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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

FOSCA

Di: Iginio Ugo Tarchetti

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XXXI

Pochi giorni dopo la guarigione di Fosca, io ero già quasi considerato nella sua casa come una persona di famiglia. Ella aveva saputo trattenermi sí accortamente presso di sé, la sua immaginazione era stata sí feconda di pretesti a questo scopo, che suo cugino, lungi dall’adontarsene, aveva trovato questa intimità naturalissima e me ne sapeva grado come di una cortesia. Egli era un uomo semplice e debole. Benché la bruttezza, e piú ancora la malattia di Fosca, rendessero impossibile e quasi assurdo ogni sospetto di rapporti amorosi tra noi, le imprudenze di lei erano state tante e sí gravi, che avrebbe pur dovuto avvedersene. Nell’affetto sincero e quasi paterno che egli nutriva per sua cugina, era invece felice di quella specie di sollievo che pareva recarle la mia compagnia, lieto di quell’interesse che io sembrava prendere alle sue sventure.

Egli mi lasciava solo con lei nella sua camera, d’onde io non usciva spesso che oltre la mezzanotte. Non sospettava neppure che altri avrebbero potuto sospettare. La sua fiducia non aveva limiti. Quella cecità provvidenziale che la natura ha dato ai mariti e agli amanti, era in lui sí piena, che ove io avessi amato quella donna, avrei potuto abusare della sua fede colla maggiore sicurezza possibile. Né oso dire ora quanto mi affliggessi di quell’abuso parziale che era costretto a farne. Questo cruccio era una delle amarezze piú acerbe di quell’affetto; poiché, quasi non avesse bastato a torturare la mia coscienza il conoscerlo sí leale e sí ingenuo, egli mi aveva fatto alcune confidenze che mi avevano potuto dare una misura della stima altissima in cui teneva il mio carattere. Mi aveva raccontata tutta la vita di Fosca, quale io l’aveva appresa da lei, e mi aveva parlato con dolore dell’affanno in cui lo poneva il pensiero delle sue angoscie intime e della sua salute incurabile.

— Questa spina — mi aveva egli detto sovente con quel suo linguaggio rozzo, ma schietto ed affettuoso — è ciò che non mi lascia avere un’ora in pace. Non v’è cosa sí fuori di posto come una donna che viva con un soldato. Portarla di qua, portarla di là… co’ suoi nervi, ella che non ha piú salute di un invalido! Se un soldato potesse avere una casa propria come gli altri galantuomini, meno male; ma noi siamo invece condannati a girare di paese in paese come il giudeo che ha dato lo schiaffo al Signore. Quando ci penso, mi accapiglierei con Domeneddio. Farci brutti e senza salute, vada; ma lasciarci soli e senza una gioia al mondo, è troppo. I libri poi hanno finito di rovinarla. Al diavolo i libri! Per me li ho sempre avuti cari come uno stecco in un occhio. — Voi avete molta pazienza con lei, ve ne ringrazio. Voi siete un giovine dabbene, un giovine intelligente, e la vostra compagnia le piace. Vi ammiro; quando aveva la vostra età non aveva un’oncia della vostra calma, e dirò anche del vostro giudizio. Non vi faccio altri elogi, perché gli elogi sono della natura del vino — ubbriacano. Ho stima di voi, e potendolo, sarei felice di giovarvi. Ecco tutto.

E mi stringeva la mano con calore; e mercè quella sicurezza che ci dava la sua stessa intimità, rafforzava egli medesimo, senza saperlo, quei vincoli segreti che mi legavano a Fosca.

Se io ho dovuto tradire la nobile fiducia di quell’uomo, e compensarla piú tardi d’ingratitudine, il cielo mi è testimonio della inesorabile fatalità che mi ha trascinato a farlo. Egli sa che di tutte le amarezze che mi provennero da questo amore sciagurato, quella fu la piú vera e la piú profonda.

XXXII

Fosca ed io vivevamo quasi uniti come due amanti. Se io avessi potuto amarla, sentire veramente per essa ciò che la sola pietà m’induceva a fingere di sentire, nessuna donna avrebbe potuto essere piú felice di lei. Perché nessun’altra avrebbe potuto amare piú intensamente. Lo stesso affetto di Clara non era né sí assoluto, né sí profondo; non aveva né la forza, né l’abbandono, né la continuità, né la voluttuosa mollezza del suo. La natura di Fosca era stata in ciò privilegiata. Se il cielo le aveva negato la bellezza, lo aveva forse fatto per temperare, col difetto di questa, l’esuberanza pericolosa di quella.

