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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

FOSCA

Di: Iginio Ugo Tarchetti

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XI

Allorché io giunsi a * * *, nonostante il dolore di quella separazione improvvisa, poteva quasi dirmi felice. Allora io era ancora pieno di fede; era guarito da una malattia che aveva creduto mortale, aveva trovato uomini e cose benigne; e pareva che la fortuna avesse voluto porgermi di nuovo una mano amichevole. Quella prima lettera che di là aveva scritta a Clara, non era che una prova della mia felicità. I miei dolori erano di quelli che sopravanzano in dolcezza tutte le gioie possibili della vita, quelli che intessono i fiori piú belli nella corona della gioventú, la sola età dell’esistenza in cui si sappia veramente amare e soffrire.

La piccola città di * * * — ne taccio il nome perché potrei smarrire queste pagine, e ho caro che niuno conosca il luogo dove ho sofferto, e dove vi è una tomba su cui posso recarmi qualche volta a piangere — è una città angusta e monotona, posta vicino al letto di un fiume quasi sempre asciutto. I dintorni sono una specie di landa, una pianura sabbiosa ed estesissima, tanto poveramente coltivata da non vedervi che pochi olmi tortuosi e pochi filari di gelsi intisichiti. Capitandovi a caso, si crederebbe di aver messo piede in una steppa o in una savana piuttosto che in un lembo di pianura rasente le alpi. Né gli uomini erano allora piú cortesi della natura. Ogni socievolezza, ogni agio della vita, o meglio ogni esuberanza di agio, vi era bandita. Da quella città a Milano corre per lo meno tanto quanto da Milano a Londra. Un villaggio qualunque di Lombardia potrebbe offrire un soggiorno meno sgradevole di quella piccola città, per la cui posizione strategica vi s’era posta la sede di un dipartimento militare.

Alzatomi, e scritta quella lettera a Clara, consumai il resto di quel primo giorno a girovagare per le vie e ad osservare i dintorni monotoni di quel paese. Benché scoprissi in quel deserto una specie di oasi, un vecchio giardino incantevole, doppiamente incantevole perché abbandonato da anni all’opera distruttrice del tempo e a quella liberamente riparatrice della natura, fui lieto dell’esito di quell’esame, che, come ho detto, era non poco sconfortante. Una città fragorosa mi avrebbe distolto da quella passione per cui aveva d’uopo di raccoglimento e di pace; una natura piú ricca mi avrebbe fatto sentire con maggiore intensità il dolore della sua lontananza, giacché le piú belle memorie del nostro affetto si legavano in qualche modo alla natura.

Fui lieto di poter raccogliere e versare in me stesso tutta la mia fiamma, di alimentarla col suo fuoco medesimo, di non poter perdere né menomare alcuna delle sensazioni che avrebbe risvegliata in me l’opera assiduamente attiva di quel pensiero.

Chiudermi in una stanza, e popolarla dei fantasmi del mio amore — era il mio voto. Vivere a me, e a lei. — Vivere solo.

Io comprendeva che le sarei stato tanto piú dappresso, quanto piú mi sarei trovato lontano da ogni altra creatura.

Allora era ancora capace di creare intorno a me dei mondi.

XII

All’indomani mi recai a visitare il colonnello, capo del servizio a cui era stato destinato.

Egli era uomo di circa sessant’anni, esile e piccolo di statura; il suo carattere aveva in sé nulla di forte e di maschio, ma l’abitudine del comando e della disciplina avevano dato ai suoi modi un’impronta francamente energica e militare. Come in gran parte delle nature deboli, quell’assenza di forza era compensata da molta dolcezza d’animo, e da una specie d’ingenuità che rasentava quasi l’ignoranza, tanto era straordinaria in un uomo di quell’età e di quella professione. Aveva indole allegra e vivacissima. Lo si poteva dire un cattivo soldato, ma era un abile matematico, un eccellente disegnatore, espertissimo di tutte le scienze attinenti alla guerra; e, cosa straordinaria in ogni classe d’uomini, doppiamente straordinaria fra militari, era uomo eccezionalmente onesto.

Un’avventura successami due anni prima, per la quale io aveva arrischiata la mia vita con un’estrema temerità, e l’aveva avuta salva in modo singolarissimo — avventura troppo impressa nelle mie memorie, perché mi giovi l’affermarla ora su queste pagine — mi aveva creato nell’esercito una specie di strana reputazione; la mia malattia, i miei casi avevano contribuito a circondare il mio nome di un prestigio in parte lusinghiero, e a risvegliare un interesse affettuoso per la mia persona.

