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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Con gli occhi chiusi

di Federigo Tozzi

PARTE SECONDA

Ghìsola riuscì presto di casa: s'era tolto il nastro, aveva cambiato le scarpe, mettendosi un grembiule rosso sbiadito. Alzò gli occhi verso Pietro, seria e muta; ed entrò in capanna dimenandosi tutta. Pose dentro una cesta il fieno già falciato dal nonno; poi smise, per levarsi una sverza da un dito. Egli si sentì uguale a quella mano. E il silenzio di lei, inspiegabile, lo imbarazzò; e non sarebbe stato capace a parlarle per primo. Perciò le dette una spinta, ma lieve; ed ella, fingendo d'esser stata per cadere, lo guardò accigliata.
Egli disse: - Quest'altra volta ti butto in terra da vero!
- Ci si provi!
Quand'ella voleva, la sua voce diveniva dura e aspra, strillava come una gallina. Allora egli la guardò con dispetto, sentendo che doveva obbedire.
Per solito, mentre parla, non si sente il suono della voce di chi si ama; o, almeno, non si potrebbe descrivere.
Ella aggiunse: - Vada via.
Egli provava lo stesso effetto di quando siamo sotto l'acqua e non si possono tenere gli occhi aperti; ma rispose: - Ghìsola, tu mi dicesti un mese fa che mi volevi bene. Non te ne ricordi? Io me ne ricordo, e ti voglio bene.
E rise, terminando con un balbettìo. Ghìsola lo guardò come se ci si divertisse; e, in fatti, le piacque quel ripiego d'inventare una cosa per dirne una vera.
Ella rispose: - Lo so, lo so.
Egli, invece di poter seguitare, notò come la tasca del suo grembiule era graziosa. E di lì, d'un tratto, le tolse il piccolo fazzoletto orlato, alla meglio, di stame celeste.
- Me lo renda.
Egli, temendo di aver fatto una schiocchezza, glielo rese.
- Ti sei bucata codesto dito?
Riuscendo a parlare, non gli parve poco.
- Che cosa le importa? Tanto lei non lavora. Non fa mai niente.
Gli rispose con superbia burlesca e sfacciata; ma egli la prese sul serio e disse: - Ghìsola, se vuoi, ti aiuto.
Ella finse di canzonarlo come se non fosse stato capace; e lo allontanò dicendogli che non voleva aiutarla, ma toccarla.
Domenico sopraggiunse dal campo.
Pietro raccolse in fretta un olivastro, ch'era lì in terra; e cominciò a frustare l'uscio della capanna come per uccidere le formiche, che lo attraversavano in fila.
Ghìsola si chinò a prendere a manciate il fieno, con movimenti bruschi e rapidi; e, voltasi dalla parte del mucchio, finì d'empire la cesta. Poi l'alzò per mettersela in spalla, ma non fu capace da sé: gli ossi dei bracci pareva che le volessero sfondare i gomiti.
Allora Pietro l'aiutò prima che il padre potesse vedere. Ghìsola, assecondando il movimento di lui, guardava verso Domenico con i suoi occhi acuti e neri, quasi che le palpebre tagliassero come le costole di certi fili d'erba. Ma Pietro arrossì e tremò perché ella, innanzi di muovere il passo, gli prese una mano. Rimase sbalordito, con una tale dolcezza, che divenne quasi incosciente; pensando: "Così dev'essere!".
Domenico, toccati i finimenti del cavallo se erano ancora affibbiati bene, gli gridò: - Scioglilo e voltalo tu. Ripiega la coperta e mettila sul sedile.
La bestia non voleva voltare; e lo sterzo delle stanghe restava a traverso. Anche lo sguardo di Toppa, sempre irato, molestava e impacciava Pietro.
- Tiralo a te!
Non aveva più forza, non riesciva ad afferrare bene la briglia; e le dita gli entravano nel morso bagnato di bava verdognola e cattiva. Nondimeno fece di tutto, anche perché sapeva che Ghìsola, tornata dalla stalla, doveva essere lì. Tremava sempre di più. E le zampe del cavallo lo rasentarono, poi lo pestarono.
Allora Domenico prese in mano la frusta, andò verso Pietro e gliel'alzò sul naso.
- Lo so io che hai. Ma ti fo doventare buono a qualche cosa io.
Ghìsola si avvicinò al calesse e lo aiutò; dopo aver sdrusciato, allo spigolo del pozzo, uno zoccolo a cui s'era attaccato il concio della stalla.
Domenico, sempre con la frusta in mano, andò a parlare a Giacco che ascoltava con le braccia penzoloni e i pollici ripiegati tra le dita, le cui vene sollevavano la pelle, come lombrici lunghi e fermi sotto la moticcia.
Pietro non aveva il coraggio di guardare in volto Ghìsola, i cui occhi adesso lo seguivano sempre. Le gambe gli si piegavano, con una snervatezza nuova; che aumentava la sua confusione simile a una malattia. Ghìsola lo aiutò ancora; e, nel prendere la coperta rossa che era stata stesa sul cavallo, le sue dita lo toccarono; nel metterla sul sedile, le loro nocche batterono insieme; ed ambedue sentirono male, ma avrebbero avuto voglia di ridere.
Domenico salì sul calesse, sbirciò Pietro e gridò ancora: - Sbrigati! Che cos'hai nel labbro di sotto? Pulisciti.
Egli, impaurito, rispose: - Niente.
Poi pensò che ci fosse il segno delle parole dette a Ghìsola. Ma subito dopo gli dispiacque di essere così sciocco; mentre il cuore gli balzava come per escire fuori.
Gli assalariati e Giacco salutarono, togliendosi il cappello. Pietro a pena ebbe tempo di far con l'angolo della bocca un piccolo cenno a Ghìsola; ma ella era così attenta al padrone che aggrottò in fretta le sopracciglia. Allora Pietro guardò la testa del cavallo, che già tirava il calesse fuori del piazzale mettendosi a trotto a pena nella strada.
La luce del sole tramontato dietro la Montagnola, più rossa che rosea, era sopra a Siena. Ma i cipressi sparsi da per tutto, a filo o a cerchio in cima alle colline, gli dettero il rammarico di staccarsi da una cosa immensa.
Domenico, guidando, non parlava mai; rispondendo con il capo a coloro che lo salutavano. Sorrideva in vece a qualche ragazza che conosceva; e, facendo prima rallentare il cavallo, la toccava con la punta della frusta nel mezzo del grembiule. E Pietro, con gli occhi socchiusi, si voltava dalla parte opposta, arrossendo; poi si distraeva guardando le gambe del cavallo; e gli pareva che il loro rumore variasse di tempo a seconda delle arie che gli passavano per la mente. Oppure cercava di non sentire quell'odore particolare, che avevano gli abiti del padre.