Oltre a ciò, ella pensava, agiva, amava come una persona inferma. Tutto era eccezionale nella sua condotta, tutto era contraddittorio; la sua sensibilità era sí eccessiva, che le sue azioni, i suoi affetti, i suoi piaceri, i suoi timori, tutto era subordinato alle circostanze le piú inconcludenti della sua vita d’ogni giorno. In una sola cosa era costante, nell’amare e nel contraddirsi, quantunque nelle sue stesse contraddizioni vi fosse qualche cosa di ordinato e di coerente, e nel suo amore un non so che di oscuro e di mutabile che non ne lasciava comprendere la natura e lo scopo. Era ben certo che in fondo a tutto ciò vi era un carattere, ma si poteva meglio indovinarlo che dirlo.

Passavamo quasi tutta la giornata assieme. Al mattino la vedeva da sola come prima; alla sera suo cugino si tratteneva qualche ora con noi; poi finiva coll’uscire e col lasciarci soli da capo. Spesso Fosca teneva il letto, e io vegliava al suo capezzale gran parte della notte. Era impossibile ribellarsi a quelle esigenze, impossibile allontanarsi da lei un istante piú presto di ciò che era inesorabilmente necessario, o lasciarle apparire soltanto l’affanno in cui mi poneva quel sacrificio.

Ciò avrebbe bastato a provocare qualche accesso terribile. Era cosa avvenutami qualche volta nei primi giorni della nostra relazione, e n’era rimasto sí atterrito che mi sarei assoggettato a qualunque gravissima prova per evitarlo.

Durante quelle sue convulsioni io temeva che ella morisse, e mi sentiva rabbrividire a questo pensiero, giacché se ciò fosse avvenuto ne sarei stato io la causa. L’abitudine mi aveva reso in pochi giorni sí rassegnato, che io aveva quasi cessato di credere alla possibilità di sottrarmi a quella tortura. Il timore di ucciderla mi rendeva capace di qualunque sacrificio. Ella mi faceva rimanere vicino al suo letto delle lunghe ore, e nelle posizioni le piú penose; o col capo sul guanciale, o colle mani intrecciate colle sue, o col viso rivolto verso la luce perché potesse vedermi bene. Mi conveniva chiudere gli occhi, aprirli, fingere di dormire, sorridere, parlare, tacere, alzarmi, passeggiare, tornarmi a sedere, secondo che ella mi diceva di fare. Una disubbidienza commessa con garbo poteva farla sorridere, ma un atto dispettoso poteva avere conseguenze fatali. Quando era malata molto, i miei tormenti divenivano ancora maggiori. Ella aveva degli eccessi di tristezza e di disperazione veramente spaventevoli. La pietà che ne sentiva mi lacerava il cuore. Spesso era assalita da emicranie sí violente che ne diventava come pazza. Si lacerava i capelli, e tentava di percuotere la testa alla parete. In mezzo a quelle sue urla, a quei suoi spasimi, non si dimenticava però di me; mi avvinghiava tra le sue braccia con forza, quasi avesse voluto cercar salvezza sul mio seno, e non mi lasciava libero se non quando i suoi dolori l’avevano abbandonata. Io rimaneva tra le sue braccia, inerte, muto, inorridito, cogli occhi chiusi per non vederne il volto, atterrito dal pensiero che una mia imprudenza avrebbe provocato in lei quelle convulsioni, durante le quali avrebbe potuto tradire inconsciamente il nostro segreto. Nei pochi momenti di calma le leggeva qualche libro, o parlavamo del nostro passato; e io mostrava di metter fede e interesse nei progetti strani e impossibili che ella formava pel suo avvenire. Allora ella era spesso ragionevole, spesso anche amabile, sempre buona; il suo dire era sí aggraziato, sí facile, e le modulazioni della sua voce sí dolci, che a non vederla si poteva rimanere incantati della sua compagnia.

