PROEMIALE
EPISTOLA, |
SCRITTA ALL'ILLUSTRISSIMO
SIGNOR MICHEL DI CASTELNOVO
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Signor di Mauvissiero, Concressalto
e di Ionvilla, Cavallier de l'ordine del Re Cristianissimo, Conseglier del suo privato
Conseglio, Capitano di 50 uomini d'arme e Ambasciator alla Serenissima Regina
d'Inghilterra. |
Se io, illustrissimo Cavalliero,
contrattasse l'aratro, pascesse un gregge, coltivasse un orto, rassettasse un vestimento,
nessuno mi guardarebbe, pochi m'osservarebono, da rari sarei ripreso e facilmente potrei
piacere a tutti. Ma per essere delineatore del campo de la natura, sollecito circa la
pastura de l'alma, vago de la coltura de l'ingegno e dedalo circa gli abiti de
l'intelletto, ecco che chi adocchiato me minaccia, chi osservato m'assale, chi giunto mi
morde, chi compreso mi vora; non è uno, non son pochi, son molti, son quasi tutti. Se
volete intendere onde sia questo, vi dico che la caggione è l'universitade che mi
dispiace, il volgo ch'odio, la moltitudine che non mi contenta, una che m'innamora: quella
per cui son libero in suggezione, contento in pena, ricco ne la necessitade e vivo ne la
morte; quella per cui non invidio a quei che son servi nella libertà, han pena nei
piaceri, son poveri ne le ricchezze e morti ne la vita, perché nel corpo han la catena
che le stringe, nel spirto l'inferno che le deprime, ne l'alma l'errore che le ammala, ne
la mente il letargo che le uccide; non essendo magnanimità che le delibere, non
longanimità che le inalze, non splendor che le illustre, non scienza che le avvive. Indi
accade che non ritrao, come lasso, il piede da l'arduo camino; né, come desidioso,
dismetto le braccia da l'opra che si presenta; né, qual disperato, volgo le spalli al
nemico che mi contrasta; né, come abbagliato, diverto gli occhi dal divino oggetto;
mentre, per il più, mi sento riputato sofista, più studioso d'apparir sottile che di
esser verace; ambizioso, che più studia di suscitar nova e falsa setta che di confirmar
l'antica e vera; ucellatore, che va procacciando splendor di gloria con porre avanti le
tenebre d'errori; spirto inquieto, che subverte gli edificii de buone discipline e si fa
fondator di machine di perversitade. Cossì, Signor, gli santi numi disperdano da me que'
tutti che ingiustamente m'odiano, cossì mi sia propicio sempre il mio Dio, cossì
favorevoli mi sieno tutti governatori del nostro mondo, cossì gli astri mi faccian tale
il seme al campo ed il campo al seme ch'appaia al mondo utile e glorioso frutto del mio
lavoro con risvegliar il spirto ed aprir il sentimento a quei che son privi di lume: come
io certissimamente non fingo e, se erro, non credo veramente errare e, parlando e
scrivendo, non disputo per amor de la vittoria per se stessa (perché ogni riputazione e
vittoria stimo nemica a Dio, vilissima e senza punto di onore, dove non è la verità), ma
per amor della vera sapienza e studio della vera contemplazione m'affatico, mi crucio, mi
tormento. Questo manifestaranno gli argumenti demostrativi, che pendeno da vivaci
raggioni, che derivano da regolato senso, che viene informato da non false specie che,
come veraci ambasciatrici, si spiccano da gli suggetti de la natura, facendosi presenti a
quei che le cercano, aperte a quei che le rimirano, chiare a chi le apprende, certe a chi
le comprende. Or ecco, vi porgo la mia contemplazione circa l'infinito, universo e mondi
innumerabili. |
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Argomento del primo dialogo
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Avete dunque nel primo dialogo
prima, che l'inconstanza del senso mostra che quello non è principio di certezza e non fa
quella se non per certa comparazione e conferenza d'un sensibile a l'altro ed un senso a
l'altro; e s'inferisce come la verità sia in diversi soggetti. |
Secondo, si comincia a dimostrar
l'infinitudine de l'universo, e si porta il primo argumento tolto da quel, che non si sa
finire il mondo da quei che con l'opra de la fantasia vogliono fabricargli le muraglia.
Terzo, da che è inconveniente dire che il mondo sia finito e che sia in se stesso,
perché questo conviene al solo immenso, si prende il secondo argumento. Appresso si
prende il terzo argumento dall'inconveniente ed impossibile imaginazione del mondo come
sia in nessun loco, perché ad ogni modo seguitarrebe che non abbia essere, atteso che
ogni cosa, o corporale o incorporal che sia, o corporale- o incorporalmente, è il loco.