Fu forse a tale prevenzione che io fui debitore dell’accoglienza amichevole che ricevetti dal colonnello.

— Noi ci troviamo qui — diss’egli dopo avermi parlato a lungo di molte cose — come fossimo in un villaggio di Barberia; siamo poco meno che tra i Pellirosse. Dubito se avrete trovato un alloggio dove acconciarvi onestamente e comodamente.

— Sono tuttora all’albergo — io dissi

— All’albergo! E come vi avete mangiato?

— Non so…; parmi pessimamente.

Il colonnello sembrò un poco meravigliato di quel mio dubbio; guardò il suo orologio, e riprese:

— Non mancano che pochi minuti alle cinque. Vi invito a pranzare con me, in mia casa, accettate?

— Accetto — risposi io inchinandomi.

Dopo qualche istante uscimmo.

— Noi facciamo una piccola mensa in famiglia — continuò egli lungo la via. — Propriamente parlando, non posso dire di aver famiglia, ma ho meco una mia parente che ne tiene le veci, benché la poveretta sia di salute cosí cagionevole da darmi piú pensieri che non me ne tolga. È una mensa abbastanza modesta. Qui non vi sono che pessimi elementi di cucina, la verdura sopratutto è demoralizzata; ma almeno vi si mangia, vedrete… Già, alla mia età, il bisogno di un pranzo discreto è inesorabile. Avrete della compagnia; vi vengono due maggiori, un colonnello, un dottore di reggimento, due medici borghesi; siamo in otto in tutto. I medici poi — egli riprese — affluiscono a casa mia come in un ospitale. Mia cugina è la malattia personificata, l’isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso, come si espresse ultimamente un dottore che l’ha visitata. Ve la farò conoscere. Avrei potuto mandarla poco lungi di qui, presso una famiglia che ne avrebbe avuto gran cura, giacché ella è rimasta sola al mondo, ma non so separarmene; a sessant’anni si vive di abitudini; e poi quest’aria morta le giova, e anche questo paese di Pellirosse non le dispiace.

Giungemmo in breve alla sua abitazione.

Il pranzo fu allegro, eccellente, condito di molta maldicenza, di frizzi, e di quelle frasi equivoche e poco castigate che s’ascoltano per solito tra militari.

Vicino a me era un coperto intatto e ne feci l’osservazione.

— È il posto della signora Fosca — mi disse uno dei commensali.

— Di mia cugina; — aggiunse il colonnello — essa tiene il letto sette giorni della settimana, e anche oggi non sta meglio del solito. Mi dispiace che non l’abbiate veduta, è della voracità di una mosca.

Allorché ci fummo alzati da tavola, egli mi si piantò dinanzi colle gambe sparate, e colle mani incrociate dietro la schiena, e mi chiese:

— E cosí, come avete pranzato?

— Ottimamente.

— Davvero?

— Diamine, a meraviglia!

— E che ve ne pare di questo locale?

— Magnifico.

— Di questa nostra società?

— Ne sono lusingato — diss’io.

— Francamente, senza complimenti, da amici — riprese egli drizzandosi e riunendo le sue gambe colla vivacità dello scatto di una molla; e levandosi la mano destra di dietro la schiena, e porgendomela, aggiunse:

— Se volete far parte della nostra mensa, se volete aggregarvi a noi… non avete a temere per la vostra borsa, la base fondamentale della nostra associazione è l’economia. Già… È un sentimento di carità che mi consiglia a farvi questa proposta… E anche di simpatia — continuò porgendomi l’altra mano. — Pensateci bene, noi vi parliamo per esperienza… in questo paese di Pellirosse…

Era un’offerta che non poteva in alcun modo declinare.

Accettai benché a malincuore.

XIII

Conobbi però assai presto che non aveva che a rallegrarmi di questa specie di legame da cui, a primo aspetto, era stato messo un poco in pensiero. I compensi erano maggiori dei danni, la piú schietta cordialità vi temperava le soggezioni della disciplina; e d’altronde il paese offriva realmente nulla. I miei commensali poi erano tutta gente dabbene, un poco millantatori, un poco fatui — difetti di soldato — ma in fondo in fondo onesti e leali.