Pietro era doventato così negligente, che verso il mese di maggio il rettore non lo volle più alla scuola.
Domenico lo percosse con lo scheggiale dei calzoni, fino a far piangere anche Anna. Ma, il giorno dopo, nessuno gli disse più niente.
Anna spiegò a Rebecca: - Sono le imprecazioni di quelli che ci vogliono male.
Fece tutti i giorni alcune preghiere ad un santo; ma non trovò mai modo di parlarne sul serio al marito, che le rispondeva sempre: - Oggi non posso.
Se lo tratteneva per la giubba, egli la lasciava con queste parole: - Pensaci tu a lui. Anche tu ora...
Ella non osava di più, temendo che se la rifacesse con Pietro; stordendolo a forza di pugni, con il pretesto di essersi arrabbiato anche troppo.
Né meno la notte era possibile, perché a pena gliene discorreva, stringeva i pugni e gridava: - Lasciami dormire. Ho sonno; è da stamani che lavoro. Riposati anche tu...
Oppure rispondeva: - Hai contato bene i denari incassati oggi? Prima di venire a letto, dovevi contarli. È necessario.
Se ella, per rendergli il cambio, stava zitta, le alzava il capo dal guanciale: - Rispondi!
Aspettava un poco, tentando di questionare; ma poi si addormentava.
Durante una loro contesa in bottega, Pietro saltò fuori a dire: - Imparerò il disegno.
Lo scritturale di un notaio, che aveva finito allora di mangiare, fece una enorme risata.
Pietro lo guardò a lungo, sbigottito dei suoi occhi dolci e contenti che lo compativano.
Era un uomo grasso; dal volto lucido e purpureo, sparso di bitorzoli. Aveva un vestito chiaro e una catena d'oro; i capelli biondicci, la fronte bassa. Disse a Domenico, con convinzione tranquilla: - Non gli date retta. Fategli imparare il vostro mestiere. Voi trattori guadagnate quanto volete.
Tutti risero, perché alludeva al conto che doveva pagare.
Pietro, mentre una specie di formicolìo lieve attraversava il suo volto, dal mento alla fronte, esclamò: - Che importa a lei?
Costui trasse da un astuccio di cuoio un bocchino d'ambra cerchiata d'oro, e v'infilò mezzo sigaro. Poi disse: - Vai a comprarmi una scatola di fiammiferi.
E gli dette un soldo su la tavola.
Pietro guardò anche suo padre: tutti lo fissavano; i volti e gli occhi bruciava no la sua anima. Il cuore gli batteva.
Domenico disse: - Vai, dunque!
Egli afferrò la moneta, e corse dal tabaccaio.
Allora lo scritturale rise tanto che fece il viso congestionato; e, tra gli scoppi di tosse, aggiunse: - Fatelo ubbidire più che potete.
Anna soffriva di queste domestichezze; ma, per paura di perdere gli avventori, non ci si metteva a tu per tu. Invece Domenico se n'esaltava; e gli pareva sempre più di aver ragione. E diceva a Pietro: - Stai attento a quello che ti dico io. Non hai più bisogno di studiare. Basta che tu sappia fare la moltiplicazione. Dovrebbero esser abolite le scuole, e mandati tutti gli insegnanti a vangare. La terra è la migliore cosa che Dio ci ha data.
Anna, scontenta, rispondeva: - Codeste sono idee tue.
Domenico chiedeva, con scherno: - Quanto tempo ci sei andata a scuola tu?
Non ci mancava che da contrastare con la moglie! Ella scuoteva la testa.
- Noi, senza saper né meno la nostra firma, abbiamo fatto fortuna.
Gli avventori rimanevano pensosi; poi esclamavano, tanto per non scontentare di più Anna: - È ancora giovine. Non c'è da capire quel che ci potrete ricavare.
- Ma anche quando io avrò sessant'anni, ed egli più di venti, sarò sempre capace di rompergli la testa.
- Oh, grosso e forte come voi non verrà di certo!
La mattina, ciascuno prendeva la colazione quando ne trovava il tempo, dopo aver terminato le faccende; ma la sera, mangiavano tutti insieme. Domenico a capo di tavola, Pietro tra lui e Rebecca. In faccia al padrone, il cuoco; e, dall'altra parte, i due camerieri; lo sguattero si sedeva a un piccolo tavolo, che serviva anche per tenerci sopra i piatti e le posate: di traverso, per non voltare le spalle agli altri. Anna restava nella sua poltrona, perché così poteva vedere se entrasse in quel frattempo qualche cliente.
Il cuoco era andato su l'uscio di cucina a fumare una cicca, appoggiandosi al muro con le spalle e con la testa; la cantiniera portava i piatti; e lo sguattero, saltando come un ragazzo, corse a dire allo stalliere che attaccasse il cavallo.
Domenico bevve un altro bicchiere di vino; poi tolsesi la dentiera per pulirla con la salvietta, di nascosto, tenendo le mani sotto la tavola.
Anna, per cucire, prese una camicia.
Finalmente, Domenico con un colpo del suo tovagliolo si levò le briciole da sopra i calzoni; si fece spolverare da Rebecca e untare le scarpe da Tiburzi, dando nel frattempo qualche ordine. In punta di piedi andò dietro il figlio che tamburellava con le dita sopra un vetro, accompagnando il mugolìo della sua voce a bocca chiusa; gli dette una manata sul collo, e disse: - Vieni in campagna con me.
Pietro, senza rispondere niente, saltò sul legno già attaccato; e furono a Poggio a' Meli poco prima del tramonto.
Ghìsola, sbucando da una cantonata della capanna, lo vide solo e fermo, con le mani in tasca, nel mezzo dell'aia; e lo rimproverò, seria: - Che cosa fa qui? Perché non è venuto prima? Una volta non le pareva vero. Ma non m'importa!
E aggiunse: - So quel che vuol dirmi.
Egli pensò: "Sì, lo sa. Gli altri sanno tutto di me. Io, no".
Quella sua vita interiore che si sovrapponeva sempre! Come si disperava di poter gustare soltanto dopo, e nel silenzio di se stesso, quel che aveva provato e non detto! E si giudicava perciò inferiore agli altri. Parlava bene con Ghìsola soltanto quando se lo immaginava, specie appena desto.
E divenne più vergognoso. Il colletto gli dava fastidio al mento.