Il quarto argumento si toglie da una demostrazione o questione molto urgente che fanno gli
epicurei: |
Nimirum si iam finitum constituatur
omne quod est spacium, si quis procurrat ad oras Ultimus extremas iaciatque volatile
telum, Invalidis utrum contortum viribus ire Quo fuerit missum mavis longeque volare, An
prohibere aliquid censes obstareque posse? Nam sive est aliquid quod prohibeat
officiatque, Quominu' quo missum est veniat finique locet se, Sive foras fertur, non est
ea fini profecto. |
Quinto, da che la definizion del loco che
poneva Aristotele non conviene al primo, massimo e comunissimo loco, e che non val
prendere la superficie prossima ed immediata al contenuto, ed altre levitadi che fanno il
loco cosa matematica e non fisica; lascio che tra la superficie del continente e contenuto
che si muove entro quella, sempre è necessario spacio tramezante a cui conviene più
tosto esser loco; e se vogliamo del spacio prendere la sola superficie, bisogna che si
vada cercando in infinito un loco finito. Sesto, da che non si può fuggir il vacuo
ponendo il mondo finito, se vacuo è quello nel quale è niente. |
Settimo, da che, sicome questo spacio nel
quale è questo mondo, se questo mondo non vi si trovasse, se intenderebbe vacuo; cossì
dove non è questo mondo, se v'intende vacuo. Citra il mondo, dunque, è indifferente
questo spacio da quello: dunque, l'attitudine ch'ha questo, ha quello; dunque, ha l'atto,
perché nessuna attitudine è eterna senz'atto; e però eviternamente ha l'atto gionto;
anzi essalei è atto, perché nell'eterno non è differente l'essere e posser essere.
Ottavo, da quel che nessun senso nega l'infinito, atteso che non lo possiamo negare per
questo, che non lo comprendiamo col senso; ma da quel, che il senso viene compreso da
quello e la raggione viene a confirmarlo lo doviamo ponere. Anzi se oltre ben
consideriamo, il senso lo pone infinito; perché sempre veggiamo cosa compresa da cosa, e
mai sentiamo, né con esterno né con interno senso, cosa non compresa da altra o simile. |
Ante oculos etenim rem res finire
videtur: Aer dissepit colleis atque aera montes, Terra mare et contra mare terras terminat
omneis: Omne quidem vero nihil est quod finiat extra. Usque adeo passim patet ingens copia
rebus, Finibus exemptis, in cunctas undique parteis. |
Per quel dunque, che veggiamo, più tosto
doviamo argumentar infinito, perché non ne occorre cosa che non sia terminata ad altro e
nessuna esperimentiamo che sia terminata da se stessa. Nono, da che non si può negare il
spacio infinito se non con la voce, come fanno gli pertinaci, avendo considerato che il
resto del spacio, dove non è mondo e che si chiama vacuo o si finge etiam niente, non si
può intendere senza attitudine a contenere non minor di questa che contiene. Decimo, da
quel che, sicome è bene che sia questo mondo, non è men bene che sia ciascuno de
infiniti altri. Undecimo, da che la bontà di questo mondo non è comunicabile ad altro
mondo che esser possa, come il mio essere non è comunicabile al di questo e quello.
Duodecimo, da che non è raggione né senso che, come si pone un infinito individuo,
semplicissimo e complicante, non permetta che sia un infinito corporeo ed esplicato.
Terzodecimo, da che questo spacio del mondo che a noi par tanto grande, non è parte e non
è tutto a riguardo dell'infinito, e non può esser suggetto de infinita operazione, ed a
quella è un non ente quello che dalla nostra imbecillità si può comprendere, e si
risponde a certa instanza, che noi non ponemo l'infinito per la dignità del spacio, ma
per la dignità de le nature; perché per la raggione, da la quale è questo, deve essere
ogni altro che può essere, la cui potenza non è attuata per l'essere di questo, come la
potenza de l'essere di Elpino non è attuata per l'atto dell'essere di Fracastorio.
Quartodecimo da che, se la potenza infinita attiva attua l'esser corporale e dimensionale,
questo deve necessariamente essere infinito; altrimente si deroga alla natura e dignitade
di chi può fare e di chi può essere fatto. Quintodecimo, da quel, che questo universo
conceputo volgarmente non si può dir che comprende la perfezion di tutte cose altrimente
che come io comprendo la perfezione di tutti gli miei membri e ciascun globo tutto quello
che è in esso: come è dire, ognuno è ricco a cui non manca nulla di quel ch'ha.