Se v’era cosa atta a lusingarmi era questa, che tutti erano pieni di benevolenza per me, e gareggiavano nel rendermi qualche servigio. Un medico di reggimento, in special modo, m’aveva posto non poca simpatia, e mi voleva seco assai spesso. Era uomo maturo d’anni e di senno, ma giovine di cuore; in alcune cose, come tutti gli uomini un po’ piú che mediocri, fanciullo; in fatto di princípi, virtú rara tra medici, credente. Non tardai a mettergli affetto io pure; e fu la sola persona che richiedessi e ripagassi d’amicizia in quel luogo.

La cugina del colonnello non s’era ancor fatta vedere. La malattia continuava a trattenerla nelle sue stanze. Io m’era avvezzato già da parecchi giorni a chiederne notizie a suo cugino, e a ripetergli alcune frasi di condoglianza che erano ben lungi dall’esprimere un dispiacimento sentito, giacché era naturale che non potessi molto dolermi de’ suoi mali, non conoscendola; ma l’etichetta ha spesso esigenze ancor piú ridicole.

Il suo posto rimaneva costantemente vuoto, ma nondimeno il suo coperto era sempre apparecchiato; in uno de’ suoi bicchieri v’era tutti i giorni un fiore fresco; e, cosa che mi preoccupava non poco, benché non sapessi immaginare le ragioni — e non ve n’erano — quel posto vacante rimaneva sempre vicino al mio, ora da un lato, ora dall’altro, ma sempre vicino. Ciò mi metteva in pensiero, mi pareva che mi mancasse qualcosa, non mi trovava a mio agio, mi sembrava che essa avrebbe dovuto entrare da un istante all’altro per venirsi a sedere al mio fianco.

Questa preoccupazione era però esclusivamente mia, i miei commensali non si davano alcun pensiero di quell’ammalata, e parevano considerare quello stato di cose come naturalissimo. Tutto al piú si limitavano a dire a fin di tavola:

— Anche oggi la signora ci ha lasciati soli!

Per me trovava strano che ogni giorno si apparecchiasse per lei, e ogni giorno la si aspettasse, come se la sua malattia fosse stata cosa da poterla abbandonare da un’ora all’altra; né avrei osato chiedere spiegazioni al medico, col quale, come ho detto, era già entrato in qualche intimità, se un avvenimento inatteso non mi avesse posto nell’obbligo di farlo.

Un giorno, durante il pranzo, fui colpito da urla acute e strazianti che provenivano dalle stanze della signora. Quelle grida echeggiarono sí fortemente e sí improvvisamente nella nostra camera, che io trasalii, e quasi per istinto feci atto di alzarmi e di voler accorrere in suo aiuto.

Il colonnello sorridendo un po’ tristamente, e stringendomi la mano come per ringraziarmi di quell’intenzione, mi prevenne, e mi disse:

— Non vi sgomentate, è mia cugina, essa patisce di convulsioni nervose, è cosa da nulla, fra pochi minuti le saranno cessate.

Uno dei medici si alzò da tavola un po’ a malincuore, e senza mostrare di darsene molto pensiero, entrò nell’appartamento di Fosca. Le sue cameriere non avevano dimostrato maggior premura di lui. Degli altri commensali nessuno si era mosso, o aveva dato il menomo segno di meraviglia.

A me era stato impossibile frenare la mia emozione. Non solo quelle grida erano orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate, ma io non aveva immaginato mai che vi potesse essere qualche cosa di simile nella voce umana; o essendovi, non mi pareva possibile che l’uomo da cui era uscito una volta un tal grido potesse vivere ancora.

Ho esperimentato, prima e dopo quel giorno, fino a qual limite possa giungere il dolore nella natura umana, e ne ho intese tutte le rivelazioni vocali possibili, ma non mi avvenne mai di sentirlo manifestare con un linguaggio cosí orrendamente spaventoso come quello. Oggi ancora, dopo cinque anni, io risento ne’ miei sogni l’eco di quelle grida terribili.

— Vedo che siete un poco preoccupato da quell’avvenimento — mi disse il medico allorché fummo usciti assieme da quella casa. — Confessate…

— Voi prevenite la mia domanda — interruppi io ansiosamente. — Ne fui commosso nel piú profondo dell’anima; perché dovrei nascondervelo? Non so come non si potesse esserne commossi. Ma che malattia ha dunque quella donna?

— Tutte.

— Tutte! Spiegatevi.