Ghìsola lo guardò come se proprio ci ridesse anche lei; e allora egli si mise a picchiare calci a un ulivo, che era lì, perché ella smettesse. Ma quando risollevò gli occhi, Ghìsola lo guardava ancora più fisso, con la bocca ridente, per burla: non c'era più dubbio!
Il sole tramontò tutto; e un brivido passò sopra Pietro, che non poté più sopportare quel sorriso; volendo perfino dimenticare d'averlo visto. Si rimise a testa bassa, pensando che avrebbe dovuto capire perché non gli piaceva.
Ghìsola si riavviava i capelli, tenendo in mano le forcelle per fargli vedere che erano nuove; e, prima di rimettersele, con una alla volta gli bucò le mani. Ma egli non si mosse.
Si vedevano, fitti, piegarsi i fili d'erba in cima ai quali saltavano gli insetti.
Mentre Ghìsola lo bucava, Pietro pensò: "Certo sa quello che voglio. Ma bisognerebbe che glielo potessi dire: è necessario".
Le sue calze rosse gli facevano coraggio; ma, non potendo pronunziare nessuna parola, si avvicinò di più a lei quasi tremando.
Tra gli olivi ci si vedeva appena; e la terra era già bruna.
- Che vuole? Me lo dica di costì. Non venga in qua troppo.
Ghìsola s'accorse che non distoglieva gli occhi dalle sue calze; ma con la sottana troppo corta non poteva nasconderle.
- Lo sai?
Il volto di lei divenne dolce e pudico.
- Lo sai? Dimmelo.
Ella si coperse di un rossore, che le cambiò la fisionomia.
- Lo so.
E siccome si faceva sempre più vicino, lo allontanò con le mani magre e dure.
Pietro era così ebbro che quasi vacillava. Gli occhi di Ghìsola lo fissavano sempre: vedeva soltanto quegli occhi; e credette che tutta l'ombra dietro a lei e il campo insieme si muovessero secondo i suoi gesti.
- Mi lasci, ora! Ci parleremo un'altra volta... un'altra volta, ho detto!
Gli parve che la sera gli togliesse la carne, lo facesse sparire.
Ghìsola sussurrò: - Le voglio bene.
E scappò dalla parte opposta della capanna: il padrone s'incamminava verso l'aia, con le sue scarpe enormi, respirando forte e alzando e abbassando un poco il capo. Pietro continuò a starsene lì, sbocconcellando, con un sasso che s'era ritrovato in tasca, la cantonata della capanna. Si sbucciava le nocche, ma non sentiva niente.
Domenico lo guardò; e si mise a ridere con Enrico, l'assalariato che lo seguiva.
- Sei matto oppure no? Che ci fai costì, a sciupare il muro?
E, poi, all'assalariato: - Quell'altra cialtrona, al meno, è scappata a tempo!
- Oh, ma per ora son tutti e due ragazzi! Io credo che ruzzino sempre.
Li difendeva supponendo che il padrone ci avesse piacere per Giacco e Masa. Ma Domenico, contento di poterlo contraddire con la sua autorità, rispose: - Io me ne intendo più di te. Stai zitto.
Enrico convenne, allora: - Comincerebbero presto!
E inghiottì, come faceva sempre dopo aver parlato.
Pietro s'era impaurito del rimprovero; e già aveva dimenticato Ghìsola; sebbene gliene rimanesse un fascino troppo forte per lui. S'incamminò verso il padre, che voltava il cavallo alla strada, menandolo per la briglia.
- Sali su.
Egli obbedì, cercando di pulirsi le mani terrose; e non guardando in volto nessuno.
Il cavallo non voleva star fermo dinanzi al cancello aperto; e allora Domenico cominciò a sferzarlo sopra i ginocchi. La bestia si trasse in dietro, alzando le gambe anteriori; il calesse urtò contro il muro.
- Sta' fermo. Devi imparare. E se non impari...
E gli dette una sferzata.
- Se anche tu non impari a fare il tuo dovere...
E gli dette un'altra sferzata.
- Te lo insegno io. Devi star fermo.
Voltò la frusta e gli batté il manico sulle frogie; il cavallo scosse la testa, e Pietro fece l'atto di scendere.
- Tu stai al tuo posto. Se scendi, frusto anche te.
Tutti gli assalariati guardavano inquieti; ed erano impazienti che il padrone se ne andasse perché temevano che se la prendesse anche con loro, trattandoli male, pensando magari di poterli bastonare.
Il cavallo si fermò.
Domenico dette la sferza a Pietro, e si riabbottonò la giubba dinanzi alla bestia: - Bada che io voglio essere obbedito! Non vedi che stai fermo? Ora farò tutto il mio comodo, e poi salirò.
E, per farne la prova, si sbottonava e si riabbottonava la giubba, interrompendosi quando la bestia smuoveva la testa. Affibbiò meglio una delle redini, e salì; fermandosi con un piede sul montatoio; poi, prendendo lo slancio, con le mani attaccate al calesse, si buttò accanto a Pietro, a cui gridò: - Vai più costà.
Pietro era così imbarazzato che non si mosse.
- Ma vai in costà, imbecille!
E, subito, agli assalariati: - Fate il vostro dovere, altrimenti vi mando via tutti. Domani quelle prese devono essere vangate.
- Sissignore.
- Non dubiti.
- Se non fossimo capaci a vangarle in quanti siamo e in tutto il giorno!
- Almeno che non piova!
Il padrone guardò quello che aveva detto così, con l'aria di avventurarglisi addosso; e disse con voce che pareva uno scalpello percosso sopra una pietra: - Se piove, tramuterete il vino. Tu, Giacco, consegnerai le chiavi del tinaio; le hai a posta.
- Sissignore. Come vuole.
Finalmente, si ricordò della trattoria; guardò l'orologio e vide che non poteva più indugiarsi. E allora li lasciò.
Il tramonto era stato rapido e pieno di quelle nuvole che portano la pioggia. Pietro teneva le mani in tasca, pensando che avrebbe fischiato se fosse stato solo. Pareva, nell'oscurità, che le gambe del cavallo battessero insieme. Domenico guidava, irritandosi perché non aveva imposto ai contadini di aprire le buche per gli olivi. Temendo che i suoi ordini non fossero eseguiti con precisione, con l'animo ansioso, gli pareva di seguire quel che facevano; e si struggeva di non essere sempre accanto a loro. Talvolta, per la voglia di sorprenderli, diveniva smanioso e anche più violento.
Pensò di tornare a dietro per assicurarsi che nessuno era rimasto a perder tempo nel mezzo del piazzale, magari a parlare di lui. Guardò le nuvole, e gli venne voglia di frustarle, per rimandarle giù.
