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Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

FIRENZE VECCHIA

STORIA - CRONACA ANEDDOTICA - COSTUMI

(1799-1859)

 

di: Giuseppe Conti

  

XXXIX

Alba novella

I fiorentini e le cinque giornate di Milano - Nell'imminenza della guerra - Vincenzo Gioberti cittadino di Firenze - La guerra - Curtatone e Montanara - Le medaglie del Granduca - Indirizzo delle donne milanesi - Inaugurazione del Parlamento Toscano - Le catene de' Pisani - Il Granduca parte - Governo repubblicano - Livornesi a Firenze - Fucilate! - Contrasto fra Comune e Governo - Il Magistrato di Firenze assume le redini dello Stato - Il nuovo Ministero - La Commissione governativa - Il conte Serristori commissario del Granduca - Una nobile protesta - Il proclama del general D'Aspre - Gli austriaci a Firenze - Angherie, soprusi, scherni e bastonate - Un indirizzo vibrato - Leopoldo II torna a Firenze - Grettezza municipale - Rivista militare alle Cascine - Un epigramma - Un consiglio al Principe ereditario - Il 27 aprile 1859 - Il Granduca lascia a sé la Toscana.

Le cose oramai erano avviate su di una china che nessuno avrebbe potuto frenare: perciò anche Leopoldo II seguitò a lasciarsi travolgere ma non che in cuor suo ne fosse contento. Egli faceva come chi si trova in un impegno dal quale non può uscirne con onore, e si pente d'esserci entrato.

Intanto gli avvenimenti precipitavano. Le cinque giornate di Milano entusiasmarono i fiorentini; ed il Magistrato civico sulla proposta del gonfaloniere Bettino Ricasoli pubblicò un manifesto altamente patriottico, che cominciava con le fatidiche parole:

"Viva la indipendenza d'Italia!

Milano ha cominciato la santa crociata contro gli Austriaci, con un coraggio e con un senno che nessuna età vide, e che tutti gli Italiani devono imitare, se vogliono far sicura per sempre la loro libertà.

Milano disarmata ha scacciato dal suo seno gli Austriaci armati. Questa cacciata segna il primo giorno dell'èra nuova della nazionalità italiana".

Ed il 28 marzo 1848 il Magistrato stesso, prese la seguente deliberazione, in onore dei valorosi fratelli milanesi:

"1° Lo stemma della città di Milano avrà un posto d'onore nella Loggia dell'Orcagna con una iscrizione in marmo, la quale rammenti il fatto glorioso della città di Milano, e il decreto di onoranza di questo Municipio.

2° Il giorno in cui lo stemma e la iscrizione saranno collocate nella Loggia dalla Magistratura di Firenze, sarà giorno di festa nazionale.

3° Tutti i Membri del Governo provvisorio cominciando dall'incomparabile Gabrio Casati saranno di diritto Cittadini di Firenze.

4° Una deputazione eletta da questo Municipio, porterà a quello di Milano il presente Decreto e il Diploma della Cittadinanza fiorentina".

Tali proposizioni furono ratificate con voti favorevoli dieci, contrari nessuno.

Quindi fu ordinato un solenne Te Deum in Duomo al quale assisté la Magistratura civica, coi nuovi costumi indossati nel 12 settembre 1847, insieme alle altre Magistrature.

Cosicché fra le cinque giornate di Milano, la promulgazione dello Statuto concesso da Carlo Alberto, e il sentimento di libertà che tutti aveva ormai conquistato, ad altro non si pensò che all'imminente guerra con l'Austria.

Il Municipio di Firenze nell'adunanza del 18 maggio 1848 deliberò quanto appresso:

"Il giorno festivo di San Giovanni Battista patrono di questa città è imminente: la sua ricorrenza è solennizzata non solo con il rito sacro, ma con pubblici spettacoli e rallegramenti. Ma in quest'anno tutta Italia è commossa dalla guerra contro lo straniero, ed è minacciata da gravi pericoli.

Ben in questo frangente è necessario implorare soccorso da Dio, e a ristorare le nostre preghiere con l'intercessione del Santo Protettore. Ma le pubbliche feste sarebbero un insulto al pubblico dolore, o una non sincera dimostrazione di gioia che non può essere negli animi, occupati solo da gravi pensieri.