Sestodecimo, da quel, che in ogni modo l'efficiente infinito sarrebe deficiente senza
l'effetto e non possiamo capir che tale effetto solo sia lui medesimo. Al che si aggiunge
che per questo, se fusse o se è, niente si toglie di quel che deve essere in quello che
è veramente effetto, dove gli teologi nominano azione ad extra e transeunte, oltre la
immanente; perché cossì conviene che sia infinita l'una come l'altra. |
Decimo settimo, da quel, che, dicendo il
mondo interminato, nel modo nostro séguita quiete nell'intelletto, e dal contrario sempre
innumerabilmente difficultadi ed inconvenienti. Oltre, si replica quel ch'è detto nel
secondo e terzo. Decimo ottavo, da quel che, se il mondo è sferico, è figurato, è
terminato, e quel termine che è oltre questo terminato e figurato (ancor che ti piaccia
chiamarlo niente), è anco figurato di sorte che il suo concavo è gionto al di costui
convesso; perché onde comincia quel tuo niente è una concavità indifferente almeno
dalla convessitudinale superficie di questo mondo. Decimo nono, s'aggiunge a quel che è
stato detto nel secondo. Ventesimo, si replica quello che è stato detto nel decimo. |
Nella seconda parte di questo dialogo,
quello ch'è dimostrato per la potenza passiva de l'universo, si mostra per l'attiva
potenza de l'efficiente, con più raggioni: de le quali la prima si toglie da quel, che la
divina efficacia non deve essere ociosa; e tanto più ponendo effetto extra la propria
sustanza (se pur cosa gli può esser extra), e che non meno è ociosa ed invidiosa
producendo effetto finito che producendo nulla. La seconda da la prattica, perché per il
contrario si toglie la raggione della bontade e grandezza divina, e da questo non séguita
inconveniente alcuno contra qualsivoglia legge e sustanza di teologia. La terza è
conversiva con la duodecima de la prima parte; e si apporta la differenza tra il tutto
infinito e totalmente infinito. La quarta, da che non meno per non volere che per non
possere la omnipotenza vien biasimata d'aver fatto il mondo finito e di essere agente
infinito circa suggetto finito. La quinta induce che, se non fa il mondo infinito, non lo
può fare; e se non ha potenza di farlo infinito, non può aver vigore di conservarlo in
infinito; e che, se lui secondo una raggione è finito, viene ad essere finito secondo
tutte le raggioni, perché in lui ogni modo è cosa, e ogni cosa e modo è uno e medesimo
con l'altra e l'altro. La sesta è conversiva de la decima de la prima parte. E s'apporta
la causa per la quale gli teologi defendeno il contrario non senza espediente raggione, e
de l'amicizia tra questi dotti e gli dotti filosofi. |
La settima, dal proponere la raggione che
distingue la potenza attiva da l'azioni diverse, e sciorre tale argumento. Oltre, si
mostra la potenza infinita intensiva- ed estensivamente più altamente che la comunità di
teologi abbia giamai fatto. La ottava, da onde si mostra che il moto di mondi infiniti non
è da motore estrinseco ma da la propria anima, e come con tutto ciò sia un motore
infinito. La nona, da che si mostra come il moto infinito intensivamente si verifica in
ciascun de' mondi. Al che si deve aggiongere che da quel, che un mobile insieme insieme si
muove ed è mosso, séguita che si possa vedere in ogni punto del circolo che fa col
proprio centro; ed altre volte sciorremo questa obiezione, quando sarà lecito d'apportar
la dottrina più diffusa. |
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Argomento del secondo dialogo
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Séguita la
medesima conclusione il secondo dialogo. Ove, primo, apporta quattro raggioni, de quali la
prima si prende da quel, che tutti gli attributi de la divinità sono come ciascuno. La
seconda, da che la nostra imaginazione non deve posser stendersi più che la divina
azione. La terza, da l'indifferenza de l'intelletto ed azion divina, e da che non meno
intende infinito che finito. La quarta, da che, se la qualità corporale ha potenza
infinita attiva, la qualità, dico, sensibile a noi, or che sarà di tutta che è in tutta
la potenza attiva e passiva absoluta? Secondo, mostra da che cosa corporea non può esser
finita da cosa incorporea, ma o da vacuo o da pieno; ed in ogni modo estra il mondo è
spacio, il quale al fine non è altro che materia e l'istessa potenza passiva, dove la non
invida ed ociosa potenza attiva deve farsi in atto. E si mostra la vanità dell'argomento
d'Aristotele dalla incompossibilità delle dimensioni. Terzo, se insegna la differenza che
è tra il mondo e l'universo, perché chi dice l'universo infinito uno, necessariamente