Intanto un sogno cupo aveva invaso Pietro: il cavallo era trascinato, all'inverso, con il calesse, dentro una spalancatura interminabile della sua anima.
Ad un tratto, con un moto improvviso e involontario, dopo aver sentito il sapore della propria bocca, sospirò; e mosse la testa innanzi, quasi fosse per cadere.
Domenico gridò: - Che hai?
Credette che avesse sonno e gli voleva dare un pugno.
I cipressi di Vico Alto tagliavano l'aria. La Porta Camollia era rossiccia e si vedeva di lontano il primo dei lampioni accesi dentro la città.
Gli alberi del viale, su la balza della ferrovia, si muovevano silenziosamente con tutte le fronde dinanzi ai monti di un violetto limpidissimo: l'Osservanza era dolce.
Di là dai tetti della Via Camoglia, la cima del Mangia era bianca, quasi splendente, su nel cielo; ma la sua campana, con l'armatura di ferro, più nera.
Quando Anna aveva avuto le convulsioni, restava tutto il giorno stesa nella poltrona; dentro la trattoria. Il suo volto doventava bianco; e Rebecca, assistendola, le slacciava il busto. Ma siccome i cuochi e i camerieri avevano sempre qualche cosa da chiederle, ella riapriva gli occhi, guardava fisso; e poi, scuotendosi tutta, rispondeva. Perché il marito non s'inquietasse di più, non voleva andare a letto. Ma in quei momenti sentiva una grande angoscia, perché era incapace di badare a Pietro.
Le sembrava di non appartenere più alla vita, di non avere mai fatto niente per lui. E allora quella specie di quiete, che le dava l'agiatezza, era sempre sciupata dal ricordo della sua miseria. Ella diceva: - È impossibile esser contenti come vorremmo!
E la stanchezza di esser vissuta era così amara che aveva paura di non sentirsi più buona. Il sentimento della morte le era sempre presente, e non le bastava credere in Dio.
Ella si metteva a guardare Pietro con questo sentimento, e ne provava uno sconforto che le faceva perfino paura.
I suoi nervi scossi dalla convulsione le prolungavano un senso indefinibile di dolore desolato; perché era avvezza a dover guarire da sé, senza sentire mai che gli altri potevano farle qualche cosa.
Ma sperava di guarire, non perché credesse al medico, ma perché aveva Pietro.
Ella non gli sapeva parlare; capiva ch'egli cresceva senza che riuscisse a farselo proprio suo, a dirgli almeno una di quelle parole che avrebbero dovuto consolarla. Anche quando l'aveva vicino, restavano come due che avessero l'impossibilità d'intendersi.
Pietro evitava sempre di farle sentire che le voleva bene, per paura di doventare troppo obbediente; ed ella si disperava troppo e senza ragione di qualche sua scappata. E perciò Pietro temeva quando gli aveva tante cure. Mentre ella, non avendogliele potute fare, cercava un'altra volta d'imporgliele.
- Tu non rispetti la mamma!
Egli, allora, si esasperava; svignandosela senza né meno ascoltarla.
Anna ci piangeva, dicendolo a Rebecca; che le domandava, con un mezzo sorriso: - Ma perché se la prende così?
E siccome glielo aveva allattato e desiderava che fosse affezionato anche a lei, ci sentiva quasi piacere. Ma Anna, mai accortasi di questo, rispondeva: - Non lo devi scusare tu!
- Io?
E Rebecca era per offendersi.
Quando poi Pietro la vedeva piangere, credendo che fosse cattiva, gli veniva voglia di far peggio.
Anna consigliava Rebecca e Masa come dovevano educare Ghìsola: era, però, una bontà da padrona; perché così anche lei dipendeva di più dalla sua volontà. Benché le avesse da vero certi riguardi delicati, come quando diceva a Masa che non la facesse lavorare troppo; e come quando, per capo d'anno, pensava sempre a regalarle un vestituccio nuovo, comprato su quei barroccini di merciai che si fermavano all'uscio della trattoria.
Ghìsola, allora, le portava un mazzo di fiori, che, per averli, andava magari a rubare; e le faceva gli augurii.
I compaesani di Domenico, quando andavano a Siena, mangiavano sempre alla sua trattoria; portandogli i saluti e le notizie dei parenti, e magari una fazzolettata di frutta.
Uno di costoro, volendo che il suo figliolo Antonino imparasse a fare il muratore, come a Civitella non avrebbe potuto, gli chiese che lo affidasse e lo raccomandasse a qualche bravo capomastro. Domenico, i giorni di festa, lo invitava a stare con Pietro; e così ambedue i giovanetti, ch'erano quasi della stessa età, dovettero doventare amici, sebbene non andassero d'accordo; ed Agostino, che aveva antipatia per Antonio, fu sostituito.
E siccome, per passeggiata, soli, arrivavano quasi sempre, come voleva il trattore, a Poggio a' Meli, dopo qualche mese Antonio si vantò di aver parlato di nascosto con Ghìsola. Ed era vero; ma Pietro, da prima, suppose che mentisse, con una delusione violenta, con un dispiacere che pigliava tutto il suo amor proprio. Un amico non doveva mentire. Che aveva detto a Ghìsola? E perché le aveva parlato senza avvertirlo?
Quale umiliazione provava quando gli altri non rispettavano i suoi sentimenti e obbligavano la sua anima a disfarsi!
Gli altri facevano di lui quello che volevano, e a lui si stringeva la gola dall'emozione. Arrossiva, si sgomentava; sentivasi perso. E nessuna cosa era adatta per lui: le strade troppo faticose, il sole troppo caldo, gli abiti tagliati male, le mani troppo grosse; affannandosi a non riflettere a ciò, di convincersi del contrario; stordendosi; mentre gli orecchi gli rombavano, e credeva di dover cadere da un momento all'altro.
Gli sembrava che la sua faccia non fosse capace a nascondere la lealtà troppo aperta e ostinata; provandone una violenza che gli dava il malessere. Si sentiva debole sotto il suo spirito affannato, che egli stesso voleva cambiare.
Una domenica, tra le altre, tornò con Antonio a Poggio a' Meli; perché aveva scommesso di farlo passare da bugiardo dinanzi a Ghìsola. Ma si vergognava di dirgli quel che soffriva dentro di sé; e sentivasi così da meno del suo amico che gli pareva di statura anche più alta del solito.
Già, camminando, s'erano bisticciati, picchiandosi su la schiena; ed egli aveva piuttosto voglia di smettere e di piangere, disperato che l'altro, invece, ci si divertisse.