Negl’intervalli di benessere che le lasciavano di quando in quando le sue infermità, era vivace, lieta, qualche volta scherzosa. Alzata, era altra donna. Lo sfarzo dei suoi abiti, i suoi profumi, i fiori di cui riempiva le sue stanze, sembravano metterla in una luce piú serena, e circondarla d’un’atmosfera meno lugubre. Benché que’ suoi acconciamenti sí ricchi dessero maggior risalto alla sua bruttezza, non la rendevano però sí spaventevole. In quei momenti v’era nella sua persona qualche cosa di vivo, di giovane, di voluttuoso che il letto e la malattia non lasciavano apparire.

Passava quasi tutto il giorno in un suo gabinetto dove non riceveva altre persone che suo cugino ed io. V’era colà un ampio divano di velluto turchino, sul quale mi faceva sedere vicino a lei; mi aveva assegnato un posto alla sua destra, ed esigeva che non mi sedessi in altro punto del divano che in quello. Non vedendomi mai che là, diceva ella, poteva, allorché io non v’era, sedersi al suo posto e illudersi di avermi vicino. Spesso mi teneva abbracciato delle lunghe ore, e mi faceva ripetere parola per parola alcune frasi affettuose che né il mio cuore mi avrebbe suggerito, né avrei avuto la forza di dirle. Queste sue follie erano inesauribili come la mia rassegnazione, giacché tutto ciò che avrebbe formato la felicità di un amante, formava invece la mia tortura, né sapeva indurmi a dimostrarglielo. Mi copriva di petali di fiori, mi faceva magiare dei bottoni di rose, o assaggiare le sue medicine che erano quasi sempre amarissime. Talora esigeva che mi mettessi al tavolo, che le scrivessi una lettera amorosa che mi dettava sovente ella stessa. Dopo essersi abbandonata a tutte queste follie, era spesso assalita da una tristezza improvvisa, si buttava a terra in ginocchio, mi diceva di perdonarla, e piangeva. Passava da un eccesso all’altro, ad un tratto, senza cause apparenti; e non aveva alcuna moderazione né ne’ suoi dolori, né nelle sue gioie.

Ciò che mi pareva piú incomprensibile in lei, era che non viveva che di caffè. Non veniva a tavola che per trovarmisi vicina, e per mettere a prova la mia pazienza, facendo passare i suoi piccoli piedi sotto i miei, perché glie li premessi, o pizzicandomi le ginocchia sotto la tovaglia. In quei momenti sapeva che io avrei tollerato tutto, e abusava volentieri di questa sicurezza.

Alla sera facevamo abitualmente una passeggiata in carrozza. La stagione era ancora assai calda, e spesso non uscivamo che sull’imbrunire. Il moto della vettura conciliava sí bene il sonno al colonnello, ed egli era sí felice di sapere che v’era lí io per conversare con sua cugina, che non aveva posto piede sulla predella che era già addormentato. Fosca sembrava trovare maggior piacere in quelle strette di mano e in quei baci che mi dava di sotterfugio in quei momenti. Quella era per lei l’ora piú felice della giornata: il sapere che suo cugino era lí, che io avrei osato dir nulla, oppormi a nulla, rendeva la sua arditezza ancora piú tormentosa. Le sue imprudenze erano in quei momenti senza numero.

In quanto a me non v’erano istanti piú tristi di quelli.

Le strade che percorrevamo erano quasi tutte strade di campagna, strette, solitarie, aperte in mezzo ai vigneti ed ai prati. Era il principio dell’autunno; i grilli, le locuste, le piccole rane delle siepi riempivano l’aria d’una musica piena di dolcezza e di melanconia. Il cielo era quasi sempre sereno e stellato, l’aria impregnata di profumi. In quei momenti avrei voluto pensare a Clara, raccogliermi e dimenticarmi in quel pensiero, ma non era possibile. Fosca mi richiamava inesorabilmente alla realtà della mia situazione.

Ma a che scopo ricordare le angosce di quei giorni? Furono tali dolori che non si possono né immaginare, né dire, né forse sopportare senza soccombervi. La prova che io ho subita fu breve, ed è a ciò soltanto che ho dovuto la mia salvezza. Venti giorni dopo la convalescenza di Fosca, io non aveva già piú né salute, né coraggio, né speranza di sopravvivere e quella sciagura.

