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PARTE PRIMA
Suonava la messa dell'alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. Tutt'a un tratto, nel silenzio, s'udì un rovinìo, la campanella squillante di Sant'Agata che chiamava aiuto, usci e finestre che sbattevano, la gente che scappava fuori in camicia, gridando: - Terremoto! San Gregorio Magno! Era ancora buio. Lontano, nell'ampia distesa nera dell'Alìa, ammiccava soltanto un lume di carbonai, e più a sinistra la stella del mattino, sopra un nuvolone basso che tagliava l'alba nel lungo altipiano del Paradiso. Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l'allarme anch'esso; poi la campana fessa di San Vito; l'altra della chiesa madre, più lontano; quella di Sant'Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l'altra s'erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre. - No! no! E' il fuoco!... Fuoco in casa Trao!... San Giovanni Battista! Gli uomini accorrevano vociando, colle brache in mano. Le donne mettevano il lume alla finestra: tutto il paese, sulla collina, che formicolava di lumi, come fosse il giovedì sera, quando suonano le due ore di notte: una cosa da far rizzare i capelli in testa, chi avesse visto da lontano. - Don Diego! Don Ferdinando! - si udiva chiamare in fondo alla piazzetta; e uno che bussava al portone con un sasso. Dalla salita verso la Piazza Grande, e dagli altri vicoletti, arrivava sempre gente: un calpestìo continuo di scarponi grossi sull'acciottolato; di tanto in tanto un nome gridato da lontano; e insieme quel bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta di Sant'Agata, e quella voce che chiamava: - Don Diego! Don Ferdinando! Che siete tutti morti? Dal palazzo dei Trao, al di sopra del cornicione sdentato, si vedevano salire infatti, nell'alba che cominciava a schiarire, globi di fumo denso, a ondate, sparsi di faville. E pioveva dall'alto un riverbero rossastro, che accendeva le facce ansiose dei vicini raccolti dinanzi al portone sconquassato, col naso in aria. Tutt'a un tratto si udì sbatacchiare una finestra, e una vocetta stridula che gridava di lassù: - Aiuto!... ladri!... Cristiani, aiuto! - Il fuoco! Avete il fuoco in casa! Aprite, don Ferdinando! - Diego! Diego! Dietro alla faccia stralunata di don Ferdinando Trao apparve allora alla finestra il berretto da notte sudicio e i capelli grigi svolazzanti di don Diego. Si udì la voce rauca del tisico che strillava anch'esso: - Aiuto!... Abbiamo i ladri in casa! Aiuto! - Ma che ladri!... Cosa verrebbero a fare lassù? - sghignazzò uno nella folla. - Bianca! Bianca! Aiuto! aiuto! Giunse in quel punto trafelato Nanni l'Orbo, giurando d'averli visti lui i ladri, in casa Trao. - Con questi occhi!... Uno che voleva scappare dalla finestra di donna Bianca, e s'è cacciato dentro un'altra volta, al vedere accorrer gente!... - Brucia il palazzo, capite? Se ne va in fiamme tutto il quartiere! Ci ho accanto la mia casa, perdio! - Si mise a vociare mastro-don Gesualdo Motta. Gli altri intanto, spingendo, facendo leva al portone, riuscirono a penetrare nel cortile, ad uno ad uno, coll'erba sino a mezza gamba, vociando, schiamazzando, armati di secchie, di brocche piene d'acqua; compare Cosimo colla scure da far legna; don Luca il sagrestano che voleva dar di mano alle campane un'altra volta, per chiamare all'armi; Pelagatti così com'era corso, al primo allarme, col pistolone arrugginito ch'era andato a scavar di sotto allo strame. Dal cortile non si vedeva ancora il fuoco. Soltanto, di tratto in tratto, come spirava il maestrale, passavano al di sopra delle gronde ondate di fumo, che si sperdevano dietro il muro a secco del giardinetto, fra i rami dei mandorli in fiore. Sotto la tettoia cadente erano accatastate delle fascine; e in fondo, ritta contro la casa del vicino Motta, dell'altra legna grossa: assi d'impalcati, correntoni fradici, una trave di palmento che non si era mai potuta vendere. - Peggio dell'esca, vedete! - sbraitava mastro-don Gesualdo. - Roba da fare andare in aria tutto il quartiere!... santo e santissimo!... E me la mettono poi contro il mio muro; perché loro non hanno nulla da perdere, santo e santissimo!... In cima alla scala, don Ferdinando, infagottato in una vecchia palandrana, con un fazzolettaccio legato in testa, la barba lunga di otto giorni, gli occhi grigiastri e stralunati, che sembravano quelli di un pazzo in quella faccia incartapecorita di asmatico, ripeteva come un'anatra: - Di qua! di qua! Ma nessuno osava avventurarsi su per la scala che traballava. Una vera bicocca quella casa: i muri rotti, scalcinati, corrosi; delle fenditure che scendevano dal cornicione sino a terra; le finestre sgangherate e senza vetri; lo stemma logoro, scantonato, appeso ad un uncino arrugginito, al di sopra della porta. Mastro-don Gesualdo voleva prima buttar fuori sulla piazza tutta quella legna accatastata nel cortile. - Ci vorrà un mese! - rispose Pelagatti il quale stava a guardare sbadigliando, col pistolone in mano. - Santo e santissimo! Contro il mio muro è accatastata!... Volete sentirla, sì o no? Giacalone diceva piuttosto di abbattere la tettoia; don Luca il sagrestano assicurò che pel momento non c'era pericolo: una torre di Babele! Erano accorsi anche altri vicini. Santo Motta colle mani in tasca, il faccione gioviale e la barzelletta sempre pronta. Speranza, sua sorella, verde dalla bile, strizzando il seno vizzo in bocca al lattante, sputando veleno contro i Trao: - Signori miei... guardate un po'!... Ci abbiamo i magazzini qui accanto! - E se la prendeva anche con suo marito Burgio, ch'era lì in maniche di camicia: - Voi non dite nulla! State lì come un allocco! Cosa siete venuto a fare dunque? Mastro-don Gesualdo si slanciò il primo urlando su per la scala. Gli altri dietro come tanti leoni per gli stanzoni scuri e vuoti. A ogni passo un esercito di topi che spaventavano la gente. - Badate! badate! Ora sta per rovinare il solaio! - Nanni l'Orbo che ce l'aveva sempre con quello della finestra, vociando ogni volta: - Eccolo! eccolo! - E nella biblioteca, la quale cascava a pezzi, fu a un pelo d'ammazzare il sagrestano col pistolone di Pelagatti. Si udiva sempre nel buio la voce chioccia di don Ferdinando il quale chiamava: - Bianca! Bianca! - E don Diego che bussava e tempestava dietro un uscio, fermando pel vestito ognuno che passava strillando anche lui: - Bianca! mia sorella!... - Che scherzate? - rispose mastro-don Gesualdo rosso come un pomodoro, liberandosi con una strappata. - Ci ho la mia casa accanto, capite: Se ne va in fiamme tutto il quartiere! Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portavano acqua; ragazzi che si rincorrevano schiamazzando in mezzo a quella confusione, come fosse una festa; curiosi che girandolavano a bocca aperta, strappando i brandelli di stoffa che pendevano ancora dalle pareti, toccando gli intagli degli stipiti, vociando per udir l'eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in aria ad osservare le dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va e vieni che faceva ballare il pavimento. - Ecco! ecco! Or ora rovina il tetto! - sghignazzava Santo Motta, sgambettando in mezzo all'acqua: delle pozze d'acqua ad ogni passo, fra i mattoni smossi o mancanti. Don Diego e don Ferdinando, spinti, sbalorditi, travolti in mezzo alla folla che rovistava in ogni cantuccio la miseria della loro casa, continuando a strillare: - Bianca!... Mia sorella!... - Avete il fuoco in casa, capite! - gridò loro nell'orecchio Santo Motta. - Sarà una bella luminaria con tutta questa roba vecchia! - Per di qua, per di qua! - si udì una voce dal vicoletto. - Il fuoco è lassù, in cucina... Mastro Nunzio, il padre di Gesualdo, arrampicatosi su di una scala a piuoli, faceva dei gesti in aria, dal tetto della sua casa, lì dirimpetto. Giacalone aveva attaccata una carrucola alla ringhiera del balcone per attinger acqua dalla cisterna dei Motta. Mastro Cosimo, il legnaiuolo, salito sulla gronda, dava furiosi colpi di scure sull'abbaino. - No! no! - gridarono di sotto. - Se date aria al fuoco, in un momento se ne va tutto il palazzo! Don Diego allora si picchiò un colpo in fronte, balbettando: - Le carte di famiglia! Le carte della lite! - E don Ferdinando scappò via correndo, colle mani nei capelli, vociando anche lui. Dalle finestre, dal balcone, come spirava il vento, entravano a ondate vortici di fumo denso, che facevano tossire don Diego, mentre continuava a chiamare dietro l'uscio: - Bianca! Bianca! il fuoco!... Mastro-don Gesualdo il quale si era slanciato furibondo su per la scaletta della cucina, tornò indietro accecato dal fumo, pallido come un morto, cogli occhi fuori dell'orbita, mezzo soffocato: - Santo e santissimo!... Non si può da questa parte!... Sono rovinato! Gli altri vociavano tutti in una volta, ciascuno dicendo la sua; una baraonda da sbalordire: - Buttate giù le tegole! - Appoggiate la scala al fumaiuolo! - Mastro Nunzio, in piedi sul tetto della sua casa, si dimenava al pari di un ossesso. Don Luca, il sagrestano, era corso davvero ad attaccarsi alle campane. La gente in piazza, fitta come le mosche. Dal corridoio riuscì a farsi udire comare Speranza, che era rauca dal gridare strappando i vestiti di dosso alla gente per farsi largo, colle unghie sfoderate come una gatta e la schiuma alla bocca: - Dalla scala ch'è laggiù, in fondo al corridoio! - Tutti corsero da quella parte, lasciando don Diego che seguitava a chiamare dietro l'uscio della sorella: - Bianca! Bianca!... - Udivasi un tramestìo dietro quell'uscio; un correre all'impazzata quasi di gente che ha persa la testa. Poi il rumore di una seggiola rovesciata. Nanni l'Orbo tornò a gridare in fondo al corridoio: - Eccolo! eccolo! - E si udì lo scoppio del pistolone di Pelagatti, come una cannonata. - La Giustizia! Ecco qua gli sbirri! - vociò dal cortile Santo Motta. Allora si aprì l'uscio all'improvviso, e apparve donna Bianca, discinta, pallida come una morta, annaspando colle mani convulse, senza profferire parola, fissando sul fratello gli occhi pazzi di terrore e d'angoscia. Ad un tratto si piegò sulle ginocchia, aggrappandosi allo stipite, balbettando: - Ammazzatemi, don Diego!... Ammazzatemi pure!... ma non lasciate entrare nessuno qui!... Quello che accadde poi, dietro quell'uscio che don Diego aveva chiuso di nuovo spingendo nella cameretta la sorella, nessuno lo seppe mai. Si udì soltanto la voce di lui, una voce d'angoscia disperata, che balbettava: - Voi?... Voi qui?... Accorrevano il signor Capitano, l'Avvocato fiscale, tutta la Giustizia. Don Liccio Papa, il caposbirro, gridando da lontano, brandendo la sciaboletta sguainata: - Aspetta! aspetta! Ferma! ferma! - E il signor Capitano dietro di lui, trafelato come don Liccio, cacciando avanti il bastone: - Largo! largo! Date passo alla Giustizia! - L'Avvocato fiscale ordinò di buttare a terra l'uscio. - Don Diego! Donna Bianca! Aprite! Cosa vi è successo? S'affacciò don Diego, invecchiato di dieci anni in un minuto, allibito, stralunato, con una visione spaventosa in fondo alle pupille grige, con un sudore freddo sulla fronte, la voce strozzata da un dolore immenso: - Nulla!... Mia sorella!... Lo spavento!... Non entrate nessuno!... Pelagatti inferocito contro Nanni l'Orbo: - Bel lavoro mi faceva fare!... Un altro po' ammazzavo compare Santo!... - Il Capitano gli fece lui pure una bella lavata di capo: - Con le armi da fuoco!... Che scherzate?... Siete una bestia! - Signor Capitano, credevo che fosse il ladro, laggiù al buio... L'ho visto con questi occhi! - Zitto! zitto, ubbriacone! - gli diede sulla voce l'Avvocato fiscale. - Piuttosto andiamo a vedere il fuoco. Adesso dal corridoio, dalla scala dell'orto, tutti portavano acqua. Compare Cosimo era salito sul tetto, e dava con la scure sui travicelli. Da ogni parte facevano piovere sul soffitto che fumava, tegole, sassi, cocci di stoviglie. Burgio, sulla scala a piuoli, sparandovi schioppettate sopra, e dall'altro lato Pelagatti, appostato accanto al fumaiuolo, caricava e scaricava il pistolone senza misericordia. Don Luca che suonava a tutto andare le campane; la folla dalla piazza vociando e gesticolando; tutti i vicini alla finestra. I Margarone stavano a vedere dalla terrazza al di sopra dei tetti, dirimpetto, le figliuole ancora coi riccioli incartati, don Filippo che dava consigli da lontano, dirigendo le operazioni di quelli che lavoravano a spegnere l'incendio colla canna d'India. Don Ferdinando, il quale tornava in quel momento carico di scartafacci, batté il naso nel corridoio buio contro Giacalone che andava correndo. - Scusate, don Ferdinando. Vado a chiamare il medico per la sorella di vossignoria. - Il dottor Tavuso! - gli gridò dietro la zia Macrì una parente povera come loro, ch'era accorsa per la prima. - Qui vicino, alla farmacia di Bomma. Bianca era stata presa dalle convulsioni: un attacco terribile; non bastavano in quattro a trattenerla sul lettuccio. Don Diego sconvolto anche lui, pallido come un cadavere, colle mani scarne e tremanti, cercava di ricacciare indietro tutta quella gente. - No!... non è nulla!... Lasciatela sola!...- Il Capitano si mise infine a far piovere legnate a diritta e a manca, come veniva, sui vicini che s'affollavano all'uscio curiosi. - Che guardate? Che volete? Via di qua! fannulloni! vagabondi! Voi, don Liccio Papa, mettetevi a guardia del portone. Venne più tardi un momento il barone Mèndola, per convenienza, e donna Sarina Cirmena che ficcava il naso da per tutto; il canonico Lupi da parte della baronessa Rubiera. La zia Sganci e gli altri parenti mandarono il servitore a prender notizie della nipote. Don Diego, reggendosi appena sulle gambe, sporgeva il capo dall'uscio, e rispondeva a ciascheduno: - Sta un po' meglio... E' più calma!... Vuol esser lasciata sola... - Eh! eh! - mormorò il canonico scuotendo il capo e guardando in giro le pareti squallide della sala: - Mi rammento qui!... Dove è andata la ricchezza di casa Trao!... Il barone scosse il capo anche lui, lisciandosi il mento ispido di barba dura colla mano pelosa. La zia Cirmena scappò a dire: - Sono pazzi! Pazzi da legare tutti e due! Don Ferdinando già è stato sempre uno stupido... e don Diego... vi rammentate! Quando la cugina Sganci gli aveva procurato quell'impiego nei mulini!... Nossignore!... un Trao non poteva vivere di salario!... Di limosina sì, possono vivere!... - Oh! oh! - interruppe il canonico, colla malizia che gli rideva negli occhietti di topo, ma stringendo le labbra sottili. - Sissignore!... Come volete chiamarla: Tutti i parenti si danno la voce per quello che devono mandare a Pasqua e a Natale... Vino, olio, formaggio... anche del grano... La ragazza già è tutta vestita dei regali della zia Rubiera. - Eh! eh!... - Il canonico, con un sorrisetto incredulo, andava stuzzicando ora donna Sarina ed ora il barone, il quale chinava il capo, seguitava a grattarsi il mento discretamente, fingeva di guardare anch'esso di qua e di là, come a dire: - Eh! eh! pare anche a me!... Giunse in quel mentre il dottor Tavuso in fretta, col cappello in capo, senza salutar nessuno, ed entrò nella camera dell'inferma. Poco dopo tornò ad uscire, stringendosi nelle spalle, gonfiando le gote, accompagnato da don Ferdinando allampanato che pareva un cucco. La zia Macrì e il canonico Lupi corsero dietro al medico. La zia Cirmena che voleva sapere ogni cosa e vi piantava in faccia quei suoi occhialoni rotondi peggio dell'Avvocato fiscale. - Eh? Cos'è stato? Lo sapete voi? Adesso si chiamano nervi... malattia di moda... Vi mandano a chiamare per un nulla quasi potessero pagare le visite del medico! - rispose Tavuso burbero. Quindi, piantando anche lui gli occhiali in faccia a donna Sarina: - Volete che ve la dica? Le ragazze a certa età bisogna maritarle! E voltò le spalle soffiando gravemente, tossendo, spurgandosi. I parenti si guardarono in faccia. Il canonico, per discrezione, prese a tenere a bada il barone Mèndola, dandogli chiacchiera e tabacco, sputacchiando di qua e di là, onde cercare di sbirciar quello che succedeva dietro l'uscio socchiuso di donna Bianca, stringendo le labbra riarse come inghiottisse ogni momento: - Si capisce!... La paura avuta!... Le avevano fatto credere d'avere i ladri in casa!... povera donna Bianca!... E' così giovine!... così delicata!... - Sentite, cugina! - disse donna Sarina tirando in disparte la Macrì. Don Ferdinando, sciocco, voleva accostarsi per udire lui pure: - Un momento! Che maniera! - lo sgridò la zia Cirmena. - Ho da dire una parola a vostra zia!... Piuttosto andate a pigliare un bicchiere d'acqua per Bianca, che le farà bene... Tornò a scendere Santo Motta di lassù, fregandosi le mani, coll'aria sorridente: - E' tutta rovinata la cucina! Non c'è più dove cuocere un uovo!... Bisognerà fabbricarla di nuovo! - Come nessuno gli dava retta, fissava in volto or questo ed ora quello col suo sorriso sciocco. Il canonico Lupi, per levarselo dai piedi, gli disse infine: - Va bene, va bene. Poi ci si penserà... Il barone Mèndola, appena Santo Motta volse le spalle, si sfogò infine: - Ci si penserà?... Se ci saranno i denari per pensarci! Io gliel'ho sempre detto... Vendete metà di casa, cugini cari... anche una o due camere... tanto da tirare innanzi!... Ma nossignore!.. Vendere la casa dei Trao?... Piuttosto, ogni stanza che rovina chiudono l'uscio e si riducono in quelle che restano in piedi... Così faranno per la cucina... Faranno cuocere le uova qui in sala, quando le avranno... Vendere una o due camere:... Nossignore... non si può, anche volendo... La camera dell'archivio: e ci son le carte di famiglia!... Quella della processione: e non ci sarà poi dove affacciarsi quando passa il Corpus Domini!... Quella del cucù:... Ci hanno anche la camera pel cucù, capite! E il barone, con quella sfuriata, li piantò tutti lì, che si sganasciavano dalle risa. Donna Sarina, prima d'andarsene, picchiò di nuovo all'uscio della nipote, per sapere come stava. Fece capolino don Diego, sempre con quella faccia di cartapesta, e ripeté: - Meglio... E' più calma!... Vuol esser lasciata sola... - Povero Diego! - sospirò la zia Macrì. - La Cirmena fece ancora alcuni passi nell'anticamera, perché non udisse don Ferdinando il quale veniva a chiuder l'uscio, e soggiunse sottovoce: - Lo sapevo da un pezzo... Vi rammentate la sera dell'Immacolata, che cadde tanta neve?... Vidi passare il baronello Rubiera dal vicoletto qui a due passi... intabarrato come un ladro... Il canonico Lupi attraversò il cortile, rialzando la sottana sugli stivaloni grossi in mezzo alle erbacce, si voltò indietro verso la casa smantellata, per veder se potessero udirlo, e poi, dinanzi al portone, guardando inquieto di qua e di là, conchiuse: - Avete udito il dottore Tavuso? Possiamo parlare perché siamo tutti amici intimi e parenti... A certa età le ragazze bisogna maritarle!
Nella piazza, come videro passare don Diego Trao col cappello bisunto e la palandrana delle grandi occasioni, fu un avvenimento: - Ci volle il fuoco a farvi uscir di casa! - Il cugino Zacco voleva anche condurlo al Caffè dei Nobili: - Narrateci, dite come fu... - Il poveraccio si schermì alla meglio; per altro non era socio: poveri sì, ma i Trao non s'erano mai cavato il cappello a nessuno. Fece il giro lungo onde evitare la farmacia di Bomma, dove il dottor Tavuso sedeva in cattedra tutto il giorno; ma nel salire pel Condotto, rasente al muro, inciampò in quella linguaccia di Ciolla, ch'era sempre in cerca di scandali: - Buon vento, buon vento, don Diego! Andate da vostra cugina Rubiera? Lui si fece rosso. Sembrava che tutti gli leggessero in viso il suo segreto! Si voltò ancora indietro esitante, guardingo, prima d'entrare nel vicoletto, temendo che Ciolla stesse a spiarlo. Per fortuna colui s'era fermato a discorrere col canonico Lupi, facendo di gran risate, alle quali il canonico rispondeva atteggiando la bocca al riso anche lui, discretamente. La baronessa Rubiera faceva vagliare del grano. Don Diego la vide passando davanti la porta del magazzino, in mezzo a una nuvola di pula, con le braccia nude, la gonnella di cotone rialzata sul fianco, i capelli impolverati, malgrado il fazzoletto che s'era tirato giù sul naso a mo' di tettino. Essa stava litigando con quel ladro del sensale Pirtuso, che le voleva rubare il suo farro pagandolo due tarì meno a salma, accesa in volto, gesticolando con le braccia pelose, il ventre che le ballava: - Non ne avete coscienza, giudeo?... - Poi, come vide don Diego, si voltò sorridente: - Vi saluto, cugino Trao. Cosa andate facendo da queste parti? - Veniva appunto, signora cugina... - e don Diego, soffocato dalla polvere, si mise a tossire. - Scostatevi, scostatevi! Via di qua, cugino. Voi non ci siete avvezzo - interruppe la baronessa. - Vedete cosa mi tocca a fare? Ma che faccia avete, gesummaria! Lo spavento di questa notte, eh?... Dalla botola, in cima alla scaletta di legno, si affacciarono due scarpacce, delle grosse calze turchine, e si udì una bella voce di giovanetta la quale disse: - Signora baronessa, eccoli qua. - E' tornato il baronello? - Sento Marchese che abbaia laggiù. - Va bene, adesso vengo. Dunque, pel farro cosa facciamo, mastro Lio? Pirtuso era rimasto accoccolato sul moggio, tranquillamente, come a dire che non gliene importava del farro, guardando sbadatamente qua e là le cose strane che c'erano nel magazzino vasto quanto una chiesa. Una volta, al tempo dello splendore dei Rubiera, c'era stato anche il teatro. Si vedeva tuttora l'arco dipinto a donne nude e a colonnati come una cappella; il gran palco della famiglia di contro, con dei brandelli di stoffa che spenzolavano dal parapetto; un lettone di legno scolpito e sgangherato in un angolo; dei seggioloni di cuoio, sventrati per farne scarpe; una sella di velluto polverosa, a cavalcioni sul subbio di un telaio; vagli di tutte le grandezze appesi in giro; mucchi di pale e di scope; una portantina ficcata sotto la scala che saliva al palco, con lo stemma dei Rubiera allo sportello, e una lanterna antica posata sul copricielo, come una corona. Giacalone, e Vito Orlando, in mezzo a mucchi di frumento alti al pari di montagne, si dimenavano attorno ai vagli immensi, come ossessi, tutti sudati e bianchi di pula, cantando in cadenza; mentre Gerbido, il ragazzo, ammucchiava continuamente il grano con la scopa. - Ai miei tempi, signora baronessa, io ci ho visto la commedia, in questo magazzino, - rispose Pirtuso per sviare la domanda. - Lo so! lo so! Così si son fatti mangiare il fatto suo i Rubiera! E ora vorreste continuare!... Lo pigliate il farro, sì o no? - Ve l'ho detto: a cinque onze e venti. - No, in coscienza, non posso. Ci perdo già un tarì a salma. - Benedicite a vossignoria! - Via, mastro Lio, ora che ha parlato la signora baronessa! - aggiunse Giacalone, sempre facendo ballare il vaglio. Ma il sensale riprese il suo moggio, e se ne andò senza rispondere. La baronessa gli corse dietro, sull'uscio, per gridargli: - A cinque e vent'uno. V'accomoda? - Benedicite, benedicite. Ma essa, colla coda dell'occhio, si accorse che il sensale si era fermato a discorrere col canonico Lupi, il quale, sbarazzatosi infine del Ciolla, se ne veniva su pel vicoletto. Allora, rassicurata, si rivolse al cugino Trao, parlando d'altro: - Stavo pensando giusto a voi, cugino. Un po' di quel farro voglio mandarvelo a casa... No, no, senza cerimonie... Siamo parenti. La buon'annata deve venire per tutti. Poi il Signore ci aiuta!... Avete avuto il fuoco in casa, eh? Dio liberi! M'hanno detto che Bianca è ancora mezza morta dallo spavento... Io non potevo lasciare, qui... scusatemi. - Sì... son venuto appunto... Ho da parlarvi... - Dite, dite pure... Ma intanto, mentre siete laggiù, guardate se torna Pirtuso... Così, senza farvi scorgere... - E' una bestia! - rispose Vito Orlando dimenandosi sempre attorno al vaglio. - Conosco mastro Lio. E' una bestia! Non torna. Ma in quel momento entrava il canonico Lupi, sorridente, con quella bella faccia amabile che metteva tutti d'accordo, e dietro a lui il sensale col moggio in mano. - Deo gratias! Deo gratias! Lo combiniamo questo matrimonio, signora baronessa? Come s'accorse di don Diego Trao, che aspettava umilmente in disparte, il canonico mutò subito tono e maniere, colle labbra strette, affettando di tenersi in disparte anche lui, per discrezione, tutto intento a combinare il negozio del frumento. Si stette a tirare un altro po'; mastro Lio ora strillava e dibattevasi quasi volessero rubargli i denari di tasca. La baronessa invece coll'aria indifferente, voltandogli le spalle, chiamando verso la botola: - Rosaria! Rosaria! - E tacete! - esclamò infine il canonico battendo sulle spalle di mastro Lio colla manaccia. - Io so per chi comprate. E' per mastro-don Gesualdo. Giacalone accennò di sì, strizzando l'occhio. - Non è vero! Mastro-don Gesualdo non ci ha che fare! - si mise a vociare il sensale. - Quello non è il mestiere di mastro-don Gesualdo! - Ma infine, come s'accordarono sul prezzo, Pirtuso si calmò. Il canonico soggiunse: - State tranquillo, che mastro-don Gesualdo fa tutti i mestieri in cui c'è da guadagnare. Pirtuso il quale s'era accorto della strizzatina d'occhio di Giacalone, andò a dirgli sotto il naso il fatto suo: - Che non ne vuoi mangiare pane, tu? Non sai che si tace nei negozi? - La baronessa, dal canto suo, mentre il sensale le voltava le spalle, ammiccò anch'essa al canonico Lupi, come a dirgli che riguardo al prezzo non c'era male. - Sì, sì, - rispose questi sottovoce. - Il barone Zacco sta per vendere a minor prezzo. Però mastro-don Gesualdo ancora non ne sa nulla. - Ah! s'è messo anche a fare il negoziante di grano, mastro-don Gesualdo? Non lo fa più il muratore? - Fa un po' di tutto, quel diavolo! Dicesi pure che vuol concorrere all'asta per la gabella delle terre comunali... La baronessa allora sgranò gli occhi: - Le terre del cugino Zacco:... Le gabelle che da cinquant'anni si passano in mano di padre in figlio?... E' una bricconata! - Non dico di no; non dico di no. Oggi non si ha più riguardo a nessuno. Dicono che chi ha più denari, quello ha ragione... Allora si rivolse verso don Diego, con grande enfasi, pigliandosela coi tempi nuovi: - Adesso non c'è altro Dio! Un galantuomo alle volte... oppure una ragazza ch'è nata di buona famiglia... Ebbene non hanno fortuna! Invece uno venuto dal nulla... uno come mastro-don Gesualdo, per esempio!... Il canonico riprese a dire come in aria di mistero parlando piano con la baronessa e don Diego Trao sputacchiando di qua e di là: - Ha la testa fine quel mastro-don Gesualdo! Si farà ricco ve lo dico io! Sarebbe un marito eccellente per una ragazza a modo... come ce ne son tante che non hanno molta dote. Mastro Lio stavolta se ne andava davvero. - Dunque signora baronessa, posso venire a caricare il grano? - La baronessa, tornata di buon umore, rispose: - Sì ma sapete come dice l'oste? " Qui si mangia e qui si beve; senza denari non ci venire." - Pronti e contanti, signora baronessa. Grazie a Dio vedrete che saremo puntuali. - Se ve l'avevo detto! - esclamò Giacalone ansando sul vaglio. - E' mastro-don Gesualdo! Il canonico fece un altro segno d'intelligenza alla baronessa, e dopo che Pirtuso se ne fu andato, le disse: - Sapete cosa ho pensato? di concorrere pure all'asta vossignoria, insieme a qualchedun altro... ci starei anch'io... - No, no, ho troppa carne al fuoco!... Poi non vorrei fare uno sgarbo al cugino Zacco! Sapete bene... Siamo nel mondo... Abbiamo bisogna alle volte l'uno dell'altro. - Intendo... mettere avanti un altro... mastro-don Gesualdo Motta, per esempio. Un capitaluccio lo ha; lo so di sicuro... Vossignoria darebbe l'appoggio del nome... Si potrebbe combinare una società fra di noi tre... Poscia, sembrandogli che don Diego Trao stesse ad ascoltare i loro progetti, perchè costui aspettava il momento di parlare alla cugina Rubiera, impresciuttito nella sua palandrana, e aveva tutt'altro per la testa il poveraccio! il canonico cambiò subito discorso: - Eh, eh, quante cose ha visto questo magazzino! Mi rammento, da piccolo, il marchese Limòli che recitava Adelaide e Comingio colla Margarone, buon'anima, la madre di don Filippo, quella ch'è andata a finire poi alla Salonia. "Adelaide! dove sei?" - La scena della Certosa... Bisognava vedere! tutti col fazzoletto agli occhi! Tanto che don Alessandro Spina per la commozione, si mise a gridare: "Ma diglielo che sei tu!..." e le buttò anche una parolaccia... Ci fu poi la storia della schioppettata che tirarono al marchese Limòli, mentre stava a prendere il fresco, dopo cena; e di don Nicola Margarone che condusse la moglie in campagna, e non le fece più vedere anima viva. Ora riposano insieme marito e moglie nella chiesa del Rosario, pace alle anime loro! La baronessa affermava coi segni del capo, dando un colpo di scopa, di tanto in tanto, per dividere il grano dalla mondiglia. - Così andavano in rovina le famiglie. Se non ci fossi stata io, in casa dei Rubiera!... Lo vedete quel che sarebbe