Antonio, avvedendosi facilmente del turbamento di Pietro, gli gridò: - Vedrai se non è vero!
Pietro non rispose più: e l'amico soggiunse: - Le parlai anche l'altro giorno. Ha promesso di voler bene a me e non a te.
E, per troncar corto, gli dette un pugno; ma Pietro se lo riparò con una mano.
Antonio, sempre più sicuro, seguitava a ripetere: - Tu non ti avvicinerai a lei.
- Né meno tu.
- Io farò quello che voglio.
E fingendosi risentito, si riaccostò con la saliva bianca che gli usciva di bocca. Anche quando non parlava gli si vedevano tutti i denti di sopra, sani, ma storti: sembrava che li avesse piantati nel labbro. E aveva il naso piegato da una parte.
Pietro, cercando di persuaderlo con la bontà, gli disse: - Ed io mi adirerò con te.
- E che m'importa? Fai quello che vuoi. Io sono amico di tuo padre, e verrò quando mi pare. Anzi tuo padre, qui al podere, mi ci porta più volentieri che te.
Pietro si sentì combattuto senza riparo: era proprio vero quel che aveva detto!
E seguitarono a camminare accanto. Ma, dopo un poco, Antonio lo fermò per guardarlo in faccia; trattenendolo per un braccio. Poi fece una sghignazzata: - Stai zitto?
Poi sputò sull'erba, asciugandosi la bocca con il dorso della mano.
Pietro disse: - Io torno indietro.
- Io no: voglio parlarci. Vattene.
- Torna indietro anche tu.
Voleva evitare che Antonio la vedesse. Ma quegli proseguiva; e, allora, Pietro dovette fare altrettanto.
Quando giunsero davanti all'aia, Ghìsola usciva di casa proprio in quel mentre; e s'avviava nel campo a chiamare il nonno, passando accanto alla bella pianta di ciliegio da capo a un filare di viti.
Antonio, per fare il più bravo, le mosse incontro in fretta. Ma Ghìsola rise di più a Pietro; e dette a capire che si fermava lì per lui.
Allora Antonio si mosse per cogliersi una piccia di ciliegie, lasciandoli discosti; e Pietro le domandò: - È vero che vuoi bene soltanto a me? Dimmelo. Se non fosse vero...
Gli rispose con dolcezza: - Soltanto a lei... Però, Antonio non vorrebbe.
Allora non si sentì sicuro, e guardò il dorso dell'amico.
Ghìsola, accortasene, aggiunse: - Non ci crede?
E scosse la testa. Ella parlava, questa volta, con una tranquillità così profonda, ch'egli fu subito rassicurato.
- Ma non se ne faccia accorgere da lui. Perché ce lo porta?
Gli sembrò che lo rimproverasse di non stare a solo con lei e credette che ne soffrisse.
Ma la sua bellezza lo distrasse e gli fece dimenticare quel che Antonio aveva detto.
Antonio, intanto, si riavvicinò; certo dopo aver progettato qualche cosa, sputando lontano i noccioli delle ciliegie mangiate tutte insieme; aiutandosi con un dito per cacciarseli di bocca. Pietro, mentre un brivido lo scuoteva, gliene strappò una piccia infilata alle dita. Antonio esclamò: - Perché me le levi? Dàlle a Ghìsola, piuttosto.
Pietro non seppe che rispondere; perché avrebbe voluto che quella cosa non gli fosse stata suggerita; e restò con le ciliegie in mano. Ma Ghìsola lo cavò d'impaccio: - Io le prendo da me.
Quanto gli parve buona e intelligente!
Ma Antonio non si perse d'animo: - Se non ci arrivi, ti abbasso il ramo io.
Allora, Pietro notò come a lui non sfuggiva mai nulla per ingraziarsela; ma Ghìsola, aspettandosi anche questo, sorrise e disse: - Non importa.
Ma con una insolenza, che Pietro sussultò sorpreso. E pensò: "Perché non è venuto a me di dirglielo prima? Ora non c'è più tempo! E quanto piacere ella avrebbe avuto se glielo avessi detto io!".
Si guardarono tutti e tre in silenzio, stando in cerchio; ma si sentirono per un istante amici e senza ostilità. E sentirono anche il bisogno di dirsi più di quello che s'erano detto fino ad allora.
Ghìsola sembrava più lieta, si mandava in dietro i capelli; toccava il laccio del grembiule, come per invitare a farselo sciogliere. Ma Pietro credeva che se ne volesse andare, perché non riesciva a dirle niente.
Il ciliegio aveva il pedano nero e rossiccio, aperto da profonde screpolature come spacchi, ripieni di resina dura e lucente; una fila di formiche saliva, ed un'altra, accanto, scendeva, brulicanti; pareva di sentirsele camminare addosso. Vicino, su l'erba acciaccata, c'era rimasta una pozzanghera di solfato di rame incalcinato. Sopra un fragolaio pendeva un fico, senza né meno una foglia, tutto liscio, con i rami quasi arruffati insieme; e la sua buccia era di un bianco roseo. Qualche rospo s'udiva dai fondi dei borri, tra i salci potati e rossi. Pareva che non ci fosse nessun'ombra; ma le nebbioline, che restavano basse come le piante, salivano dalle terre vangate.
Antonio, vedendo Pietro assorto, lo urtò. Quegli per non cadere fece un passo innanzi, presso Ghìsola; ma non fiatò perché Antonio non volesse picchiarlo proprio lì: gli parve che ella odorasse molto, di un odore strano; che lo eccitò. Gli parve anche che facesse l'atto di aprirgli le braccia; e ne fu tutto sconvolto: "Se l'avesse aperte da vero?".
Ma Antonio disse a Ghìsola: - È possibile che tu pensi a lui? Non vedi com'è brutto?
La contadina, specie per rispetto, rispose che non era vero; ma in modo che Antonio non se la prendesse troppo. Poi seguitò a difenderlo: - Che gliene importa?
Allora Pietro fu quasi sicuro di non essere solo; ma non ebbe la forza d'alzare gli occhi, benché Antonio non sapesse più quel che dire. Poi Pietro la guardò; ed ella gli sorrise con uno di quei sorrisi involontariamente dolcissimi.
Perciò Antonio, non trovando da proporre di meglio, perché quei due non stessero troppo insieme, disse con tutta la sua cattiveria: - Io me ne torno a Siena.
Ghìsola suggerì sottovoce a Pietro, sapendo che Antonio avrebbe udito lo stesso: - Lo lasci andare.