Della Santa Guerra dell'Indipendenza, e della Santa Impresa di consolidare la recuperata libertà, gli apparecchi militari esser denno i soli spettacoli de' veri Italiani; ogni gioia dev'essere sospesa fino al giorno in cui potremo ringraziare Iddio della cacciata degli Austriaci dall'Italia tutta ora e per sempre.

Per queste considerazioni:

Con partito di voti tutti favorevoli, decreta la sospensione delle consuete feste di San Giovanni, per rimettersi ad epoca più opportuna".

Nel dì 9 giugno 1848, il gonfaloniere barone Bettino Ricasoli fatto presente:

"Che tra pochi giorni era per giungere in Firenze proveniente da Roma Vincenzo Gioberti celebre per i suoi scritti filosofici, e caro all'Italia come uno degl'iniziatori dell'attuale risorgimento.

Che il di lui viaggio per la penisola era stato un continuo succedersi di ovazioni e trionfi e tutti erano accorsi a salutare in esso l'apostolo della libertà, il Precursore dell'immortale Pio IX, pontefice rigeneratore;

Che Firenze, la quale va superba di avere in ogni tempo coltivate le scienze e reso agli uomini d'ingegno il tributo della propria venerazione non poteva oggi restare spettatrice indifferente all'arrivo tra le sue mura di tanta celebrità, ma doveva invece rivaleggiare con le altri Capitali d'Italia per accogliere con esultanza un uomo tanto benemerito alla causa della comune nazionalità, e che il Municipio Fiorentino facendosi interpetre del voto universale da cui non può che essere animata la città non doveva esitare un momento ad annoverare un personaggio così distinto fra i suoi cittadini;

Il Magistrato, ad unanimità di suffragi, proclama Vincenzo Gioberti cittadino fiorentino, e dichiara che dovrà essere insignito di questa onoranza in pubblica forma dai rappresentanti del Municipio, collegialmente riuniti". E così avvenne.

Ogni giorno più gli eventi incalzavano; perciò si favorì in ogni modo e con tutti i mezzi con gravi spese del Comune, l'equipaggiamento e l'armamento della Guardia civica; Firenze era piena di volontari che si recavano in Piemonte per la guerra contro l'Austria; il generale De Laugier partì con due corpi d'armata toscana per combattere gli austriaci a fianco dei piemontesi condotti da Carlo Alberto; le Università rimasero deserte perché gli studenti buttaron via i libri e presero il fucile, lasciando la vita ancor giovanissima sui campi di battaglia in pro dell'Italia, esempio imperituro anche ai vecchi di valore e di fede nella patria.

Tanta baldanza giovanile e tanto eroismo, furono coronati il 29 maggio 1848 con Curtatone e Montanara: la disfatta più gloriosa che conti la storia, sebbene gl'italiani, di queste pagine ne abbiano scritte e ne scrivano spesso.

Un mese dopo, e cioè il 28 di giugno, Leopoldo II: "Considerando che la virtù militare - così diceva nel suo decreto - si deve misurare non dalla vittoria, ma dai pericoli affrontati combattendo, e che veramente maschio è quel valore il quale nella disperazione di tutte le cose intende a restare invitto e cedendo il posto non volge le spalle;

Avendo considerato che se la giornata del 29 maggio non fu lieta per le nostre armi intorno Mantova, negli accampamenti di Curtatone e Montanara, pure quel sole fu testimone di molte prove di valore date dai due nostri corpi d'armata, i quali separati di luogo ed attorniati, sostennero l'urto di un nemico immensamente superiore di forze, al quale tardi cedendo, seppero vender caro quel terreno che egli dové comprare con gravi perdite giovando così grandemente alla causa italiana;

E riguardando come debito della Sovranità il premiare i tratti singolari di personale valore;

Decretiamo, ecc". E in tal guisa assegnò varie ricompense.

1 nomi dei decorati e la ragione gloriosa della ricompensa dimostrarono sempre più quanta fede, quanto forte sentimento ci fosse in quei valorosi che in cinquemila, molti dei quali inesperti alle armi e vestiti in borghese, tennero testa per una giornata intera a trentamila soldati austriaci!