rimasto di tante grandezze! Io non ho fumi, grazie a Dio! Io sono rimasta quale mi hanno fatto mio padre e mia madre... gente di campagna, gente che hanno fatto la casa colle loro mani, invece di distruggerla! e per loro c'è ancora della grazia di Dio nel magazzino dei Rubiera, invece di feste e di teatri... In quella arrivò il vetturale colle mule cariche. - Rosaria! Rosaria! - si mise a gridare di nuovo la baronessa verso la scaletta. Finalmente comparvero dalla botola le scarpaccie e le calze turchine, poi la figura di scimmia della serva, sudicia, spettinata, sempre colle mani nei capelli. - Don Ninì non era alla Vignazza, - disse lei tranquillamente. - Alessi è ritornato col cane, ma il baronello non c'era. - Oh, Vergine Santa! - cominciò a strillare la padrona, perdendo un po' del suo colore acceso. - Oh, Maria Santissima! E dove sarà mai? Cosa gli sarà accaduto al mio ragazzo? Don Diego a quel discorso si faceva rosso e pallido da un momento all'altro. Aveva la faccia di uno che voglia dire: - Apriti, terra, e inghiottimi! - Tossì, cercò il fazzoletto dentro il cappello, aprì la bocca per parlare; poi si volse dall'altra parte, asciugandosi il sudore. Il canonico s'affrettò a rispondere, guardando sottecchi don Diego Trao. - Sarà andato in qualche altro posto... Quando si va a caccia, sapete bene... - Tutti i vizi di suo padre, buon'anima! Caccia, giuoco, divertimenti... senza pensare ad altro... e senza neppure avvertirmi!... Figuratevi, stanotte, quando le campane hanno suonato al fuoco, vado a cercarlo in camera sua, e non lo trovo! Mi sentirà!... Oh, mi sentirà!... Il canonico cercava di troncare il discorso, col viso inquieto, il sorriso sciocco che non voleva dir nulla: - Eh, eh, baronessa! vostro figlio non è più un ragazzo; ha ventisei anni! - Ne avesse anche cento!... Fin che si marita, capite!... E anche dopo! - Signora baronessa, dove s'hanno a scaricare i muli? - disse Rosaria, grattandosi il capo. - Vengo, vengo. Andiamo per di qua. Voialtri passerete pel cortile, quando avrete terminato. Essa chiuse a catenaccio Giacalone e Vito Orlando dentro il magazzino, e s'avviò verso il portone. La casa della baronessa era vastissima, messa insieme a pezzi e bocconi, a misura che i genitori di lei andavano stanando ad uno ad uno i diversi proprietari, sino a cacciarsi poi colla figliuola nel palazzetto dei Rubiera e porre ogni cosa in comune: tetti alti e bassi; finestre d'ogni grandezza, qua e là, come capitava; il portone signorile incastrato in mezzo a facciate da catapecchie. Il fabbricato occupava quasi tutta la lunghezza del vicoletto. La baronessa, discorrendo sottovoce col canonico Lupi, s'era quasi dimenticata del cugino, il quale veniva dietro passo passo. Ma giunti al portone il canonico si tirò indietro prudentemente: - Un'altra volta; tornerò poi. Adesso vostro cugino ha da parlarvi. Fate gli affari vostri, don Diego. - Ah, scusate, cugino. Entrate, entrate pure. Fin dall'androne immenso e buio, fiancheggiato di porticine basse, ferrate a uso di prigione, si sentiva di essere in una casa ricca: un tanfo d'olio e di formaggio che pigliava alla gola; poi un odore di muffa e di cantina. Dal rastrello spalancato, come dalla profondità di una caverna, venivano le risate di Alessi e della serva che riempivano i barili, e il barlume fioco del lumicino posato sulla botte. - Rosaria! Rosaria! - tornò a gridare la baronessa in tono di minaccia. Quindi rivolta al cugino Trao: - Bisogna darle spesso la voce, a quella benedetta ragazza; perché quando ci ha degli uomini sottomano è un affar serio! Ma del resto è fidata, e bisogna aver pazienza. Che posso farci?... Una casa piena di roba come la mia!... Più in là, nel cortile che sembrava quello di una fattoria popolato di galline, di anatre, di tacchini, che si affollavano schiamazzando attorno alla padrona, il tanfo si mutava in un puzzo di concime e di strame abbondante. Due o tre muli dalla lunga fila sotto la tettoia, allungarono il collo ragliando; dei piccioni calarono a stormi dal tetto; un cane da pecoraio feroce, si mise ad abbaiare, strappando la catena; dei conigli allungavano pure le orecchie inquiete, dall'oscurità misteriosa della legnaia. E la baronessa in mezzo a tutto quel ben di Dio, disse al cugino: - Voglio mandarvi un paio di piccioni, per Bianca... Il poveraccio tossì, si soffiò il naso, ma non trovò neppure allora le parole da rispondere. Infine, dopo un laberinto di anditi e di scalette, per stanzoni oscuri, ingombri di ogni sorta di roba, mucchi di fave e di orzo riparati dai graticci, arnesi di campagna, cassoni di biancheria, arrivarono nella camera della baronessa, imbiancata a calce, col gran letto nuziale rimasto ancora tale e quale, dopo vent'anni di vedovanza, dal ramoscello d'ulivo benedetto, a piè del crocifisso, allo schioppo del marito accanto al capezzale. La cugina Rubiera era tornata a lamentarsi del figliuolo: - Tale e quale suo padre, buon'anima! Senza darsi un pensiero al mondo della mamma o dei suoi interessi!... Vedendo il cugino Trao inchiodato sull'uscio, rimpiccinito nel soprabitone, gli porse da sedere: - Entrate, entrate, cugino Trao. - Il poveretto si lasciò cadere sulla seggiola, quasi avesse le gambe rotte, sudando come Gesù all'orto; si cavò allora il cappellaccio bisunto, passandosi il fazzoletto sulla fronte. - Avete da dirmi qualche cosa, cugino? Parlate, dite pure. Egli strinse forte le mani l'una nell'altra, dentro il cappello, e balbettò colla voce roca, le labbra smorte e tremanti, gli occhi umidi e tristi che evitavano gli occhi della cugina: - Sissignora... Ho da parlarvi... Lei, da prima, al vedergli quella faccia, pensò che fosse venuto a chiederle denari in prestito. Sarebbe stata la prima volta, è vero: erano troppo superbi i cugini Trao: qualche regaluccio, di quelli che aiutano a tirare innanzi, vino, olio, frumento, solevano accettarlo dai parenti ricchi - lei, la cugina Sganci, il barone Mèndola - ma la mano non l'avevano mai stesa. Però alle volte il bisogno fa chinare il capo anche ad altro!... La prudenza istintiva che era nel sangue di lei, le agghiacciò un momento il sorriso benevolo. Poscia pensò al fuoco che avevano avuto in casa, alla malattia di Bianca - era una buona donna infine - don Diego aveva proprio una faccia da far compassione... Accostò la sua seggiola a quella di lui, per fargli animo, e soggiunse: - Parlate, parlate, cugino mio... Quel che si può fare... sapete bene... siamo parenti... I tempi non rispondono... ma quel poco che si può... Non molto... ma quel poco che posso... fra parenti... Parlate pure... Ma egli non poteva, no! colle fauci strette, la bocca amara, alzando ogni momento gli occhi su di lei, e aprendo le labbra senza che ne uscisse alcun suono. Infine, cavò di nuovo il fazzoletto per asciugarsi il sudore, se lo passò sulle labbra aride, balbettando: - E' accaduta una disgrazia!... Una gran disgrazia!... La baronessa ebbe paura di essersi lasciata andare troppo oltre. Nei suoi occhi, che fuggivano quelli lagrimosi del cugino, cominciò a balenare la inquietudine del contadino che teme per la sua roba. - Cioè!... cioè!... - Vostro figlio è tanto ricco!... Mia sorella no, invece!... A quelle parole la cugina Rubiera tese le orecchie, colla faccia a un tratto irrigidita nella maschera dei suoi progenitori, improntata della diffidenza arcigna dei contadini che le avevano dato il sangue delle vene e la casa messa insieme a pezzo a pezzo colle loro mani. Si alzò, andò ad appendere la chiave allo stipite dell'uscio, frugò alquanto nei cassetti del cassettone. Infine, vedendo che don Diego non aggiungeva altro: - Ma spiegatevi, cugino. Sapete che ho tanto da fare... Invece di spiegarsi don Diego scoppiò a piangere come un ragazzo, nascondendo il viso incartapecorito nel fazzoletto di cotone, con la schiena curva e scossa dai singhiozzi ripetendo: - Bianca! mia sorella!... E' capitata una gran disgrazia alla mia povera sorella!... Ah, cugina Rubiera!... voi che siete madre!... Adesso la cugina aveva tutt'altra faccia anche lei: le labbra strette per non lasciarsi scappar la pazienza, e una ruga nel bel mezzo della fronte: la ruga della gente che è stata all'acqua e al sole per farsi la roba - o che deve difenderla. In un lampo le tornarono in mente tante cose alle quali non aveva badato nella furia del continuo da fare: qualche mezza parola della cugina Macrì; le chiacchiere che andava spargendo don Luca il sagrestano; certi sotterfugi del figliuolo. A un tratto si sentì la bocca amara come il fiele anch'essa. - Non so, cugino, - gli rispose secco secco. - Non so come ci entri io in questi discorsi... Don Diego stette un po' a cercare le parole, guardandola fisso negli occhi che dicevano tante cose, in mezzo a quelle lagrime di onta e di dolore, e poi nascose di nuovo il viso fra le mani, accompagnando col capo la voce che stentava a venir fuori: - Sì!... sì!... Vostro figlio Ninì!... La baronessa stavolta rimase lei senza trovar parola, con gli occhi che le schizzavano fuori dal faccione apoplettico fissi sul cugino Trao, quasi volesse mangiarselo; quindi balzò in piedi come avesse vent'anni, e spalancò in furia la finestra gridando: - Rosaria! Alessi! venite qua! - Per carità! per carità! - supplicava don Diego a mani giunte, correndole dietro. - Non fate scandali, per carità! - E tacque, soffocato dalla tosse, premendosi il petto. Ma la cugina, fuori di sé, non gli dava più retta. Sembrava un terremoto per tutta la casa: gli schiamazzi dal pollaio; l'uggiolare del cane; le scarpaccie di Alessi e di Rosaria che accorrevano a rotta di collo, arruffati, scalmanati, con gli occhi bassi. - Dov'è mio figlio, infine? Cosa t'hanno detto alla Vignazza? Parla, stupido! - Alessi dondolandosi ora su di una gamba e ora sull'altra, balbettando, guardando inquieto di qua e di là, ripeteva sempre la stessa cosa: - Il baronello non era alla Vignazza. Vi aveva lasciato il cane, Marchese, la sera innanzi, ed era partito: - A piedi, sissignora. Così mi ha detto il fattore. - La serva, rassettandosi di nascosto, a capo chino, soggiunse che il baronello, allorché andava a caccia di buon'ora, soleva uscire dalla porticina della stalla, per non svegliar nessuno: - La chiave?... Io non so... Ha minacciato di rompermi le ossa... La colpa non è mia, signora baronessa!... - Come le pigliasse un accidente, alla signora baronessa. - Poi sgattaiolarono entrambi mogi mogi. Nella scala si udirono di nuovo le scarpaccie che scendevano a precipizio, inseguendosi. Don Diego, cadaverico, col fazzoletto sulla bocca per frenare la tosse, continuava a balbettare soffocato delle parole senza senso. - Era lì... dietro quell'uscio!... Meglio m'avesse ucciso addirittura... allorché mi puntò le pistole al petto... a me!... le pistole al petto, cugina Rubiera!... La baronessa si asciugava le labbra amare come il fiele col fazzoletto di cotone: - No! questa non me l'aspettavo!... dite la verità, cugino don Diego, che non me la meritavo!... Vi ho sempre trattati da parenti... E quella gatta morta di Bianca che me la pigliavo in casa giornate intere... come una figliuola... - Lasciatela stare, cugina Rubiera! - interruppe don Diego, con un rimasuglio del vecchio sangue dei Trao alle guance. - Sì, sì, lasciamola stare! Quanto a mio figlio ci penserò io, non dubitate! Gli farò fare quel che dico io, al signor baronello... Birbante! assassino! Sarà causa della mia morte!... E le spuntarono le lagrime. Don Diego, avvilito, non osava alzare gli occhi. Ci aveva fissi dinanzi, implacabili, Ciolla, la farmacia di Bomma, le risate ironiche dei vicini, le chiacchiere delle comari, ed anche insistente e dolorosa, la visione netta della sua casa, dove un uomo era entrato di notte: la vecchia casa che gli sembrava sentir trasalire ancora in ogni pietra all'eco di quei passi ladri: e Bianca, sua sorella, la sua figliuola, il suo sangue, che gli aveva mentito, che s'era stretta tacita nell'ombra all'uomo il quale veniva a recare così mortale oltraggio ai Trao: il suo povero corpo delicato e fragile nelle braccia di un estraneo!... Le lagrime gli scendevano amare e calde a lui pure lungo il viso scarno che nascondeva fra le mani. La baronessa, infine, si asciugò gli occhi, e sospirò rivolta al crocifisso: - Sia fatta la volontà di Dio! Anche voi, cugino Trao, dovete aver la bocca amara! Che volete: Tocca a noi che abbiamo il peso della casa sulle spalle!... Dio sa se della mia pelle ho fatto scarpe, dalla mattina alla sera! se mi son levato il pan di bocca per amore della roba!... E poi tutto a un tratto, ci casca addosso un negozio simile!... Ma questa è l'ultima che mi farà il signor baronello!... L'aggiusterò io, non dubitate! Alla fin fine non è più un ragazzo! Lo mariterò a modo mio... La catena al collo, là! quella ci vuole!... Ma voi, lasciatemelo dire, dovevate tenere gli occhi aperti, cugino Trao!... Non parlo di vostro fratello don Ferdinando, ch'è uno stupido, poveretto, sebbene sia il primogenito... ma voi che avete più giudizio... e non siete un bambino neppur voi! Dovevate pensarci voi!... Quando si ha in casa una ragazza... L'uomo è cacciatore, si sa!... A vostra sorella avreste dovuto pensarci voi... o piuttosto lei stessa... Quasi quasi si direbbe... colpa sua!... Chissà cosa si sarà messa in testa?... magari di diventare baronessa Rubiera... Il cugino Trao si fece rosso e pallido in un momento. - Signora baronessa... siamo poveri... è vero... Ma quanto a nascita... - Eh, caro mio! la nascita... gli antenati... tutte belle cose... non dico di no... Ma gli antenati che fecero mio figlio barone... volete sapere quali furono?... Quelli che zapparono la terra!... Col sudore della fronte, capite? Non si ammazzarono a lavorare perché la loro roba poi andasse in mano di questo e di quello... capite?... In quel mentre bussarono al portone col pesante martello di ferro che rintronò per tutta la casa, e suscitò un'altra volta lo schiamazzo del pollaio, i latrati del cane; e mentre la baronessa andava alla finestra, per vedere chi fosse, Rosaria gridò dal cortile: - C'è il sensale... quello del grano... - Vengo, vengo! - seguitò a brontolare la cugina Rubiera, tornando a staccare dal chiodo la chiave del magazzino. - Vedete quel che ci vuole a guadagnare un tarì a salma, con Pirtuso e tutti gli altri! Se ho lavorato anch'io tutta la vita, e mi son tolto il pan di bocca, per amore della casa, intendo che mia nuora vi abbia a portare la sua dote anch'essa... Don Diego, sgambettando più lesto che poteva dietro alla cugina Rubiera, per gli anditi e gli stanzoni pieni di roba seguitava: - Mia sorella non è ricca... cugina Rubiera... Non ha la dote che ci vorrebbe... Le daremo la casa e tutto... Ci spoglieremo per lei... Ferdinando ed io... - Appunto, vi dicevo!... Badate che c'è uno scalino rotto... Voglio che mio figlio sposi una bella dote. La padrona son io, quella che l'ha fatto barone. Non l'ha fatta lui la roba! Entrate, entrate, mastro Lio. Lì, dal cancello di legno. E' aperto... - Vostro figlio però lo sapeva che mia sorella non è ricca!...- ribatteva il povero don Diego che non si risolveva ad andarsene, mentre la cugina Rubiera aveva tanto da fare. Essa allora si voltò come un gallo, coi pugni sui fianchi, in cima alla scala: - A mio figlio ci penso io, torno a dirvi! Voi pensate a vostra sorella... L'uomo è cacciatore... Lo manderò lontano! Lo chiudo a chiave! Lo sprofondo! Non tornerà in paese altro che maritato! colla catena al collo! ve lo dico io! La mia croce! la mia rovina!... Quindi, mossa a compassione dalla disperazione muta del poveraccio, il quale non si reggeva sulle gambe, aggiunse, scendendo adagio adagio: - E del resto... sentite, don Diego... Farò anch'io quello che potrò per Bianca... Sono madre anch'io!... Sono cristiana!... Immagino la spina che dovete averci lì dentro... - Signora baronessa, dice che il farro non risponde al peso, - gridò Alessi dalla porta del magazzino. - Che c'è? Cosa dice?... Anche il peso adesso? La solita rinculata! per carpirmi un altro ribasso!... E la baronessa partì come una furia. Per un po' si udì nella profondità del magazzino un gran vocìo: sembrava che si fossero accapigliati. Pirtuso strillava peggio di un agnello in mano al beccaio; Giacalone e Vito Orlando vociavano anch'essi, per metterli d'accordo, e la baronessa fuori di sé, che ne diceva di tutti i colori. Poscia vedendo passare il cugino Trao, il quale se ne andava colla coda fra le gambe, la testa infossata nelle spalle, barcollando, lo fermò sull'uscio, cambiando a un tratto viso e maniere: - Sentite, sentite... l'aggiusteremo fra di noi questa faccenda... Infine cos'è stato?... Niente di male, ne son certa. Una ragazza col timor di Dio... La cosa rimarrà fra voi e me... l'accomoderemo fra di noi... Vi aiuterò anch'io, don Diego... Sono madre... son cristiana... La mariteremo a un galantuomo... Don Diego scosse il capo amaramente, avvilito, barcollando come un ubbriaco nell'andarsene. - Sì, sì, le troveremo un galantuomo... Vi aiuterò anch'io come posso... Pazienza!... Farò un sagrificio... Egli a quelle parole si fermò, cogli occhi spalancati, tutto tremante: - Voi!... cugina Rubiera!... No!... no!... Questo non può essere... In quel momento veniva dal magazzino il sensale, bianco di pula, duro, perfino nella barba che gli tingeva di nero il viso anche quand'era fatta di fresco: gli occhietti grigi come due tarì d'argento, sotto le sopracciglia aggrottate dal continuo stare al sole e al vento in campagna. - Bacio le mani, signora baronessa. - Come? Così ve ne andate? Che c'è di nuovo? Non vi piace il farro? L'altro disse di no col capo anch'esso, al pari di don Diego Trao, il quale se ne andava rasente al muro, continuando a scrollare la testa, come fosse stato colto da un accidente, inciampando nei sassi ogni momento. - Come? - seguitava a sbraitare la baronessa. - Un negozio già conchiuso!... - C'è forse caparra, signora baronessa? - Non c'è caparra; ma c'è la parola!... - In tal caso, bacio le mani a vossignoria! E tirò via, ostinato come un mulo. La baronessa, furibonda, gli strillò dietro: - Sono azionacce da pari vostro! Un pretesto per rompere il negozio... degno di quel mastro-don Gesualdo che vi manda... ora che s'è pentito... Giacalone e Vito Orlando gli correvano dietro anch'essi scalmanandosi a fargli sentire la ragione. Ma Pirtuso tirava via, senza rispondere neppure, dicendo a don Diego Trao che non gli dava retta: - La baronessa ha un bel dire... come se al caso non avrebbe fatto lo stesso lei pure!... Ora che il barone Zacco ha cominciato a vendere con ribasso... Villano o baronessa la caparra è quella che conta. Dico bene, vossignoria?
La signora Sganci aveva la casa piena di gente, venuta per vedere la processione del Santo patrono: c'erano dei lumi persino nella scala; i cinque balconi che mandavano fuoco e fiamma sulla piazza nera di popolo; don Giuseppe Barabba in gran livrea e coi guanti di cotone, che annunziava le visite. - Mastro-don Gesualdo! - vociò a un tratto, cacciando fra i battenti dorati il testone arruffato. - Devo lasciarlo entrare, signora padrona? C'era il fior fiore della nobiltà: l'arciprete Bugno, lucente di raso nero; donna Giuseppina Alòsi, carica di gioie; il marchese Limòli, con la faccia e la parrucca del secolo scorso. La signora Sganci, sorpresa in quel bel modo dinanzi a tanta gente, non seppe frenarsi. - Che bestia! Sei una bestia! Don Gesualdo Motta, si dice! bestia! Mastro-don Gesualdo fece così il suo ingresso fra i pezzi grossi del paese, raso di fresco, vestito di panno fine, con un cappello nuovo fiammante fra le mani mangiate di calcina. - Avanti, avanti, don Gesualdo! - strillò il marchese Limòli con quella sua vocetta acre che pizzicava. - Non abbiate suggezione. Mastro-don Gesualdo però esitava alquanto, intimidito, in mezzo alla gran sala tappezzata di damasco giallo, sotto gli occhi di tutti quei Sganci che lo guardavano alteramente dai ritratti, in giro alle pareti. La padrona di casa gli fece animo: - Qui, qui, c'è posto anche per voi, don Gesualdo. C'era appunto il balcone del vicoletto, che guardava di sbieco sulla piazza, per gli invitati di seconda mano ed i parenti poveri: donna Chiara Macrì, così umile e dimessa che pareva una serva; sua figlia donna Agrippina, monaca di casa una ragazza con tanto di baffi, un faccione bruno e bitorzoluto da zoccolante, e due occhioni neri come il peccato che andavano frugando gli uomini. In prima fila il cugino don Ferdinando, curioso più di un ragazzo, che s'era spinto innanzi a gomitate, e allungava il collo verso la Piazza Grande dal cravattone nero, al pari di una tartaruga, cogli occhietti grigi e stralunati, il mento aguzzo e color di filiggine, il gran naso dei Trao palpitante, il codino ricurvo, simile alla coda di un cane sul bavero bisunto che gli arrivava alle orecchie pelose; e sua sorella donna Bianca rincantucciata dietro di lui, colle spalle un po' curve, il busto magro e piatto, i capelli lisci, il viso smunto e dilavato, vestita di lanetta in mezzo a tutto il parentado in gala. La zia Sganci tornò a dire: - Venite qui, don Gesualdo. V'ho serbato il posto per voi. Qui, vicino ai miei nipoti. Bianca si fece in là, timidamente. Don Ferdinando, temendo d'esser scomodato, volse un momento il capo, accigliato, e mastro-don Gesualdo si avvicinò al balcone, inciampando, balbettando, sprofondandosi in scuse. Rimase lì, dietro le spalle di coloro che gli stavano dinanzi, alzando il capo a ogni razzo che saliva dalla piazza per darsi un contegno meno imbarazzato. - Scusate! scusate! - sbuffò allora donna Agrippina Macrì, arricciando il naso, facendosi strada coi fianchi poderosi, assettandosi sdegnosa il fazzoletto bianco sul petto enorme; e capitò nel crocchio dove era la zia Cirmena colle altre dame, sul balcone grande, in mezzo a un gran mormorìo, tutte che si voltavano a guardare verso il balcone del vicoletto, in fondo alla sala. - Me l'han messo lì... alle costole, capite!... Un'indecenza! - Ah, è quello lo sposo! - domandò sottovoce donna Giuseppina Alòsi, cogli occhietti che sorridevano in mezzo al viso placido di luna piena. - Zitto! zitto. Vado a vedere... - disse la Cirmena, e attraversò la sala - come un mare di luce nel vestito di raso giallo - per andare a fiutare che cosa si macchinasse nel balcone del vicoletto. Lì tutti sembravano sulle spine: la zia Macrì fingendo di guardare nella piazza, Bianca zitta in un cantuccio, e don Ferdinando solo che badava a godersi la festa, voltando il capo di qua e di là, senza dire una parola. - Vi divertite qui, eh? Tu ti diverti, Bianca? Don Ferdinando volse il capo infastidito; poi vedendo la cugina Cirmena, borbottò: - Ah... donna Sarina... buona sera! buona sera! - E tornò a voltarsi dall'altra parte. Bianca alzò gli occhi dolci ed umili sulla zia e non rispose; la Macrì abbozzò un sorriso discreto. La Cirmena riprese subito, guardando don Gesualdo: - Che caldo, eh? Si soffoca! C'è troppa gente questa volta.. La cugina Sganci ha invitato tutto il paese... Mastro-don Gesualdo fece per tirarsi da banda. - No, no, non vi scomodate, caro voi... Sentite piuttosto, cugina Macrì... - Signora! signora! - vociò in quel momento don Giuseppe Barabba, facendo dei segni alla padrona. - No, - rispose lei, - prima deve passare la processione. Il marchese Limòli la colse a volo mentre s'allontanava, fermandola pel vestito: - Cugina, cugina, levatemi una curiosità: cosa state almanaccando con mastro-don Gesualdo? - Me l'aspettavo... cattiva lingua!... - borbottò la Sganci; e lo piantò lì, senza dargli retta, che se la rideva fra le gengive nude, sprofondato nel seggiolone, come una mummia maliziosa. Entrava in quel punto il notaro Neri, piccolo, calvo, rotondo, una vera trottola, col ventre petulante, la risata chiassosa, la parlantina che scappava stridendo a guisa di una carrucola. - Donna Mariannina!... Signori miei!... Quanta gente!... Quante bellezze!... - Poi, scoperto anche mastro-don Gesualdo in pompa magna, finse di chinarsi per vederci meglio, come avesse le traveggole, inarcando le ciglia, colla mano sugli occhi; si fece il segno della croce e scappò in furia verso il balcone grande, cacciandosi a gomitate nella folla, borbottando: - Questa è più bella di tutte!... Com'è vero Dio! Donna Giuseppina Alòsi istintivamente corse con la mano sulle gioie; e la signora Capitana, che non avendo da sfoggiarne metteva in mostra altre ricchezze, al sentirsi frugare nelle spalle si volse come una vipera. - Scusate, scusate; - balbettava il notaro. - Cerco il barone Zacco. Dalla via San Sebastiano, al disopra dei tetti, si vedeva crescere verso la piazza un chiarore d'incendio, dal quale di tratto in tratto scappavano dei razzi, dinanzi alla statua del santo, con un vocìo di folla che montava a guisa di tempesta. - La processione! la processione! - strillarono i ragazzi pigiati contro la ringhiera. Gli altri si spinsero innanzi; ma la processione ancora non spuntava. Il cavaliere Peperito, che si mangiava con gli occhi le gioie di donna Giuseppina Alòsi - degli occhi di lupo affamato sulla faccia magra, folta di barba turchiniccia sino agli occhi - approfittò della confusione per soffiarle nell'orecchio un'altra volta: - Sembrate una giovinetta, donna Giuseppina! parola di cavaliere! - Zitto, cattivo soggetto! - rispose la vedova. - Raccomandatevi piuttosto al santo Patrono che sta per arrivare. - Sì, sì, se mi fa la grazia... Dal seggiolone dove era rannicchiato il marchese Limòli sorse allora la vocetta fessa di lui: - Servitevi, servitevi pure! Già son sordo, lo sapete. Il barone Zacco, rosso come un peperone, rientrò dal balcone, senza curarsi del santo, sfogandosi col notaro Neri: - Tutta opera del canonico Lupi!... Ora mi cacciano fra i piedi anche mastro-don Gesualdo per concorrere all'asta delle terre comunali!... Ma non me le toglieranno! dovessi vendere Fontanarossa, vedete! Delle terre che da quarant'anni sono nella mia famiglia!... Tutt'a un tratto, sotto i balconi, la banda scoppiò in un passodoppio furibondo, rovesciandosi in piazza con un'onda di popolo che sembrava minacciosa. La signora Capitana si tirò indietro arricciando il naso. - Che odore di prossimo viene di laggiù! - Capite? - seguitava a sbraitare il barone Zacco - delle terre che pago già a tre onze la salma! E gli par poco! Il notaro Neri, che non gli piaceva far sapere alla gente i fatti suoi, si rivolse alla signora Capitana scollacciata ch'era un'indecenza, col pretesto che si faceva mandare i vestiti da Palermo, la quale civettava in mezzo a un gruppo di giovanotti. - Signora Capitana! signora Capitana! Così rubate la festa al santo! Tutti gli voltano le spalle! - Come siete stupidi, tutti quanti! - rispose la Capitana, gongolante. - Vado a mettermi vicino al marchese, che ha più giudizio di voi. - Ahimè! ahimè! signora mia!... Il marchese, cogli occhietti svegli adesso, andava fiutandole da presso il profumo di bergamotta tanto che essa doveva schermirsi col ventaglio, e il vecchietto ad ostinarsi: - No! no! lasciatemi fare le mie devozioni!... L'arciprete prese tabacco, si spurgò, tossì, infine si alzò, e si mosse per andarsene, gonfiando le gote - le gote lucenti la sottana lucente, il grosso anello lucente, tanto che le male lingue dicevano fosse falso; mentre il marchese gli gridava dietro: - Don Calogero! don Calogero! dico per dire che diavolo! Alla mia età... E appena cessarono le risate alla sortita del marchese, si udì donna Giuseppina Alòsi, che faceva le sue confidenze al cavaliere. -... come fossi libera, capite! Le due grandi al Collegio di Maria; il maschio al Seminario; in casa ci ho soltanto l'ultimo, Sarino, ch'è meno alto di questo ventaglio. Poi i miei figliuoli hanno la roba del loro padre, buon'anima... Donna Sarina tornò verso il balcone grande chiacchierando sottovoce colla cugina Macrì, con delle scrollatine di capo e dei sorrisetti che volevano dire. - Però non capisco il mistero che vuol farne la cugina Sganci!... Siamo parenti di Bianca anche noi, alla fin fine!... - E' quello? quello lì? - tornò a chiedere donna Giuseppina col sorriso maligno di prima. La Cirmena accennò di sì, stringendo le labbra sottili, cogli occhi rivolti altrove, in aria di mistero anch'essa. Infine non si tenne più: - Fanno le cose sottomano... come se fossero delle sudicerie. Capiscono anche loro che manipolano delle cose sporche... Ma la gente poi non è così sciocca da non accorgersi... Un mese che il canonico Lupi si arrabatta in questo negozio... un va e vieni fra la Sganci e la Rubiera... - Non me lo dite! - esclamò Peperito. - Una Trao che sposa mastro-don Gesualdo!... Non me lo dite!... Quando vedo una famiglia illustre come quella scendere tanto basso mi fa male allo stomaco, in parola d'onore! E volse le spalle soffiandosi il naso come una trombetta nel fazzoletto sudicio, fremendo d'indignazione per tutta la personcina misera, dopo aver saettato un'occhiata eloquente a donna Giuseppina. - Chi volete che la sposi?... senza dote!... - ribatté la Cirmena al cavaliere ch'era già