E allora Antonio, senza aspettarlo, s'avviò; ma, volgendosi con collera, chiese: - E tu non vieni?
Ghìsola non parlava più: e il suo silenzio non lasciava trapelar nulla. Si capiva bene però che voleva mettere alla prova Pietro, che le disse con la voce strozzata: - Bisogna che vada. Mio padre...
Tutta la faccia di lei s'indurì; ed ella si mise a guardare Antonio già discosto parecchi passi.
Pietro si raccomandò: - Non dirgli niente!
Ella abbassò la testa, rispondendo: - Allora vada via!
Ma Pietro credette d'essere amato. E raggiunse Antonio, prendendolo a braccetto. Cominciarono allora a ridacchiare.
Poi, Antonio disse sinceramente, e anche perché Pietro non pensasse più a Ghìsola: - Perché siamo venuti a Poggio a' Meli? Non ci siamo divertiti.
Una cicala cantò da un olivo. La saggina ondeggiava prima lenta e poi in fretta; talvolta qualche stelo pareva scosso da un brivido, aprendo a tratti i suoi fiori chiari.
Antonio cavò di tasca un coltellino con il manico d'osso a coda di pesce, spingendolo sotto la buccia secca di una canna, che aveva raccolta; tagliando anche i cerchietti dei nodi, a colpi che assomigliavano al suo riso.
Pietro non si volse indietro a vedere dove fosse Ghìsola perché non facesse altrettanto Antonio, giacché ora fingeva d'essere attento al suo lavoro di pulitura. Antonio infatti lo spiava; ma era sicuro che non ce ne fosse bisogno.
Giunti alla Porta Camollia, si spolverarono con il fazzoletto le scarpe, si asciugarono il sudore e si ravversarono il cappello aiutandosi a rifarci la piega nel mezzo.
Prima d'entrare nella trattoria, si promisero di non parlare più nessuno dei due a Ghìsola.
Ghìsola aveva ripreso la sua strada verso il campo, con un'ebrezza che empiva di gioia tutto il suo essere. Il movimento delle gambe assecondava questa ebrezza; e le sottane erano così lievi che non le sentiva né meno.
Ella non si fidava d'Antonio che era capace di ridire tutto al padrone; non faceva nessun conto di Pietro; ed Agostino le piaceva più di tutti e tre.
In quel mentre questi, correndo attraverso i filari delle viti, e saltando le passate del grano nuovo, le andò incontro come quando con un palo in mano sfondava le zucche. Era in maniche di camicia, con i polsi tondi e forti e le vene strette dalla carne soda. Non portava il cappello; e gli occhi verdognoli, di una lucentezza di diaccio, sembravano senza palpebre.
Le saltò addosso e la gettò a terra; facendola piangere. Allora le chiese, per celia: - Hai sentito male?
- Niente! Niente!
E lesta, alzandosi, lo afferrò a mezza vita; per fare altrettanto a lui. Ma Agostino le tirò giù le braccia. Ella sorrise, con il viso bagnato di lacrime; volle svignarsela; e puntò i piedi serrandoli insieme. Sicuro della sua forza, il giovine le gridava dentro gli orecchi.
- Ti faccio quello che voglio io! Non ruzzo. Tu lo sai!
Ella, allora, gli azzannò un braccio. Agostino, spingendo il braccio, le piegò la testa indietro, costringendola ad aprire i denti. Poi, piuttosto in collera, le domandò: - Ed ora che cosa fai?
Ghìsola rispose, dopo aver sputato: - Son la più debole. Te ne vanti? Com'è salata la tua pelle!
Egli la guardò negli occhi, per impaurirla.
- Quant'è che non vedi Pietro?
Ella cavò fuori la punta della lingua.
- Non viene più!
Egli che, da casa, lo aveva riconosciuto al vestito, ed era venuto per vederlo, le rifece la voce: - Da vero?
- È quanto mi pare!
- Credevo che volessi venire a mangiare le ciliegie con lui?
E le andò addosso un'altra volta, per pestarle la punta delle scarpe tutte rotte lungo le ricuciture.
- Perché non mi hai detto la verità? Con gli altri devi esser bugiarda; con me no.
E seguitava a farla indietreggiare. Ma ambedue caddero; battendo la fronte insieme. Allora egli ebbe il desiderio di litigare da vero: ma udì la sonagliera della sua mula: - È il mio fratello che torna!
Si drizzò in ginocchio, per ascoltare meglio. Poi finì d'alzarsi e se ne andò vociando: - Se l'ha strapazzata troppo!... Se l'ha strapazzata troppo! Non la sa guidare.
Il ciuffo a punta de' suoi capelli sudati gli sbatteva su le ciglia; e, con quegli orecchi stretti, tutta la testa, rotonda di dietro, sembrava una palla.
Ghìsola era rimasta lì, pentita di trovarsi stesa in terra a quel modo. Si alzò in fretta, pulendosi e guardandosi i polpacci delle mani chiuse a pugno; come quando era a tagliare l'erba e si riposava.
Quando era a tagliare l'erba ficcava la punta del falcino nel tronco di un albero, assettandosi un poco le vesti addosso, specie la camicetta che si sbottonava sempre; stringendo tra i denti le forcelle che una per volta ripigliava per mettersele nei capelli unti d'olio. Dopo aver toccato la punta del falcino, umida del legno lacerato, come di una saliva, cominciava a cantare; interrompendosi, e stando dritta in piedi. Poi, si sputava nelle mani e si rimetteva giù.
Talvolta, le veniva voglia di nascondere tutto il viso; e di restare così; di non essere veduta che dall'aria; di non mangiare più, di morire senza accorgersene.
Le veniva anche voglia di gridare; e aveva paura.
Quel poco tempo che Anna stava al podere, quando non aveva più da lavorare in casa, si faceva empire le brocche da Ghìsola; e poi, con un annaffiatoio, bagnava le piante dei limoni. La sera Giacco toglieva, con una zappa, l'erba nata attorno alla casa; buttandola ai conigli o alle galline.
Anna scendeva fin giù agli orti, e qualcuna delle donne le pigliava l'insalata e i cavoli.
Ella avrebbe voluto tenere i fiori, anche perché vicino a Poggio a' Meli c'era un giardino; che andava sempre a vedere, per ambire di averne un altro eguale. Ma dovevano bastarle i geranii e i garofani; quando glieli regalavano da trapiantare. Non osava, però, tenerne molti, perché certo Domenico le avrebbe domandato se andava in campagna per curarsi oppure per starci in villeggiatura. Del resto ella stessa si contentava d'averne più di quando era ragazza.