distingue tra questi dui nomi. Quarto, si apportano le raggioni contrarie, per le quali si
stima l'universo finito: dove Elpino referisce le sentenze tutte di Aristotele, e Filoteo
le va essaminando. Quelle sono tolte altre dalla natura di corpi semplici, altre da la
natura di corpi composti; e si mostra la vanità di sei argumenti presi dalla definizione
de gli moti che non possono essere in infinito, e da altre simili proposizioni, le quali
son senza proposito e supposito, come si vede per le nostre raggioni. Le quali più
naturalmente faran vedere la raggione de le differenze e termino di moto, e, per quanto
comporta l'occasione e loco, mostrano la più reale cognizione dell'appulso grave e lieve;
perché per esse mostramo come il corpo infinito non è grave né lieve, e come il corpo
finito riceve differenze tali, e come non. Ed indi si fa aperta la vanità de gli
argomenti di Aristotele, il quale, argumentando contra quei che poneno il mondo infinito,
suppone il mezzo e la circonferenza, e vuole che nel finito o infinito la terra ottegna il
centro. In conclusione, non è proposito grande o picciolo che abbia amenato questo
filosofo per destruggere l'infinità del mondo, tanto dal primo libro Del cielo e mondo
quanto dal terzo De la fisica ascoltazione, circa il quale non si discorra assai più che
a bastanza. |
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Argomento del terzo dialogo
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Nel terzo dialogo
primieramente si niega quella vil fantasia della figura, de le sfere e diversità di
cieli; e s'affirma uno essere il cielo, che è uno spacio generale ch'abbraccia
gl'infiniti mondi; benché non neghiamo più, anzi infiniti cieli, prendendo questa voce
secondo altra significazione; per ciò che come questa terra ha il suo cielo, che è la
sua regione nella quale si muove e per la quale discorre, cossì ciascuna di tutte l'altre
innumerabili. Si manifesta onde sia accaduta la imaginazione di tali e tanti mobili
deferenti e talmente figurati che abbiano due superficie esterne ed una cava interna; ed
altre ricette e medicine che dànno nausea ed orrore agli medesimi che le ordinano e le
esequiscono, e a que' miseri che se le inghiottiscono. |
Secondo, si avertisce che il moto
generale e quello de gli detti eccentrici e quanti possono riferirse al detto firmamento,
tutti sono fantastici: che realmente pendeno da un moto che fa la terra con il suo centro
per l'ecliptica e quattro altre differenze di moto che fa circa il centro de la propria
mole. Onde resta, che il moto proprio di ciascuna stella si prende da la differenza che si
può verificare suggettivamente in essa come mobile da per sé per il campo spacioso. La
qual considerazione ne fa intendere, che tutte le raggioni del mobile e moto infinito son
vane e fondate su l'ignoranza del moto di questo nostro globo. Terzo, si propone come non
è stella che non si muova come questa ed altre che, per essere a noi vicine, ne fanno
conoscere sensibilmente le differenze locali di moti loro; ma che altrimente se muoveno
gli soli che son corpi dove predomina il foco, altrimente le terre ne le quali l'acqua è
predominante; e quindi si manifesta onde proceda il lume che diffondeno le stelle, de
quali altre luceno da per sé altre per altro. |
Quarto, in qual maniera corpi
distantissimi dal sole possano equalmente come gli più vicini partecipar il caldo; e si
riprova la sentenza attribuita ad Epicuro, come che vuole un sole esser bastante
all'infinito universo; e s'apporta la vera differenza tra quei astri che scintillano e
quei che non. Quinto s'essamina la sentenza del Cusano circa la materia ed abitabilità di
mondi e circa la raggion del lume. Sesto, come di corpi, benché altri sieno per sé
lucidi e caldi, non per questo il sole luce al sole e la terra luce alla medesima terra ed
acqua alla medesima acqua; ma sempre il lume procede dall'apposito astro, come
sensibilmente veggiamo tutto il mar lucente da luoghi eminenti, come da monti; ed essendo
noi nel mare, e quando siamo ne l'istesso campo, non veggiamo risplendere se non quanto a
certa poca dimensione il lume del sole e della luna ne si oppone. Settimo, si discorre
circa la vanità delle quinte essenze: e si dechiara che tutti corpi sensibili non sono
altri e non costano d'altri prossimi e primi principii che questi, che non sono altrimente
mobili tanto per retto quanto per circulare. Dove tutto si tratta con raggioni più
accomodate al senso commune, mentre Fracastorio s'accomoda all'ingegno di Burchio; e si
