARG. Lasciami, ingrato: non ti voglio ascoltar. LIC. (Son disperato). ARG. No, la speranza più non m'alletta: voglio vendetta, non chiedo amor. Pur che non goda quel cor spergiuro, nulla mi curo del mio dolor. SCENA XIII LIC. In angustia più fiera io non mi vidi mai. Tutto è in ruina, se parla Argene. E` forza raggiungerla, placarla... E chi trattiene la principessa intanto? Il solo amico potria... Ma dove andò? Si cerchi. Almeno e consiglio e conforto Megacle mi darà. AMI. Megacle è morto! LIC. Che dici, Aminta! AMI. Io dico pur troppo il ver. LIC. Come! Perché? Qual empio sì bei giorni troncò? Trovisi: io voglio ch'esempio di vendetta altrui ne resti. AMI. Principe, nol cercar: tu l'uccidesti. LIC. Io! Deliri? AMI. Volesse il Ciel ch'io delirassi. Odimi. In traccia mentre or di te venìa, fra quelle piante un gemito improvviso sento: mi fermo: al suon mi volgo; e miro uom, che sul nudo acciaro prono già s'abbandona. Accorro. Al petto fo d'una man sostegno; con l'altra il ferro svio. Ma, quando al volto Megacle ravvisai, pensa com'ei restò, com'io restai! Dopo un breve stupore: «Ah qual follia bramar ti fa la morte!», io volea dirgli. Ei mi prevenne: «Aminta, ho vissuto abbastanza», sospirando mi disse dal profondo del cor. «Senz'Aristea non so viver, né voglio. Ah! son due lustri che non vivo che in lei. Licida, oh Dio! m'uccide, e non lo sa; ma non m'offende: suo dono è questa vita; ei la riprende». LIC. Oh amico! E poi? AMI. Fugge da me, ciò detto, come partico stral. Vedi quel sasso, signor, colà, che il sottoposto Alfeo signoreggia ed adombra? Egli v'ascende in men che non balena. In mezzo al fiume si scaglia: io grido in van. L'onda percossa balzò, s'aperse; in frettolosi giri si riunì; l'ascose. Il colpo, i gridi replicaron le sponde; e più nol vidi. LIC. Ah qual orrida scena or si scopre al mio sguardo! AMI. Almen la spoglia, che albergò sì bell'alma, vadasi a ricercar. Da' mesti amici questi a lui son dovuti ultimi uffici. SCENA XIV LIC. Dove son! Che m'avvenne! Ah dunque il Cielo tutte sopra il mio capo rovesciò l'ire sue! Megacle, oh Dio! Megacle, dove sei? Che fo nel mondo senza di te! Rendetemi l'amico, ingiustissimi dei! Voi mel toglieste, lo rivoglio da voi. Se lo negate, barbari, a' voti miei, dovunque ei sia a viva forza il rapirò. Non temo tutti i fulmini vostri: ho cor che basta a ricalcar su l'orme d'Ercole e di Tesèo le vie di morte. ALC. Olà! LIC. Del guado estremo... ALC. Olà! LIC. Chi sei tu, che audace interrompi le smanie mie? ALC. Regio ministro io sono. LIC. Che vuole il re? ALC. Che in vergognoso esiglio quindi lungi tu vada. Il sol cadente se in Elide ti lascia, sei reo di morte. LIC. A me tal cenno? ALC. Impara a mentir nome, a violar la fede, a deludere i re. LIC. Come! Ed ardisci, temerario... ALC. Non più. Principe, è questo mio dover; l'ho adempito: adempi il resto. SCENA XV LIC. Con questo ferro, indegno, il sen ti passerò... Folle, che dico? che fo? Con chi mi sdegno? Il reo son io, io son lo scellerato. In queste vene con più ragion l'immergerò. Sì, mori, Licida sventurato... Ah perché tremi, timida man? Chi ti ritiene? Ah questa è ben miseria estrema! Odio la vita: m'atterrisce la morte; e sento intanto stracciarmi a brano a brano in mille parti il cor. Rabbia, vendetta, tenerezza, amicizia, pentimento, pietà, vergogna, amore mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide anima lacerata da tanti affetti e sì contrari! Io stesso non so come si possa minacciando tremare, arder gelando, piangere in mezzo all'ire, bramar la morte, e non saper morire. Gemo in un punto e fremo: fosco mi sembra il giorno: ho cento larve intorno; ho mille furie in sen. Con la sanguigna face m'arde Megera il petto; m'empie ogni vena Aletto del freddo suo velen. |
Edizione HTML a cura di : mail@debibliotheca.comUltimo Aggiornamento:14/07/2005 00.05 |
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