Anche per comprare quei pochi ninnoli che teneva nel suo salotto di città, era bisognato che glieli avessero venduti quasi per forza. Infatti un ebreo robivendolo, tutte le volte che non aveva da pagare il conto alla trattoria, le portava a far vedere ogni specie di oggetti vecchi e glieli lasciava sul banco; benché lei non volesse in nessun modo. E quando, passata una settimana, egli tornava, Domenico ed Anna, dopo mezz'ora per mettersi d'accordo, e avergli detto che sarebbe stata l'ultima volta, si aggiustavano alla meglio. Il robivendolo giurava che da qui in avanti avrebbe pagato sempre con i soldi alla mano; e allora bevevano insieme un bicchiere di vino, perché erano doventati anche rochi a forza di vociare e di trattarsi male.
Ma Anna ne era contenta; e così i quadri, dipinti sul vetro, delle Cinque parti del mondo, i portafiori d'alabastro ingiallito, le anfore di vera porcellana entravano in casa sua.
Il salotto, ormai, non ne conteneva più. C'era poi addirittura una parete ricoperta con le fotografie di quasi tutti i conoscenti; e, sopra un mobile verniciato a noce, due ciociare di gesso che sorridevano. Nel tavolino di mezzo, un servito di cristallo celeste, ma incompleto; che aveva attorno cinque lucernine di ottone sempre infioccate su nel manico perché le mandavano, con un fiasco d'olio, a tenerle accese quando facevano i Sepolcri.
Ella dava, almeno una volta al mese, il cinabro agli impiantiti; e, allora, bisognava che si pulissero bene le scarpe prima d'entrare.
Quando, in campagna, le portavano qualche fiore, non voleva tenerlo in casa; e l'offriva alla Madonna del Convento di Poggio al Vento. Se fosse stato già tardi e avevano chiusa la chiesa, lo metteva in fresco, ma sopra il tavolo della stanza d'ingresso; e la mattina dopo era la prima faccenda.
Per pararsi il sole, che le faceva subito dolere la testa, aveva un ombrellino rosso con il manico d'avorio; un ombrellino di parecchi anni. Ella, quando vedeva le assalariate, se ne vergognava; e, chiudendolo, stava piuttosto sotto una pianta. Mentre invece, andando alla messa, lo portava volentieri; e magari se lo faceva reggere da Ghìsola.
In chiesa si metteva su una panca, un poco distante dalle contadine; che, del resto, per rispetto, a farle posto ci pensavano anche da sé.
S'era fatto un vestito nero con una guarnizione di seta gialla al collo; e con una trina che, attaccata alle spalle e alla cintura, stava fino a mezze maniche. Su la guarnizione teneva una catena d'oro. Invece, per la trattoria, aveva un vestito rosso a palline bianche e celesti.
Ella diceva a Ghìsola che imparasse a scrivere, almeno un poco; ma siccome non poteva fidarsi che Pietro le insegnasse, perché si metteva subito a farle dispetti, lei stessa ci si dedicava qualche ora del giorno, quando stava meglio. E Ghìsola s'era fatto l'inchiostro con le more delle siepi. Ma non andò mai avanti oltre le prime aste.
Per dire la verità, invece, Ghìsola avrebbe imparato volentieri; e, a sapere che Pietro andava a scuola, le faceva un grande effetto. Ella avrebbe voluto almeno leggere, perché molte delle sue amiche dei poderi accanto avevano perfino il libro da messa, quello regalato dai cappuccini per la prima comunione; e poi perché, in Piazza del Campo, le domeniche mattine, le veniva voglia di comprare le canzonette stampate che vendevano a un soldo con il racconto di qualche fatto miracoloso, dove c'era sempre una Madonna con una gran corona dietro la testa. Le canzonette erano belle perché anch'esse, prima delle rime, ci avevano sempre qualche figurino. Ella si fermava, con gli altri contadini, a sentirle con la chitarra da Cicciosodo, quel cantastorie capace di smuovere il cappello a tuba contraendo la pelle della fronte, ritto sopra uno sgabello. C'erano anche le scimmie che sceglievano i numeri con la Ruota della Fortuna; c'era chi vendeva certe chicche di tutti i colori, involtate in cartocci ritagliati a frange con le forbici.
Quando tornava a Poggio a' Meli, aveva già imparato l'aria della canzonetta che le era piaciuta di più; ma non si ricordava di tutte le parole. Qualche volta, avendola comprata lo stesso e tenendola piegata in tasca perché Masa non gliela vedesse, se la faceva leggere quando nel campo trovava un'amica. C'erano da vero cose belle, che la commovevano o la facevano ridere.
Per non tenere Pietro proprio in ozio, Anna lo mise alle belle arti; perché aveva sempre avuto una certa tendenza al disegno, che a lei e a qualche avventore era sembrata da non trascurare.
Una mattina, in casa, ricopiando un brutto ritratto a stampa, Pietro si chiese perché provasse quell'indefinitezza per Ghìsola.
Allungava e piegava il collo per veder meglio gli effetti; ma il disegno, a malgrado de' suoi sforzi, era incerto e sbagliato,
Si stupiva di non riescirci; e arricciava in giù e in su le labbra, fino a toccarsi la punta del naso.
I libri di quando andava a scuola, sporchi e slegati, erano tra i suoi piedi. Urtandoli provò un lieve malessere, che lo distrasse. Anche il disegno lo irritò.
Una specie di struggimento a lui noto assalì il suo cervello come una polla diaccia, che non gli permetteva mai di fare qualche cosa. Anche gli sembrava strano d'esistere; perciò ebbe paura di se stesso, e cercò di dimenticarsi, fissando lungamente le palme delle mani finché riuscì a non scorgerle più.
Allora percepì un dolore dietro la scapola sinistra; al quale gli parve ridotto tutto il suo essere.
E dopo un pezzo, si avvide che il tavolino sul quale lavorava, essendo troppo basso, gli aveva aiutato quell'assopimento.
Si alzò. La matita cadde, spezzandosi. Raccattò i pezzettini con un vivo dispiacere quasi superstizioso: "Perché è caduta?".
Esaminò il ritratto e poi la copia; e si sentì tanto scoraggiato che ne provò quasi affanno, come il culmine dell'indecisione e del dubbio che mai lo lasciavano in pace.
E in tanto, un raggio di sole, un raggio pieno di sonno, aveva invaso tutto il foglio di carta. E Pietro pensò: "È finita. Non vado più avanti".
Rebecca, che aveva spazzato tutte le camere, passò accanto a lui e gli disse: - Perché stai costì senza far niente?