— È una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali possibili. La nostra scienza vien meno nel definirli. Possiamo afferrare un sintomo, un effetto, un risultato particolare, non l’assieme dei suoi mali, non il loro carattere complessivo, né la loro base. Possiamo curarla come empirici, ma non come medici. È una malattia che è fuori della scienza; l’azione dei nostri rimedi è paralizzata da una serie di fenomeni e di complicazioni, che l’arte non può prevedere. E l’arte medica, voi lo sapete, non è che una povera cosa — si va innanzi per induzioni.

— Ma quelle grida? — io dissi.

— Ciò è il meno, convulsioni isteriche. Già… il fondamento de’ suoi mali è l’isterismo, un male di moda nella donna, un’infermità viziosa che ha il doppio vantaggio di provocare e di giustificare. Quella creatura è d’una irritabilità portentosa, ha i nervi scoperti, — (mi ricordo di questa espressione: "i nervi scoperti"). — La menoma contrarietà, il menomo urto bastano a provocare quella catastrofe che oggi vi ha tanto spaventato. Del resto è cosa di tutti i giorni. Fu un caso che non sia piú avvenuta da qualche tempo in quell’ora.

— Suo cugino non sembra però molto impensierito da questo stato di cose.

— È naturale. Non vi è rimedio.

— Ella vi soccomberà dunque presto?

— Non credo, la sua macchina è sí debole che non ha forza di produrre una malattia mortale.

— Strano!

— Ne abbiamo esempi ogni giorno; ogni trionfo è l’effetto di una lotta; occorrono elementi atti a lottare; in un corpo come quello non vi è lotta; tutti quei mali si paralizzano; i forti e i robusti giuocano sempre una partita assai seria colla infermità, i deboli se ne schermiscono. Con una salute come quella si vive spesso fino a ottant’anni.

— È una teoria consolante pei deboli, — io dissi; — ma come ha potuto buscarsi tutti quei mali?

— Nessuno lo sa.

— Il suo passato?

— Lo ignoro.

— È giovine?

— Venticinque anni

(L’età di Clara!)

— È bella?

Il mio amico sorrise con aria di mistero, e si portò un dito alle labbra come per impormi il silenzio.

— Non credete che essa sia l’amante del colonnello?

— Non credo — diss’egli.

E sorrise da capo, e piú vivacemente.

In quell’istante eravamo giunti alla porta della sua casa. Conveniva separarsi.

— La vedrete fra poco — continuò egli — giudicherete voi stesso della sua bellezza. Bisognerà che vi mettiate sulle difese.

E nell’allontanarsi mi ripeté con aria scherzevole:

— Badate al vostro cuore: tenetevi in guardia!

Perché un tale avvertimento e perché offerto in tal guisa?

Non sapeva comprendere il vero significato di quelle parole.

XIV

Era però curiosissimo di conoscere quella donna.

Al domani il colonnello mi aveva detto:

— Mia cugina ha bisogno di voi. Avreste per lei qualche libro di lettura amena, non scientifico; qualche romanzo?— Vedrò di procurargliene alcuni.

— Quella donna divora i libri, è un tarlo da libri, legge come noi fumiamo. Io non so piú a chi raccomandarmi, qui non v’è nemmeno un gabinetto di lettura; in questo paese di Tartari, di Pellirosse…

Gli portai la Nuova Eloisa di Rousseau, l’Uomo singolare e le Confessioni alla tomba di Lafontaine. Mi rimandò subito quest’ultimo, dicendosi spaventata del titolo. Poco dopo ebbi anche gli altri. Nella Nuova Eloisa trovai molti passi controsegnati in margine con matita, e una striscia di carta postavi per segnacolo, su cui vi era scritto da un lato Sursum, e dall’altro Excelsior.

I passi controsegnati rivelavano, assieme alla natura intima dei suoi patimenti, una intelligenza robusta, fina, perspicace. Quella donna aveva dell’ingegno. Ella non poteva essere poco infelice, giacché era capace di conoscere la propria infelicità. Gli infelici ignoranti fruiscono di una propria beatitudine, in confronto dei dottamente infelici. Era naturale che desiderassi ancora piú vivamente conoscerla.

In tutta la mia vita — fosse caso, fosse attrazione — non fui mai circondato che da sventurati; sull’orizzonte della mia gioventú i miei occhi non hanno mai incontrato altro spettacolo che quello desolante della miseria; io stesso non mi sono nutrito che de’ suoi frutti piú amari, e spesso ho dovuto divorarmi il cuore perché non aveva nemmeno quelli; pure non ho mai saputo ribellarmi a questo sentimento di simpatia irresistibile che la natura mi ha posto nell’anima per tutti gli infelici.