Più del decreto granducale, che dopo pochi mesi parve quasi un documento apocrifo, giunse gradito all'animo dei toscani l'indirizzo fiero e cortese delle donne milanesi che accompagnavano il dono di una bandiera tricolore. Esse la spedirono ai nostri mentre si trovavano a Brescia. L'indirizzo che commuove anco i più scettici, merita di essere riportato integralmente, per memore riconoscenza verso le donne milanesi che seppero essere così altamente italiane:

Prodi e generosi toscani! al vostro nome un misto di ineffabili commozioni agita ogni cuore italiano. Voi, figli della più gentile fra le gentili terre d'Italia, voi sulle cui labbra suona con più squisita dolcezza l'accento del sì, voi primogeniti cultori dell'antico e nuovo incivilimento italico, voi dei primi accorreste ad affrontare, sotto il vessillo tricolore della civiltà, la ferocia dei barbari.

Era divino volere che l'albero della libertà fosse innaffiato dal più puro sangue italiano. Lume d'intelligenza, gentilezza di cuore, vigore d'ingegno, tesori d'avvenire, impeto di gioventù furono spenti, distrutti sui fatali campi di Curtatone, ove però cadendo prepararono pel domani la vittoria al valore italiano.

Il grido dei vincitori non poteva però coprire il gemito doloroso che surse in tutta Italia alla perdita di tante vite preziose. Ai pianti delle madri e sorelle vostre, s'unirono le lacrime d'altre madri e sorelle, consapevoli di tutta l'amarezza de' vostri lutti, perché ansiose anch'esse de' loro cari, e tremanti al pensiero che tante amate fronti serene di giovinezza, scintillanti di speranza guerriera, non abbiano più a ricevere l'inebbriante bacio del ritorno.

Ma l'Italia è ancora in pericolo, il barbaro, cui è prodezza il numero, va ingrossando. Se mitezza di cielo e di costumi, se squisito senso di bellezza fanno della città dei fiori il Tempio delle Arti, essa rimembra d'esser pure la terra delle anime forti. Alle delicate forme e ai soavi concetti del poeta di Laura, può contrapporre i disdegnosi fremiti del Ghibellino, le meditazioni del Machiavello, le prepotenti creazioni di Michelangiolo, la parola tonante del Savonarola, la spada di Ferruccio, e l'ingegno scopritore di Galileo.

Soffocate le voci di dolore; Toscana tutta freme armi, e manda nuovo grido di guerra; altri combattenti corrono a riempire le diradate file. Deh! voglia l'eletta vostra gioventù accogliere questo vessillo che noi le offriamo benedetto dal pastore della Chiesa d'Ambrogio, e accompagnato dalla preghiera che il Dio della vittoria lo renda trionfante ma senza nuovi sacrifici troppo funesti. Basta già il sangue da voi versato a Curtatone per l'Italia indipendente, libera ed una, perché siano fatti indissolubili i vincoli della nostra fratellanza. E quando un giorno, compita l'italiana vittoria saranno i vostri vessilli deposti in Santa Croce fra i monumenti delle patrie glorie, noi, venendo ospiti nella vostra città, rivedremo forse questa bandiera scolorata e lacera, ma circondata da un'aureola eterna di gloria; e se mai qualche donna vestita a bruno sollevasse gli occhi lacrimosi a quei vessilli, noi stringendole in silenzio la mano, ben sapremo di che si dolga; e genuflesse a' piè degli altari divideremo seco la voluttà del pianto.

Per la Commissione,

Fanny Spini

Angela Battaglia-Fumagalli

Fanny Bonacina-Fumagalli.

Il generale De Laugier rispose degnamente da Brescia nel 2 luglio 1848 all'indirizzo delle nobili donne milanesi, che può dirsi un poema di gentilezza e d'amor di patria, esempio di fierezza e di cortesia alle loro consorelle d'Italia.

La guerra oramai continuava: e la speranza in un lieto avvenire non era affievolita. Per conseguenza anche Leopoldo una volta entrato in ballo bisognò che ballasse, e dovette continuare sulla strada nella quale ormai s'era messo.