Le saltò addosso, dietro le spalle, allacciando le mani sopra il volto. Rebecca rise con la bocca chiusa, insalivandogli le dita. Egli la fece barcollare; poi, saltando, andò in un'altra stanza.
Quella stessa mattina, Ghìsola s'intestò di non alzarsi.
Masa le chiese, con ira: - Ti senti male, forse, dormigliona?
Ma quella non rispose; e la vecchia, borbottando, andò in cucina a mangiare. Dopo un poco, riaprì l'uscio; e affacciatasi, richiese: - Perché non mi rispondi? Vuoi fare i gestri, stamani?
Ghìsola sgorgugliò e si ravvoltolò sotto le coperte, con il viso dalla parte del muro.
Masa non era capace di avere una lunga collera; e, per giustificarsi, disse: - Ho visto che ridevi!
E continuò ad ingoiar la zuppa diaccia, tenendo la scodella in mano.
Ghìsola era molto stanca; aveva una di quelle stanchezze che, lì per lì, si sentono anche moralmente.
Ma Masa, con una persistenza uggiosa, le disse ancora: - Io non ho da sprecare più il fiato. E a star con te non compiccio niente.
- Smettete, dunque! Non posso dormire? Non voglio lavorare. Non devo tornare a Radda? Perché state così impalata?
Le pareva di non aver dormito; e si stupì che Masa continuasse: - E se il padrone non ti vuole più qui, doventi impertinente con me?
E fece l'atto di batterle il cucchiaio su la faccia, ma invece lo leccò di sopra e di sotto. In fondo la compativa, e le dispiaceva di separarsene. Tornò in cucina.
Ghìsola, messa di buon umore da quelle parole, si alzò. In camicia, fece una ghirlanda di fiori finti, con certi pezzetti di filo di ferro; ai quali, l'anno avanti, era stata attaccata l'uva. Poi, la nascose nel canterano insieme con i suoi ritagli di carta colorata, con le scatole da saponette, con un mucchio di nastri e di striscioline di stoffa; che, talvolta, si divertiva a sciorinare in fila sul davanzale della finestra; dove il piccione e la picciona volavano battendo il becco ai vetri per chiederle il granturco o le briciole secche di pane che ella si ritrovava sempre in fondo alla tasca del grembiule.
Si piccò anche di non mangiare, quantunque Masa le avesse tagliato un pezzo di pane.
- Di che cosa campi? Alle volte, invece, t'inghebbi.
La giovinetta alzò il coperchio della madia e v'introdusse il capo, fiutando l'odore acre del lievito che s'era aperto secondo la croce fattavi da Masa con la costola d'un coltello.
Poi se ne andò nel campo, cantando a voce alta; e pensando ai suoi nastri e alle sue scatole odorose.
Dove l'erba era folta, ci stava di più; dov'era rada e bassa, faceva presto, con un colpo di falcinello. Si asciugava, di quando in quando, le mani guazzose; sdrusciandosele alla sottana. Il granturchetto, gremito, le dava quasi gioia; e metteva le piante più belle sopra tutte le altre per darle da sé ai vitelli; che se le mangiavano come una ghiottoneria, leccandole, dopo, le mani e i polsi, scuotendo la testa e le catene legate alle corna.
Quel mastichìo nel silenzio della stalla! E poi bevevano così bene nelle conche colme! Una sorsata sola, che faceva abbassare subito l'acqua! E, da ultimo, certi loro succhii, smuovendo la lingua, respirando a lungo per i buchi del naso, con il collo allungato in su fino a dovere aprire la bocca; scostandosi dalle mangiatoie, a traverso.
Questa volta ella, ad un tratto, pianse; e sbatté, con tutta la sua forza, l'uscio; correndo dalla nonna.
Ghìsola non aveva più il buon contegno di prima. Ambiziosa e caparbia, voleva fare il comodo suo.
Tutte le domeniche, dopo pranzo, fuggiva da casa; e la rivedevano a buio. La nonna andava a cercarla per i poderi: era stata a zonzo per Siena, invece; e, per le strade, le facevano complimenti osceni e proposte di amorazzi. C'era qualcuno che la riconosceva e la seguiva per fermarla e parlarci. Ella sorrideva, un poco stordita e lusingata; perché non eran contadini ma giovini operai vestiti bene. Quando arrivava alla Porta Camollia, doveva far presto; perché le guardie daziarie se la mettevano in mezzo e le impedivano di passare.
E quando aveva un fiore, non doveva andare rasente il muro perché parecchi, ritti su l'uscio delle loro botteghe, allungavano le mani per levarglielo.
Tornata, per non udire brontolii, passava dalla finestra di camera, attaccandosi ai sostegni del pollaio; si spogliava ed entrava a letto senza cenare; arrabbiandosi con il rumore della zuppiera, dove Giacco e Masa mangiavano con i loro cucchiai d'ottone; e quando si sbattevano insieme, Giacco dava un'occhiata a Masa.
Alla fine, la nonna capiva che era in casa; e, pensando che si sarebbe ammalata, le portava di nascosto un pezzo di pane; ma, prima di darglielo, glielo batteva sul capo.
Ghìsola masticava, tenendo il capo volto dalla parte del muro; meravigliandosi che il pane fosse bagnato di lacrime, che non volevano smettere, avendo avuto, poco avanti, piuttosto voglia di ridere. Doveva esser quella la sua vita?
Ma, al rumore dei nonni quando entravano, chiudeva gli occhi; per far credere che dormisse e per il bisogno di non vederli.
L'ultimo giorno che stette a Poggio a' Meli, mentr'era per addormentarsi con una forcella in bocca, che aveva mangiucchiata con i denti, le parve di cadere da una grande altezza e battere sul tetto della casa a Radda: gemendo, si scosse tutta. Il nonno, dall'altro letto, le gridò: - Stai zitta! Credi che non mi dispiaccia?
Temette d'esser brontolata. Poi rifletté, e a lei parve a voce alta: "Non ci pensano più. Bisogna che non russi".
Ma le dava fastidio l'odore delle lenzuola poco pulite; e, per non sentirlo, se le avvoltolò al collo.
I suoi capelli, sciolti, finivano a punta; e, sopra il capezzale, assomigliavano a una falce.
Le parve d'entrare in casa: la mamma aveva un vestito nuovo, le due sorelle erano ingrassate. Una voce le chiese: - Che cosa ci fai qui?
Ed ella rispose: - Non lo so: non ci sono venuta da me. Ma il babbo dov'è nascosto?
- La colpa è tua.
Ripigliava la voce.

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Ultimo Aggiornamento: 01/03/99 0.52