lontano. - Poi, dopo quello ch'è successo!... - Almeno si metterà in grazia di Dio! - osservò piano la zia Macrì. La sua figliuola che stava ad ascoltare senza dir nulla, fissando in volto a chi parlava quegli occhioni ardenti, scosse la tonaca, quasi avesse temuto d'insudiciarla fra tante sozzure, e mormorò colla voce d'uomo, colle grosse labbra sdegnose sulle quali sembrava veder fremere i peli neri, rivolta al chiarore della processione che s'avvicinava al di sopra dei tetti della via, come un incendio: - Santo Patrono! Guardatemi voi! - Queste sono le conseguenze!... La ragazza si era messa in testa non so che cosa... Un disonore per tutto il parentado!... La cugina Sganci ha fatto bene a ripararvi... Non dico di no!... Ma avrebbe dovuto parlarne a noi pure che siamo parenti di Bianca al par di lei... Piuttosto che fare le cose di nascosto... Scommetto che neppure don Ferdinando ne sa nulla... - Ma l'altro fratello... don Diego, cosa ne dice?... - Ah, don Diego?... sarà a rovistare fra le sue cartacce... Le carte della lite!... Non pensa ad altro... Crede d'arricchire colla lite!... Lo vedete che non è uscito di casa neppure per la festa... Poi forse si vergogna a farsi vedere dalla gente... Tutti così quei Trao... Degli stupidi!... gente che si troveranno un bel giorno morti di fame in casa, piuttosto di aprir bocca per... - Il canonico, no! - stava dicendo il notaro mentre s'avvicinavano al balcone discorrendo sottovoce col barone Zacco. - Piuttosto la baronessa... offrendole un guadagno... Quella non ha puntiglio!... Del canonico non ho paura... - E tutto sorridente poi colle signore: - Ah!... donna Chiara!... La bella monaca che avete in casa!... Una vera grazia di Dio!... - Eh, marchese? eh? Chi ve l'avrebbe detto, ai vostri tempi?... che sareste arrivato a vedere la processione del santo Patrono spalla a spalla con mastro-don Gesualdo, in casa Sganci! - riprese il barone Zacco, il quale pensava sempre a una cosa, e non poteva mandarla giù, guardando di qua e di là cogli occhiacci da spiritato, ammiccando alle donne per farle ridere. Il marchese, impenetrabile, rispose solo: - Eh, eh, caro barone! Eh, eh! - Sapete quanto ha guadagnato nella fabbrica dei mulini mastro-don Gesualdo? - entrò a dire il notaro a mezza voce in aria di mistero. - Una bella somma! Ve lo dico io!... Si è tirato su dal nulla... Me lo ricordo io manovale, coi sassi in spalla... sissignore!... Mastro Nunzio, suo padre, non aveva di che pagare le stoppie per far cuocere il gesso nella sua fornace... Ora ha l'impresa del ponte a Fiumegrande!... Suo figlio ha sborsato la cauzione, tutta in pezzi da dodici tarì, l'un sull'altro... Ha le mani in pasta in tutti gli affari del comune... Dicono che vuol mettersi anche a speculare sulle terre... L'appetito viene mangiando... Ha un bell'appetito... e dei buoni denti, ve lo dico io!... Se lo lasciano fare, di qui a un po' si dirà che mastro-don Gesualdo è il padrone del paese! Il marchese allora levò un istante la sua testolina di scimmia; ma poi fece una spallucciata, e rispose, con quel medesimo risolino tagliente: - Per me... non me ne importa. Io sono uno spiantato. - Padrone?... padrone?... quando saran morti tutti quelli che son nati prima di lui!... e meglio di lui! Venderò Fontanarossa; ma le terre del comune non me le toglie mastro-don Gesualdo! Né solo, né coll'aiuto della baronessa Rubiera! - Che c'è? che c'è? - interruppe il notaro correndo al balcone, per sviare il discorso, poiché il barone non sapeva frenarsi e vociava troppo forte. Giù in piazza, dinanzi al portone di casa Sganci, vedevasi un tafferuglio, dei vestiti chiari in mezzo alla ressa, berretti che volavano in aria, e un tale che distribuiva legnate a diritta e a manca per farsi largo. Subito dopo comparve sull'uscio dell'anticamera don Giuseppe Barabba, colle mani in aria strangolato dal rispetto. - Signora!... signora!... Era tutto il casato dei Margarone stavolta: donna Fifì, donna Giovannina, donna Mita, la mamma Margarone, donna Bellonia, dei Bracalanti di Pietraperzia, nientemeno, che soffocava in un busto di raso verde, pavonazza, sorridente; e dietro, il papà Margarone, dignitoso, gonfiando le gote, appoggiandosi alla canna d'India col pomo d'oro, senza voltar nemmeno il capo, tenendo per mano l'ultimo dei Margarone, Nicolino, il quale strillava e tirava calci perché non gli facevano vedere il santo dalla piazza. Il papà, brandendo la canna d'India, voleva insegnargli l'educazione. - Adesso? - sogghignò il marchese per calmarlo. - Oggi ch'è festa? Lasciatelo stare quel povero ragazzo, don Filippo! Don Filippo lasciò stare, limitandosi a lanciare di tanto in tanto qualche occhiataccia autorevole al ragazzo che non gli badava. Intanto gli altri facevano festa alle signore Margarone: - Donna Bellonia!... donna Fifì!... che piacere, stasera!... - Perfino don Giuseppe Barabba, a modo suo, sbracciandosi a portar delle altre seggiole e a smoccolare i lumi. Poi dal balcone si mise a fare il telegrafo con qualcuno ch'era giù in piazza, gridando per farsi udire in mezzo al gran brusìo della folla: - Signor barone! signor barone! - Infine corse dalla padrona, trionfante: - Signora! signora! Eccolo che viene! ecco don Ninì!. Donna Giuseppina Alòsi abbozzò un sorrisetto alla gomitata che le piantò nei fianchi il barone Zacco. La signora Capitana invece si rizzò sul busto - come se sbocciassero allora le sue belle spalle nude dalle maniche rigonfie. - Sciocco! Non ne fai una bene! Cos'è questo fracasso? Non è questa la maniera! Don Giuseppe se ne andò brontolando. Ma in quella entrava don Ninì Rubiera, un giovanotto alto e massiccio che quasi non passava dall'uscio, bianco e rosso in viso, coi capelli ricciuti, e degli occhi un po' addormentati che facevano girare il capo alle ragazze. Donna Giovannina Margarone, un bel pezzo di grazia di Dio anch'essa, cinghiata nel busto al pari della mamma, si fece rossa come un papavero, al vedere entrare il baronello. Ma la mamma le metteva sempre innanzi la maggiore, donna Fifì, disseccata e gialla dal lungo celibato, tutta pelosa, con certi denti che sembrava volessero acchiappare un marito a volo, sopraccarica di nastri, di fronzoli e di gale, come un uccello raro. - Fifì vi ha scoperto per la prima in mezzo alla folla!... Che folla, eh? Mio marito ha dovuto adoperare il bastone per farci largo. Proprio una bella festa! Fifì ci ha detto: Ecco lì il baronello Rubiera, vicino al palco della musica... Don Ninì guardava intorno inquieto. A un tratto scoprendo la cugina Bianca rincantucciata in fondo al balcone del vicoletto, smorta in viso, si turbò, smarrì un istante il suo bel colorito fiorente, e rispose balbettando: - Sissignora... infatti... sono della commissione... - Bravo! bravo! Bella festa davvero! Avete saputo far le cose bene!... E vostra madre, don Ninì?... - Presto! presto! - chiamò dal balcone la zia Sganci. - Ecco qui il santo! Il marchese Limòli, che temeva l'umidità della sera, aveva afferrato la mamma Margarone pel suo vestito di raso verde e faceva il libertino: - Non c'è furia, non c'è furia! Il santo torna ogni anno. Venite qua, donna Bellonia. Lasciamo il posto ai giovani, noi che ne abbiamo viste tante delle feste! E continuava a biasciarle delle barzellette salate nell'orecchio che sembrava arrossire dalla vergogna; divertendosi alla faccia seria che faceva don Filippo sul cravattone di raso; mentre la signora Capitana, per far vedere che sapeva stare in conversazione, rideva come una matta, chinandosi in avanti ogni momento, riparandosi col ventaglio per nascondere i denti bianchi, il seno bianco, tutte quelle belle cose di cui studiava l'effetto colla coda dell'occhio, mentre fingeva d'andare in collera allorché il marchese si pigliava qualche libertà soverchia - adesso che erano soli - diceva lui col suo risolino sdentato di satiro. - Mita! Mita! - chiamò infine la mamma Margarone. - No! no! Non mi scappate, donna Bellonia!... Non mi lasciate solo con la signora Capitana... alla mia età!... Donna Mita sa quel che deve fare. E' grande e grossa quanto le sue sorelle messe insieme; ma sa che deve fare la bambina, per non far torto alle altre due. Il notaro Neri, che per la sua professione sapeva i fatti di tutto il paese e non aveva peli sulla lingua, domandò alla signora Margarone: - Dunque, ce li mangeremo presto questi confetti pel matrimonio di donna Fifì? Don Filippo tossì forte. Donna Bellonia rispose che sino a quel momento erano chiacchiere: la gente parlava perché sapeva don Ninì Rubiera un po' assiduo con la sua ragazza: - Nulla di serio. Nulla di positivo... - Ma le si vedeva una gran voglia di non esser creduta. Il marchese Limòli al solito trovò la parola giusta: - Finché i parenti non si saranno accordati per la dote, non se ne deve parlare in pubblico. Don Filippo affermò col capo, e donna Bellonia, vista l'approvazione del marito, s'arrischiò a dire: - E' vero. - Sarà una bella coppia! - soggiunse graziosamente la signora Capitana. Il cavaliere Peperito, onde non stare a bocca chiusa come un allocco, in mezzo al crocchio dove l'aveva piantato donna Giuseppina per non dar troppo nell'occhio, scappò fuori a dire: - Però la baronessa Rubiera non è venuta!... Come va che la baronessa non è venuta dalla cugina Sganci? Ci fu un istante di silenzio. Solo il barone Zacco, da vero zotico, per sfogare la bile che aveva in corpo, si diede la briga di rispondere ad alta voce, quasi fossero tutti sordi: - E' malata!... Ha mal di testa!... - E intanto faceva segno di no col capo. Poscia, ficcandosi in mezzo alla gente, a voce più bassa, col viso acceso: - Ha mandato mastro-don Gesualdo in vece sua!... il futuro socio!... sissignore!... Non lo sapete? Piglieranno in affitto le terre del comune... quelle che abbiamo noi da quarant'anni... tutti i Zacco, di padre in figlio!...!... Una bricconata! Una combriccola fra loro tre: Padre figliuolo e spirito santo! La baronessa non ha il coraggio di guardarmi in faccia dopo questo bel tiro che vogliono farmi... Non voglio dire che sia rimasta a casa per non incontrarsi con me... Che diavolo! Ciascuno fa il suo interesse... Al giorno d'oggi l'interesse va prima della parentela... Io poi non ci tengo molto alla nostra... Si sa da chi è nata la baronessa Rubiera!... E poi fa il suo interesse... Sissignore!... Lo so da gente che può saperlo!... Il canonico le fa da suggeritore; mastro-don Gesualdo ci mette i capitali, e la baronessa poi... un bel nulla... l'appoggio del nome!... Vedremo poi quale dei due conta di più, fra il suo e il mio!... Oh, se la vedremo!... Intanto per provare cacciano innanzi mastro-don Gesualdo... vedete, lì, nel balcone dove sono i Trao?... - Bianca! Bianca! - chiamò il marchese Limòli. - Io, zio? - Sì, vieni qua. - Che bella figurina! - osservò la signora Capitana per adulare il marchese, mentre la giovinetta attraversava la sala, timida, col suo vestito di lanetta, l'aria umile e imbarazzata delle ragazze povere. - Sì, - rispose il marchese. - E' di buona razza. - Ecco! ecco! - si udì in quel momento fra quelli ch'erano affacciati. - Ecco il santo! Peperito colse la palla al balzo e si cacciò a capo fitto nella folla dietro la signora Alòsi. La Capitana si levò sulla punta dei piedi; il notaro, galante, proponeva di sollevarla fra le braccia. Donna Bellonia corse a far la mamma, accanto alle sue creature; e suo marito si contentò di montare su di una sedia, per vedere. - Cosa ci fai lì con mastro-don Gesualdo? - borbottò il marchese, rimasto solo colla nipote. Bianca fissò un momento sullo zio i grandi occhi turchini e dolci, la sola cosa che avesse realmente bella sul viso dilavato e magro dei Trao, e rispose: - Ma... la zia l'ha condotto lì... - Vieni qua, vieni qua. Ti troverò un posto io. Tutt'a un tratto la piazza sembrò avvampare in un vasto incendio, sul quale si stampavano le finestre delle case, i cornicioni dei tetti, la lunga balconata del Palazzo di Città, formicolante di gente. Nel vano dei balconi le teste degli invitati che si pigiavano, nere in quel fondo infuocato; e in quello di centro la figura angolosa di donna Fifì Margarone, sorpresa da quella luce, più verde del solito, colla faccia arcigna che voleva sembrar commossa, il busto piatto che anelava come un mantice, gli occhi smarriti dietro le nuvole di fumo, i denti soli rimasti feroci; quasi abbandonandosi, spalla a spalla contro il baronello Rubiera, il quale sembrava pavonazzo a quella luce, incastrato fra lei e donna Giovannina; mentre Mita sgranava gli occhi di bambina, per non vedere, e Nicolino andava pizzicando le gambe della gente, per ficcarvi il capo framezzo e spingersi avanti. - Cos'hai? ti senti male? - disse il marchese vedendo la nipote così pallida. - Non è nulla... E' il fumo che mi fa male... Non dite nulla, zio! Non disturbate nessuno!... Di tanto in tanto si premeva sulla bocca il fazzolettino di falsa batista ricamato da lei stessa, e tossiva, adagio adagio, chinando il capo; il vestito di lanetta le faceva delle pieghe sulle spalle magre. Non diceva nulla, stava a guardare i fuochi, col viso affilato e pallido, come stirato verso l'angolo della bocca, dove erano due pieghe dolorose, gli occhi spalancati e lucenti, quasi umidi. Soltanto la mano colla quale appoggiavasi alla spalliera della seggiola era un po' tremante e l'altra distesa lungo il fianco si apriva e chiudeva macchinalmente: delle mani scarne e bianche che spasimavano. - Viva il santo Patrono! Viva san Gregorio Magno! - Nella folla, laggiù in piazza, il canonico Lupi, il quale urlava come un ossesso, in mezzo ai contadini, e gesticolava verso i balconi del palazzo Sganci, col viso in su, chiamando ad alta voce i conoscenti: - Donna Marianna?... Eh?... eh?... Dev'esserne contento il baronello Rubiera!... Baronello? don Ninì? siete contento?... Vi saluto, don Gesualdo! Bravo! bravo! Siete lì!... - Poi corse di sopra a precipizio, scalmanato, rosso in viso, col fiato ai denti, la sottana rimboccata, il mantello e il nicchio sotto l'ascella, le mani sudice di polvere, in un mare di sudore: - Che festa, eh! signora Sganci! - Intanto chiamava don Giuseppe Barabba che gli portasse un bicchier d'acqua: - Muoio dalla sete, donna Marianna! Che bei fuochi, eh?... Circa duemila razzi! Ne ho accesi più di duecento con le mie mani sole. Guardate che mani, signor marchese!... Ah, siete qui, don Gesualdo? Bene! bene! Don Giuseppe? Chissà dove si sarà cacciato quel vecchio stolido di don Giuseppe: Don Giuseppe era salito in soffitta, per vedere i fuochi dall'abbaino, a rischio di precipitare in piazza. Comparve finalmente, col bicchier d'acqua, tutto impolverato e coperto di ragnateli, dopo che la padrona e il canonico Lupi si furono sgolati a chiamarlo per ogni stanza. Il canonico Lupi, ch'era di casa, gli diede anche una lavata di capo. Poscia, voltandosi verso mastro-don Gesualdo, con una faccia tutta sorridente: - Bravo, bravo, don Gesualdo! Son contentone di vedervi qui. La signora Sganci mi diceva da un pezzo: l'anno venturo voglio che don Gesualdo venga in casa mia, a vedere la processione! Il marchese Limòli, il quale aveva salutato gentilmente il santo Patrono al suo passaggio, inchinandosi sulla spalliera della seggiola, raddrizzò la schiena facendo un boccaccia. - Ahi! ahi!... Se Dio vuole è passata anche questa!... Chi campa tutto l'anno vede tutte le feste. - Ma di veder ciò che avete visto stavolta non ve l'aspettate più! - sogghignava il barone Zacco, accennando a mastro-don Gesualdo. - No! no! Me lo rammento coi sassi in spalla... e le spalle lacere!... sul ponte delle fabbriche, quest'amicone mio con cui oggi ci troviamo qui, a tu per tu!... Però la padrona di casa era tutta cortesie per mastro-don Gesualdo. Ora che il santo aveva imboccato la via di casa sua sembrava che la festa fosse per lui: donna Marianna parlandogli di questo e di quello; il canonico Lupi battendogli sulla spalla; la Macrì che gli aveva ceduto persino il posto; don Filippo Margarone anche lui gli lasciava cadere dall'alto del cravattone complimenti simili a questi: - Il nascer grandi è caso, e non virtù!... Venire su dal nulla, qui sta il vero merito! Il primo mulino che avete costruito in appalto, eh? coi denari presi in prestito al venti per cento!... - Sì signore, - rispose tranquillamente don Gesualdo. - Non chiudevo occhio, la notte. L'arciprete Bugno, ingelosito dei salamelecchi fatti a un altro, dopo tutti quegli spari, quelle grida, quel fracasso che gli parevano dedicati un po' anche a lui, come capo della chiesa, era riuscito a farsi un po' di crocchio attorno pur esso, discorrendo dei meriti del santo Patrono: un gran santo!... e una gran bella statua... I forestieri venivano apposta per vederla... Degli inglesi, s'era risaputo poi, l'avrebbero pagata a peso d'oro, onde portarsela laggiù, fra i loro idoli... Il marchese che stava per iscoppiare, l'interruppe alla fine: - Ma che sciocchezze!... Chi ve le dà a bere, don Calogero? La statua è di cartapesta... una brutta cosa!... I topi ci hanno fatto dentro il nido... Le gioie?... Eh! eh! non arricchirebbero neppur me, figuratevi! Vetro colorato... come tante altre che se ne vedono!... un fantoccio da carnevale!... Eh? Cosa dite?... Sì, un sacrilegio! Il mastro che fece quel santo dev'essere a casa del diavolo... Non parlo del santo ch'è in paradiso... Lo so, è un'altra cosa... Basta la fede... Son cristiano anch'io, che diavolo!... e me ne vanto!... La signora Capitana affettava di guardare con insistenza la collana di donna Giuseppina Alòsi, nel tempo stesso che rimproverava il marchese: - Libertino!... libertino! - Peperito s'era tappate le orecchie. L'arciprete Bugno ricominciò daccapo: - Una statua d'autore!... Il Re, Dio guardi, voleva venderla al tempo della guerra coi giacobini!... Un santo miracoloso!... - Che c'è di nuovo, don Gesualdo? - gridò infine il marchese ristucco, con la vocetta fessa, voltando le spalle all'arciprete. - Abbiamo qualche affare in aria? Il barone Zacco si mise a ridere forte, cogli occhi che schizzavano fuori dell'orbita; ma l'altro, un po' stordito dalla ressa che gli si faceva attorno, non rispose. - A me potete dirlo, caro mio, - riprese il vecchietto malizioso. - Non avete a temere che vi faccia la concorrenza, io! Al battibecco si divertivano anche coloro che non gliene importava nulla. Il barone Zacco, poi, figuriamoci! - Eh! eh! marchese!... Voi non la fate, la concorrenza?... Eh! eh! Mastro-don Gesualdo volse un'occhiata in giro su tutta quella gente che rideva, e rispose tranquillamente: - Che volete, signor marchese?... Ciascuno fa quel che può... - Fate, fate, amico mio. Quanto a me, non ho di che lagnarmene... Don Giuseppe Barabba si avvicinò in punta di piedi alla padrona, e le disse in un orecchio, con gran mistero - - Devo portare i sorbetti, ora ch'è passata la processione? - Un momento! un momento! - interruppe il canonico Lupi, - lasciatemi lavar le mani. - Se non li porto subito, - aggiunse il servitore, - se ne vanno tutti in broda. E' un pezzo che li ha mandati Giacinto, ed eran già quasi strutti. - Va bene, va bene... Bianca? - Zia... - Fammi il piacere, aiutami un po' tu. Dall'uscio spalancato a due battenti entrarono poco dopo don Giuseppe e mastro Titta, il barbiere di casa, carichi di due gran vassoi d'argento che sgocciolavano; e cominciarono a fare il giro degli invitati, passo passo, come la processione anch'essi. Prima l'arciprete, donna Giuseppina Alòsi, la Capitana, gli invitati di maggior riguardo. Il canonico Lupi diede una gomitata al barbiere, il quale passava dinanzi a mastro-don Gesualdo senza fermarsi. - Che so io?... Se ne vedono di nuove adesso!... - brontolò mastro Titta. Il ragazzo dei Margarone ficcava le dita dappertutto. - Zio?... - Grazie, cara Bianca... Ci ho la tosse... Sono invalido... come tuo fratello... - Donna Bellonia, lì, sul balcone! - suggerì la zia Sganci, la quale si sbracciava anche lei a servire gli invitati. Dopo il primo movimento generale, un manovrar di seggiole per schivare la pioggia di sciroppo, erano seguiti alcuni istanti di raccoglimento, un acciottolìo discreto di piattelli, un lavorar guardingo e tacito di cucchiai, come fosse una cerimonia solenne. Donna Mita Margarone, ghiotta, senza levare il naso dal piatto. Barabba e mastro Titta in disparte, posati i vassoi, si asciugavano il sudore coi fazzoletti di cotone. Il baronello Rubiera il quale stava discorrendo in un cantuccio del balcone grande naso a naso con donna Fifì, guardandosi negli occhi, degli occhi che si struggevano come i sorbetti, si scostò bruscamente al veder comparire la cugina, scolorandosi un po' in viso. Donna Bellonia prese il piattino dalle mani di Bianca, inchinandosi goffamente: - Quante gentilezze!... è troppo! è troppo! La figliuola finse di accorgersi soltanto allora della sua amica: - Oh, Bianca... sei qui?... che piacere!... M'avevano detto ch'eri ammalata... - Sì... un po',... Adesso sto bene... - Si vede... Hai bella cera... E un bel vestitino anche... semplice!... ma grazioso!... Donna Fifì si chinò fingendo d'osservare la stoffa, onde far luccicare i topazii che aveva al collo. Bianca rispose, facendosi rossa: - E' di lanetta... un regalo della zia... - Ah!... ah!... Il baronello ch'era sulle spine propose di rientrare in sala: - Comincia ad esser umido... Piglieremo qualche malanno... - Sì!... Fifì! Fifì! - disse la signora Margarone. Donna Fifì dovette seguire la mamma, coll'andatura cascante che le sembrava molto sentimentale, la testolina alquanto piegata sull'omero, le palpebre che battevano, colpite dalla luce più viva, sugli occhi illanguiditi come avesse sonno. Bianca posò la mano sul braccio del cugino, il quale stava per svignarsela anche lui dal balcone, dolcemente, come una carezza, come una preghiera; tremava tutta, colla voce soffocata nella gola: - Ninì!... Senti, Ninì!... fammi la carità!... Una parola sola!... Son venuta apposta... Se non ti parlo qui è finita per me... è finita!... - Bada!... c'è tanta gente!... - esclamò sottovoce il cugino, guardando di qua e di là cogli occhi che fuggivano. Ella gli teneva fissi addosso i begli occhi supplichevoli, con un grande sconforto, un grande abbandono doloroso in tutta la persona, nel viso pallido e disfatto, nell'atteggiamento umile, nelle braccia inerti che si aprivano desolate. - Cosa mi rispondi, Ninì?... Cosa mi dici di fare?... Vedi... sono nelle tue braccia... come l'Addolorata!... Egli allora cominciò a darsi dei pugni nella testa, commosso, col cuore gonfio anch'esso, badando a non far strepito e che non sopraggiungesse nessuno nel balcone. Bianca gli fermò la mano. - Hai ragione!... siamo due disgraziati!... Mia madre non mi lascia padrone neanche di soffiarmi il naso!... Capisci? capisci?... Ti pare che non ci pensi a te?... Ti pare che non ci pensi?... La notte... non chiudo occhio!... Sono un povero disgraziato!... La gente mi crede felice e contento... Guardava giù nella piazza, ora spopolata, onde evitare gli occhi disperati della cugina che gli passavano il cuore, addolorato, cogli occhi quasi umidi anch'esso. - Vedi? - soggiunse. - Vorrei essere un povero diavolo... come Santo Motta, laggiù!... nell'osteria di Pecu-Pecu... Povero e contento!... - La zia non vuole? - No, non vuole!... Che posso farci?... Essa è la padrona! Si udiva nella sala la voce del barone Zacco, che disputava, alterato; e poi, nei momenti ch'esso taceva, il cicaleccio delle signore, come un passeraio, con la risatina squillante della signora Capitana, che faceva da ottavino. - Bisogna confessarle tutto, alla zia!... Don Ninì allungò il collo verso il vano del balcone, guardingo. Poscia rispose, abbassando ancora la voce: - Gliel'ha detto tuo fratello... C'è stato un casa del diavolo!... Non lo sapevi? Don Giuseppe Barabba venne sul balcone portando un piattello su ciascuna mano. - Donna Bianca, dice la zia... prima che si finiscano... - Grazie; mettetelo lì, su quel vaso di fiori... - Bisogna far presto, donna Bianca. Non ce n'è quasi più. Don Ninì allora mise il naso nel piattello, fingendo di non badare ad altro: - Tu non ne vuoi? Essa non rispose. Dopo un po', quando il servitore non era più lì, si udì di nuovo la voce sorda di lei: - E' vero che ti mariti? - Io?... - Tu... con Fifì Margarone... - Non è vero... chi te l'ha detto?... - Tutti lo dicono. - Io non vorrei... E' mia madre che si è messa in testa questa cosa... Anche tu... dicono che vogliono farti sposare don Gesualdo Motta... - Io?... - Sì, tutti lo dicono... la zia... mia madre stessa... Si affacciò un istante donna Giuseppina Alòsi, come cercando qualcheduno; e vedendo i due giovani in fondo al balcone, rientrò subito nella sala. - Vedi? vedi? - disse lui. - Abbiamo tutti gli occhi addosso!... Piglia il sorbetto... per amor mio... per la gente che ci osserva... Abbiamo tutti gli occhi addosso!... Essa prese dolcemente dalle mani di lui il piattino che aveva fatto posare sul vaso dei garofani; ma tremava così che due o tre volte si udì il tintinnìo del cucchiaino il quale urtava contro il bicchiere. Barabba corse subito dicendo: - Eccomi! eccomi! - Un momento! Un momento ancora, don Giuseppe! Il baronello avrebbe pagato qualcosa di tasca sua per trattenere Barabba sul balcone. - Come vi tratta la festa, don Giuseppe? - Che volete, signor barone?... Tutto sulle mie spalle!... la casa da mettere in ordine, le fodere da togliere, i lumi da preparare... Donna Bianca, qui, può dirlo, che mi ha dato una mano. Mastro Titta fu chiamato solo pel trattamento. E domani poi devo tornare a scopare e rimettere le fodere... Don Giuseppe seguitando a brontolare se ne andò coi bicchieri vuoti. Dalla sala arrivò il suono di una sghignazzata generale, subito dopo qualcosa che aveva detto il notaro Neri, e che non si poté intender bene perché il notaro quando le diceva grosse abbassava la voce. - Rientriamo anche noi, - disse il baronello. - Per allontanare i sospetti... Ma Bianca non si mosse. Piangeva cheta, nell'ombra; e di tanto in tanto si vedeva il suo fazzoletto bianco salire verso gli occhi. - Ecco!... Sei tu che fai parlare la gente! - scappò detto al cugino ch'era sulle spine. - Che te ne importa? - rispose lei. - Che te ne importa?... Oramai!... - Sì! sì!... Credi che non ti voglia più bene?... Uno struggimento, un'amarezza sconfinata venivano dall'ampia distesa nera dell'Alìa, dirimpetto, al di là delle case dei Barresi, dalle vigne e gli oliveti di Giolio, che si indovinavano confusamente, oltre la via del Rosario ancora formicolante di lumi, dal lungo altipiano del Casalgilardo, rotto dall'alta cantonata del Collegio, dal cielo profondo, ricamato di stelle - una più lucente, lassù, che sembrava guardasse, fredda, triste, solitaria. Il rumore della festa si dileguava e moriva lassù, verso San Vito. Un silenzio desolato cadeva di tanto in tanto, un silenzio che stringeva il cuore. Bianca era ritta contro il muro, immobile; le mani e il viso smorti di lei sembravano vacillare al chiarore incerto che saliva dal banco del venditore di torrone. Il cugino stava appoggiato alla ringhiera, fingendo di osservare attentamente l'uomo che andava spegnendo la luminaria, nella piazza deserta, e il giovane del paratore, il quale correva su e giù per l'impalcato della musica, come un gattone nero, schiodando, martellando, buttando giù i festoni e le ghirlande di carta. I razzi che scappavano ancora di tratto in tratto, lontano, dietro la massa nera del Palazzo di Città, i colpi di martello del paratore, le grida più rare, stanche e avvinazzate, sembravano spegnersi lontano, nella vasta campagna solitaria. Insieme all'acre odore di polvere che dileguava, andava sorgendo un dolce odor di garofani; passava della gente cantando; udivasi un baccano di chiacchiere e di risate nella sala, vicino a loro, nello schianto di quell'ultimo addio senza parole. Nel vano luminoso del balcone passò un'ombra magra, e si udì la tosserella del marchese Limòli: - Eh, eh, ragazzi!... benedetti voialtri!... Sono venuto a veder la festa... ora ch'è passata... Bianca, nipote mia... bada che l'aria della sera ti farà male... - No, zio, - rispose lei con voce sorda. - Si soffoca lì dentro. - Pazienza!... Bisogna sempre aver pazienza a questo mondo... Meglio sudare che tossire... Tu, Nino, bada che le signore Margarone stanno per andarsene. - Vado, zio. - Va, va, se no vedrai che denti! Non vorrei averli addosso neppur io!... E sì che non posso fare lo schifiltoso!... Che diavolo gli è saltato in corpo a tua madre, di farti sposare quei denti?... - Ah... zio!... - Sei uno sciocco! Dovresti lasciarle fare il diavolo a quattro quanto le pare e piace, a tua madre!... Sei figlio unico!... A chi vuoi che lasci la roba dopo la sua morte? - Eh... da qui a trent'anni!... Il tempo di crepare di fame intanto!... Mia madre sta meglio di voi e di me, e può campare ancora trent'anni!... - E' vero! - rispose il marchese. - Tua madre non sarebbe molto contenta di sentirsi lesinare gli anni... Ma è colpa sua. - Ah! zio mio!... Credetemi ch'è un brutto impiccio!... - Càlmati! càlmati!... Consòlati