manifesta apertamente che non è accidente che si trova qua che non si presuppona là,
come non è cosa che si vede di là da qua, la quale, se ben consideriamo, non si veda di
qua da là; e conseguentemente, che quel bell'ordine e scala di natura è un gentil sogno
ed una baia da vecchie ribambite. Ottavo, che, quantunque sia vera la distinzione de gli
elementi, non è in nessun modo sensibile o intelligibile tal ordine di elementi quale
volgarmente si pone; e secondo il medesimo Aristotele, gli quattro elementi sono
equalmente parti o membri di questo globo, se non vogliamo dire che l'acqua eccede; onde
degnamente gli astri son chiamati or acqua or fuoco tanto da veri naturali filosofi quanto
da profeti divini e poeti; li quali, quanto a questo, non favoleggiano né
metaforicheggiano, ma lasciano favoleggiare ed impuerire quest'altri sofossi. Cossì li
mondi se intendeno essere questi corpi eterogenei, questi animali, questi grandi globi,
dove non è la terra grave più che gli altri elementi, e le particelle tutte si muoveno e
cangiano di loco e disposizione non altrimente che il sangue ed altri umori e spiriti e
parte minime, che fluiscono, refluiscono, influiscono ed effluiscono in noi ed altri
piccioli animali. A questo proposito s'amena la comparazione, per la quale si trova che la
terra, per l'appulso al centro de la sua mole, non si trova più grave che altro corpo
semplice che a tal composizion concorre; e che la terra da per sé non è grave né
ascende né discende; e che l'acqua è quella che fa l'unione, densità, spessitudine e
gravità. |
Nono, da che è visto il famoso ordine
de gli elementi vano, s'inferisce la raggione di questi corpi sensibili composti che, come
tanti animali e mondi, sono nel spacioso campo che è l'aria o cielo o vacuo. Ove son
tutti que' mondi che non meno contegnono animali ed abitatori che questo contener possa,
atteso che non hanno minor virtù né altra natura. Decimo, dopo che è veduto come
sogliano disputar gli pertinacemente additti ed ignoranti di prava disposizione, si fa
oltre manifesto in che modo per il più delle volte sogliono conchiudere le disputazioni;
benché altri sieno tanto circonspetti che, senza guastarsi punto, con un ghigno, con un
risetto, con certa modesta malignità, quel che non vagliono aver provato con raggioni né
lor medesimi possono donarsi ad intendere, con queste artecciuole di cortesi dispreggi, la
ignoranza in ogni altro modo aperta vogliono non solo cuoprire, ma rigettarla al dorso
dell'antigonista; perché non vegnono a disputar per trovare o cercar la verità, ma per
la vittoria e parer più dotti e strenui defensori del contrario. E simili denno essere
fuggiti da chi non ha buona corazza di pazienza. |
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Argomento del quarto dialogo
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Nel seguente
dialogo prima si replica quel ch'altre volte è detto, come sono infiniti gli mondi, come
ciascun di quelli si muova e come sia formato. Secondo, nel modo con cui, nel secondo
dialogo, si sciolsero le raggioni contra l'infinita mole o grandezza de l'universo, dopo
che nel primo con molte raggioni fu determinato l'inmenso effetto dell'inmenso vigore e
potenza; al presente, dopo che nel terzo dialogo è determinata l'infinita moltitudine de
mondi, si scioglieno le molte raggioni d'Aristotele contro quella, benché altro
significato abbia questa voce mondo appresso Aristotele, altro appresso Democrito, Epicuro
ed altri. |
Quello dal moto naturale e violento, e
raggioni de l'uno e l'altro che son formate da lui, vuole che l'una terra si derrebe
muovere a l'altra; e con risolvere queste persuasioni prima, si poneno fondamenti di non
poca importanza per veder gli veri principii della natural filosofia. Secondo, si dechiara
che, quantunque la superficie d'una terra fusse contigua a l'altra, non averrebe che le
parti de l'una si potessero muovere a l'altra, intendendo de le parti eterogenee o
dissimilari, non de gli atomi e corpi semplici; onde si prende lezione di meglio
considerare circa la natura del grave e lieve. Terzo, per qual caggione questi gran corpi
sieno stati disposti da la natura a tanta distanza, e non sieno più vicini gli uni e gli
altri, di sorte che da l'uno si potesse far progresso a l'altro; e quindi, da chi
profondamente vede, si prende raggione per cui non debbano esser mondi come nella
circonferenza dell'etere, o vicini al vacuo tale in cui non sia potenza, virtù ed
operazione; perché da un lato non potrebono prender vita e lume. Quarto, come la distanza