XXXIII

Una cosa sovratutto — e la noto qui come quella che può dar ragione dell’abbandono in cui ero caduto, e della sfiducia che s’era impadronita di me — contribuiva ad accrescere il mio dolore: il pensiero fisso, continuo, orrendo, che quella donna volesse trascinarmi con sé nella tomba. Essa doveva morire presto, ciò era evidente. Il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione spaventevole.

XXXIV

Oltre a ciò mi era avveduto assai presto che il nostro amore non era piú un segreto, e che tutto il ridicolo di una simile relazione cadeva sopra di me. Ho detto il ridicolo, giacché per tutti coloro che non conoscevano né i casi, né l’indole di Fosca, tali rapporti non potevano essere che argomento di meraviglia e di riso. È difficile che il mondo attribuisca ad una passione amorosa, altre cause ed altro scopo, tranne quelli che hanno in natura. Né è in inganno, giacché, a dispetto nostro, la stima, il cuore, il sentimento non sono che modi e pretesti per condurci al piacere. L’amore il piú elevato non ha altro fine che quello che ha l’amore il piú ignobile, se non che questo vuol andarvi direttamente, quello per vie illusorie ed obblique. Dare per pietà ciò che si dà per egoismo, è poi sacrificio sí grande e sí raro che pochi o nessuno lo può comprendere.

Fosca aveva una cameriera giovane e bella, fidanzata ad un domestico di suo cugino. Mi era sembrato un giorno che ella mi avesse visto dare un bacio alla sua padrona, nell’istante che attraversava un corridoio nel cui fondo v’era uno specchio che rifletteva l’interno del nostro gabinetto. Non era in errore. Una sera, nel discendere le scale, intesi che ella parlava di me al suo innamorato in una stanzetta attigua al pianerottolo.

Mi arrestai ad origliare.

— Non sai? — gli diceva ella —ora ne sono proprio certa; la signora Fosca fa all’amore col capitano.

— Possibile! Non lo crederei se vedessi.

— Mio caro, io ho veduto, e ci credo.

— Cosa li hai veduti fare?

— A darsi un bacio.

— Lei a lui?

— No, lui a lei.

— Ah! ah! è doppiamente incredibile! quella donna farebbe scappare il diavolo.

— Tutti i diavoli, è addirittura orribile!

— Vorrei poi vederla in camicia.

— Cattivo.

E in mezzo alle loro risa intesi il rumore di un bacio che si erano dati quasi per accertarsi della differenza che vi era fra i loro ed i nostri.

Mi allontanai profondamente ferito nella mia vanità, triste, mortificato.

Ma ciò non era il peggior male; tutte le persone che frequentavano la casa del colonnello se n’erano avvedute; nessuno osava parlarmene, ma il loro contegno me ne assicurava. Piú volte a tavola aveva sorpreso alcuni sorrisi e alcuni sguardi di intelligenza che mi avevano trafitto il cuore. Si rideva di me quasi apertamente, si parlava di quell’amore come di una aberrazione mostruosa. La sola persona che non avesse penetrato questo mistero, era suo cugino.

XXXV

A questo punto io sono tentato di desistere dallo scrivere queste mie memorie, perché comprendo adesso tutta l’impossibilità di farlo come lo richiederebbe l’importanza de’ miei dolori.

La parola — questa pittura del pensiero — non sa ritrarre che le passioni comuni e convenzionali; rende i profili, ma non ha né le luci, né le ombre, non sa mostrare né le profondità, né le salienze; le grandi gioie e i grandi dolori non li sa dire. Le pagine che ometto qui, perché dispero di saper esprimere con verità ciò che ho sofferto, dovrebbero contenere i dettagli piú strazianti di questo racconto. Tutta l’orribilità di quel mio passato fu nei due mesi che trascorsi al fianco di Fosca, ed è ciò che è impossibile raccontare. Mi basta di segnare qui alcune epoche per poter dire piú tardi "fu in quel giorno, fu in quell’ora, fu in quell’istante". Il tempo cancella le date impresse dal tempo, ma quelle che il dolore ha scolpite nei cuori degli uomini non si cancellano mai.

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Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 00:43