pensando a chi sta peggio di te. S'affacciò la signora Capitana, svelta, irrequieta, guardando sorridente di qua e di là nella strada. - Mio marito?... Non viene ancora?... - Il santo non è ancora rientrato - rispose don Ninì. - Si ode subito il campanone di San Giovanni, appena giunge in chiesa, e attacca l'altra festa. Però la gente cominciava ad andarsene di casa Sganci. Prima si vide uscire dal portone il cavalier Peperito, che scomparve dietro la cantonata del farmacista Bomma. Un momento dopo spuntò il lanternone che precedeva donna Giuseppina Alòsi, la quale attraversò la piazza, sporca di carta bruciata e di gusci di fave e nocciuole, in punta di piedi, colle sottane in mano, avviandosi in su pel Rosario; e subito dopo, dalla farmacia, scantonò di nuovo l'ombra di Peperito, che le si mise dietro quatto quatto, rasente al muro. La signora Capitana fece udire una risatina secca, e il baronello Rubiera confermò: - E' lui!... Peperito!... com'è vero Dio! Il marchese prese il braccio di sua nipote e rientrò con lei nella sala. In quel momento mastro-don Gesualdo, in piedi presso il balcone, discorreva col canonico Lupi. Questi perorando con calore, sottovoce, in aria di mistero, stringendoglisi addosso, quasi volesse entrargli in tasca col muso di furetto; l'altro serio, col mento nella mano, senza dire una parola, accennando soltanto col capo di tratto in tratto. - Tale e quale come un ministro! - sogghignava il barone Zacco. Il canonico conchiuse con una stretta di mano enfatica, volgendo un'occhiata al barone, il quale finse di non accorgersene, rosso al par di un gallo. La padrona di casa portava le mantiglie e i cappellini delle signore, mentre tutti i Margarone in piedi mettevano sossopra la casa per accomiatarsi. - To'... Bianca!... Ti credevo già andata via!... - esclamò donna Fifì col sorriso che mordeva. Bianca rispose soltanto con un'occhiata che sembrava attonita, tanto era smarrita e dolente; in quel tempo suo cugino si dava gran moto fra le mantiglie e i cappellini, a capo basso. - Un momento! un momento! - esclamò don Filippo levando il braccio rimastogli libero, mentre coll'altro reggeva Nicolino addormentato. Si udiva un tafferuglio nella piazza; strilli da lontano; la gente correva verso San Giovanni, e il campanone che suonava a distesa, laggiù. La signora Capitana rientrò dal balcone tappandosi le orecchie colle belle mani candide, strillando in falsetto: - Mio marito!... Si picchiano!... E si abbandonò sul canapè, cogli occhi chiusi. Le signore si misero a vociare tutte in una volta; la padrona di casa gridava a Barabba di scendere a dare il catenaccio giù al portone; mentre donna Bellonia spingeva le sue ragazze in branco nella camera di donna Mariannina, e il marchese Limòli picchiava sulle mani della Capitana dei colpettini secchi. Il notaro Neri propose anche di slacciarla. - Vi pare?... - diss'ella allora balzando in piedi infuriata. - Per chi m'avete presa, don asino? Giunse in quel momento il Capitano, seguito da don Liccio Papa che sbraitava in anticamera, narrando l'accaduto, - non lo avrebbero trattenuto in cento. - La solita storia di ogni anno! - disse finalmente il signor Capitano, dopo che si fu rimesso vuotando d'un fiato un bicchier d'acqua. - I devoti di San Giovanni che danno mano al campanone un quarto d'ora prima!... Soperchierie!... Quelli di San Vito poi che non vogliono tollerare... Legnate da orbi ci sono state! - La solita storia di ogni anno! - ripeté il canonico Lupi. - Una porcheria! La Giustizia non fa nulla per impedire... Il Capitano in mezzo alla sala, coll'indice teso verso di lui, sbuffò infine: - Sentitelo!... Perché non ci andate voi? Un altro po' facevano la festa a me pure!... Vostro marito ha corso pericolo della vita, donna Carolina!... La signora Capitana, col bocchino stretto, giunse le mani: - Gesummaria!... Maria Santissima del pericolo!... - Stai fresca! - borbottò il notaro voltandosi in là. - Stai fresca davvero!... se aspetti che tuo marito voglia arrischiare la pelle per lasciarti vedova!... Don Ninì Rubiera cercando il cappello s'imbatté nella cugina, la quale gli andava dietro come una fantasima, stravolta, incespicando a ogni passo. - Bada!... - le disse lui. - Bada!... Ci guardano!... C'è lì don Gesualdo!... - Bianca! Bianca! Le mantiglie di queste signore! - gridò la zia Sganci dalla camera da letto dove s'era ficcato tutto lo stormo dei Margarone. Essa frugava in mezzo al mucchio, colle mani tremanti. Il cugino era così turbato anch'esso che seguitava a cercare il suo cappello lui pure. - Guarda, ce l'ho in testa! Non so nemmeno quello che fo. Si guardò attorno come un ladro, mentre ciascuno cercava la sua roba in anticamera, e la tirò in disparte verso l'uscio - Senti... per l'amor di Dio!... sii cauta!... Nessuno ne sa nulla... Tuo fratello non sarà andato a raccontarlo... Ed io neppure... Sai che t'ho voluto bene più dell'anima mia!... Essa non rispose verbo, gli occhi soli che parlavano, e dicevano tante cose. - Non guardarmi con quella faccia, Bianca!... no!... non guardarmi così... mi tradirei anch'io!... Donna Fifì uscì col cappello e la mantiglia, stecchita, le labbra strette quasi fossero cucite; e siccome sua sorella, giovialona, si voltava a salutare Bianca, la richiamò con la voce stizzosa: - Giovannina! andiamo! andiamo! - Meno male questa qui! - borbottò il baronello. - Ma sua sorella è un castigo di Dio. La zia Sganci, accompagnando le Margarone sino all'uscio, disse a mastro-don Gesualdo che si sprofondava in inchini sul pianerottolo, a rischio di ruzzolare giù per la scala: - Don Gesualdo, fate il favore... Accompagnate i miei nipoti Trao... Già siete vicini di casa... Don Ferdinando non ci vede bene la sera... - Sentite qua! sentite qua! - gli disse il canonico. Zacco non si dava pace; fingeva di cercare il lampione nelle cassapanche dell'anticamera, per darlo da portare a mastro-don Gesualdo. - Giacché deve accompagnare donna Bianca... una dei Trao... Non gli sarebbe passato neppure pel capo di ricevere tanto onore... a mastro-don Gesualdo!... - Però costui non poteva udire perché aspettava nella piazza, discorrendo col canonico. Solo don Liccio Papa, il quale chiudeva la marcia colla sciaboletta a tracolla, si mise a ridere: - Ah! ah! - Che c'è? - chiese il Capitano, che dava il braccio alla moglie infagottata. - Che c'è, insubordinato? - Nulla; - rispose il marchese. - Il barone Zacco che abbaia alla luna. Poi, mentre scendeva insieme a Bianca, appoggiandosi al bastoncino, passo passo, le disse in un orecchio: - Senti... il mondo adesso è di chi ha denari... Tutti costoro sbraitano per invidia. Se il barone avesse una figliuola da maritare, gliela darebbe a mastro-don Gesualdo!... Te lo dico io che son vecchio, e so cos'è la povertà!... - Eh? Che cosa? - volle sapere don Ferdinando, il quale veniva dietro adagio adagio, contando i sassi. - Nulla... Dicevamo che bella sera, cugino Trao! L'altro guardò in aria, e ripeté come un pappagallo: - Bella sera! bella sera! Don Gesualdo stava aspettando, lì davanti al portone, insieme al canonico Lupi che gli parlava sottovoce nella faccia: - Eh? eh? don Gesualdo?... che ve ne pare? - L'altro accennava col capo, lisciandosi il mento duro di barba colla grossa mano. - Una perla! una ragazza che non sa altro: casa e chiesa!... Economa... non vi costerà nulla... In casa non è avvezza a spender di certo!... Ma di buona famiglia!... Vi porterebbe il lustro in casa!... V'imparentate con tutta la nobiltà... L'avete visto, eh, stasera?... che festa v'hanno fatto?... I vostri affari andrebbero a gonfie vele... Anche per quell'affare delle terre comunali... E' meglio aver l'appoggio di tutti i pezzi grossi!... Don Gesualdo non rispose subito, sopra pensieri, a capo chino, seguendo passo passo donna Bianca che s'avviava a casa per la scalinata di Sant'Agata insieme allo zio marchese e al fratello don Ferdinando. - Sì... sì... Non dico di no... E' una cosa da pensarci... una cosa seria... Temo d'imbarcarmi in un affare troppo grosso, caro canonico... Quella è sempre una signora... Poi ho tante cose da sistemare prima di risolvere... Ciascuno sa i propri impicci... Bisogna dormirci sopra. La notte porta consiglio, canonico mio. Bianca che se ne andava col cuore stretto, ascoltando la parlantina indifferente dello zio, accanto al fratello taciturno e allampanato, udì quelle ultime parole. La notte porta consiglio. La notte scura e desolata nella cameretta misera. La notte che si portava via gli ultimi rumori della festa, l'ultima luce, l'ultima speranza... Come la visione di lui che se ne andava insieme a un'altra, senza voltarsi, senza dirle nulla, senza rispondere a lei che lo chiamava dal fondo del cuore, con un gemito, con un lamento d'ammalata, affondando il viso nel guanciale bagnato di lagrime calde e silenziose.
Mentre i muratori si riparavano ancora dall'acquazzone dentro il frantoio di Giolio vasto quanto una chiesa facendo alle piastrelle, entrò il ragazzo che stava a guardia sull'uscio, addentando un pezzo di pane, colla bocca piena, vociando: - Il padrone!... ecco il padrone!... Dietro di lui comparve mastro-don Gesualdo, bagnato fradicio, tirandosi dietro la mula che scuoteva le orecchie. - Bravi!... Mi piace!... Divertitevi! Tanto, la paga vi corre lo stesso!... Corpo di!... Sangue di!... Agostino, il soprastante, annaspando, bofonchiando, affacciandosi all'uscio per guardare il cielo ancora nuvolo coll'occhio orbo, trovò infine la risposta: - Che s'aveva a fare? bagnarci tutti?... La burrasca è cessata or ora... Siamo cristiani o porci?... Se mi coglie qualche malanno mia madre non lo fa più un altro Agostino, no! - Sì, sì, hai ragione!... la bestia sono io!... Io ho la pelle dura!... Ho fatto bene a mandare qui mio fratello per badare ai miei interessi!... Si vede!... Sta a passare il tempo anche lui giuocando, sia lodato Iddio!... Santo, ch'era rimasto a bocca aperta, coccoloni dinanzi al pioletto coi quattrini, si rizzò in piedi tutto confuso, grattandosi il capo. Gesualdo, intanto che gli altri si davano da fare, mogi mogi, misurava il muro nuovo colla canna; si arrampicava sulla scala a piuoli; pesava i sacchi di gesso, sollevandoli da terra: - Sangue di Giuda!... Come se li rubassi i miei denari!... Tutti quanti d'intesa per rovinarmi!... Due giorni per tre canne di muro? Ci ho un bel guadagno in questo appalto!... I sacchi del gesso mezzi vuoti! Neli? Neli? Dov'è quel figlio di mala femmina che ha portato il gesso?... E quella calce che se ne va in polvere, eh?... quella calce?... Che non ne avete coscienza di cristiani? Dio di paradiso!... Anche la pioggia a danno mio!... Ci ho ancora i covoni sull'aia!... Non si poteva metter su la macina intanto che pioveva?... Su! animo! la macina! Vi do una mano mentre son qua io... Santo piuttosto voleva fare una fiammata per asciugargli i panni addosso. - Non importa, - rispose lui. - Me ne sono asciugata tanta dell'acqua sulle spalle!... Se fossi stato come te, sarei ancora a trasportare del gesso sulle spalle!... Ti rammenti?... E tu non saresti qua a giuocare alle piastrelle!... Brontolando, dandosi da fare per preparare la leva, le biette, i puntelli, si voltava indietro per lanciargli delle occhiatacce. - Malannaggia! - esclamò Santo. - Sempre quella storia!... - E se ne andò sull'uscio accigliato, colle mani sotto le ascelle, guardando di qua e di là. I manovali esitavano, girando intorno al pietrone enorme; il più vecchio, mastro Cola, tenendo il mento sulla mano, scrollando il capo, aggrondato, guardando la macina come un nemico. Infine sentenziò ch'erano in pochi per spingerla sulla piattaforma: - Se scappa la leva, Dio liberi!... Chi si metterà sotto per dar lo scambio alle biette? Io no, com'è vero Dio!... Se scappa la leva!... mia madre non lo fa più un altro mastro Cola Ventura!... Eh, eh!... Ci vorrebbero dell'altre braccia... un martinetto... Legare poi una carrucola lassù alla travatura del tetto... poi dei cunei sotto... vedete, vossignoria, a far girare i cunei, si sta dai lati e non c'è pericolo... - Bravo! ora mi fate il capomastro! Datemi la stanga!... Io non ho paura!... Intanto che stiamo a chiacchierare il tempo passa! La giornata corre lo stesso, eh?... Come se li avessi rubati i miei denari!... Su! da quella parte!... Non badate a me che ho la pelle dura... Via!... su!... Viva Gesù!... Viva Maria!... un altro po'!... Badate! badate!... Ah Mariano! santo diavolone, m'ammazzi!... Su!... Viva Maria!... La vita! la vita!... Su!... Che fai, bestia, da quella parte?... Su!... ci siamo! E' nostra!... ancora!... da quella parte!... Non abbiate paura che non muore il papa... Su!... su!... se vi scappa la leva!... ancora!... se avessi tenuta cara la pelle... ancora!... come la tien cara mio fratello Santo... santo diavolone! santo diavolone, badate!... a quest'ora sarei a portar gesso sulle spalle!... Il bisogno... via! via!... il bisogno fa uscire il lupo... ancora!... su!... il lupo dal bosco!... Vedete mio fratello Santo che sta a guardare?... Se non ci fossi io egli sarebbe sotto... sotto la macina... al mio posto... invece di grattarsi... a spingere la macina... e la casa... Tutto sulle mie spalle!... Ah! sia lodato Iddio! Infine, assicurata la macina sulla piattaforma, si mise a sedere su di un sasso, trafelato, ancora tremante dal batticuore, asciugandosi il sudore col fazzoletto di cotone. - Vedete come ci si asciuga dalla pioggia? Acqua di dentro e acqua di fuori! - Santo propose di passare il fiasco in giro. - Ah?... per la fatica che hai fatto?... per asciugarti il sudore anche tu?... Attaccati all'abbeveratoio... qui fuori dell'uscio... Il tempo s'era abbonacciato. Entrava un raggio di sole dall'uscio spalancato sulla campagna che ora sembrava allargarsi ridente, col paese sull'altura, in fondo, di cui le finestre scintillavano. - Lesti, lesti, ragazzi! sul ponte, andiamo! Guadagniamoci tutti la giornata... Mettetevi un po' nei panni del padrone che vi paga!... L'osso del collo ci rimetto in quest'appalto!... Ci perdo diggià, come è vero Iddio!... Agostino! mi raccomando! l'occhio vivo!... La parola dolce e l'occhio vivo!... Mastro Cola, voi che siete capomastro!... chi vi ha insegnato a tenere il regolo in mano?... Maledetto voi! Mariano, dammi quassù il regolo, sul ponte... Che non ne avete occhi, corpo del diavolo!... L'intonaco che screpola e sbulletta!... Mi toccherà poi sentire l'architetto, malannaggia a voialtri!... Quando torna quello del gesso ditegli il fatto suo, a quel figlio di mala femmina!... ditegli a Neli che sono del mestiere anch'io!... Che ne riparleremo poi sabato, al far dei conti!... Badava a ogni cosa, girando di qua e di lá, rovistando nei mucchi di tegole e di mattoni, saggiando i materiali, alzando il capo ad osservare il lavoro fatto, colla mano sugli occhi, nel gran sole che s'era messo allora. - Santo! Santo! portami qua la mula... Fagli almeno questo lavoro, a tuo fratello! - Agostino voleva trattenerlo a mangiare un boccone, poiché era quasi mezzogiorno, un sole che scottava, da prendere un malanno chi andava per la campagna a quell'ora. - No, no, devo passare dal Camemi... ci vogliono due ore... Ho tant'altro da fare! Se il sole è caldo tanto meglio! Arriverò asciutto al Camemi... Spicciamoci, ragazzi! Badate che vi sto sempre addosso come la presenza di Dio! Mi vedrete comparire quando meno ve lo aspettate! Sono del mestiere anch'io, e conosco poi se si è lavorato o no!... Intanto che se ne andava, Santo gli corse dietro, lisciando il collo alla mula, tenendogli la staffa. Finalmente, come vide che montava a cavallo senza darsene per inteso, si piantò in mezzo alla strada, grattandosi l'orecchio: - Così mi lasci? senza domandarmi neppure se ho bisogno di qualche cosa? - Sì, sì, ho capito. I denari che avesti lunedì te li sei giuocati. Ho capito! ho capito! eccoti il resto. E divèrtiti alle piastrelle, che a pagare poi ci son io... il debitore di tutti quanti!... Brontolava ancora allontanandosi all'ambio della mula sotto il sole cocente: un sole che spaccava le pietre adesso, e faceva scoppiettare le stoppie quasi s'accendessero. Nel burrone, fra i due monti, sembrava d'entrare in una fornace; e il paese in cima al colle, arrampicato sui precipizi, disseminato fra rupi enormi, minato da caverne che lo lasciavano come sospeso in aria, nerastro, rugginoso, sembrava abbandonato, senza un'ombra, con tutte le finestre spalancate nell'afa, simili a tanti buchi neri, le croci dei campanili vacillanti nel cielo caliginoso. La stessa mula anelava, tutta sudata, nel salire la via erta. Un povero vecchio che s'incontrò, carico di manipoli, sfinito, si mise a borbottare: - O dove andate vossignoria a quest'ora?... Avete tanti denari, e vi date l'anima al diavolo! Giunse al paese che suonava mezzogiorno, mentre tutti scappavano a casa come facesse temporale. Dal Rosario veniva il canonico Lupi, accaldato, col nicchio sulla nuca, soffiando forte: - Ah, ah, don Gesualdo!... andate a mangiare un boccone?... Io no, per mia disgrazia! Sono a bocca asciutta sino a quest'ora... Vado a celebrare la santa messa... la messa di mezzogiorno!... un capriccio di Monsignore! - Sono salito al paese apposta per voi!.... Ho fatto questa pettata!... E' caldo, eh! - intanto si asciugava il sudore col fazzoletto. - Ho paura che mi giuochino qualche tiro, riguardo a quell'appalto delle strade comunali, signor canonico. Vossignoria che vi fate sentire in paese... ci avete pensato? So poi l'obbligo mio!... - Ma che dite?... fra di noi!... ci sto lavorando... A proposito, che facciamo per quell'altro affare? ci avete pensato? che risposta mi date? Don Gesualdo il quale aveva messo al passo la mula, camminandogli allato, curvo sulla sella, un po' sbalordito dal gran sole, rispose: - Che affare? Ne ho tanti!... Di quale affare parlate vossignoria? - Ah! ah! la pigliate su quel verso?... Scusate... scusate tanto!... Il canonico mutò subito discorso, quasi non gliene importasse neppure a lui: parlò dell'altro affare della gabella, che bisognava venire a una conclusione colla baronessa Rubiera: - C'è altre novità... Il notaro Neri ha fatto lega con Zacco... Ho paura che... Don Gesualdo allora smontò dalla mula, premuroso, tirandola dietro per le redini, mentre andava passo passo insieme al prete, tutto orecchi, a capo chino e col mento in mano. - Temo che mi cambino la baronessa!... Ho visto il barone a confabulare con quello sciocco di don Ninì... ieri sera, dietro il Collegio... Finsi d'entrare nella farmacia per non farmi scorgere. Capite? un affare grosso!... Son circa cinquecento salme di terra... C'è da guadagnare un bel pezzo di pane, su quell'asta. Don Gesualdo ci si scaldava lui pure: gli occhi accesi dall'afa che gli brillavano in quel discorso. Temeva però gli intrighi degli avversari, tutti pezzi grossi, di quelli che avevano voce in capitolo! E il canonico viceversa, andava raffreddandosi di mano in mano, aggrottandosi in viso, stringendosi nelle spalle, guardandolo fisso di tanto in tanto, e scrollando il capo di sotto in su, come a dargli dell'asino. - Per questo dicevo!... Ma voi la pigliate su quel verso!... Scusate, scusatemi tanto!... Volevo con quell'affare procurarvi l'appoggio di un parentado che conta in paese... la prima nobiltà... Ma voi fate l'indifferente... Scusatemi tanto allora!... Anche per dare una risposta alla signora Sganci che ci aveva messo tanto impegno!... Scusatemi, è una porcheria... - Ah, parlate dell'affare del matrimonio?... Il canonico finse di non dar retta lui stavolta: - Ah! ecco vostro cognato! Vi saluto, massaro Fortunato! Burgio aveva il viso lungo un palmo, aggrottato, con tanto di muso nel faccione pendente. - V'ho visto venire di laggiù, cognato. Sono stato ad aspettarvi lì, al belvedere. Sapete la notizia? Appena quindici salme fecero le fave!... Neanche le spese, com'è vero Iddio!... Son venuto apposta a dirvelo... - Vi ringrazio! grazie tante! Ora che volete da me? Io ve l'aveva detto, quando avete voluto prendere quella chiusa!... buona soltanto per dar spine!... Volete sempre fare di testa vostra, e non ne indovinate una, benedett'uomo! - rispose Gesualdo in collera. - Bene, avete ragione. Lascerò la chiusa. Non la voglio più! Che pretendete altro da me? - Non la volete?... L'affitto vi dura altri due anni!... Chi volete che la pigli?... Non son tutti così gonzi!... Il canonico, vedendo che il discorso si metteva per le lunghe, volse le spalle: - Vi saluto... Don Luca il sagrestano mi aspetta... digiuno come me sino a quest'ora! - E infilò la scaletta pel quartiere alto. Don Gesualdo allora infuriato prese a sfogarsi col cognato: - E venite apposta per darmi la bella notizia?... mentre stavo a discorrere dei fatti miei... sul più bello? mi guastate un affare che stavo combinando!... I bei negozi che fate voi! Chi volete che la pigli quella chiusa? Massaro Fortunato dietro al cognato tornava a ripetere: - Cercando bene... troveremo chi la pigli... La terra è già preparata a maggese per quest'altr'anno... mi costa un occhio... Vostra sorella fa un casa del diavolo... non mi dà pace!... Sapete che castigo di Dio, vostra sorella! - Vi costa, vi costa!... Io lo so a chi costa! - brontolò Gesualdo senza voltarsi. - Sulle mie spalle ricadono tutte queste belle imprese!... Burgio s'offese a quelle parole: - Che volete dire? Spiegatevi, cognato!... Io già lavoro per conto mio! Non sto alle spalle di nessuno, io! - Sì, sì, va bene; sta a vedere ora che devo anche pregarvi? Come se non l'avessi sulle spalle la vostra chiusa... come se il garante non fossi io... Così brontolando tutti e due andarono a cercare Pirtuso, che stava al Fosso, laggiù verso San Giovanni. Mastro Lio stava mangiando quattro fave, coll'uscio socchiuso. - Entrate, entrate, don Gesualdo. Benedicite a vossignoria! Ne comandate? volete restar servito? - Poi come udì parlare della chiusa che Burgio avrebbe voluto appioppare a un altro, di allegro che era si fece scuro in viso, grattandosi il capo. - Eh! eh!... la chiusa del Purgatorio? E' un affar serio! Non la vogliono neanche per pascolo. Burgio s'affannava a lodarla, terre di pianura, terre profonde, che gli avevano dato trenta salme di fave quell'anno soltanto, preparate a maggese per l'anno nuovo!... Il cognato tagliò corto, come uno che ha molta altra carne al fuoco, e non ha tempo da perdere inutilmente. - Insomma, mastro Lio, voglio disfarmene. Fate voi una cosa giusta... con prudenza!... - Questo si chiama parlare! - rispose Pirtuso. - Vossignoria sa fare e sa parlare... - E adesso ammiccava coll'occhietto ammammolato, un sorrisetto malizioso che gli errava fra le rughe della bazza irta di peli sudici. Sulla strada soleggiata e deserta a quell'ora stava aspettando un contadino, con un fazzoletto legato sotto il mento, le mani in tasca, giallo e tremante di febbre. Ossequioso, abbozzando un sorriso triste, facendo l'atto di cacciarsi indietro il berretto che teneva sotto il fazzoletto: - Benedicite, signor don Gesualdo... Ho conosciuto la mula... Tanto che vi cerco, vossignoria! Cosa facciamo per quelle quattro olive di Giolio? Io non ho denari per farle cogliere... Vedete come sono ridotto?... cinque mesi di terzana, sissignore, Dio ne liberi vossignoria! Son ridotto all'osso... il giorno senza pane e la sera senza lume... pazienza! Ma la spesa per coglier le olive non posso farla... proprio non posso!... Se le volete, vossignoria... farete un'opera di carità, vossignoria... - Eh! eh!... Il denaro è scarso per tutti, padre mio!... Voi perché avete messo il carro innanzi ai buoi?... Quando non potete... Tutti così!... Vi mettereste sulle spalle un feudo, a lasciarvi fare... Vedremo... Non dico di no... Tutto sta ad intendersi... E lasciò cadere un'offerta minima, seguitando ad andarsene per la sua strada senza voltarsi. L'altro durò un pezzetto a lamentarsi, correndogli dietro, chiamando in testimonio Dio e i santi, piagnucolando, bestemmiando, e finì per accettare, racconsolato tutto a un tratto, cambiando tono e maniera. - Compare Lio, avete udito? affare fatto! Un buon negozio per don Gesualdo... pazienza!... ma è detta! Quanto a me, è come se fossimo andati dal notaio! - E se ne tornò indietro, colle mani in tasca. - Sentite qua, mastro Lio, - disse Gesualdo tirando in disparte Pirtuso. Burgio s'allontanò colla mula discretamente, sapendo che l'anima dei negozi è il segreto, intanto che suo cognato diceva al sensale di comprargli dei sommacchi, quanti ce n'erano, al prezzo corrente. Udì soltanto mastro Lio che rispondeva sghignazzando, colla bocca sino alle orecchie: - Ah! ah!... siete un diavolo!... Vuol dire che avete parlato col diavolo!... Sapete quel che bisogna vendere e comprare otto giorni prima... Va bene, restiamo intesi... Me ne torno a casa ora. Ho quelle quattro fave che m'aspettano. Burgio non si reggeva in piedi dall'appetito, e si mise a brontolare come il cognato volle passare dalla posta. - Sempre misteri... maneggi sottomano! Don Gesualdo tornò tutto contento, leggendo una lettera piena di sgorbi e suggellata colla midolla di pane: - Lo vedete il diavolo che mi parla all'orecchio! eh? M'ha dato anche una buona notizia, e bisogna che torni da mastro Lio. - Io non so nulla... Mio padre non m'ha insegnato a fare queste cose!... - rispose Burgio brontolando. - Io fo come fece mio padre... Piuttosto, se volete venire a prendere un boccone a casa... Non mi reggo in piedi, com'è vero Dio! - No, non posso; non ho tempo. Devo passare dal Camemi, prima d'andare alla Canziria. Ci ho venti uomini che lavorano alla strada... i covoni sull'aia... Non posso... E se ne andò sotto il gran sole, tirandosi dietro la mula stanca. Pareva di soffocare in quella gola del Petraio. Le rupi brulle sembravano arroventate. Non un filo di ombra, non un filo di verde, colline su colline, accavallate, nude, arsicce, sassose, sparse di olivi rari e magri, di fichidindia polverosi, la pianura sotto Budarturo come una landa bruciata dal sole, i monti foschi nella caligine, in fondo. Dei corvi si levarono gracchiando da una carogna che appestava il fossato; delle ventate di scirocco bruciavano il viso e mozzavano il respiro; una sete da impazzire, il sole che gli picchiava sulla testa come fosse il martellare dei suoi uomini che lavoravano alla strada del Camemi. Allorché vi giunse invece li trovò tutti quanti sdraiati bocconi nel fossato, di qua e di là, col viso coperto di mosche, e le braccia stese. Un vecchio soltanto spezzava dei sassi, seduto per terra sotto un ombrellaccio, col petto nudo color di rame, sparso di peli bianchi, le braccia scarne, gli stinchi bianchi di polvere, come il viso che pareva una maschera, gli occhi soli che ardevano in quel polverìo. - Bravi! bravi!... Mi piace... La fortuna viene dormendo... Son venuto io a portarvela!... Intanto la giornata se ne va!... Quante canne ne avete fatto di massicciata oggi, vediamo?... Neppure tre canne!... Per questo che vi riposate adesso? Dovete essere stanchi, sangue di Giuda!... Bel guadagno ci fo!... Mi rovino per tenervi tutti quanti a dormire e riposare!... Corpo di!... sangue di!... Vedendolo con quella faccia accesa e riarsa, bianca di polvere soltanto nel cavo degli occhi e sui capelli; degli occhi come quelli che dà la febbre, e le labbra sottili e pallide; nessuno ardiva rispondergli. Il martellare riprese in coro nell'ampia vallata silenziosa, nel polverìo che si levava sulle carni abbronzate, sui cenci svolazzanti, insieme a un ansare secco che accompagnava ogni colpo. I corvi ripassarono gracidando, nel cielo implacabile. Il vecchio allora alzò il viso impolverato a guardarli, con gli occhi infuocati, quasi sapesse cosa volevano e li aspettasse. Allorché finalmente Gesualdo arrivò alla Canziria, erano circa due ore di notte. La porta della fattoria era aperta. Diodata aspettava dormicchiando sulla soglia. Massaro Carmine, il camparo, era steso bocconi sull'aia, collo schioppo fra le gambe; Brasi Camauro e Nanni l'Orbo erano spulezzati di qua e di là, come fanno i cani la notte, quando sentono la femmina nelle vicinanze; e i cani soltanto davano il benvenuto al padrone, abbaiando intorno alla fattoria. - Ehi? non c'è nessuno? Roba senza padrone, quando manco io! - Diodata, svegliata all'improvviso, andava cercando il lume tastoni, ancora assonnata. Lo zio Carmine, fregandosi gli occhi, colla bocca contratta dai sbadigli, cercava delle scuse. - Ah!... sia lodato Dio! Voi ve la dormite da un canto, Diodata dall'altro, al buio!... Cosa facevi al buio?... aspettavi qualcheduno?... Brasi Camauro oppure Nanni l'Orbo?... La ragazza ricevette la sfuriata a capo chino, e intanto accendeva lesta lesta il fuoco, mentre il suo padrone continuava a sfogarsi, lì fuori, all'oscuro, e passava in rivista i buoi legati ai pioli intorno all'aia. Il camparo mogio mogio gli andava dietro per rispondere al caso: - Gnorsì, Pelorosso sta un po' meglio; gli ho dato la gramigna per rinfrescarlo. La Bianchetta ora mi fa la svogliata anch'essa... Bisognerebbe mutar di pascolo... tutto il bestiame... Il mal d'occhio, sissignore! Io dico ch'è passato di qui qualcheduno che portava il malocchio!... Ho seminato perfino i pani di San Giovanni nel pascolo... Le pecore stanno bene, grazie a Dio... e il raccolto pure... Nanni l'Orbo? Laggiù a Passanitello, dietro le gonnelle di quella strega... Un giorno o l'altro se ne torna a casa colle gambe rotte, com'è vero Dio!... e Brasi Camauro anch'esso, per amor di quattro spighe... - Diodata gridò dall'uscio ch'era pronto. - Se non avete altro da comandarmi, vossignoria, vado a buttarmi giù un momento... Come Dio volle finalmente, dopo un digiuno di ventiquattr'ore, don Gesualdo poté mettersi a tavola, seduto di faccia all'uscio, in maniche di camicia, le maniche rimboccate al disopra dei gomiti, coi piedi indolenziti nelle vecchie ciabatte ch'erano anch'esse una grazia di Dio. La ragazza gli aveva apparecchiata una minestra di fave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr'ova fresche, e due pomidori ch'era andata a cogliere tastoni dietro la casa. Le ova friggevano nel tegame, il fiasco pieno davanti; dall'uscio entrava un venticello fresco ch'era un piacere, insieme al trillare dei grilli, e all'odore dei covoni nell'aia: - il suo raccolto lì, sotto gli occhi, la mula che abboccava anch'essa avidamente nella bica dell'orzo, povera bestia - un manipolo ogni strappata! Giù per la china, di tanto in tanto, si udiva nel chiuso il campanaccio della mandra; e i buoi accovacciati attorno all'aia, legati ai cestoni colmi di fieno, sollevavano allora il capo pigro, soffiando, e si vedeva correre nel buio il luccichìo dei loro occhi sonnolenti, come una processione di lucciole che dileguava. Gesualdo posando il fiasco mise un sospirone, e appoggiò i gomiti sul deschetto: - Tu non mangi?... Cos'hai? Diodata stava zitta in un cantuccio, seduta su di un barile, e le passò negli occhi, a quelle parole, un sorriso di cane accarezzato. - Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia! Essa mise la scodella sulle ginocchia, e si fece il segno della croce prima di cominciare, poi disse: - Benedicite a vossignoria! Mangiava adagio adagio, colla persona curva e il capo chino. Aveva una massa di capelli morbidi e fini, malgrado le brinate ed il vento aspro della montagna: dei capelli di gente ricca, e degli occhi castagni, al pari dei capelli, timidi e dolci: de' begli occhi di cane carezzevoli e pazienti, che si ostinavano a farsi voler bene, come tutto il viso supplichevole anch'esso. Un viso su cui erano passati gli stenti, la fame, le percosse, le carezze brutali; limandolo, solcandolo, rodendolo; lasciandovi l'arsura del solleone, le rughe precoci dei giorni senza pane, il lividore delle notti stanche - gli occhi soli ancora giovani, in fondo a quelle occhiaie livide. Così raggomitolata sembrava proprio una ragazzetta, al busto esile e svelto, alla nuca che mostrava la pelle bianca dove il sole non aveva bruciato. Le mani, annerite, erano piccole e scarne: delle povere mani pel suo duro mestiere!... - Mangia, mangia. Devi essere stanca tu pure!... Ella sorrise, tutta contenta, senza alzare gli occhi. Il padrone le porse anche il fiasco: - Te', bevi! non aver suggezione! Diodata, ancora un po' esitante, si pulì la bocca col dorso della mano, e s'attaccò al fiasco arrovesciando il capo all'indietro. Il vino, generoso e caldo, le si vedeva scendere quasi a ogni sorso nella gola color d'ambra; il seno ancora giovane e fermo sembrava gonfiarsi. Il padrone allora si mise a ridere. - Brava, brava! Come suoni bene la trombetta!... Sorrise anch'essa, pulendosi la bocca un'altra volta col dorso della mano, tutta rossa. - Tanta salute a vossignoria! Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su di un covone, accanto all'uscio, colle spalle al muro, le mani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere già alta, dietro il monte, verso Francofonte. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d'alba. A poco a poco, al dilagar di quel chiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si movevano per la china, e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso, mentre scendeva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente, e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi. Nell'aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d'argento, e nell'ombra si accennavano confusamente altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un'altra striscia d'argento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio. - Eh? Diodata? Dormi, marmotta?... - Nossignore, no!... Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanzi all'uscio, buttando via le frasche, carponi, fregandosi gli occhi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal sonno, col mento rilassato, le gambe fiacche. - Dormivi!... Se te l'ho detto che dormivi!... E le assestò uno scapaccione come carezza. Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto... gli sembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso dalla fornace di suo padre, a Donferrante! Quante volte l'aveva fatta quella strada di Licodia, dietro gli asinelli che cascavano per via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolo, con la funicella stessa della soma... Erano dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca ogni asino morto al poveruomo! - Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d'allora; Speranza che cominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tredici mesi dell'anno!... - Più colpi di funicella che pane! - Poi quando il Mascalise, suo zio, lo condusse seco manovale, a cercar fortuna... Il padre non voleva, perché aveva la sua superbia anche lui, come uno che era stato sempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva di vedere il sangue suo al comando altrui. - Ci vollero sette anni prima che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo... la fabbrica del Molinazzo... Circa duecento salme di gesso che andarono via dalla fornace al prezzo che volle mastro Nunzio... e la dote di Speranza anche, perché la ragazza non poteva più stare in casa... - E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!... - Mastro Nunzio non voleva saperne... Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. "Fa l'arte che sai!" - Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misurarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle gambe la canna dell'agrimensore... E ordinava "bisogna far questo e quest'altro" per usare del suo diritto, e non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine della sua. - La madre non ci arrivò a provare quella consolazione, poveretta. Morì raccomandando a tutti Santo, che era stato sempre il suo prediletto e Speranza carica di famiglia com'era stata lei... - un figliuolo ogni anno... - Tutti sulle spalle di Gesualdo, giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent'anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. - Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! - Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fatiche!... La coltura dei fondi, il commercio delle derrate, il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!... - Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!... - Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d'inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell'aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all'ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. - Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un'ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all'osteria! - trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi - le liti fra tutti loro quando gli affari non andavano bene. - Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. - Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. - Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l'impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l'occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi per dire soltanto "vi saluto"; le strette di mano inquiete, coll'orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall'ira, spumanti bava e minacce - la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore... - Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padrone!... Hai le spalle grosse anche tu... povera Diodata!... Essa, vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta contenta e gli si accovacciò ai piedi, su di un sasso, col viso bianco di luna, il mento sui ginocchi, in un gomitolo. Passava il tintinnìo dei campanacci, il calpestìo greve e lento per la distesa del bestiame che scendeva al torrente, dei muggiti gravi e come sonnolenti, le voci dei guardiani che lo guidavano e si spandevano lontane, nell'aria sonora. La luna ora discesa sino all'aia, stampava delle ombre nere in un albore freddo; disegnava l'ombra vagante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame; la massa inerte del camparo, steso bocconi - Nanni l'Orbo, eh?... o Brasi Camauro? Chi dei due ti sta dietro la gonnella? - riprese don Gesualdo che era in vena di scherzare. Diodata sorrise: - Nossignore!... nessuno!... Ma il padrone ci si divertiva: - Sì, sì!... l'uno o l'altro... o tutti e due insieme!... Lo saprò!... Ti sorprenderò con loro nel vallone, qualche volta!... Essa sorrideva sempre allo stesso modo, di quel sorriso dolce e contento, allo scherzo del padrone che sembrava le illuminasse il viso, affinato dal chiarore molle: gli occhi come due stelle; le belle trecce allentate sul collo; la bocca un po' larga e tumida, ma giovane e fresca. Il padrone stette un momento a guardarla così, sorridendo anch'esso, e le diede un altro scapaccione affettuoso. - Questa non è roba per quel briccone di Brasi, o per Nanni l'Orbo! no!... - Oh, gesummaria!... - esclamò essa facendosi la croce. - Lo so, lo so. Dico per ischerzo, bestia!... Tacque un altro po' ancora, e poi soggiunse: - Sei una buona ragazza!... buona e fedele! vigilante sugli interessi del padrone, sei stata sempre... - Il padrone mi ha dato il pane, - rispose essa semplicemente. - Sarei una birbona... - Lo so! lo so!... poveretta!... per questo t'ho voluto bene! A poco a poco, seduto al fresco, dopo cena, con quel bel chiaro di luna, si lasciava andare alla tenerezza dei ricordi. - Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!... Ne abbiamo passati dei brutti giorni!... Sempre all'erta, come il tuo padrone! Sempre colle mani attorno... a far qualche cosa! Sempre l'occhio attento sulla mia roba!... Fedele come un cane!... Ce n'è voluto, sì, a far questa roba!... Tacque un momento intenerito. Poi riprese, dopo un pezzetto, cambiando tono: - Sai? Vogliono che prenda moglie. La ragazza non rispose; egli non badandoci, seguitò: - Per avere un appoggio... Per far lega coi pezzi grossi del paese... Senza di loro non si fa nulla!... Vogliono farmi imparentare con loro... per l'appoggio del parentado, capisci?... Per non averli tutti contro, all'occasione... Eh? che te ne pare? Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani. Poi rispose, con un tono di voce che andò a rimescolargli il sangue a lui pure: - Vossignoria siete il padrone... - Lo so, lo so... Ne discorro adesso per chiacchierare... perché mi sei affezionata... Ancora non ci penso... ma un giorno o l'altro bisogna pure andarci a cascare... Per chi ho lavorato infine?... Non ho figliuoli... Allora le vide il viso, rivolto a terra, pallido pallido e tutto bagnato. - Perché piangi, bestia? - Niente, vossignoria!... Così!... Non ci badate... - Cosa t'eri messa in capo, di'? - Niente, niente, don Gesualdo... - Santo e santissimo! Santo e santissimo! - prese a gridare lui sbuffando per l'aia. Il camparo al rumore levò il capo sonnacchioso e domandò: - Che c'è?... S'è slegata la mula? Devo alzarmi?... - No, no, dormite, zio Carmine. Diodata gli andava dietro passo passo, con voce umile e sottomessa: - Perché v'arrabbiate, vossignoria?... Cosa vi ho detto?... - M'arrabbio colla mia sorte!... Guai e seccature da per tutto... dove vado!... Anche tu, adesso!... col piagnisteo!... Bestia!... Credi che, se mai, ti lascerei in mezzo a una strada... senza soccorsi?... - Nossignore... non è per me... Pensavo a quei poveri innocenti... - Anche quest'altra?... Che ci vuoi fare! Così va il mondo!... Poiché v'è il comune che ci pensa!... Deve mantenerli il comune a spese sue... coi denari di tutti!... Pago anch'io!... So io ogni volta che vo dall'esattore!... Si grattò il capo un istante, e riprese: - Vedi, ciascuno viene al mondo colla sua stella... Tu stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Sei venuta al mondo da te, come Dio manda l'erba e le piante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondo come dice il tuo nome... Diodata! Vuol dire di nessuno!... E magari sei forse figlia di barone, e i tuoi fratelli adesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c'è per tutti! Hai trovato da vivere anche tu!... E la mia roba?... me l'hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!... Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla... In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando per l'aia, su e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ragazza piangeva ancora, cheta cheta per non infastidirlo, le tornò a sedere allato di nuovo, rabbonito. - Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone... come quando ero un povero diavolo senza nulla... Ora ci ho tanta roba da lasciare... Non posso andare a cercar gli eredi di qua e di là, per la strada... o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poi, se Dio m'aiuta, saranno nati sotto la buona stella!... - Vossignoria siete il padrone... Egli ci pensò un po' su, perché quel discorso lo punzecchiava ancora peggio di una vespa, e tornò a dire: - Anche tu... non hai avuto né padre né madre... Eppure cosa t'è mancato, di'? - Nulla, grazie a Dio! - Il Signore c'è per tutti... Non ti lascerei in mezzo a una strada, ti dico!... La coscienza mi dice di no... Ti cercherei un marito... - Oh... quanto a me... don Gesualdo!... - Sì, sì, bisogna maritarti!... Sei giovane, non puoi rimaner così... Non ti lascerei senza un appoggio... Ti troverei un buon giovane, un galantuomo... Nanni l'Orbo, guarda! Ti darei la dote... - Il Signore ve lo renda... - Son cristiano! son galantuomo! Poi te lo meriti. Dove andresti a finire altrimenti?... Penserò a tutto io. Ho tanti pensieri pel capo!... e questo cogli altri!... Sai che ti voglio bene. Il marito si trova subito. Sei giovane... una bella giovane... Sì, sì, bella!... lascia dire a me che lo so! Roba fine!... sangue di barone sei, di certo!... Ora la pigliava su di un altro tono, col risolino furbo e le mani che gli pizzicavano. Le stringeva con due dita il ganascino. Le sollevava a forza il capo, che ella si ostinava a tener basso per nascondere le lagrime. - Già per ora son discorsi in aria... Il bene che voglio a te non lo voglio a nessuno, guarda!... Su quel capo adesso, sciocca!... sciocca che sei!... Come vide che seguitava a piangere, testarda, scappò a bestemmiare di nuovo, simile a un vitello infuriato. - Santo e santissimo! Sorte maledetta!... Sempre guai e piagnistei!...
Masi, il garzone, corse a svegliare don Gesualdo prima dell'alba, con una voce che faceva gelare il sangue nelle vene: - Alzatevi, vossignoria; ch'è venuto il manovale da Fiumegrande e vuole parlarvi subito!... - Da Fiumegrande?... a quest'ora?... - Mastro-don Gesualdo andava raccattando i panni tastoni, al buio, ancora assonnato, con un guazzabuglio nella testa. Tutt'a un tratto gridò: - Il ponte!... Deve essere accaduta qualche disgrazia!... - Giù nella stalla trovò il manovale seduto sulla panchetta, fradicio di pioggia, che faceva asciugare i quattro cenci a una fiammata di strame. Appena vide giungere il padrone, cominciò a piagnucolare di nuovo: - Il ponte!... Mastro Nunzio, vostro padre, disse ch'era ora di togliere l'armatura!... Nardo vi è rimasto sotto!... Era un parapiglia per tutta la casa: Speranza, la sorella, che scendeva a precipizio, intanto che suo marito s'infilava le brache; Santo, ancora mezzo ubbriaco, ruzzoloni per la scaletta della botola, urlando quasi l'accoppassero. Il manovale, a ciascuno che capitava, tornava a dire: - Il ponte!... l'armatura!... Mastro Nunzio dice che fu il cattivo tempo!... Don Gesualdo andava su e giù per la stalla, pallido, senza dire una parola, senza guardare in viso nessuno, aspettando che gl'insellassero la mula, la quale spaventata anch'essa sparava calci, e Masi dalla confusione non riusciva a mettergli il basto. A un certo punto gli andò coi pugni sul viso, cogli occhi che volevano schizzargli dall'orbita. - Quando? santo e santissimo!... Non la finisci più, peste che ti venga! - Colpa vostra! Ve l'avevo detto! Non sono imprese per noialtri! - sbraitava la sorella in camicia, coi capelli arruffati, una furia tale e quale! Massaro Fortunato, più calmo, approvava la moglie, con un cenno del capo, silenzioso, seduto sulla panchetta, simile a una macina di mulino. - Voi non dite nulla! state lì come un allocco! Adesso Speranza inveiva contro suo marito: - Quando si tratta d'aiutar voi, che pure siete suo cognato!... carico di figliuoli anche!... allora saltano fuori le difficoltà!... denari non ce ne sono!... i denari che si son persi nel ponte della malora! Gesualdo da principio si voltò verso di lei inviperito, colla schiuma alla bocca. Poscia mandò giù la bile, e si mise a canterellare mentre affibbiava la testiera della mula: un'allegria che gli mangiava il fegato. Si fece il segno della croce, mise il piede alla staffa; infine di lassù, a cavallo, che toccava quasi il tetto col capo, sputò fuori il fatto suo, prima d'andarsene: - Avete ragione! M'ha fatto fare dei bei negozi, tuo marito! La semenza che abbiamo buttato via a Donninga! La vigna che m'ha fatto piantare dove non nasce neppure erba da pascolo!... Testa fine tuo marito!... M'è toccato pagarle di tasca mia le vostre belle speculazioni! Ma son stanco, veh, di portare la soma! L'asino quand'è stanco si corica in mezzo alla via e non va più avanti... E spronò la mula, che borbottava ancora; la sorella sbraitandogli dietro, dall'uscio della stalla, finché si udirono i ferri della cavalcatura sui ciottoli della stradicciuola, nel buio. Il manovale si mise a correre, affannato, zoppicando; ma il padrone, che aveva la testa come un mulino, non se ne avvide. Soltanto allorché furono giunti alla chiusa del Carmine, volse il capo all'udire lo scalpiccìo di lui nella mota, e lo fece montare in groppa. Il ragazzo, colla voce rotta dall'andatura della mula, ripeteva sempre la stessa cosa: - Mastro Nunzio disse che era tempo di togliere l'armatura... Era spiovuto dopo il mezzogiorno... - No, vossignoria, disse mastro Nardo; lasciamo stare ancora sino a domani... - Disse mastro Nunzio: - tu parli così per papparti un'altra giornata di paga... - Io intanto facevo cuocere la minestra per gli uomini... Dal monte si udiva gridare: "La piena! cristiani!..." Mentre Nardo stava sciogliendo l'ultima fune... Gesualdo, col viso al vento, frustato dalla burrasca, spronava sempre la mula colle calcagna, senza aprir bocca. - Eh?... Che dite, don Gesualdo?... Non rispondete?... - Che non ti casca mai la lingua? - rispose infine il padrone. Cominciava ad albeggiare prima di giungere alla Torretta. Un contadino che incontrarono spingendo innanzi l'asinello, pigliandosi l'acquazzone sotto la giacca di cotonina, col fazzoletto in testa e le mani nelle tasche, volle dire qualche cosa; accennava laggiù, verso il fiume, mentre il vento si portava lontano la voce. Più in là una vecchierella raggomitolata sotto un carrubbio si mise a gridare: - Non potete passare, no!... Il fiume!... badate!... In fondo, nella nebbia del fiume e della pioggia, si scorgeva confusamente un enorme ammasso di rovine, come un monte franato in mezzo al fiume, e sul pilone rimasto in piedi, perduto nella bruma del cielo basso, qualcosa di nero che si muoveva, delle braccia che accennavano lontano. Il fiume, di qua e di là dei rottami, straripava in larghe pozze fangose. Più giù, degli uomini messi in fila, coll'acqua fino al ginocchio, si chinavano in avanti tutti in una volta, e poi tiravano insieme, con un oooh! che sembrava un lamento. - No! no! - urlavano i muratori trattenendo pel braccio don Gesualdo. - Che volete annegarvi, vossignoria? Egli non rispondeva, nel fango sino a mezza gamba, andando su e giù per la riva corrosa, coi capelli che gli svolazzavano al vento. Mastro Nunzio, dall'alto del pilone, gli gridava qualche cosa: delle grida che le raffiche gli strappavano di bocca e sbrindellavano lontano. - Che ci fate adesso lassù?... State a piangere il morto? Lasciate... lasciate andare! - gli rispose Gesualdo dalla riva. Il rumore delle acque si mangiò anche le sue parole furiose. Il vecchio, in alto, nella nebbia, accennava sempre di no, testardo. Dell'altra gente gridava anche dalla riva opposta, sotto gli ombrelloni d'incerata, senza potere farsi intendere, indicando verso il punto dove gli uomini tiravano in salvo delle travi. A seconda del vento giungevano pure di lassù, donde veniva la corrente, delle voci che sembravano cadere dal cielo, delle grida disperate, e un suono di corno rauco. Gesualdo, curvo sotto l'acquazzone, sfangando sulla riva, aiutava a tirare in salvo i legnami dell'armatura che la corrente furiosa seguitava a scuotere e a sfasciare. - A me!... santo Dio!... non vedete che si porta anche quelli?... - A un certo punto barcollò e stava per affondare nella melma spumosa che dilagava. - Santo diavolone! Che volete lasciarvi anche la pelle? - urlò il capomastro afferrandolo pel bavero. - Un altro po' strascinate me pure alla perdizione! Egli, pallido come un morto, cogli occhi stralunati, i capelli irti sul capo, quasi colla schiuma alla bocca, rispondeva: - Lasciatemi crepare! A voi non ve ne importa!... Dite così perché voi non ci avete il sangue vostro in mezzo a quell'acqua!... Lasciatemi crepare! Mastro Nunzio, vedendo smaniare a quel modo il suo figliuolo, voleva buttarsi a capo fitto giù nella corrente addirittura: - Per non stare a sentir lui!... Adesso mi dirà ch'è tutta colpa mia!... vedrete!... Non son padrone di muovere un dito in casa mia... Sono padrone da burla... Allora è meglio finirla in una volta!... - E andava tentando l'acqua col piede. - Sentite! - interruppe il figliuolo con voce sorda. - Lasciatemi in pace anche voi! Io v'ho lasciato fare, voi! Avete voluto che prendessi l'appalto del ponte... per non stare in ozio... Vedete com'è andata a finire!... E bisogna tornare da capo, se non voglio perdere la cauzione... Potevate starvene quieto e tranquillo a casa... Che vi facevo mancare?... Lasciatemi in pace almeno. Tanto, voi non ci avete perso nulla... - Ah! Non ci ho perso nulla?... Sapevo bene che glielo avresti rinfacciato... a tuo padre!... Già non conto più nulla io! Non so far più nulla!... Ti ho fatto quel che sei!... Come se non fossi il capo di casa!... come se non conoscessi il mio mestiere!... - Ah!... il vostro mestiere?... perché avevate la fornace del gesso?... e mi è toccato ricomprarvela due volte anche!... vi credete un ingegnere!... Ecco il bel mestiere che sapete fare!... Mastro Nunzio guardò infuriato il suo figliuolo, annaspando, agitando le labbra senza poter proferire altre parole, strabuzzando gli occhi per tornare a cercare il posto migliore da annegarsi, e infine brontolò: - E allora perché mi trattieni?... Perché non vuoi che mi butti nel fiume? perché? Gesualdo cominciò a strapparsi i capelli, a mordersi le braccia, a sputare in cielo. Poscia gli si piantò in faccia disperato, scuotendogli le mani giunte dinanzi al viso. - Per l'amor di Dio!... per l'anima di mia madre!... con questo po' di tegola che m'è cascata fra capo e collo... capite che non ho voglia di scherzare adesso!... Il capomastro si intromise per calmarli. - Infine quel ch'è stato è stato. Il morto non torna più. Colle chiacchiere non si rimedia a nulla. Piuttosto venite ad asciugarvi tutti e due, che arrischiate di pigliare un malanno per giunta, così fradici come siete. Avevano acceso un gran fuoco di giunchi e di legna rotte, nella capanna. Pezzi di travi su cui erano ancora appiccicate le immagini dei santi che dovevano proteggere il ponte, buon'anima sua! Mastro Nunzio, il quale perdeva anche la fede in quella disdetta, ci sputò sopra un paio di volte, col viso torvo. Tutti piangevano e si fregavano gli occhi dal fumo, intanto che facevano asciugare i panni umidi. In un canto, sotto quelle quattro tegole rotte, era buttato Nardo, il manovale che s'era rotta la gamba, sudando e spasimando. Volle mettere anch'egli una buona parola nel malumore fra padre e figlio: - Il peggio è toccato a me; - si lamentò, - che ora rimango storpio e non posso più buscarmi il pane. Uno dei suoi compagni, vedendo che non poteva muoversi, gli ammucchiò un po' di strame sotto il capo. Mastro Nunzio, sull'uscio, coi pugni rivolti al cielo, lanciava fuoco e fiamme. - Giuda Iscariota! Santo diavolone! Doveva venire adesso questa grazia di Dio!... Ciascheduno diceva la sua. Dei vicini, venuti per vedere; dei viandanti che volevano passare il fiume, e aspettavano, al riparo, con la schiena alla fiammata. - Evviva voi! Avete fatto un bel lavoro! Tanti denari spesi! I denari del comune!... Ora ci tocca aspettare chissà quanto, prima di vedere un altro ponte... O com'era fatto, di ricotta? - Questi altri, adesso!... Arrivate giusto nel buon momento!... Volete che faccia scendere Dio e i santi di lassù?...