locale muta la natura del corpo, e come non; ed onde sia che, posta una pietra
equidistante da due terre, o si starebbe ferma, o determinarebbe di moversi più tosto a
l'una che a l'altra. Quinto, quanto s'inganni Aristotele per quel che in corpi, quantunque
distanti, intende appulso di gravità o levità de l'uno all'altro; ed onde proceda
l'appetito di conservarsi nell'esser presente, quantunque ignobile, ne le cose: il quale
appetito è causa della fuga e persecuzione. Sesto, che il moto retto non conviene né
può esser naturale a la terra o altri corpi principali, ma a le parti di questi corpi che
a essi da ogni differenza di loco, se non son molto discoste, si muoveno. Settimo, da le
comete si prende argomento che non è vero che il grave, quantunque lontano, abbia appulso
o moto al suo continente. La qual raggione corre non per gli veri fisici principii, ma
dalle supposizioni della filosofia d'Aristotele, che le forma e compone da le parti che
sono vapori ed exalazioni de la terra. Ottavo, a proposito d'un altro argomento, si mostra
come gli corpi semplici, che sono di medesima specie in altri mondi innumerabili,
medesimamente si muovano; e qualmente la diversità numerale pone diversità de luoghi, e
ciascuna parte abbia il suo mezzo e si referisca al mezzo commune del tutto; il quale
mezzo non deve essere cercato nell'universo. Nono, si determina che gli corpi e parti di
quelli non hanno determinato su e giù, se non in quanto che il luogo della conversazione
è qua o là. Decimo, come il moto sia infinito, e qual mobile tenda in infinito ed a
composizioni innumerabili, e che non perciò séguita gravità o levità con velocità
infinita; e che il moto de le parti prossime, in quanto che serbino il loro essere, non
può essere infinito; e che l'appulso de parti al suo continente non può essere se non
infra la regione di quello. |
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Argomento del quinto dialogo
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Nel principio del
quinto dialogo si presenta un dotato di più felice ingegno; il qual, quantunque nodrito
in contraria dottrina, per aver potenza di giudicar sopra quello ch'ave udito e visto,
può far differenza tra una ed un'altra disciplina, e facilmente si rimette e corregge. Si
dice chi sieno quei a' quali Aristotele pare un miracolo di natura, atteso che coloro che
malamente l'intendeno e hanno l'ingegno basso, magnificamente senteno di lui. Perché
doviamo compatire a simili, e fuggir la lor disputazione, per ciò che con essi non vi è
altro che da perdere. |
Qua Albertino, nuovo interlocutore, apporta
dodici argumenti, ne li quali consiste tutta la persuasione contraria alla pluralità e
moltitudine di mondi. Il primo si prende da quel, che estra il mondo non s'intende loco
né tempo né vacuo né corpo semplice, né composto. Il secondo, da l'unità del motore.
Il terzo, da luoghi de corpi mobili. Il quarto, dalla distanza de gli orizonti dal mezzo.
Il quinto, dalla contiguità de più mondi orbiculari. Il sesto, da spacii triangulari che
causano con il suo contatto. Il settimo, dall'infinito in atto, che non è, e da un
determinato numero, che non è più raggionevole che l'altro. Da la qual raggione noi
possiamo non solo equalmente, ma e di gran vantaggio inferire, che per ciò il numero non
deve essere determinato, ma infinito. L'ottavo, dalla determinazione di cose naturali e
dalla potenza passiva de le cose, la quale alla divina efficacia ed attiva potenza non
risponde. Ma qua è da considerare che è cosa inconvenientissima, che il primo ed
altissimo sia simile ad uno ch'ha virtù di citarizare e, per difetto ci citara, non
citareggia; e sia uno che può fare, ma non fa, perché quella cosa che può fare, non
può esser fatta da lui. Il che pone una più che aperta contradizione, la quale non può
essere non conosciuta, eccetto che da quei che conoscono niente. Il nono dalla bontà
civile che consiste nella conversazione. Il decimo, da quel, che per la contiguità d'un
mondo con l'altro séguita, che il moto de l'uno impedisca il moto de l'altro. L'undecimo,
da quel, che, se questo mondo è compìto e perfetto, non è dovero che altro o altri se
gli aggiunga o aggiungano. |
Questi son que' dubii e motivi, nella
soluzion delli quali consiste tanta dottrina, quanta sola basta a scuoprir gl'intimi e
radicali errori de la filosofia volgare ed il pondo e momento de la nostra. Ecco qua la
raggione, per cui non doviam temere che cosa alcuna diffluisca, che particolar veruno o si
disperda o veramente inanisca o si diffonda in vacuo che lo dismembre in adni[c]hilazione.