Ho trovato sempre un buono in ogni sventurato, un perverso in ogni prospero. In questo dolore immeritato di tanti uomini, ho veduto sempre un segreto di predilezione per parte della Provvidenza, delle fila misteriose che uscivano fuori della vita e si perdevano nell’eternità dell’ignoto. Tutti lo hanno veduto, tutti lo hanno sentito. Se vi è qualche cosa oltre la vita, è pegli infelici. Cristo lo ha detto: "Beati coloro che piangono perché saranno consolati".

XV

Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca.

Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa.

Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, cosí vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, — ché anzi erano in parte regolari, — quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora cosí giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati — occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era ancora qualcosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano cosí naturalmente dolci, cosí spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura piú che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso.

Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tale da difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d’altronde troppo spirito per dissimularlo, e per non rinunziare a quegli artifici, a quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente tutte le donne in presenza d’un uomo.

Me le era presentato da me stesso nell’entrare. Allorché fui seduto a tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza:

— Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di conoscervi, e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po’ prima. Ma come fare? Sono sempre cosí malata!

Fui colpito dalla soavità della sua voce, piú ancora di quanto nol fossi stato dalla sua bruttezza.

— Ora mi sembrate però guarita — risposi io.

— Guarita! — esclamò ella sorridendo — mi pare di no. L’infermità è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero malata? Fu un abuso di parole. Ne faccio sempre. Per esserlo converrebbe che io uscissi dalla normalità di questo stato, che avessi un intervallo di sanità. Ho voluto tenermi chiusa parecchi giorni nella mia stanza, ecco tutto; ne aveva le mie ragioni; ho attraversato un periodo di profonda malinconia.

Vedendo che la conversazione minacciava sí presto di trascinarci nel campo delle confidenze, mi astenni dal risponderle.

— Non sapete — ella riprese dopo un istante di silenzio e con tuono diverso di voce — che quel romanzo di Rousseau mi ha entusiasmata? Ne conosceva il soggetto, e ne aveva avuto sott’occhi alcuni sunti, ma non l’aveva mai letto.

— Avete avuto troppo premura di restituirmelo, è libro che vuol essere meditato.

— È vero, se il meditarvi sopra non fosse cosa pericolosa.

— Parmi anzi utile.

— Utile sí, certamente. Voleva dire pericolosa per la nostra pace, per noi donne, per… me. Vi sono delle letture che mi fanno male.

— Voi sapete — io dissi per tenermi da capo sulle generali — che Rousseau, cosí virtuoso nei suoi libri, ha esposto cinque figliuoli alla ruota di Parigi?

Essa mostrò di non aver compreso quell’artificio; accennò del capo come avesse voluto dire: "Altro è l’uomo, altro le sue opere", e riprese:

— Credo che il meditare sui libri e il rileggerli sia cosa sommamente inutile, anzi sommamente nociva; a meno che in tutta la vita non se ne leggesse che uno solo, e questo fosse tale da instillarci princípi retti e da fortificarvici. Di libri educativi non ve ne può essere che uno, pena la contraddizione, giacché ogni uomo ha vedute opposte, o per lo meno diverse. Il leggere molti libri, il meditare su molti non ha altro effetto che quello di renderci dubbiosi sulle nostre idee, incerti nei nostri pensamenti; non si sa piú a che cosa credere, e spesso si finisce col non credere piú a nulla. Sono convinta che ogni libro che non diverte, fallisce il suo scopo; che ogni libro che fa pensare, nuoce. L’obiettivo d’ogni lavoro letterario dovrebbe essere la fantasia — non la testa che si guasta, non il cuore che sanguina — ma l’immaginazione che si esalta e gioisce. Non avete mai provato l’ebbrezza dell’immaginazione?

— Qualche volta. Ma credete che i suoi piaceri siano innocenti?

— O non vi è innocenza, o lo sono. Credo che possiamo non commettere una colpa, ma non possiamo non immaginarla. Non vi è azione senza idea di azione; bisognerebbe escludere il merito di fare o non fare. I traviamenti dell’immaginazione sono naturali, spontanei, direi quasi obbligatori; son essi che costituiscono il valore morale delle nostre azioni.

— Queste teorie hanno tanto di specioso quanto hanno poco di vero; — io dissi — ma, se non sono in errore, vostro cugino vi ha accusata con me di far un abuso della lettura.