- sbraitava mastro Nunzio. Gesualdo, lui, non diceva nulla, con la faccia color di terra, seduto su di un sasso, le mani fra le cosce, penzoloni. Quindi prese a sfogarsi col manovale. - Guarda quella carogna! Mi lascia fuori la mula, con questo tempo! Poltronaccio! Nemico del tuo padrone! - Non vi disperate, vossignoria! - piagnucolò Nardo dal suo cantuccio. - Finché c'è la salute, il resto è niente!... Gesualdo gli lanciò addosso un'occhiata furibonda. - Parla bene, lui... che non ha nulla da perdere!... - No, no, vossignoria!... Non dite così, che il Signore vi gastiga!... Mastro Nunzio, appoggiato allo stipite dell'uscio, stava masticando da un po' la sua idea, fra le gengive sdentate. Infine la buttò fuori, rivolgendosi verso il figliuolo all'improvviso: - E sai cos'ho da dirti? Che non ne voglio più sapere di questo ponte della disgrazia! Piuttosto faremo un mulino, coi materiali che riusciremo a mettere in salvo... Un affare sicuro quello... - Un'altra adesso! - saltò su Gesualdo. - Siete ammattito davvero? E la cauzione? Volete che ci perda anche quella? Se lasciassi fare a voi!... Quando presi a fabbricare dei mulini, mi toccava sentire che era la rovina... Ora che vi siete persuaso, non vorreste far altro... come se tutto il paese dovesse macinarsi le ossa notte e giorno, e le mie prima degli altri!... santo e santissimo! La lite s'accese un'altra volta. Mastro Nunzio che strillava e si lagnava di non esser rispettato. - Vedete se sono un fantoccio?... un pulcinella?... il capo della casa... signori miei!... guardate un po'!... - Gesualdo per finirla saltò di nuovo sulla mula, verde dalla bile, e se ne andò mentre l'acqua veniva ancora giù dal cielo come Dio la mandava, col capo nelle spalle, bagnato sino alle ossa, il cuore dentro più nero del cielo nuvolo che aveva dinanzi agli occhi; il paese grigio e triste nella pioggia anch'esso, lassù in cima al monte, col suono del mezzogiorno che passava a ondate, trasportato dal vento, e si sperdeva in lontananza. Quanti lo incontravano, conoscendo la disgrazia che gli era capitata, dimenticavano di salutarlo e tiravano via. Egli guardava bieco e borbottava di tanto in tanto fra di sé: - Sono ancora in piedi! Mi chiamo mastro-don Gesualdo!... Finché sono in piedi so aiutarmi! Un solo, un povero diavolo, che andava per la stessa strada, gli offrì di prenderlo sotto l'ombrello. Egli rispose: - Ci vuol altro che l'ombrello, amico mio! Non temete, che non ho paura d'acqua e di grandine, io! Arrivò al paese dopo mezzogiorno. Il canonico Lupi s'era coricato allora allora, subito dopo pranzo. - Vengo, vengo, don Gesualdo! - gli gridò dalla finestra, sentendosi chiamare. Qualcheduno che andava ancora pei fatti suoi, a quell'ora, vedendolo così fradicio, piovendo acqua come un ombrello, gli disse: - Eh, don Gesualdo?... che disgrazia!... Lui duro come un sasso, col sorriso amaro sulle labbra sottili e pallide, rispondeva: - Eh, cose che accadono. Chi va all'acqua si bagna, e chi va a cavallo cade. Ma sinché non v'è uomini morti, a tutto si rimedia. I più tiravano di lungo, voltandosi per curiosità dopo ch'erano passati. Il canonico comparve infine sul portoncino, abbottonandosi la sottana. - Eh? eh? don Gesualdo? Eccovi qua... eccovi qua!... Don Gesualdo s'era fatta una faccia allegra per quanto poteva, colla febbre maligna che ci aveva nello stomaco. - Sissignore, eccomi qua! - rispose con un sorriso che cercò di fare allargare per tutta la faccia scura. - Eccomi qua, come volete voi... ai vostri comandi... Però, dite la verità, voi parlate col diavolo, eh? Il canonico finse di non capire: - Perché? pel ponte? No, in fede mia! Mi dispiace anzi!... - No, no, non dico pel ponte!... Ma andiamo di sopra, vossignoria. Non son discorsi da farsi qui, in istrada... C'era il letto ancora disfatto nella camera del canonico; tutt'in giro alle pareti un bel numero di gabbioline, dove il canonico, gran cacciatore al paretaio, teneva i suoi uccelli di richiamo; un enorme crocifisso nero di faccia all'uscio, e sotto la cassa della confraternita, come una bara da morto, nella quale erano i pegni dei denari dati a prestito; delle immagini di santi qua e là, appiccicate colle ostie, insudiciate dagli uccelli, e un puzzo da morire, fra tutte quelle bestie. Don Gesualdo cominciò subito a sfogarsi narrando i suoi guai: il padre che si ostinava a fare di testa sua, per mostrare ch'era sempre lui il capo, dopo aver dato fondo al patrimonio... Gli era toccato ricomprargliela due volte la fornace del gesso! E continuava a metterlo in quegli impicci!... E se lui diceva ahi! quando era costretto a farsi aprire la vena e a lasciarsi cavar dell'altro sangue per pagare, allora il padre gridava che gli si mancava di rispetto. La sorella ed il cognato che lo pelavano dall'altra parte. Una bestia, quel cognato Burgio! bestia e presuntuoso! E chi pagava era sempre lui, Gesualdo!... Suo fratello Santo che mangiava e beveva alle sue spalle, senza far nulla, da mattina a sera: - Col mio denaro, capite, vossignoria? col sangue mio! So io quel che mi costa! Quando ho lasciato mio padre nella fornace del gesso in rovina, che non si sapeva come dar da mangiare a quei quattro asini del carico, colla sola camicia indosso sono andato via... e un paio di pantaloni che non tenevano più, per la decenza... senza scarpe ai piedi, sissignore. La prima cazzuola per incominciare a fare il muratore dovette prestarmela mio zio il Mascalise... E mio padre che strepitava perché lasciavo il mestiere in cui ero nato... E poi, quando presi il primo lavoro a cottimo... gridava ch'era un precipizio! Ne ho avuto del coraggio, signor canonico! Lo so io quel che mi costa! Tutto frutto dei miei sudori, quello che ho... E quando lo vedo a buttarmelo via, chi da una parte e chi dall'altra!... che volete, vossignoria! il sangue si ribella!... Ho taciuto sinora per aver la quiete in famiglia... per mangiare in santa pace un boccone di pane, quando torno a casa stanco... Ma ora non ne posso più! Anche l'asino quando è stanco si corica in mezzo alla via e non va più avanti... Voi non sapete che gastigo di Dio è Speranza, mia sorella!... Voglio finirla!... Ciascuno per casa sua. Dico bene, canonico mio? Il canonico intanto governava i suoi uccelli di richiamo. - Se non mi date retta, vossignoria, è inutile che parli! - Sì, sì, vi ascolto. Che diavolo! non ci vuole poi un sant'Agostino a capire quel che volete!... In conclusione si tratta di salvare la cauzione, non è così? di avere qualche aiuto dal comune? - Sissignore... la cauzione... Poi Gesualdo gli piantò addosso gli occhi grigi e penetranti, e riprese: - E un'altra cosa anche... Vi dicevo che voglio far casa da me... per conto mio... se trovo la moglie che mi conviene... Ma se non mi date retta, vossignoria... allora è inutile... O se fingete di non capire... Vi ricordate?... quel discorso che mi faceste la sera della festa del santo Patrono?... Ma se fate le viste di non capire, perchè sono venuto qui da voi... quando vi ho detto per prima cosa... Vi ho detto: "Eccomi qua, come volete voi..." - Ah!... ah!... - rispose il canonico alzando il capo come un asino che strappi la cavezza. Poi lasciò stare il nicchio che andava spolverando attentamente, e gli fissò addosso anche lui i suoi occhi da uomo che non si lascia mettere nel sacco. - Sentite, don Gesualdo... questo non è discorso che venite a farmi adesso, a questa maniera! Allora vuol dire che non conoscete chi vi è amico e chi vi è nemico, benedetto Dio! Ho piacere che abbiate toccato con mano se il consiglio che vi ho dato allora era tutt'oro! Una giovane ch'è una perla, avvezza ad ogni guaio, che l'avreste tutta ai vostri comandi, e di famiglia primaria anche!... la quale vi farebbe imparentare con tutti i pezzi grossi del paese!... Lo vedete adesso di che aiuto vi sarebbe? Avreste dalla vostra i giurati e tutti quanti. Anche per l'altra faccenda della gabella, poi, se volete entrarci insieme a noi... - Sissignore - rispose Gesualdo vagamente. - Tante cose si potrebbero fare... Si potrebbe parlarne... - Si dovrebbe parlarne chiaro, amico mio. Mi prendete per un ragazzo? Una mano lava l'altra. Aiutami che t'aiuto, dice pure lo Spirito Santo. Voi, caro don Gesualdo, avete il difetto di credere che tutti gli altri sien più minchioni di voi. Prima fate lo gnorri, non ci sentite da quell'orecchio, e poi, al bisogno, quando vi casca la casa addosso, mi venite dinanzi con quella faccia. - Sarà il caldo... saranno tutti quegli uccelli... - balbettò l'altro un po' scombussolato. - Vorrei vedervi nei miei panni, signor canonico! - esclamò infine. - Nei vostri panni... sicuro... mi ci metto! Voglio farvi vedere e toccar con mano chi vi vuol bene o no! Eccomi con voi. Pensiamo a quest'affare del ponte prima... a salvare la cauzione... con un sussidio del comune. Andremo adesso dal capitano... e dai giurati che non ci sarebbero contrari... Peccato che il barone Zacco abbia già dei sospetti per l'affare della gabella!... Lasciatemi pensare... Mentre terminava di legarsi il mantello al collo andava raccogliendo le idee, colle sopracciglia aggrottate, guardando in terra di qua e di là. - Ecco! Io vo prima dalla signora Sganci... no! no! non le dico nulla per adesso! qualche parola così in aria... in via accademica... Mi basta che donna Marianna scriva due righe al capitano. Quanto alla baronessa Rubiera posso dormire fra due guanciali... è come se fosse la vostra stessa persona, se mi promettete... Ma badiamo, veh!... E il canonico sgranò gli occhi. Don Gesualdo stese la mano verso il crocifisso. - No, dico per l'altro affare, quello della gabella. Non vorrei che giuocassimo a scarica barile fra di noi, caro don Gesualdo! Costui voleva allungare la mano di nuovo; ma il canonico aveva già infilato l'uscio. - Voi m'aspetterete giù, nel portone. Un momento, vado e torno. Tornò fregandosi le mani: - Ve l'avevo detto. Non ci vede dagli occhi donna Marianna per quella nipote! Farete un affarone! Appena fuori si imbatterono nel notaro Neri, che andava ad aprire lo studio, e fece il viso di condoglianza a don Gesualdo. - Brutto affare, eh? Mi dispiace! - Sotto si vedeva che gongolava. Il canonico, a tagliar corto, rispose lui: - Cosa da nulla... Il diavolo poi non è così brutto... Rimedieremo... Abbiamo salvato i materiali... - Dopo, quando furono lontani, e il notaio con la chiave nella toppa li guardava ancora ridendo, il canonico gli soffiò nell'orecchio, a mastro-don Gesualdo: - E' che avete una certa faccia, caro mio!... - Io? - Sì. Non ve ne accorgete, ma l'avete! Se fate quella faccia, tutti vi metteranno i piedi sopra per camminarvi!... Con quella faccia non si va a chiedere un favore... Aspettatemi qui; salgo un momento dal cavalier Peperito. E' una bestia; ma l'hanno fatto giurato. Appena il canonico se ne fu andato su per la scala rotta e scalcinata, arrivò il cavaliere dal poderetto, montato su di un asinello macilento, con una bisaccia piena di fave dietro. Don Gesualdo per ingraziarselo lo aiutò a scaricar le fave, e a legar l'asino alla mangiatoia, sotto l'arco della scaletta; ma il cavaliere parve un po' seccato d'esser stato sorpreso in quell'arnese, tutto infangato, e col vestito lacero da campagna. - Non ne facciamo nulla, - disse il canonico ritornando poco dopo. - E' una bestia! Crede di fare il cavaliere sul serio... Deve avercela con voi... Bisogna trovare la persona. Ciolla? ohi? Ciolla? A voi dico, Ciolla! Sapete s'è in casa don Filippo? L'avete visto uscire? Ciolla ammiccò coll'unico occhio, torcendo ancora la bocca di paralitico. - No, Canali è ancora lì, da Bomma, che l'aspetta per condurlo dalla cognata, la ceraiuola, sapete bene? E' la loro passeggiata, dopopranzo... a trastullarsi con lei, dietro lo scaffale... Che c'è di nuovo, don Gesualdo? Andate a benedire il ponte, insieme al canonico? Don Gesualdo si sfogò infine con lui, appuntandogli contro le corna, con tutt'e due le mani. - Vi stava sulla pancia quel ponte!... Come aveste dovuto spendere di tasca vostra!... Il canonico lo tirò per un braccio: - Andiamo, andiamo! Volete chiudere la bocca a tutti gli sfaccendati? Nel salire per la stradicciuola dei Margarone incontrarono il marchese Limòli, che andava a fare la sua passeggiatina solita della sera, dal Rosario a Santa Maria di Gesù, sempre solo e con l'ombrello rosso sotto il braccio. Il canonico, rispondendo alla scappellata cerimoniosa del marchese, ebbe un'ispirazione. - Aspettate, aspettate un momento! Di lì a un po' tornò a raggiungere don Gesualdo con tutt'altro viso. - Un gran diavolo quel marchese! Povero come Giobbe, ma è uno che ha voce in capitolo! S'aiutano fra di loro, tutti in un gruppo!... una buona parola, alle volte!... fra di loro non possono dir di no... Lo lascerebbero morir di fame, ma un favore non glielo negano... Don Filippo era ancora in casa, occupato a rigar la carta per le aste di Nicolino: - Che buon vento? che buon vento?... - Poscia vedendo entrare anche don Gesualdo, dietro il canonico, calò di nuovo gli occhiali sul naso. - Ho tanto da fare!... Ah, sì!... la cauzione?... Volete che il comune vi aiuti a ripescarla? Volete qualche agevolazione per riprendere i lavori?... Vedremo... sentiremo... Se l'avete sbagliato la prima volta questo ponte benedetto?... E' un affar grave... Non so di che si tratti... Non sono informato... Da un pezzo che non me ne occupo... Tanto da fare!... Non ho tempo di soffiarmi il naso... Vedremo... sentiremo... In quella entrò Canali, il quale veniva a cercare Margarone, sorpreso di non vederlo all'ora solita. Anch'esso sapeva del ponte, e sembrava che si divertisse mezzo mondo a prolungare le condoglianze - il veleno che gli scorreva sotto il faccione giallo: - Ahi! ahi! don Gesualdo!... Era un'impresa grossa!... Un colpo da mandare ruzzoloni!... C'era troppa carne al fuoco in casa vostra!... - Don Filippo, ora che aveva l'appoggio, si rivoltò anche lui: - Bisogna fare il passo secondo la gamba, mio caro!... Volevate pigliare il cielo a pugni... Il posto a chi tocca, caro amico!... Non bisogna mettersi in testa di dare il gambetto a un paese intero!... Don Gesualdo allora perse la pazienza. Si alzò di botto, rosso come un gallo, e aprì la bocca per sfogarsi. Ma il canonico gliela tappò con una mano. - State zitto! Lasciate dire a me! Sentite qua, don Filippo! Lo tirò per la falda nell'anticamera. Di lì a un po' rientrarono a braccetto, don Filippo tornato un pezzo di zucchero con mastro-don Gesualdo, spalancandogli addosso gli occhioni di bue, quasi lo vedesse allora per la prima volta: - Vedremo!... Quanto a me... quel che si può fare... Ho parlato nel vostro interesse, caro don Gesualdo... Don Gesualdo, scendendo le scale, brontolava ancora: - Perché dovrei averli tutti contro?... Non fo male a nessuno... Fo gli affari miei... - Eh, caro don Gesualdo! - scappò a dire infine il canonico. - Gli affari vostri fanno a pugni con gli affari degli altri, che diavolo!... Apposta bisogna tirarli dalla vostra... Fra di loro si danno la mano... son tutti parenti... Voi siete l'estraneo... siete il nemico, che diavolo! Il canonico si fermò su due piedi, in mezzo alla piazzetta, di fronte al palazzo dei Trao, alto, nero e smantellato, e guardando fisso don Gesualdo, cogli occhietti acuti di topo che sembrava volessero ficcarglisi dentro come due spilli, il viso a lama di coltello che sfuggiva da ogni parte: - Vedete?... quando sarete entrato nel campo anche voi... Quella è la dote che vi porterebbe donna Bianca!... E' denaro sonante per voi che avete le mani in tanti affari. Mastro-don Gesualdo tornò a lisciarsi il mento, come quando stava a combinare qualche negozio con uno più furbo di lui; guardò il palazzo; guardò poi il canonico, e rispose: - Però caparra in mano, eh? signor canonico? Prima voglio vedere come la pigliano i parenti di lei. - A braccia aperte la pigliano!... ve lo dico io! Fate conto che il fiume torni a rifarvi il ponte meglio di prima, e andate a dormirci su. Nel vicoletto lì accanto, vicino a casa sua, trovò Diodata che stava aspettandolo colla mantellina in testa, rincantucciata sotto l'arco del ballatoio, poiché in casa non la volevano, Speranza principalmente, e la tolleravano soltanto in campagna, pei servigi grossi. Appena la ragazza vide il suo padrone ricominciò a piangere e a lamentarsi, quasi fosse caduto addosso a lei il ponte: - Don Gesualdo, che disgrazia! Mi sarei contentata d'annegarmi io piuttosto!... Son venuta a vedervi, vossignoria... con questa spina che dovete averci in cuore!... - Quest'altra adesso! Perché sei venuta? Tutta bagnata sei!... guarda! come le bestie!... dalla Canziria fin qui a piedi!... apposta per farmi il piagnisteo... Come non ne avessi abbastanza dei miei guai!... Ora dove vai a quest'ora? La fece entrare nella stalla. Essa nello staccarsi dal muro lasciò una pozza d'acqua, lì davanti all'uscio dove era stata ad aspettare. Anche lui si sentiva le ossa rotte. Per giunta, sua sorella l'accolse come un cane. - Siete tornato dalla festa? Avete visto che bel guadagno? Poi si rivolse inviperita a suo marito, nera, magra al par di un chiodo, cogli occhi di carbone, tanto di bocca aperta, quasi volesse mangiarsi la gente: - Voi non dite nulla?... A voi non bolle il sangue?... Burgio, più pacifico, cercava di svignarsela, facendo le spalle grosse, chinando il testone di bue. - Ecco!... Nessuno si dà pensiero dei guai che ci càpitano!... Io sola mi mangio il fegato! Il fratello Gesualdo, colla bocca amara, le andava cantando: - Lascia stare, Speranza! Lasciami stare, che ne ho abbastanza, anche senza la tua predica! - Non volete sentire neppure la predica? Non volete che mi lamenti? Tanti denari persi!... Che non li guadagnate i vostri denari, voi?... Egli per fuggire quella vespa, andava cercando in cucina qualcosa da mettere sotto il dente, dopo una giornata simile. Frugava nel cassone del pane. Speranza sempre dietro, come il gastigo di Dio. - Fra poco, seguitando di questo passo, non ce ne sarà più del pane nel cassone, no!... e non ci sarà neppure il cassone, non ci sarà!... La casa se ne andrà tutta al diavolo!... Santo, che tornava affamato dal bighellonare in piazza tutta la giornata, al trovare il fuoco spento diede nelle furie, come un vero animale. I ragazzi che strillavano; tutti i vicini alle finestre per godersi la scena; tanto che Gesualdo infine perse la pazienza: - Sapete cosa vi dico? che mi fate fare uno sproposito! Tante volte ve l'ho predicato!... ora lo fo sul serio, com'è vero Dio! L'asino quando non ne può più si corica, e buona notte a chi resta! E se ne andò nella stalla, mentre Speranza gli strillava dietro: - Scappate anche? per andare a trovare Diodata? Vi pare che non l'abbia vista? Mezza giornata che vi aspetta, quella sfacciata!... Egli sbatacchiò l'uscio. Da prima non voleva neppur mangiare, digiuno com'era da ventiquattr'ore, con tutti quei dispiaceri che gli empivano lo stomaco. Diodata andò a comprargli del pane e del salame, bagnata sino alle ossa al par di lui, colla gola secca. Lì, sulla panchetta della stalla, dinanzi a una fiammata di strame, almeno si inghiottiva in pace un po' di grazia di Dio. - Ti piace, eh, questa bella vita? Ti piace a te? - domandava egli masticando a due palmenti, ancora imbronciato. Essa stava a vederlo mangiare, col viso arrossato dalla fiamma, e diceva di sì, come voleva lui, con un sorriso contento adesso. Il giorno finiva sereno. C'era un'occhiata di sole che spandevasi color d'oro sul cornicione del palazzo dei Trao, dirimpetto, e donna Bianca la quale sciorinava un po' di biancheria logora, sul terrazzo che non poteva vedersi dalla piazza, colle mani fine e delicate, la persona che sembrava più alta e sottile in quella vesticciuola dimessa, mentre alzavasi sulla punta dei piedi per arrivare alle funicelle stese da un muro all'altro. - Vedi chi vogliono farmi sposare? - disse lui. - Una Trao!... e buona massaia anche!... m'hanno detto la verità... E rimase a guardare, pensieroso, masticando adagio adagio. Diodata guardava anche lei, senza dir nulla, col cuore grosso. Passarono le capre belando dal vicoletto. Donna Bianca, come sentisse alfine quegli occhi fissi su di lei, voltò il viso pallido e sbattuto, e si trasse indietro bruscamente. - Adesso accende il lume, - riprese don Gesualdo. - Fa tutto in casa lei. Eh, eh... c'è poco da scialarla in quella casa!... Mi piace perché è avvezza ad ogni guaio, e l'avrei al mio comando... Tu di', che te ne pare? Diodata volse le spalle, andando verso il fondo della stalla per dare una manciata di biada fresca alla mula, e rispose dopo un momento, colla voce roca: - Vossignoria siete il padrone. - E' vero... Ma veh!... che bestia! Devi aver fame anche tu... Mangia, mangia, poveretta. Non pensar solo alla mula.
Don Luca il sagrestano andava spegnendo ad una ad una le candele dell'altar maggiore, con un ciuffetto d'erbe legato in cima alla canna, tenendo d'occhio nel tempo istesso una banda di monelli che irrompevano di tratto in tratto nella chiesa quasi deserta in quell'ora calda, inseguiti a male parole dal sagrestano. Donna Bianca Trao, inginocchiata dinanzi al confessionario, chinava il capo umile; abbandonavasi in un accasciamento desolato; biascicando delle parole sommesse che somigliavano a dei sospiri. Dal confessionario rispondeva pacatamente una voce che insinuavasi come una carezza, a lenire le angosce, a calmare gli scrupoli, a perdonare gli errori, a schiudere vagamente nell'avvenire, nell'ignoto, come una vita nuova, un nuovo azzurro. Il sole di sesta scappava dalle cortine, in alto, e faceva rifiorire le piaghe di sant'Agata, all'altar maggiore, quasi due grosse rose in mezzo al petto. Allora la penitente risollevavasi ansiosa, raggiante di consolazione, aggrappandosi avidamente alla sponda dell'inginocchiatoio, con un accento più fervido, appoggiando la fronte sulle mani in croce per lasciarsi penetrare da quella dolcezza. Veniva un ronzìo di mosche sonnolenti, un odor d'incenso e di cera strutta, un torpore greve e come una stanchezza dal luogo e dall'ora. Una vecchia aspettava accoccolata sui gradini dell'altare, simile a una mantellina bisunta posata su di un fagotto di lavandaia, e quando destavasi borbottando, don Luca le dava sulla voce: - Bella creanza! Non vedete che c'è una signora prima di voi al confessionario?... quelle non sono le quattro chiacchiere che avete da portarci voi al tribunale della penitenza!... discorsi di famiglia, cara voi!... affari importanti! Nell'ombra del confessionario biancheggiò una mano che faceva il segno della croce, e donna Bianca si alzò infine, barcollando, chiusa nel manto sino ai piedi, col viso raggiante di una dolce serenità. Don Luca, vedendo che la vecchia non si risolveva ad andarsene, toccò la mantellina colla canna. - Ehi? ehi? zia Filomena?... E' tardi oggi, è tardi. Sta per suonare mezzogiorno, e il confessore deve andarsene a desinare. La vecchia levò il capo istupidito, e si fece ripetere due o tre volte la stessa cosa, testarda, imbambolata. - Sicuro, sto per chiudere la chiesa. Potete andarvene, madre mia. Oggi?... neppure!... ci ha la trebbia al Passo di Cava padre Angelino. Giorni di lavoro, cara mia! - Bel bello riescì a mandarla via, borbottando, trascinando le ciabatte. Poi, mentre il prete infilava l'uscio della sagrestia, don Luca dovette anche dar la caccia a quei monelli, rovesciando banchi e sedie, facendo atto di tirare l'incensiere: - Fuori! fuori! Andate a giuocare in piazza! - Nello stesso tempo passava e ripassava vicino a donna Bianca che si era inginocchiata a pregare dinanzi alla cappella del Sacramento, sfolgorante d'oro e di colori lucenti da accecare, tossendo, spurgandosi, fermandosi a soffiarsi il naso, brontolando: - Neppure in chiesa!... non si può raccogliersi a far le orazioni!... Donna Bianca si alzò in piedi, segnandosi, colle labbra ancora piene di avemarie. Il sagrestano le rivolse la parola direttamente, mentr'essa avviavasi per uscire: - Siete contenta, vossignoria? Un sant'uomo quel padre Angelino! Confessa bene, eh? V'ha lasciata contenta? Ella accennò di sì col capo, col sorriso breve, rallentando il passo per cortesia. - Un bravo uomo! un uomo di giudizio! Quello sì che ve lo può dare un buon consiglio... meglio di vostro fratello don Ferdinando... ed anche di don Diego, sì!... Guardò intorno cogli occhi di gatto avvezzi a vederci al buio nella chiesa e su per la scala del campanile, e aggiunse sottovoce, cambiando tono, in aria di gran mistero: - Sapete che risposta gli hanno dato a don Gesualdo Motta? Aveva mandato a fare la domanda formale di matrimonio, ieri dopo pranzo, col canonico Lupi... Bianca arrossì senza levare il capo. Il sagrestano che la guardava negli occhi bassi, seguendola passo passo, riprese più forte: - Gli hanno detto di no... tale e quale come ve lo dico adesso... Il canonico è rimasto di sale!... Nessuno si sarebbe aspettato quella risposta, non è vero?... il canonico donna Marianna, anche la baronessa vostra zia, tutti che ci avevano posto un grande impegno!... Si sarebbe mosso quel Cristo ch'è di legno, vedete! Nessuno l'avrebbe creduto così duro, quel don Diego vostro fratello! un signore umile e buono che pareva di potersi confessare con lui!... Non parlo di don Ferdinando, ch'è peggio di un ragazzo, poveretto!... Egli era riuscito a fermare donna Bianca, piantandosele dinanzi, cogli occhi lucenti, il viso acceso, abbassando ancora la voce nel farle una confidenza decisiva: - Don Gesualdo sembra impazzito!... Dice che non può mandarla giù! che ne farà una malattia, com'è vero Iddio!... Sono andato a trovarlo alla Canziria... faceva trebbiare il grano... - Don Gesualdo, ch'è questa la maniera di prendersela?... Ci lascerete la pelle, vossignoria!... - Lasciatemi stare, caro don Luca, che so io!... dacché il canonico mi portò quella bella risposta!... - Sembra davvero malato di cent'anni!... La barba lunga... Non dorme e non mangia più... In quel momento si udì uno scalpiccìo di gente di chiesa. Don Luca alzò la voce di botto, quasi parlasse a un sordo: - Oggi padre Angelino ci ha la trebbia al Passo di Cava. Se avete qualche altro peccato da confessarvi, c'è l'arciprete Bugno sfaccendato... buono anche quello! un servo di Dio... Però vedendo il canonico Lupi che s'avanzava verso di loro, inchinandosi a ogni altare, colla destra stillante d'acqua benedetta, il nicchio pendente dall'altra mano: - Benedicite, signor canonico! Come va da queste parti?... Il canonico, invece di rispondergli, si rivolse a donna Bianca con un sorriso sciocco sul muso aguzzo di furetto color di filiggine. - Facciamo del bene, donna Bianca! Raccomandiamoci al Signore! Vi ho vista entrare in chiesa, mentre andavo qui vicino, da don Gesualdo Motta, e ho detto: Ecco donna Bianca che fa la sua visita alle Quarant'ore, e dà il buon esempio a me, indegno sacerdote... - Giusto... qui c'è il signor canonico!... Se avete qualche altro peccato da dirgli, donna Bianca... - Io non posso, mi dispiace! Monsignore non mi ha data la confessione, perché sa che me ne manca il tempo... - Indi aggiunse con un certo risolino, lisciandosi il mento duro di barba. - Poi i vostri fratelli non vorrebbero... Donna Bianca, rossa come se avesse avuto sul viso tutto il riflesso della cortina che velava l'altare del Crocifisso, finse di non capire. Il canonico ripigliò, mutando registro: - Ci ho tante faccende gravi sulle spalle... mie e d'altrui... Andavo appunto da don Gesualdo per commissione di vostra zia. Sapete il grosso affare che hanno insieme, colla baronessa? -Donna Bianca fece segno di no. - Un affare grosso... Si tratta di pigliare in affitto le terre di tutti i comuni della Contea!... Don Gesualdo ha il cuore più grande di questa chiesa!... e i conquibus anche!... Assai! assai, donna Bianca! Assai più di quel che si crede... Uno che si farà ricco come Creso, con quella testa fine che ha! Don Luca si lasciò scappare di bocca, mentre andava spogliandosi degli abiti ecclesiastici, col viso dentro la cotta, le braccia in aria, la voce soffocata: - Bisogna vedere quel che ha raccolto alla Canziria, bisogna vedere! - Ah, ah! venite di lassù? - Sissignore, - rispose il sagrestano, cavando fuori il viso rosso e imbarazzato. - Così, per fare quattro passi... Ci vado ogni anno per la limosina della chiesa... Don Gesualdo è devoto di sant'Agata! - Un cuor d'oro! - interruppe il canonico. - Generoso, caritatevole!... Peccato che... E si diede della mano sulla bocca. - Quello che stavo dicendo a donna Bianca!... - confermò don Luca, ripreso animo, cogli occhietti di nuovo petulanti. - Basta! basta! Ciascuno dispone a suo modo in casa sua! Ora vi lascio pei fatti vostri. Tanti saluti a don Diego e a don Ferdinando! Donna Bianca imbarazzata voleva andarsene anche lei; ma ma il sagrestano la trattenne: - Un momento! Cosa devo dire a padre Angelino, se volete mettervi in grazia di Dio prima della festa di san Giovanni Battista... Il canonico insisteva anche lui: - No, no, restate, donna Bianca, fate gli affari vostri. - Poscia, appena egli lasciò ricadere la portiera, uscendo, don Luca ammiccò: - E così? che devo dire a don Gesualdo, se mai lo vedo... per caso?.. Essa sembrava esitante. Seguitava ad avviarsi verso la porta della chiesa, passo passo, tenendo gli occhi bassi, come infastidita dall'insistenza del sagrestano. - Giacché i miei fratelli hanno detto di no... - Una sciocchezza hanno detto! Avrei voluto condurli per mano alla Canziria, e fargli vedere se non vale tutti i vostri ritratti affumicati!... Scusatemi, donna Bianca!... parlo nell'interesse di vossignoria... I vostri fratelli tengono al fumo perché sono vecchi... hanno i piedi nella fossa, loro!... Ma voi che siete giovine, come rimanete? Non si rovina così una sorella!... Un marito simile non ve lo manda neppure san Giuseppe padre della provvidenza!... Sono pazzi a dir di no i vostri fratelli!... pazzi da legare!... Le terre della Contea se le piglierà tutte lui, don Gesualdo!... e poi le mani in pasta da per tutto. Non si mura un sasso che non ci abbia il suo guadagno lui... Domeneddio in terra! Ponti, mulini, fabbriche, strade carreggiabili!... il mondo sottosopra mette quel diavolo! Fra poco si andrà in carrozza sino a Militello, prima Dio e don Gesualdo Motta!... Sua moglie andrà in carrozza dalla mattina alla sera!... camminerà sull'oro colato, come è vero Dio! Anche padre Angelino vi avrà consigliato la stessa cosa che vi dico io... Non ho udito nulla, per non violare il suggello della confessione, ma padre Angelino è un uomo di giudizio... vi avrà consigliato di prendere un buon marito... di mettervi in grazia di Dio. Donna Bianca lo guardò sbigottita, col mento aguzzo dei Trao che sembrava convulso. Indi alzò verso il crocifisso gli occhi umidi di lagrime, colle labbra pallide serrate in una piega dolorosa. Con quelle labbra senza sangue rispose infine sottovoce: - I miei fratelli sono padroni... tocca a loro decidere... Don Luca a corto d'argomenti rimase un istante quasi sbalordito, piantandosi dinanzi a lei per non lasciarla scappare, soffocato da tante buone ragioni che aveva in gola, balbettando, annaspando, grattandosi rabbiosamente il capo, con gli occhietti scintillanti che andavano come frugandola tutta da capo a piedi per trovare il punto debole, scuotendole dinanzi le mani giunte, minaccioso e supplichevole. Alla fine proruppe: - Ma è giustizia, santo Dio? è giustizia far tribolare in tal modo un galantuomo che vi vuol tanto bene?... Dare un calcio alla fortuna?... Scusatemi, donna Bianca! io parlo nel vostro interesse... Dovete pensarci voi! Non siete più sotto tutela, alla fin fine!... Mi scaldo il sangue per voi... perché sono buon servo della vostra famiglia... una gran casata!... peccato che non sia più quella di prima!... Ora che avreste il mezzo di far risorgere il nome dei Trao!... Questo si chiama dare un calcio alla fortuna!... si chiama essere ingrati colla divina Provvidenza. Essa seguitava ad andare verso la porta, irresoluta, a capo chino. Don Luca alle calcagna di lei, accalorandosi, toccando tutti i tasti, mutando tono a ogni registro: - E certe giornate, donna Bianca!... certe giornate che spuntano a casa vostra!... Basta, scusatemi, io ne parlo perché ci bazzico sempre ad aiutarvi, insieme a mia moglie... E quando i vostri parenti si dimenticano che siete al mondo!... certe giornate d'inverno come vuol Dio!... Basta! Potreste esser la regina del paese, invece! pensateci bene. Don Gesualdo spiccherebbe di lassù il sole e la luna per farvi piacere!... Non ci vede più dagli