Ecco la raggion della mutazion vicissitudinale del tutto, per cui cosa non è di male da
cui non s'esca, cosa non è di buono a cui non s'incorra, mentre per l'infinito campo, per
la perpetua mutazione, tutta la sustanza persevera medesima ed una. Dalla qual
contemplazione, se vi sarremo attenti, avverrà che nullo strano accidente ne dismetta per
doglia o timore, e nessuna fortuna per piacere o speranza ne estoglia: onde aremo la via
vera alla vera moralità, saremo magnanimi, spreggiatori di quel che fanciulleschi
pensieri stimano; e verremo certamente più grandi che que' dei che il cieco volgo adora,
perché dovenerremo veri contemplatori dell'istoria de la natura, la quale è scritta in
noi medesimi, e regolati executori delle divine leggi, che nel centro del nostro core son
inscolpite. Conosceremo che non è altro volare da qua al cielo che dal cielo qua, non
altro ascendere da qua là che da là qua, né è altro descendere da l'uno a l'altro
termine. Noi non siamo più circonferenziali a essi che essi a noi; loro non sono più
centro a noi che noi a loro; non altrimente calcamo la stella e siamo compresi noi dal
cielo, che essi loro. |
Eccone, dunque, fuor d'invidia; eccone
liberi da vana ansia e stolta cura di bramar lontano quel tanto bene che possedemo vicino
e gionto. Eccone più liberi dal maggior timore che loro caschino sopra di noi, che messi
in speranza che noi caschiamo sopra di loro; perché cossì infinito aria sustiene questo
globo come quelli, cossì questo animale libero per il suo spacio discorre ed ottiene la
sua reggione come ciascuno di quegli altri per il suo. Il che considerato e compreso che
arremo, oh a quanto più considerare e comprendere ne diportaremo! Onde per mezzo di
questa scienza otteneremo certo quel bene, che per l'altre vanamente si cerca. |
Questa è quella filosofia che apre
gli sensi, contenta il spirto, magnifica l'intelletto e riduce l'uomo alla vera
beatitudine che può aver come uomo, e consistente in questa e tale composizione; perché
lo libera dalla sollecita cura di piaceri e cieco sentimento di dolori, lo fa godere
dell'esser presente, e non più temere che sperare del futuro; perché la providenza o
fato o sorte, che dispone della vicissitudine del nostro essere particolare, non vuole né
permette che più sappiamo dell'uno che ignoriamo dell'altro, alla prima vista e primo
rancontro rendendoci dubii e perplessi. Ma mentre consideramo più profondamente l'essere
e sustanza di quello in cui siamo inmutabili, trovaremo non esser morte, non solo per noi,
ma né per veruna sustanza; mentre nulla sustanzialmente si sminuisce, ma tutto, per
infinito spacio discorrendo, cangia il volto. E perché tutti soggiacemo ad ottimo
efficiente, non doviamo credere, stimare e sperare altro, eccetto che come tutto è da
buono; cossì tutto è buono, per buono ed a buono; da bene, per bene, a bene. Del che il
contrario non appare se non a chi non apprende altro che l'esser presente, come la beltade
dell'edificio non è manifesta a chi scorge una minima parte di quello, come un sasso, un
cemento affisso, un mezzo parete; ma massime a colui che può vedere l'intiero e che ha
facultà di far conferenza di parti a parti. Non temiamo che quello che è accumulato in
questo mondo, per la veemenza di qualche spirito errante o per il sdegno di qualche
fulmineo Giove, si disperga fuor di questa tomba o cupola del cielo, o si scuota ed
emuisca come in polvere fuor di questo manto stellifero; e la natura de le cose non
altrimente possa venire ad inanirsi in sustanza, che alla apparenza di nostri occhi
quell'aria ch'era compreso entro la concavitade di una bolla, va in casso; perché ne è
noto un mondo, in cui sempre cosa succede a cosa senza che sia ultimo profondo, da onde,
come da la mano del fabro, irreparabilmente emuiscano in nulla. Non sono fini, termini,
margini, muraglia che ne defrodino e suttragano la infinita copia de le cose. Indi feconda
è la terra ed il suo mare; indi perpetuo è il vampo del sole, sumministrandosi
eternamente esca a gli voraci fuochi ed umori a gli attenuati mari; perché dall'infinito
sempre nova copia di materia sottonasce. Di maniera che megliormente intese Democrito ed
Epicuro che vogliono tutto per infinito rinovarsi e restituirsi, che chi si forza di
salvare eterno la costanza de l'universo, perché medesimo numero a medesimo numero sempre
succeda e medesime parti di materia con le medesime sempre si convertano. Or provedete,