— Sorvolo sui libri — rispose ella mestamente — come sarei sorvolata sulla vita, se la vita fosse stata per me. Ho letto una volta di un fiore la sommità del cui calice è sparsa di un polline dolce e salutare, e il fondo di un polline amaro e velenoso; le farfalle che vi si fermano troppo, vi muoiono; cosí è di tutte le cose; cosí è della vita. Non leggo né per imparare, né per pensare — abborro i libri di morale e di metafisica — leggo per dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e per goderne quasi di un eco. È tutto ciò che io posso fruire dell’esistenza; fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto. Voi comprendete — aggiunse ella con aria di mesta ironia — il bisogno che io ho di attenermi a questo sistema, non avete che a guardarmi.

— E perché — risposi io confuso e commosso da quelle parole. — Se siete inferma, guarirete; la vita ha dolcezze per tutti, ne ha di quelle assai intime che né gli uomini, né le sventure ci possono togliere — il piacere di beneficare.

— Beneficare! — interruppe essa — ho provato. Ho gettato i miei gioielli e i miei abiti di seta dinanzi ad una folla di infelici che mi laceravano il cuore collo spettacolo della loro miseria. È dolce, ma non basta. L’esistenza non può essere tutta un sacrificio. La pietà non è che amore passivo, amore morto.

— È però sempre un aspetto dell’amore — io dissi — né lo possiamo credere un affetto solitario se lo vediamo ricompensato dalla gratitudine.

— Credo piú presto alla gratitudine dell’amore che a quella del beneficio — rispose ella.

Io tacqui. Successe un istante di silenzio. Ad un tratto — o volesse ella vendicarsi dei tentativi che io aveva fatto per deviare la conversazione da quel soggetto, ora che me ne vedeva infervorato, o si dolesse realmente d’esservisi lasciata andare — proruppe in uno scroscio di risa, e disse:

— Sono pazza io! In che discorso vi ho mai trascinato! Capisco che con me si può camminare impunemente anche su questa china sdrucciolevole; ad ogni modo… È molto tempo che siete arrivato qui? Avete veduto tutta la città? Vi piace?

— Da pochi giorni… e ho girovagato un poco per le vie. Sono del parere di vostro cugino…

— Un paese di Barberia?

— E di Pellirosse!

Sorridemmo tutti e due, e credo l’una e l’altro per cortesia.

— Siete stato al giardino?

— Una volta.

— E al castello?

— Vi è un castello?

— Diamine! Avete visto il paese ad occhi chiusi. Ho pregato mio cugino di condurmivi stasera. Se volete farci l’onore di accompagnarci…

— Molto volentieri, ve ne ringrazio — e diceva la piú solenne menzogna del mondo. — Dacché ho lasciato Milano, sono vissuto in un isolamento il piú rigoroso, ho paura di ammalarmi di solipsia; ma come uscir fuori di questo paese? La campagna è una landa, una brughiera; non vi è un’ombra, non vi ho ancora veduto un giardino, un fiore; io che vo’ pazzo dei fiori come le femmine. Sta bene che siamo in agosto…

Fosca si alzò senza dir nulla, entrò nella stanza vicina, e ritornò subito dopo, tenendo in mano un mazzetto piccolissimo di fiori che mi offerse senza parlare.

Quell’atto mi sorprese e mi turbò nel piú profondo dell’anima. La sua offerta era stata fatta tanto opportunamente, e con tanta delicatezza che ne fui colpito. Ella s’avvide forse del mio turbamento, e si affrettò a dire come per togliermi d’imbarazzo:

— Anch’io amo molto i fiori, e se fossi sana vorrei coltivarne; ma se ne trovano parecchi che sono ingrati, e mi procurano delle terribili emicranie coi loro profumi. Anche la società dei fiori è qualche volta pericolosa.

E vedendo che m’era alzato, e aveva preso il mio cappello per uscire, aggiunse avvicinandosi alla finestra che era aperta:

— Guardate, abbiamo lí, nel palazzo di fronte, una serra magnifica, delle petunie, una collezione di cardenie…

Cosí dicendo ci eravamo appoggiati al parapetto. In quel momento passava sulla via, e proprio in faccia a noi, un convoglio funerario.

Ella lo vide, impallidí, retrocesse, si cacciò le mani nei capelli, emise un urlo terribile, e cadde rovesciata sul pavimento.

Le sue cameriere accorsero, e la trasportarono nelle sue stanze in preda alle convulsioni piú violente.

Io uscii da quella casa, quasi insensato.

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Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 00:43