occhi!... Sembra un pazzo addirittura. Donna Bianca s'era fermata su due piedi, a testa alta, con una fiamma improvvisa che parve buttarle in viso la portiera sollevata in quel momento da qualcuno che entrava in chiesa. Comparve una donna macilenta, colla gonnella in cenci sollevata dalla gravidanza sugli stinchi sottili, sudicia e spettinata, come se non avesse fatto altro in vita sua che portare avanti quel ventre - un viso di chioccia istupidita dal covare, con due occhietti tondi su di una faccia a punta, gialla e incartapecorita, e un fazzoletto lacero da malata, legato sotto il mento; nient'altro sulle spalle, da persona ch'è di casa in casa del Buon Dio. Essa dalla soglia si mise a gemere, quasi avesse le doglie: - Don Luca?... che non lo suonate mezzogiorno?... la pentola sta per bollire... - Perché l'hai messa a bollire così presto? Il sole è ancora qui, sul limitare... L'arciprete fa un casa del diavolo per questa faccenda di suonare mezzogiorno prima dell'ora... Per stavolta... giacché è fatta... eccoti la chiave del campanile... Don Luca, tenendo ancora la cotta sotto il braccio, litigava colla moglie, stecchito nella sottana bisunta quant'era enorme il ventre della donna: - Tu ci hai l'orologio lì, nella pancia!... Pensi solo a mangiare!... Ci vuol la grazia di Dio!... I vicini sono ancora tutti fuori... Ecco lì i ragazzi di Burgio!... - Aspettano anche loro!... - piagnucolò la moglie, sempre su quel tono. - Aspettano che suonate mezzogiorno... - E se ne andò col ventre avanti. - I nipoti di don Gesualdo! - riprese il sagrestano ammiccando in modo significativo a donna Bianca nel tornare indietro. - Stanno lì a farci la spia!... Li manda sua madre apposta comare Speranza, per sapere tutto quello che facciamo! Tiene d'occhio la roba, colei!... quasi fosse sua!... Ci ha fatto i suoi disegni sopra!... Quando m'incontra ha l'aria di mangiarmi!... Finse di precedere donna Bianca per sollevare la portiera, onde trattenerla ancora un momento: - Lui fa proprio compassione!... Una faccia da malato!... Mi parlò tutto il tempo di vossignoria... Dice che forse il canonico Lupi non avrà saputo fare l'imbasciata... che vorrebbe parlarvi... per vedere... per sentire... Donna Bianca si fece di fuoco. - E' innamorato, che volete farci? Innamorato come un pazzo. Dovreste tornare a parlargliene coi vostri fratelli. Mandargli qualche buona parola... una risposta più da cristiani... Verrò io stesso a prenderla, dopo mezzogiorno, quando don Diego e don Ferdinando sono in letto... col pretesto dei fiori per la Madonna... Sì? Cosa mi dite? Essa chinò il capo rapidamente, nel passare sotto la cortina, ed uscì fuori. Don Luca credette di scorgere che volesse frugarsi in tasca, e seguitò, correndole dietro: - Che fate? No! Mi offendete! Un'altra volta... più tardi... quando potrete... Ho pensato meglio di mandare mia moglie, a prendere la risposta di vossignoria. Non vorrei che i vostri fratelli, vedendomi bazzicare per casa, sospettassero che mi manda il canonico... Dopo vespro spicciò lesto lesto il servizio della chiesa e corse alla Canziria: cinque miglia di salita, pazienza, per amore di don Gesualdo che se lo meritava, in verità! - Sta per cascare, don Gesualdo! Ancora essa non mi ha detto chiaro di sì, colla sua bocca; ma si vede che tentenna, come la pera quand'è matura. Sono pratico di queste cose, perché vedo tutti i giorni in chiesa delle donne che ricorrono al tribunale della penitenza... prima e poi... M'ha fatto sudare una camicia!... Ma ora vi dico che la pera è matura! Un'altra crollatina, e vi casca fra le braccia; ve lo dico io! Dovreste correre al paese e scaldare il ferro mentre è caldo. Però don Gesualdo non fece una gran festa all'imbasciata amorosa che gli capitava in quel momento: - Vedete, don Luca, ci ho tutta la raccolta nell'aia... Sono in piedi da stanotte... Non ho sempre il vento in tasca per trebbiare a comodo mio!... L'aia era vasta quanto una piazza. Dieci muli trottavano in giro, continuamente; e dietro i muli correvano Nanni l'Orbo e Brasi Camauro, affondando nella pula sino ai ginocchi, ansanti, vociando, cantando, urlando. Da un lato, in una nuvola bianca, una schiera di contadini armati di forche, colle camice svolazzanti, sembrava che vangassero nel grano; mentre lo zio Carmine, in cima alla bica, nero di sole, continuava a far piovere altri covoni dall'alto. Delle tregge arrivavano ogni momento dai seminati intorno, cariche d'altra messe; dei garzoni insaccavano il grano e lo portavano nel magazzino, dove non cessava mai la nenia di Pirtuso che cantava "e viva Maria!" ogni venti moggi. Tutt'intorno svolazzavano stormi di galline, un nugolo di piccioni per aria; degli asinelli macilenti abboccavano affamati nella paglia, coll'occhio spento; altre bestie da soma erano sparse qua e là; e dei barili di vino passavano di mano in mano, quasi a spegnere un incendio. Don Gesualdo sempre in moto, con un fascio di taglie in mano, segnando il frumento insaccato, facendo una croce per ogni barile di vino, contando le tregge che giungevano, sgridando Diodata, disputando col sensale, vociando agli uomini da lontano, sudando, senza voce, colla faccia accesa, la camicia aperta, un fazzoletto di cotone legato al collo, un cappellaccio di paglia in testa. - Lo vedete, don Luca, se ho tempo da perdere adesso!... Vino qua! Date da bere a don Luca!... Sì, sì, verrò; ma quando potrò... Per ora non posso muovermi, cascasse il mondo!... Diodata!... bada che il vento spinge la fiamma verso l'aia, santo e santissimo!... No, don Luca! non sono in collera pel rifiuto dei suoi fratelli... Venite qua, accostatevi, ch'è inutile far sapere alla gente i fatti nostri!... Ciascuno la pensa a modo suo... Poi è lei che deve risolvere... Se lei dice di sì, io per me non mi tiro indietro... Ma oggi non posso venire... e neppure domani... Be'! dopodomani!... Dopodomani devo venire anche per l'affare della gabella, e ne discorreremo. Don Luca suggerì pure di far precedere due paroline scritte: - Ci abbiamo appunto mia moglie che par fatta apposta per consegnarle sottomano a donna Bianca, senza destar sospetti. Una bella letterina, con due o tre parole che fanno colpo sulle ragazze! Capite, vossignoria? Ciolla ci ha la mano... Ne parlerei io stesso a Ciolla in segretezza, senza stare a rompervi il capo, vossignoria; e vi fa fare una bella figura. Con un bottiglione di vino poi ve lo chetate, il Ciolla. Don Gesualdo non volle sapere di lettera: - Non per risparmiare il vino; ma che storie mi andate contando? Se a lei l'affare gli va, allora che bisogno c'è di tante chiacchiere. - Basta! basta! - conchiuse don Luca. - Dicevo per piantare meglio il chiodo. Ma voi siete il padrone. Don Luca se ne tornò tutto contento, con un agnello e una forma di cacio. Per prudenza mandò la moglie a fare l'imbasciata, sotto un pretesto: - Circa a quel discorso che siete intesi con mio marito, vossignoria, dice che il confessore verrà dopodomani a prendere la risposta!... Il confessore domenica aspetta la risposta!... - Don Ferdinando che aveva udito aprire il portone, comparve in quel momento come un fantasma. - Il confessore!... - riprese a dire la gnà Grazia senza che nessuno le domandasse nulla. - Donna Bianca voleva confessarsi!... Oggi non può, il confessore... E domani neppure... Domenica piuttosto, se gli fate sapere che siete pronta... La poveraccia, sotto quegli occhi stralunati di don Ferdinando, che pareva la frugassero tutta, sospettosi, inquieti, si confondeva, balbettava, cercava le parole. Poscia, vedendo che l'altro stava zitto e non si moveva, allampanato, tacque anch'essa, e si mise a guardare in aria, a bocca aperta, colle mani sul ventre. Bianca, a tagliar corto, la condusse nella dispensa, per darle una grembiata di fave. Don Ferdinando, sempre dietro, cucito alle loro calcagna, taciturno, guardando in ogni cantuccio, sospettoso. Si chinò anch'esso sul mucchietto di fave, covandolo colla persona, misurandolo ad occhio, palpandolo colle mani. E dopo che la sagrestana se ne fu andata, come un'anatra, reggendo il grembiule pieno sul ventre enorme, si mise a brontolare: - Troppe!... Ne hai date troppe!... Stanno per terminare!...La zia non ne manda altre prima di Natale!... La sorella voleva andarsene; ma lui seguitava a cercare, a frugare, a passare in rivista la roba della dispensa: due salsicciotti magri appesi a un gran cerchio; una forma di cacio bucata dai topi; delle pere infracidite su di un'asse; un orciolino d'olio appeso dentro un recipiente che ne avrebbe contenuto venti cafisi; un sacco di farina in fondo a una cassapanca grande quanto un granaio; il cestone di vimini che aspettava ancora il grano della Rubiera. Infine riprese: - Ci vuol l'aiuto di Dio!... Siamo tre bocche da sfamare, in casa!... Ti par poco? Ci vorrebbe anche un po' di brodo per Diego... Non mi piace da qualche tempo!... Hai visto la faccia che ha? Lo stesso viso della buon'anima, ti rammenti?... quando si mise a letto per non alzarsi più! E il medico non viene neppure, perchè ha paura di non esser pagato... dopo tanti denari che s'è mangiati nell'ultima malattia della buon'anima!... La zia Rubiera s'è dimenticata che siamo al mondo... ed anche la zia Sganci... Così brontolando andava passo passo dietro alla sorella, chinandosi a raccattar per terra le fave cadute dal grembiule di Grazia. Poscia, come svegliandosi da un sogno, domandò: - Tu perché non vai più dalla zia Rubiera? Avrebbe mandato un paio di piccioni, sapendo che Diego non sta bene... per fargli un po' di brodo... Bianca divenne di brace in viso, e chinò gli occhi. Don Ferdinando aspettò un momento la risposta a bocca aperta, battendo le palpebre. Indi tornò nella dispensa a riporre le fave che aveva raccolte da terra. Poco dopo essa se lo vide comparire dinanzi un'altra volta, con quell'aria sbalordita. - Se torna la sagrestana non gli dar nulla, un'altra volta! Sanguisughe sono! Le fave stanno per terminare, hai visto?... E un'altra cosa... Dovresti andare dalla zia Sganci per un po' d'olio... in prestito... Diglielo bene che lo vuoi in prestito, perché noi non siamo nati per chiedere la limosina... giacché la zia non ci ha pensato... Fra poco saremo al buio... anche Diego che è malato... tutta la notte!... E spalancava gli occhi, accennando ancora colle mani e col capo, con un terrore vago sul viso attonito. Da lontano si udiva di tanto in tanto la tosse che si mangiava don Diego, attraverso agli usci, lungo il corridoio, implacabile e dolorosa, per tutta la casa... Bianca sussultava ogni volta, col cuore che le scoppiava, chinandosi ad ascoltare, o fuggiva come spaventata, tappandosi le orecchie. - Non ci reggo, no! Non ci reggo!... Infine Dio le diede la forza di ricomparire dinanzi a lui, quel giorno in cui don Ferdinando le aveva detto che il fratello stava peggio, nella cameretta sudicia, sdraiato su quel lettuccio che sembrava un canile. Don Diego non stava né peggio né meglio. Era lì, aspettando quel che Dio mandava, come tutti i Trao, senza lagnarsi, senza cercare di fuggire il suo destino, badando solo di non incomodare gli altri, e tenersi per sé i suoi guai e le sue miserie. Volse il capo, vedendo entrare la sorella, quasi un'ombra gli calasse sul viso incartapecorito. Poscia le accennò colla mano di accostarsi al letto. - Sto meglio... sto meglio... povera Bianca!... Tu come stai?... Perché non ti sei fatta vedere?... perché?... Le accarezzava il capo con quella mano scarna e sudicia di malato povero. Gli era rimasto sulle guance incavate e sparse di peli grigi un calore di fiamma. - Povera Bianca!... son sempre tuo fratello, sai!... il tuo fratello che ti vuol tanto bene... povera Bianca!... - Don Ferdinando mi ha detto... - balbettò essa timidamente. - Volete un po' di brodo?... Il malato da prima fece segno di no, guardando in aria, supino. Poi volse il capo, fissandola cogli occhi avidi dal fondo delle orbite che sembravano vuote, filigginose. - Il brodo, dicevi? C'è un po' di carne?... - Manderò dalla zia... dalla zia Sganci!... - s'affrettò ad aggiungere Bianca, con una vampa improvvisa sulle guance. Sul volto del fratello era passata un'altra fiamma simile. - No! no!... non ne voglio. Neppure il medico voleva: - No, no! Cosa mi fa il medico?... Tutte imposture!... per spillarci dei denari... Il vero medico è lassù!... Quel che vorrà Dio... Del resto mi sento meglio... Parve migliorare realmente, di lì a qualche giorno: del buon brodo, un po' di vino vecchio che mandava la zia Sganci, l'aiutarono ad alzarsi da letto, ancora sconquassato, col fiato ai denti. Venne pure donna Marianna in persona a fargli visita, premurosa, con un rimprovero amorevole sulla faccia buona: - Come? Siete in quello stato ed io non ne so nulla? Siamo in mezzo ai turchi? Siamo parenti, sì o no? Sempre misteri! Sempre ombrosi e selvatici, tutti voialtri Trao!... rincantucciati come gli orsi in questa tana! Un bel mattino vi troveranno belli e morti all'improvviso che sarà una vergogna per tutto il parentado!... Neppure di quel negozio del matrimonio non me ne avete detto nulla!... E sfilò quest'altro rosario: Erano pazzi, o cos'erano, a rifiutare una domanda simile a quella?... Uno sulla strada di farsi riccone come don Gesualdo Motta!... - Don Gesualdo! sissignori! I pazzi lasciateli stare!... Vedete bene in quale stato vi hanno ridotto!... Un cognato che potrebbe aiutarvi in tutti i modi... che vi toglierebbe da tante angustie!... Ah!... ah!... Donna Marianna guardava intorno per la stanzaccia squallida, crollando il capo. Gli altri non fiatavano: Bianca a capo chino; don Ferdinando aspettando che parlasse suo fratello, cogli occhi di barbagianni fissi su di lui. Don Diego da principio rimase attonito, brontolando: - Mastro-don Gesualdo!... Siamo arrivati fin lì!... Mastro-don Gesualdo che vuol sposare una Trao!... - Sicuro! Chi volete che la sposi?... senza dote? Non è più una bambina neppure lei!... E' un tradimento bell'e buono!... Cosa farà, quando chiuderete gli occhi voi e vostro fratello?... la serva, eh? La serva della zia Rubiera o di qualchedun altro?... Don Diego si alzò da letto come si trovava, in camiciuola di flanella, col fazzoletto in testa, le gambe stecchite che gli tremavano a verga dentro le mutande logore: un ecceomo! Andava errando per la stanza, stralunato, facendo gesti e discorsi incoerenti, tossendo, tirando il fiato a stento, soffiandosi il naso, quasi suonasse una tromba. - Mastro-don Gesualdo!... Saremmo arrivati a questo, che una Trao sposerebbe mastro-don Gesualdo! Tu acconsentiresti, Bianca?... di'!... Tu diresti di sì?... Bianca pallidissima, senza levare gli occhi da terra, disse di sì col capo, lentamente. Egli agitò in aria le braccia tremanti, e non seppe più trovare una sola parola. Don Ferdinando non fiatava neppur lui, atterrito che Don Diego non riuscisse a persuader Bianca. - Cosa volete che dica? - esclamò la zia. - Vi pare un bell'avvenire quello d'invecchiare come voialtri... fra tante angustie?... Scusatemi, ne parlo perché siamo parenti... Fo quel che posso anch'io per aiutarvi... ma non è una bella cosa infine neanche per voialtri... Ed ora che vi si offre la fortuna, risponderle con un calcio... Scusatemi, io la direi una porcheria! Tutt'a un tratto don Diego si mise a ridere, quasi colpito da un'ispirazione, ammiccando dell'occhio, fregandosi le mani, con dei cenni del capo che volevano dire assai. - Va bene! va bene!... Non è che questo?... perché ora come ora siamo un po' angustiati?... Ti pesa, di'?... ti pesa questa vita angustiata, povera Bianca?... Hai paura per l'avvenire?... Si fregò il mento peloso colla mano ischeletrita, seguitando ad ammiccare, cercando di rendere furbo il sorriso pallido. - Vieni qua... Non ti dico altro!... Anche voi, zia!... Venite a vedere!... S'arrampicò tutto tremante su di una seggiola per aprire un armadietto ch'era nel muro, al di sopra della finestra, e ne tirò fuori mucchi di scartafacci e di pergamene - le carte della lite - quella che doveva essere la gran risorsa della famiglia, quando avessero avuto i denari per far valere le loro ragioni contro il Re di Spagna: dei volumi gialli, logori e polverosi, che lo facevano tossire a ogni voltar di pagina. Sul letto era pure sciorinato un grand'albero genealogico, come un lenzuolo: l'albero della famiglia che bagnava le radici nel sangue di un re libertino, come portava il suo stemma - di rosso, con tre gigli d'oro, su sbarra del medesimo, e il motto che glorificava il fallo della prima autrice: Virtutem a sanguine traho. S'era messi gli occhiali, appoggiando i gomiti sulla sponda del lettuccio, bocconi, con gli occhi che si accendevano in fondo alle orbite livide. - Son seicent'anni d'interessi che ci devono!... Una bella somma!... Uscirete d'ogni guaio una volta per sempre!... Bianca era cresciuta in mezzo a simili discorsi che aiutavano a passare i giorni tristi. Aveva veduto sempre quei libracci sparsi sulle tavole sgangherate e per le sedie zoppe. Così essa non rispose. Suo fratello volse finalmente il capo verso di lei, con un sorriso bonario e malinconico. - Parlo per voialtri... per te e per Ferdinando... Ne godrete voialtri almeno... Quanto a me... io sono arrivato... Te'!... te' la chiave!... serbala tu! La zia Sganci, a quei discorsi, da prima scattò come una molla: - Caro nipote, mi sembrate un bambino! - Ma subito si calmò, col sorriso indulgente di chi vuol far capire la ragione proprio a un ragazzo. - Va bene!... va benone!... Intanto maritatela con lo sposo che vi si offre adesso, e poi, se diverrete tanti Cresi, sarà anche meglio. Don Diego rimase interdetto al vedere che la sorella non prendeva la chiave, e tornò daccapo: - Anche tu, Bianca?... Dici di sì anche tu?... Essa, accasciata sulla seggiola, chinò il capo in silenzio. - E va bene!... Giacché tu lo vuoi... giacché non hai il coraggio di aspettare... Donna Mariannina seguitava a perorare la causa di don Gesualdo, dicendo ch'era un affare d'oro quel matrimonio, una fortuna per tutti loro; congratulandosi con la nipote la quale fissava fuori dalla finestra, cogli occhi lucenti di lagrime; rivolgendosi financo a don Ferdinando che guardava tutti quanti ad uno ad uno, sbalordito; battendo sulle spalle di don Diego il quale sembrava che non udisse, cogli occhi inchiodati sulla sorella e un tremito per tutta la persona. A un certo punto egli interruppe la zia, balbettando: - Lasciatemi solo con Bianca... Devo dirle due parole... Lasciateci soli... Essa alzò gli occhi sbigottita, faccia a faccia col fratello che sembrava un cadavere, dopo che la zia e don Ferdinando furono usciti. Il pover'uomo esitò ancora prima di aggiungere quel che gli restava a dire, fissando la sorella con un dolore più pungente e profondo. Poscia le afferrò le mani, agitando il capo, movendo le labbra senza arrivare a profferir parola. - Dimmi la verità, Bianca!... Perché vuoi andartene dalla tua casa?... Perchè vuoi lasciare i tuoi fratelli?... Lo so! lo so!... Per quell'altro!... Ti vergogni a stare con noi, dopo la disgrazia che t'è capitata!... Continuava ad accennare del capo, con uno struggimento immenso nell'accento e nel viso, colle lagrime amare che gli scendevano fra i peli ispidi e grigi della barba. - Dio perdona... Ferdinando non sa nulla!... Io... io... Bianca!... Come una figliuola ti voglio bene!... Mia figlia sei... Bianca!... Tacque sopraffatto da uno scoppio di pianto. Ella più morta che viva scosse il capo lentamente e biascicò: - No... no... Non è per questo... Don Diego lasciò ricadere adagio adagio le mani della sorella, quasi un abisso si scavasse fra di loro. - Allora!... Fa quello che vuoi... fa quello che vuoi... E le volse le spalle, curvo, senza aggiunger altro, strascicando le gambe.
Nella casa antica dei La Gurna, presa in affitto da don Gesualdo Motta, s'aspettavano gli sposi. Davanti alla porta c'era un crocchio di monelli, che il ragazzo di Burgio, in qualità di parente, s'affannava a tener discosti, minacciandoli con una bacchettina; la scala sparsa di foglie d'arancio; un lume a quattro becchi posato sulla ringhiera del pianerottolo; e Brasi Camauro, con una cacciatora di panno blù, la camicia di bucato, gli stivali nuovi, che dava l'ultimo colpo di scopa nel portone imbiancato di fresco. A ogni momento succedeva un falso allarme. I ragazzi gridavano: - Eccoli! eccoli! - Camauro lasciava la scopa, e della gente si affacciava ai balconi illuminati. Verso un'ora, di notte arrivò il marchese Limòli, facendosi largo colla canna d'India. Vide il lume, vide le foglie d'arancio e disse: - Bravo! - Ma nel salire le scale, stava per rompersi l'osso del collo, e allora scappò anche a bestemmiare: - Che bestie!... Han fatto un mondezzaio!.. Brasi corse colla scopa. - Spazzo via tutto, signor marchese? Butto via ogni cosa? - No, no!... Adesso son passato. Non grattar troppo colla scopa, piuttosto... Si sente l'odor di stalla. Udendo delle voci, Santo Motta che aspettava di sopra, vestito di nuovo, coi pantaloni a staffe e un panciotto di raso a fiori, si affacciò nel pianerottolo, infilandosi la giamberga. - Eccomi! eccomi!... Sono qui!... Ah, signor marchese!... bacio le mani!... E rimase un po' confuso, non vedendo altri che il Limòli. - Servo, servo, caro don Santo!... Non baciate più nulla... ora siamo parenti. In cima alla scala comparve anche donna Sara Cirmena, la sola di tutto il parentado della sposa che si fosse degnata di venire, con un moggio di fiori finti in testa, il vestito di seta che aveva preso le pieghe come la carta, nel cassettone, i pendagli di famiglia che le strappavano le orecchie, seccata di aspettare da un gran pezzo in un bagno di sudore, e si mise a strillare di lassù: - Ma che fanno? C'è qualche altra novità? - Nulla, nulla, - rispose il marchese salendo adagio adagio. - Son uscito prima per non far vedere ch'ero solo in chiesa, di tutti i parenti... Son venuto a dare un'occhiata. Don Gesualdo aveva fatto delle spese: mobili nuovi, fatti venire apposta da Catania, specchi con le cornici dorate, sedie imbottite, dei lumi con le campane di cristallo: una fila di stanze illuminate, che viste così, con tutti gli usci spalancati, pareva di guardare nella lente di un cosmorama. Don Santo precedeva facendo la spiegazione, tirando in su ogni momento le maniche che gli arrivavano alla punta delle dita. - Come? Non c'è nessuno ancora? - esclamò il marchese, giunti che furono nella camera nuziale, parata come un altare. Compare Santo rannicchiò il capo nel bavero di velluto, al pari di una testuggine. - Per me non manca... Io son qui dall'avemaria... Tutto è pronto... - Credevo di trovare almeno gli altri parenti... Mastro Nunzio... vostra sorella... - Nossignore... si vergognano... C'è stato un casa del diavolo! Io son venuto per tener d'occhio il trattamento... E aprì l'uscio per farglielo vedere: una gran tavola carica di dolci e di bottiglie di rosolio, ancora nella carta ritagliata come erano venuti dalla città, sparsa di garofani e gelsomini d'Arabia, tutto quello che dava il paese, perché la signora Capitana aveva mandato a dire che ci volevano dei fiori; quanti candelieri si erano potuti avere in prestito, a Sant'Agata e nell'altre chiese. Diodata ci aveva pure messi in bell'ordine tutti i tovagliuoli arrotolati in punta, come tanti birilli, che portavano ciascuno un fiore in cima. - Bello! bello! - approvò il marchese. - Una cosa simile non l'ho mai vista!... E questi qui, cosa fanno? Ai due lati della tavola, come i giudei del Santo Sepolcro ci erano Pelagatti e Giacalone, che sembravano di cartapesta così lavati e pettinati. - Per servire il trattamento, sissignore!... Mastro Titta e l'altro barbiere suo compagno si son rifiutati, con un pretesto!... Vanno soltanto nelle casate nobili quei pezzenti!... Temevano di sporcarsi le mani qui, loro che fanno tante porcherie!... Giacalone, premuroso, corse tosto con una bottiglia per ciascuna mano. Il marchese si schermì: - Grazie, figliuol mio!... Ora mi rovini il vestito, bada! - Di là ci sono anche le tinozze coi sorbetti! - aggiunse don Santo. Ma appena aprì l'uscio della cucina, si videro fuggire delle donne che stavano a guardare dal buco della serratura. - Ho visto, ho visto, caro parente. Lasciateli stare; non li spaventate. In quel momento si udì un baccano giù in istrada, e corsero in tempo al balcone per vedere arrivare la carrozza degli sposi. Nanni l'Orbo, a cassetta, col cappello sino alle orecchie, faceva scoppiettare la frusta come un carrettiere, e vociava: - Largo!... A voi!... Guardatevi!... - Le mule, tolte allora dall'armento, ricalcitravano e sbuffavano, tanto che il canonico Lupi propose di smontare lì dov'erano, e Burgio s'era già alzato per scavalcare lo sportello. Ma le mule tutt'a un tratto abbassarono il capo insieme, e infilarono il portone a precipizio. - Morte subitanea! - esclamò il canonico, ricadendo col naso sui ginocchi della sposa. Salivano a braccetto. Don Gesualdo con una spilla luccicante nel bel mezzo del cravattone di raso, le scarpe lucide, il vestito coi bottoni dorati, il sorriso delle nozze sulla faccia rasa di fresco; soltanto il bavero di velluto, troppo alto, che gli dava noia. Lei che sembrava più giovane e graziosa in quel vestito candido e spumante, colle braccia nude, un po' di petto nudo, il profilo angoloso dei Trao ingentilito dalla pettinatura allora in moda, i capelli arricciati alle tempie e fermati a sommo del capo dal pettine alto di tartaruga: una cosa che fece schioccare la lingua al canonico, mentre la sposa andava salutando col capo a destra e a sinistra, palliduccia, timida, quasi sbigottita, tutte quelle nudità che arrossivano di mostrarsi per la prima volta dinanzi a tanti occhi e a tanti lumi. - Evviva gli sposi! evviva gli sposi! - si mise a gridare il canonico, messo in allegria, sventolando il fazzoletto. Bianca prese il bacio della zia Cirmena, il bacio dello zio marchese, ed entrò sola nelle belle stanze, dove non era anima viva. - Ehi? ehi? bada che perdi il marito! - le gridò dietro lo zio marchese fra le risate generali. - Ci siamo tutti? - borbottò sottovoce donna Sarina. Il canonico si affrettò a risponder lui. - Sissignora. Poca brigata, vita beata! Dietro di loro saliva Alessi, colla berretta in mano, intimidito da quei lumi e da quell'apparato. Sin dall'uscio si mise a balbettare: - Mi manda la signora baronessa Rubiera... Dice che non può venire perchè le duole il capo... Manda a salutare la nipote, e don Gesualdo anche... - Vai in cucina, da questa parte - gli rispose il marchese. - Di' che ti dieno da bere. Don Gesualdo approfittò di quel momento per raccomandare sottovoce a suo fratello: - Stai attento, dinanzi a tutta questa gente!... Ti metti a sedere, e non ti muovi più. Come vedi fare a me, fai tu pure. - Ho capito. Lascia fare a me! La zia Cirmena si era impadronita della sposa, e aveva assunta un'aria matronale che la faceva sembrare in collera. Dopo che ciascuno ebbe preso posto nella bella sala cogli specchi, si fece silenzio; ciascuno guardando di qua e di là per fare qualche cosa, ed ammirando coi cenni del capo. Alla fine il canonico credette di dover rompere il ghiaccio: - Don Santo, sedetevi qua. Avvicinatevi; non abbiate timore. - A me? - rispose Santo che si sentiva dar del don lui pure. - Questo è tuo cognato, - disse il marchese a Bianca. Il notaro ripigliò di lì a un momento: - Guardate! guardate! Sembra lo sbarco di Cristoforo Colombo! Vedevasi sull'uscio dell'anticamera un mucchio di teste che si pigiavano, fra curiose e timide, quasi stesse per scoppiare una mina. Il canonico fra gli altri monelli scorse Nunzio, il nipotino di don Gesualdo, e gli fece segno d'entrare, ammiccandogli. Ma il ragazzo scappò via come un selvaggio; e il canonico, sempre sorridendo, disse: - Che diavoletto!... tutto sua madre... Il marchese, sdraiato sulla sedia a bracciuoli, accanto alla nipote, sembrava un presidente, chiacchierando soltanto lui. - Bravo! bravo!... Tuo marito ha fatto le cose bene!... Non ci manca nulla in questa casa!... Ci starai da principessa!... Non hai che a dire una parola... mostrare un desiderio... - Allora ditegli che vi comperi delle altre mule - aggiunse il canonico ridendo. - E' vero; sei alquanto pallida... Ti sei forse spaventata in carrozza? - Sono mule troppo giovani... appena tolte dall'armento... non ci sono avvezze... Ora usano dei cavalli per la carrozza - disse il canonico. - Certamente! certamente! - si affrettò a rispondere don Gesualdo. - Appena potrò. I denari servono per spenderli... quando ci sono. Il marchese e il canonico Lupi tenevano viva la conversazione, don Gesualdo approvando coi cenni del capo; gli altri ascoltavano: la zia Cirmena con le mani sul ventre e un sorrisetto amabile che faceva cascare le parole di bocca: un sorriso che diceva: - Bisogna pure! giacché son venuta!... Valeva proprio la pena di mettersi in gala!... - Bianca sembrava un'estranea, in mezzo a tutto quel lusso. E suo marito imbarazzato anche lui, fra tanta gente, la sposa, gli amici, i servitori, dinanzi a quegli specchi nei quali si vedeva