signori astrologi, con li vostri pedissequi fisici, per que' vostri cerchi che vi
discriveno le fantasiate nove sfere mobili; con le quali venete ad impriggionarvi il
cervello di sorte che me vi presentate non altrimente che come tanti papagalli in gabbia,
mentre raminghi vi veggio ir saltellando, versando e girando entro quelli. Conoscemo che
sì grande imperatore non ha sedia sì angusta, sì misero solio, sì arto tribunale, sì
poco numerosa corte, sì picciolo ed imbecille simulacro, che un fantasma parturisca, un
sogno fracasse, una mania ripare, una chimera disperda, una sciagura sminuisca, un
misfatto ne toglia, un pensiero ne restituisca; che con un soffio si colme e con un sorso
si svode; ma è un grandissimo ritratto, mirabile imagine, figura eccelsa, vestigio
altissimo, infinito ripresentante di ripresentato infinito, e spettacolo conveniente
all'eccellenza ed eminenza di chi non può esser capito, compreso, appreso. Cossì si
magnifica l'eccellenza de Dio, si manifesta la grandezza de l'imperio suo: non si
glorifica in uno, ma in soli innumerabili: non in una terra, un mondo, ma in diececento
mila, dico in infiniti. Di sorte che non è vana questa potenza d'intelletto, che sempre
vuole e puote aggiungere spacio a spacio, mole a mole, unitade ad unitade, numero a
numero, per quella scienza che ne discioglie da le catene di uno angustissimo, e ne
promove alla libertà d'un augustissimo imperio, che ne toglie dall'opinata povertà ed
angustia alle innumerevoli ricchezze di tanto spacio, di sì dignissimo campo, di tanti
coltissimi mondi; e non fa che circolo d'orizonte, mentito da l'occhio in terra e finto da
la fantasia nell'etere spacioso, ne possa impriggionare il spirto sotto la custodia d'un
Plutone e la mercé d'un Giove. Siamo exempti da la cura d'un tanto ricco possessore e poi
tanto parco, sordido ed avaro elargitore, e dalla nutritura di sì feconda e
tuttipregnante e poi sì meschina e misera parturiscente natura. |
Altri molti sono i degni ed onorati
frutti che da questi arbori si raccoglieno, altre le messe preciose e desiderabili che da
questo seme sparso riportar si possono. Le quali, per non più importunamente sollecitar
la cieca invidia de gli nostri adversarii, non ameniamo a mente, ma lasciamo comprendere
dal giudizio di quei che possono comprendere e giudicare. Li quali, da per se medesimi,
potranno facilmente a questi posti fondamenti sopraedificar l'intiero edificio de la
nostra filosofia; gii cui membri, se cossì piacerà a chi ne governa e muove, e se
l'incominciata impresa non ne verrà interrotta, ridurremo alla tanto bramata perfezione,
a fine che quello, che è seminato ne gli dialogi De la causa, principio ed uno, per altri
germoglie, per altri cresca, per altri si mature, per altri, mediante una rara mietitura,
ne addite e, per quanto è possibile, ne contente; mentre (avendolo sgombrato de le
veccie, de gli lolii e de le raccolte zizanie) di frumento meglior che possa produr
terreno de la nostra coltura, verremo ad colmar il magazzino de studiosi ingegni. |
Tra tanto, benché son certo che
non è bisogno de lo raccomandarvi, non lasciarò pure, per far parte del debito mio, di
procurar che vi sia veramente raccomandato quello che non intrattenete tra vostri
familiari come uomo di cui avete bisogno, ma come persona che ha bisogno di voi per tante
e tante caggioni che vedete; considerando che, per aver appresso di voi tanti che vi
serveno, non siete differente da plebei, borsieri e mercanti; ma, per aver alcunamente
degno che da voi sia promosso, difeso ed aggiutato, sète, come sempre vi siete mostrato e
fuste, conforme a' principi magnanimi, eroi e Dei, li quali hanno ordinati pari vostri per
la difesa de gli loro amici. E vi ricordo quel che so che non bisogna ricordarvi: che non
potrete al fine esser tanto stimato dal mondo e gratificato da Dio, per essere amato e
rispettato da principi quantosivoglia grandi de la terra, quanto per amare, difendere e
conservare un di simili. Perché non è cosa che quelli che con la fortuna vi son
superiori, possono fare a voi che molti di lor superate con la virtude, che possa durare
più che gli vostri pareti e tapezzarie; ma tal cosa voi possete fare ad altri, che
facilmente vegna scritta nel libro dell'eternitade, o sia quello che si vede in terra o
sia quell'altro che si crede in cielo: atteso che quanto che ricevete da altri, è
testimonio de l'altrui virtute, ma il tanto che fate ad altro, è segno ed indizio
espresso de la vostra. Vale. |