tutto, vestito di nuovo, ridotto a guardare come facevano gli altri se voleva soffiarsi il naso. - Il raccolto è andato bene! - disse il marchese a voce più alta, perché gli altri lo seguissero dove voleva arrivare. - Io ne parlo per sentita dire. Eh? eh? massaro Fortunato?... - Sissignore, grazie a Dio!... Sono i prezzi che non dicono!... - Ci sarà tanto da fare in campagna! Nel paese non c'è più nessuno. La zia Cirmena allora non potè frenarsi: - Ho vista al balcone la cugina Sganci... credevo che venisse, anzi!... - Chissà? chissà? Quella pioggerella ch'è caduta ha ridotto la strada una pozzanghera!... Io stavo per rompermi il collo. Però dicono che fa bene alle vigne. Eh? eh? massaro Fortunato?... - Sissignore, se vuol Dio!... - Saranno tutti a prepararsi per la vendemmia. Noi soli no, donna Sarina! Noi beviamo il vino senza pregare Dio per l'acqua!... Bisogna condurre la sposa a Giolio per la vendemmia, don Gesualdo!... Vedrai che vigne, Bianca! - Certo!... è la padrona!... certo!... - Un momento!... - esclamò il canonico balzando in piedi. - Mi pare di sentir gente!... Santo, che stava all'erta, cogli occhi fissi sul fratello, gli fece segno per sapere se era ora d'incominciare il trattamento. Ma il canonico rientrò dal balcone quasi subito, scuotendo il capo. - No!... Son villani che tornano in paese. Oggi è sabato e arriva gente sino a tardi. - Io l'avevo indovinato! - rispose la Cirmena. - Ho l'orecchio fine!... Chi aspettate, voi? - Donna Giuseppina Alòsi, per bacco!... Quella almeno non manca mai! - L'avrà trattenuta il cavaliere... - si lasciò scappare il marchese, perdendo la pazienza. Santo, che s'era già alzato, tornò a sedere mogio mogio. - Con permesso! con permesso! - disse il canonico. - Un momento! Vo e torno! Donna Sarina gli corse dietro nell'anticamera, e si udì il canonico rispondere forte: - No! Qui vicino... dal Capitano!... Il marchese che stava coll'orecchio teso fingeva d'ammirare ancora i mobili e le stanze, e tornò a dire: - Belli! belli!... Una casa signorile! Siete stati fortunati di potervi cacciare nel nido dei La Gurna!... Eh! eh!... Se ne videro qui delle feste... in questo stesso luogo!... Mi rammento... pel battesimo dell'ultimo La Gurna... Corradino... Adesso sono andati a stare a Siracusa, tutta la famiglia, dopo aver dato fondo a quel po' che rimaneva!... Mors tua vita mea!... Qui starete da principi!... Eh! eh!... son vecchio e la so lunga!... Ci staremmo bene anche noi, eh, donna Sarina?... eh? Donna Sarina si dimenava sulla seggiola per tener la lingua in freno: - Quanto a me!... - disse poi - grazie a Dio!... La prova è che il ragazzo La Gurna, Corradino, viene da me per la villeggiatura. Lui non ci ha colpa, povero innocente! - No, no, è meglio star seduti in una bella sedia soffice come questa, che andare a buscarsi il pane di qua e di là, come i La Gurna!... quando si può buscarselo anche!... E avere una buona tavola apparecchiata, e la carrozza per far quattro passi dopo, e la vigna per la villeggiatura, e tutto il resto!... La buona tavola soprattutto!... Son vecchio, e mi dispiace che il marchesato non possa servirsi in tavola... Il fumo è buono soltanto in cucina... La so lunga... C'è più fumo nella cucina, che arrosto sulla tavola in molte case... quelle che ci hanno lo stemma più grosso sul portone... e che arricciano più il naso!... Se torno a nascere, voglio chiamarmi mastro Alfonso Limòli, ed esser ricco come voi, nipote mio... Per godermi i miei denari fra me e me... senza invitar nessuno... no!... - Tacete!... Sento il campanello! - interruppe donna Sarina. - E' un pezzo che suonano mentre voi state a predicare... Però era un tintinnìo sommesso di gente povera. Santo corse ad aprire, e si trovò faccia a faccia col sagrestano, seguito dalla moglie, la quale portava sotto il braccio un tovagliuolo che pareva un sacco, quasi fosse venuta per lo sgombero. Al primo momento don Luca rimase imbarazzato, vedendo il fratello di Speranza che gli aveva mandato a dire mille improperi con suo marito Burgio; ma non si perse d'animo per questo, e trovò subito il pretesto: - C'è il canonico Lupi?... Mia moglie, qui, m'ha detto ch'era montato in carrozza cogli sposi... La gnà Grazia allora entrò svolgendo adagio adagio il tovagliuolo, e ne cavò una caraffina d'acqua d'odore, tappata con un batuffoletto di cenci. - L'acqua benedetta!... Abbiamo pensato per donna Bianca! E si misero ad aspettare tranquillamente, marito e moglie, in mezzo alla sala. In quel momento tornò il canonico Lupi, rosso in viso, sbuffando, asciugandosi il sudore. E a prevenire ogni domanda si rivolse subito al padrone di casa, sorridendo, coll'aria indifferente: - Don Gesualdo... se avete intenzione di farci fare la bocca dolce!... Mi pare che sia tempo!... All'alba ho da dir messa, prima d'andare in campagna. - Vado? - saltò a dire subito Santo. - Mettiamo mano? Si alzò in piedi la sposa; si alzarono dopo di lei tutti gli altri, e rimasero fermi ai loro posti, aspettando a chi toccasse aprire la marcia. Il canonico si sbracciava a far dei segni a compare Santo, e vedendo che non capiva, gli soffiò colla voce di petto, come in chiesa, allorché sbagliavasi la funzione: - A voi!... Date braccio alla cognata!... Ma il cognato non si sentiva di fare quella parte. Infine glielo spinsero dietro a forza. Lo zio Limòli intanto era passato avanti colla sposa, e il canonico borbottò all'orecchio di don Gesualdo: - Credereste?... fa la sdegnosa anche la Capitana! Lei che non manca mai dove c'è da leccare piatti! Fa la sdegnosa anch'essa! Come se non si sapesse donde viene quella gran dama!... No! no! che fate?... - esclamò a un tratto slanciandosi verso compare Santo. Costui, persa la pazienza, quatto quatto rimboccavasi le maniche del vestito. Per fortuna la cognata stava parlando collo zio Limòli, e non se ne accorse. Il marchese, dal canto suo, era distratto, cercando di evitare Giacalone e Pelagatti che volevano servirlo a ogni costo. - Faranno nascere qualche guaio quei due ragazzi! - borbottò infine. Anche Bianca abbozzò un sorriso a quell'uscita, e si scostarono dalla tavola tutti e due, per evitare il pericolo. - Non vuol nulla!... - tornò dicendo il cognato don Santo, quasi si fosse tolto un gran peso dallo stomaco. - Io, per me, gliel'ho offerto!... - Neanche un bicchierino di perfetto amore? - entrò a dire il canonico con galanteria. La zia Cirmena si mise a ridere, e Santo guardò il fratello, per vedere cosa dovesse fare. - Eh! eh!... - aggiunse il marchese con la sua tosserella. - Eh! eh!... - Qualcosa, zio? - Grazie, grazie, cara Bianca... Non ho più denti né stomaco... Sono invalido... Sto a vedere soltanto... non posso fare altro... Il canonico si fece pregare un po', e quindi trasse di tasca un fazzoletto che sembrava un lenzuolo. Intanto la zia Cirmena s'empiva il borsone che portava al braccio, dov'era ricamato un cane tutto intero, e ce n'entrava della roba! Il canonico invece, che aveva le tasche sino al ginocchio, sotto la zimarra, delle vere bisacce, poteva cacciarvi dentro tutto quello che voleva senza dare nell'occhio. Bianca pure regalò con le sue mani stesse una scatola di confetti al cognato Santo. - Per vostra sorella e i suoi ragazzi... - Di' che glieli manda lei stessa... la cognata... - soggiunse Gesualdo tutto contento, con un sorriso di gratitudine per lei. Erano un po' in disparte, mentre tutti gli altri si affollavano intorno alla tavola. Egli allora le disse piano, con una certa tenerezza: - Brava! mi piaci perché sei giudiziosa, e cerchi di metter pace in famiglia... Non sai quel che c'è stato!... Mia sorella specialmente!... M'hanno fatto andare tutto in veleno anche il giorno delle nozze!... Com'essa gli ispirava confidenza, col viso buono, stava per sfogarsi del rimanente, senza avvedersene, quando la zia Cirmena venne ad interromperlo dicendogli: - Pensate al sagrestano; è lì che aspetta con sua moglie. Don Luca, vedendo arrivare tanta grazia di Dio, finse di esser sorpreso. - Nossignore! Non siamo venuti per i dolci... Non v'incomodate, vossignoria! - Sua moglie intanto andava sciorinando la tovaglia che pareva quella dell'altare. Lui invece, per dimostrare la sua gratitudine, fingeva di guardare in aria, inarcando le ciglia dalla sorpresa. - Guarda, Grazia!... Quanta roba!... Ce ne sono stati spesi dei denari qui! - Poscia, appena don Gesualdo volse le spalle, aiutò ad insaccare anche lui. - Par d'essere appestati!... - borbottò donna Sarina che rientrava col borsone pieno insieme al canonico Lupi. - Neppure i suoi fratelli son venuti!... avete visto?... - Poveretti!... poveretti!... - rispose l'altro agitando la mano dinanzi alla fronte, come a dire che coloro non ci avevano più la testa a segno. Poi si guardò intorno abbassando la voce: - Sembrava che piangessero il morto, quando siamo andati a prendere la sposa!... due gufi, tale e quale!... Si rintanavano di stanza in stanza, al buio... Due gufi, tale e quale!... Donna Bianca, invece, voleva fare le cose con bella maniera... almeno pei riguardi umani!... Infine se si è indotta a questo passo... Fece un altro segno, coll'indice e il pollice in croce sulla bocca. E sbirciando colla coda dell'occhio che rientravano in sala anche Bianca e suo marito, disse forte, come in seguito di un altro discorso, mostrando il fazzoletto pieno: - Sono le mie propine!... frutti di stola... La moglie del sagrestano, che non si era accorta della sposa aggiunse: - Sono ancora lì, tutti e due, dietro i vetri della finestra, al buio, a guardare in piazza dove non c'è nessuno!... come due mummie addirittura!... Donna Bianca, nel passare, udì quelle parole. - Tanta salute! - interruppe il sagrestano vedendo la signora. - Sarà una festa per quei ragazzi, quando arriveremo a casa!... Cinque figliuoli, donna Bianca!... Poi, voltandosi verso la moglie che se ne andava barcollando, con quell'altro fardello sulla pancia: - Salute e figli maschi!... La roba ce l'avete!... Ora pregheremo il Signore di darvi i figliuoli... Vogliamo vedervi come Grazia fra nove mesi... Il marchese per tagliar corto l'accomiatò: - Va bene! Buona sera, caro don Luca! Nell'altra stanza, appena furono usciti gli invitati, si udì un baccano indiavolato. I vicini, la gente di casa, Brasi Camauro, Giacalone, Nanni l'Orbo, una turba famelica, piombò sui rimasugli del trattamento, disputandosi i dolciumi, strappandoseli di mano, accapigliandosi fra di loro. E compare Santo, col pretesto di difendere la roba, abbrancava quel che poteva, e se lo ficcava da per tutto, in bocca, nelle tasche, dentro la camicia. Nunzio, il ragazzo di Burgio, entrato come un gatto, si era arrampicato sulla tavola, e s'arrabbattava a calci e pugni anche lui, strillando come un ossesso; gli altri monelli carponi sotto. Don Gesualdo, infuriato, voleva correre col bastone a far cessare quella baraonda; ma lo zio marchese lo fermò pel braccio!... - Lasciateli fare... tanto!... La zia Cirmena che si era divertita almeno un po', si piantò nel bel mezzo della stanza, guardando in faccia la gente, come a dire ch'era ora d'andarsene. In quel frattempo tornò di corsa il sagrestano, ansante, con un'aria di gran mistero: - C'è qui tutto il paese!... giù in istrada, che stanno a vedere!... Il barone Zacco, i Margarone, la moglie di Mèndola anche... tutti i primi signori del paese!... Fa chiasso il vostro matrimonio, don Gesualdo!... E se ne andò com'era venuto, frettoloso, infatuato. La zia Cirmena borbottò: - Che seccatura!... Ci fosse almeno un'altra uscita!... Il canonico invece, curioso, volle andare a vedere. Di rimpetto, alla cantonata di San Sebastiano, c'era un crocchio di gente; si vedevano biancheggiare dei vestiti chiari nel buio della strada. Altri passavano lentamente, in punta di piedi, rasente al muro, col viso rivolto in su. Si udiva parlare sottovoce, delle risa soffocate anche, uno scalpiccìo furtivo. Due che tornavano indietro dalla parte di Santa Maria di Gesù si fermarono, vedendo aprire il balcone. E tutti sgattaiolarono di qua e di là. Rimase solo Ciolla, che fingeva d'andare pei fatti suoi canticchiando:
Amore, amore, che m'hai fatto fare? Donna Sarina e il marchese Limòli si erano avvicinati anch'essi al balcone. Quest'ultimo allora disse: - Adesso potete andarvene, donna Sarina. Non c'è più nessuno laggiù!... La zia Cirmena scattò su come una molla: - Io non ho paura, don Alfonso!... Io fo quel che mi pare e piace!... Son qui per far da mamma a Bianca... giacché non c'è altra parente prossima. Non possiamo piantar la sposa quasi fosse una trovatella... pel decoro della famiglia almeno!... - Ah? ah?... - sogghignava intanto il marchese. Donna Sarina gli ribatté sul muso, frenando a stento la voce: - Non mi fate lo gnorri, don Alfonso!... Lo sapete meglio di me!... Deve premere anche a voi che siete della famiglia... Bisogna farlo per la gente... se non per lei!... - E infilò l'uscio della camera nuziale, continuando a sbraitare. - Va bene, va bene! Non andate in collera... Vuol dire che ce ne andremo noi!... Ehi, ehi, canonico... Mi par che sarebbe tempo d'andarcene!... Un po' di prudenza!... - Ah! ah!... Ah! ah! - chiocciava il canonico. - Buona notte, nipoti miei! Vi dò pure la benedizione che non costa nulla... Bianca s'era fatta pallida come un cencio lavato. Si alzò anche lei, con un lieve tremito nei muscoli del mento, coi begli occhi turchini che sembravano smarriti, incespicando nel vestito nuovo, e balbettò: - Zio!... sentite, zio!... - E lo tirò in disparte per parlargli sottovoce, con calore. - Sono pazzi! - interruppe il marchese ad alta voce accalorandosi anche lui. - Pazzi da legare! Se torno a nascere, lo dirò anche a loro, voglio chiamarmi mastro Alfonso Limòli!... - Bravo! - sghignazzò il canonico. - Mi piace quello che dite! - Buona notte! buona notte! Non ci pensare! Andrò da loro domattina... E fra nove mesi, ricordati bene, voglio essere invitato di nuovo pel battesimo... il canonico Lupi ed io... noi due soli... Non ci sarà neppure bisogno della cugina Cirmena!... - Poca brigata, vita beata! - conchiuse l'altro. Don Gesualdo li accompagnò sino all'uscio, solleticato internamente dai complimenti del canonico, il quale non finiva dal dirgli che aveva fatto le cose ammodo: - Peccato che non sieno venuti tutti gli invitati! Avrebbero visto che spendete da Cesare. Mi sorprende per la signora Sganci!... Anche la baronessa Rubiera sarebbe stata contenta di vedere come le rispettate la nipote... che non siete di quelli che hanno il pugno stretto... giacché dovete esser soci fra poco. - Eh! eh! - rispose don Gesualdo che si sentiva ribollire in quel punto i denari male spesi. - C'è tempo! c'è tempo! Ne deve passare prima dell'acqua sotto il ponte che non c'è più... Diteglielo pure, alla signora baronessa. - Come? come? Se era cosa intesa? Se dovete esser soci? - I miei soci son questi qua! - ripeté don Gesualdo battendo sul taschino. - Non vorrei che la signora baronessa Rubiera avesse a vergognarsi d'avermi per compagno... diteglielo pure! - Ha ragione! - aggiunse il marchese fermandosi a metà della scala. - Ha l'amor proprio dei suoi denari, che diavolo!... La cugina Rubiera avrebbe potuto degnarsi... Non si sarebbe guastato il sangue per così poco, lei!... - Chissà? chissà perché non è venuta?... Ci dev'essere qualch'altro motivo... Poi, gli affari... è un'altra cosa... Pensateci bene!... Vi mancherà un appoggio!... Li avrete tutti nemici allora!... - Tutti nemici... oh bella! perché? - Pei vostri denari, caspita!... Perché potete mettere anche voi le mani nel piatto!... Poi vi siete imparentato con loro!... Uno schiaffo, caro mio! Uno schiaffo che avete dato a tutti quanti! - Sapete cosa ho da dirvi? - si mise a strillare allora il marchese levando il capo in su. - Che se non avessi il vitalizio della mia commenda di Malta per non crepare di fame, sarei costretto a dare uno schiaffo anch'io a tutta la nobile parentela... Sarei costretto a scopar le strade!... E se ne andò borbottando. - Don Gesualdo, - disse Nanni l'Orbo facendo capolino dalla cucina. - Son qui i ragazzi che vorrebbero baciar la mano alla padrona... se non c'è più nessuno... - Spicciatevi! spicciatevi! - rispose lui infastidito. Prima s'affollarono sulla soglia simili a un branco di pecore; poscia, dopo Nanni l'Orbo, sfilarono dietro tutti gli altri, col sorriso goffo, il berretto in mano, le donne salutando sino a terra come in chiesa, imbacuccate nelle mantelline. - Questa è Diodata, - disse Nanni l'Orbo. - Una povera orfanella che il padrone ha mantenuto per carità. - Sissignora!... Tanta salute!... - E Diodata non seppe più che dire. - Un cuore tanto fatto, don Gesualdo! - seguitò Nanni l'Orbo accalorandosi. - Gli ha fatto anche la dote! Domeneddio l'aiuta per questo! Don Gesualdo andava spegnendo i lumi. Poi si voltò tutto di nuovo vestito, che Diodata non osava nemmeno alzare gli occhi su di lui, e conchiuse: - Va bene. Siete contenti? - Sissignore, - rispose Nanni l'Orbo, guardando con tenerezza Diodata. - Contentoni!... può dirlo anche lei!... - E' un pezzo che compare Nanni teneva d'occhio a quei baiocchi, per non lasciarseli sfuggire! - aggiunse Brasi Camauro. - E' nato col berretto in testa! - Sposa Diodata, - narrò allora alla moglie don Gesualdo. - La marito con lui. Il camparo aggiunse altre informazioni, ridendo: - Si correvano dietro! Bisognava far la guardia a loro pure!... Il padrone mi dovrebbe ancora qualche regaluccio per quest'altra custodia che non era nel patto!... Allora scoppiò una risata generale, perché compare Carmine era molto lepido, di solito. La ragazza, tutta una fiamma, gli lanciò un'occhiata di bestia selvaggia. - Non è vero! nossignore, don Gesualdo!... - Sì! sì! e Brasi Camauro anche! e Giacalone, allorché veniva pel carro!... Tutti d'amore e d'accordo, insieme!... Le risate non finivano più; Nanni l'Orbo pel primo, che si teneva i fianchi. Solo Diodata, rossa come il fuoco, colle lagrime agli occhi, s'affannava a ripetere: - Nossignore!... non è vero!... Come potete dirlo, compare Carmine?... non ne avete coscienza? Donna Sarina comparve di nuovo sull'uscio, colle braccia incrociate, senza profferire una parola; soltanto i fiori che le si agitavano sul capo parlavano per lei. - Ora basta! - conchiuse il padrone. - Andatevene, ch'è tardi. Essi salutarono un'altra volta, inchinandosi goffamente, balbettando confusamente in coro, urtandosi nell'uscire, e se ne andarono con un calpestìo pesante di bestiame grosso. Appena fuori cominciarono a ridere e scherzare fra di loro; Brasi Camauro e Pelagatti dandosi degli spintoni; Nanni l'Orbo e compare Carmine barattando parolacce e ingiurie atroci, colle braccia l'uno al collo dell'altro, come due fratelli messi in allegria dal vino bevuto. Una baldoria che fece ridere anche lo stesso don Gesualdo. - Son come le bestie! - diss'egli rientrando. - Non dar retta, cara Bianca! - Un momento! - strillò la zia Cirmena respingendolo colle mani, quasi egli stesse per farle violenza. - Non potete entrare adesso! fuori! fuori! E gli chiuse l'uscio sul muso. Diodata risalì di corsa in quel punto, scalmanata, colle lagrime agli occhi. - Don Gesualdo!... Non vogliono lasciarmi andare pei fatti miei!... Li sentite, laggiù?... compare Nanni e tutti gli altri!... - Ebbene? Che c'è? Non dev'essere tuo marito?... - Sissignore... Dice per questo!... ch'è il padrone... Non mi lasciano andare in pace!... tutti quanti! - Aspetta! aspetta, che piglio un bastone! - No! no! - gridò Nanni dalla strada. - Ce ne andiamo a casa. Nessuno la tocca. - Senti? Nessuno ti tocca. Vattene... Che fai adesso? Essa, stando due scalini più giù, gli aveva presa la mano di nascosto, e andava baciandola come un vero cane affezionato e fedele: - Benedicite!... benedicite!... - Ora ricomincia il piagnisteo! - sbuffò lui. - Non ho un momento di pace, questa sera!... - Nossignore... senza piagnisteo... Tanta salute a vossignoria!... e alla vostra sposa anche!... E' che volevo baciarvi la mano per l'ultima volta!... Mi tremano un po' le gambe... Tanto bene che mi avete fatto, vossignoria!... - Be'! be'!... Sta allegra tu pure!... Dev'essere un giorno d'allegria questo!... Hai trovato un buon marito anche tu... Il pane non te lo farà mancare... E quando verrà la malannata, ricordati che c'è sempre il mio magazzino aperto... Sei contenta anche tu? di'? Essa rispose ch'era contenta, chinando il capo più volte, giacché aveva un groppo alla gola e non poteva parlare. - Va bene! Ora vattene via contenta... e senza pensare ad altro, sai!... senza pensare ad altro!... Com'essa lo guardava in un certo modo, cogli occhi dolorosi che sembrava gli leggessero anche a lui il cruccio segreto in cuore, cominciò a gridare per non pensarci, quasi fosse in collera. - E senza cercare il pelo nell'uovo!... senza pensare a questo e a quell'altro... Il Signore c'è per tutti... Anche tu sei una povera trovatella, e il Signore ti ha aiutato!... Al caso poi, ci son qua io... Farò quello che potrò... Non ho il cuore di sasso, no!... Lo sai! Vai, vai; vattene via contenta!... Ma Diodata, che gli voltava le spalle, col petto pigiato contro la ringhiera, quasi si sentisse morire dal crepacuore, non poté frenare i singhiozzi che la scuotevano dalla testa ai piedi. Allora il suo padrone scappò a bestemmiare: - Santo e santissimo!... santo e santissimo! In quel momento comparve la zia Cirmena in cima alla scala, con lo scialle in testa, il borsone infilato al braccio, e gli occhi umidi di lagrime, come si conveniva alla parte di madre che l'era toccata quella volta. - Eccomi qua, don Gesualdo! eccomi qua! - E stese le braccia come un crocifisso per buttargliele al collo. - Non ho bisogno di farvi la predica... Siete un uomo di giudizio... Povera Bianca!... Sono commossa, guardate! Cercò nel borsone il fazzoletto di battista, fra la roba di cui era pieno, e si asciugò gli occhi. Poi baciò di nuovo lo sposo, asciugandosi anche la bocca con lo stesso fazzoletto, e chiamò il servitore che aspettava giù col lampione. - Don Camillo! Accendete, ch'è ora di andarsene. Don Camillo? ehi? cosa fate? dormite? Dalla strada rispose Ciolla, ripassando col chitarrino: Amore, amore, che m'hai fatto fare? E degli altri sfaccendati gli andavano dietro, facendogli l'accompagnamento coi grugniti. - No! - esclamò la zia Cirmena piantandosi dinanzi al nipote, quasi ad impedirgli di fare una pazzia. - Non date retta... Sono ubbriachi!... canaglia che crepano d'invidia! Andate a trovare vostra moglie piuttosto! Ve la raccomando... non va presa come le altre... Siamo fatti di un'altra pasta... tutta la famiglia... Mi pare di lasciare il sangue mio nelle vostre mani adesso!... Non ho avuto figliuole... non ho mai provato una cosa simile!... Mi sento tutta sconvolta!... No! no! Non badate a me!... mi calmerò... Voi, don Camillo, andate avanti col lume... Egli volse le spalle. - Quante chiacchiere! Infine siamo marito e moglie sì o no? - Entrando nella camera nuziale trasse un sospirone. - Ah! se Dio vuole, è finita! Ce n'è voluto... ma è finita, se Dio vuole!... Non lo fo più, com'è vero Iddio, se si ha a ricominciare da capo!... Voleva far ridere anche la sposa, metterla un po' di buon umore, per star meglio insieme in confidenza, come dev'essere fra marito e moglie. Ma lei, ch'era seduta dinanzi allo specchio, voltando le spalle all'uscio, si riscosse udendolo entrare, e avvampò in viso. Indi si fece smorta più di prima, e i lineamenti delicati parvero affilarlesi a un tratto maggiormente. Proprio quello che aveva detto la zia Cirmena! Una ragazza che vi basiva per un nulla, e v'imbrogliava la lingua e le mani. Gli seccava, ecco, quel giorno di nozze che non gli aveva dato un sol momento buono. - Ehi?... Perchè non dici nulla?... Cos'hai?... - Rimase un momento imbarazzato, senza saper che dire neppure lui, umiliato nel suo bel vestito nuovo, in mezzo ai suoi mobili che gli costavano un occhio del capo. - Senti... s'è così... se la pigli su quel verso anche tu... Allora ti saluto e vo a dormire su di una sedia, com'è vero Dio!... Essa balbettò qualche parola inintelligibile, un gorgoglìo di suoni timidi e confusi, e chinò il capo ubbidiente, per cominciare a togliersi il pettine di tartaruga, colle mani gracili e un po' sciupacchiate alle estremità di ragazza povera avvezza a far di tutto in casa. - Brava! brava! Così mi piaci!... Se andiamo d'accordo come dico io, la nostra casa andrà avanti... avanti assai! Te lo dico io! Faremo crepare gli invidiosi... Hai visto stasera, che non son voluti venire alle nozze?... Quante spese buttate via!... Hai visto che mi mangiavo il fegato e ridevo?... Riderà meglio chi ride l'ultimo!... Via, via, perchè ti tremano così le mani?... non sono tuo marito adesso?... a dispetto degli invidiosi!... Che paura hai?... Senti!... quel Ciolla!... mi farà fare uno sproposito!... Essa tornò a balbettare qualche parola indistinta, che le spirò di nuovo sulle labbra smorte, e alzò per la prima volta gli occhi su di lui, quegli occhi turchini e dolci che gli promettevano la sposa amorevole e ubbidiente che gli avevano detto. Allora egli tutto contento, con un risata larga che gli spianò il viso ed il cuore, riprese: - Lascialo cantare. Non me ne importa adesso di Ciolla... di lui e di tutti gli altri!... Crepano d'invidia perché i miei affari vanno a gonfie vele, grazie a Dio! Non te ne pentirai, no, di quello che hai fatto!... Sei buona!... non hai la superbia di tutti i tuoi... In cuore gli si gonfiava un'insolita tenerezza, mentre l'aiutava a spettinarsi. Proprio le sue grosse mani che aiutavano una Trao, e si sentivano divenir leggere leggere fra quei capelli fini! Gli occhi di lui si accendevano sulle trine che le velavano gli omeri candidi e delicati, sulle maniche brevi e rigonfie che le mettevano quasi delle ali alle spalle. Gli piaceva la peluria color d'oro che le fioriva agli ultimi nodi delle vertebre, le cicatrici lasciatele dal vaccinatore inesperto sulle braccia esili e bianche, quelle mani piccole, che avevano lavorato come le sue, e tremavano sotto i suoi occhi, quella nuca china che impallidiva e arrossiva, tutti quei segni umili di privazioni che l'avvicinavano a lui. - Voglio che tu sii meglio di una regina, se andiamo d'accordo come dico io!... Tutto il paese sotto i piedi voglio metterti!... Tutte quelle bestie che ridono adesso e si divertono alle nostre spalle!... Vedrai! vedrai!... Ha buon stomaco, mastro-don Gesualdo!... da tenersi in serbo per anni ed anni tutto quello che vuole... e buone gambe pure... per arrivare dove vuole... Tu sei buona e bella!... roba fine!... roba fine sei!... Essa rannicchiò il capo nelle spalle, simile a una colomba trepidante che stia per esser ghermita. - Ora ti voglio bene davvero, sai!... Ho paura di toccarti colle mani... Ho le mani grosse perchè ho tanto lavorato... non mi vergogno a dirlo... Ho lavorato per arrivare a questo punto... Chi me l'avrebbe detto?... Non mi vergogno, no! Tu sei bella e buona... Voglio farti come una regina... Tutti sotto i tuoi piedi!... questi piedini piccoli! Hai voluto venirci tu stessa... con questi piedini piccoli... nella mia casa... La padrona!... la signora bella mia!... Guarda, mi fai dire delle sciocchezze!... Ma essa aveva l'orecchio altrove. Pareva guardasse nello specchio, lontano, lontano. - A che pensi? ancora al Ciolla?... Vo a finire in prigione, la prima notte di matrimonio!... - No! - interruppe lei balbettando, con un filo di voce. - No... sentite... devo dirvi una cosa... Sembrava che non avesse più una goccia di sangue nelle vene, tanto era pallida e sbattuta. Mosse le labbra tremanti due o tre volte. - Parla, - rispose lui. - Tutto quello che desideri... Voglio che sii contenta tu pure!... Com'era di luglio, e faceva un gran caldo, si tolse anche il vestito, aspettando. Ella si tirò indietro bruscamente, quasi avesse ricevuto un urto in pieno petto; e s'irrigidì, tutta bianca, cogli occhi cerchiati di nero. - Parla, parla!... Dimmelo qui all'orecchio... qui che nessuno ci sente!... Rideva tutto contento colla risata grossolana, nell'impeto caldo che cominciava a fargli girare il capo, balbettando e anfanando, in maniche di camicia, stringendosi sul cuore che gli batteva fino in gola quel corpo delicato che sentiva rabbrividire e quasi ribellarsi; e come le sollevava il capo dolcemente si sentì cascar le braccia. Ella si asciugò gli occhi febbrili, col viso tuttora contratto dolorosamente. - Ah!... che gusto!... Aveva ragione la zia Cirmena!... Bel divertimento!... Dopo tanti stenti, tanti bocconi amari!... tante spese fatte!... Si dovrebbe essere così contenti qui... due che si volessero bene!... Nossignore! neanche questo mi tocca! Neanche il giorno delle nozze, santo e santissimo!... Dimmi almeno che hai!... - Non badate a me... Sono troppo agitata... - Ah! quel Ciolla!... ancora!... Com'è vero Dio, gli tiro addosso un vaso di fiori adesso!... Voglio far la festa anche a lui, la prima notte di matrimonio! |
Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.44 |
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