Dopo data la costituzione alla Toscana furon fatte le elezioni dei deputati, e, seguendo la corrente, "sul meriggio" del 26 giugno 1848, al suono delle campane ed al rimbombo del cannone, Leopoldo II muoveva da Palazzo Pitti, per recarsi a Palazzo Vecchio ad inaugurare l'apertura delle Camere. Illuso forse dalla imponente scena di quella adunanza si credé di carattere forte e d'animo tale, da resistere all'Austria. A ciò avrà anche contribuito l'avere indossato in quel giorno solenne l'uniforme di generalissimo della Guardia civica, invece di quella dei dragoni austriaci.

Leopoldo II probabilmente in buona fede - perché il cuore non si vede a nessuno - pronunziò il discorso inaugurale che cominciava con queste parole:

Signori senatori, signori deputati.

Questo meraviglioso risorgimento d'Italia, onde noi fortunati vediamo adempirsi il voto di tanti secoli, ci ha finalmente concesso di ordinare lo Stato secondo i bisogni dei tempi e di proclamare e di discutere in faccia all'Europa la nazionale indipendenza.

Ringrazio la Provvidenza di avermi condotto ad effettuare l'avito pensiero inteso a cogliere somigliante frutto da quelle riforme per le quali la Toscana acquistò il vanto di matura civiltà. Infatti il nostro Statuto fondamentale chiude un'epoca della nostra e ne apre una nuova che ci affida al più glorioso avvenire".

Per non la far tanto lunga, perché è troppo doloroso il rammentare parole che avevano un significato al quale i fatti corrisposero poi in modo affatto opposto, basterà riportare la chiusa del discorso di Leopoldo Il, il quale, dopo avere a faccia fresca asseverato che egli era in pace con tutti gli Stati d'Europa, ad eccezione dell'Austria, concluse:

"Mi gode l'animo di confermare qui solennemente le istituzioni sancite, di confermarle non come lettera morta ma come spirito di vita e di progresso; e al nostro patto di verità e di giustizia invocare con voi la testimonianza e la protezione di Dio. Nel farvi questa dichiarazione, o signori, l'animo mio si sente lieto e sicuro, perché non fo se non ripetere al cospetto vostro quella promessa che feci e tenni sempre a me stesso, son già molti anni, di consacrare cioè tutta la mia vita alla felicità dei benamati Toscani".

Uno scoppio d'applausi accolse queste ultime parole; ed in tutti gli astanti, dei quali il maestoso salone dei cinquecento era gremito, e fra cui erano moltissimi forestieri, la commozione fu straordinaria.

Nel dì 8 gennaio 1849 il Magistrato della Comunità per dar prova di fratellanza ed esempio di concordia fra tutti gl'italiani, deliberò che fossero restituite ai pisani le famose catene che servivano al porto di Pisa, tolte loro dai fiorentini e tenute come trofeo di guerra attorno alle colonne di San Giovanni.

I fiorentini plaudirono a questo nobilissimo atto, perché l'entusiasmo per la libertà dei popoli non conosceva quasi più limiti. Ma oramai era decretato che tutte le belle speranze concepite, tutto l'entusiasmo e la fede nell'avvenire della patria e nella costanza e fermezza del principe, andassero presto in fumo.

Infatti, dopo il rovescio di Novara, gli austriaci imbaldanziti ripresero il sopravvento: il Granduca dopo tutti i suoi discorsi, dopo le ricompense ai valorosi di Curtatone e Montanara che si eran battuti contro l'Austria per la libertà e l'indipendenza d'Italia, dopo il giuramento fatto in Palazzo Vecchio, dicendo che quello non era da ritenersi come lettera morta, un bel giorno lasciò banco e benefizio, scappò a Siena e di lì a Gaeta dov'era il Papa col Re di Napoli.

Si istituì allora il famoso governo provvisorio Guerrazzi, Mazzoni e Montanelli; e fu proclamata la repubblica coi relativi alberi come cinquant'anni innanzi, a tempo dei francesi. Avvenne poi il famoso tumulto fra i livornesi, partigiani del loro concittadino Guerrazzi, che si rivelò insufficientissimo uomo di stato, quant'era ardente patriotta e illustre scrittore. Quel giorno nefasto in cui nelle vie di Firenze livornesi e fiorentini fecero alle fucilate, fomentò nuovi disordini. Il Comune badava a far premure presso il fuggiasco Granduca poiché la presenza del Sovrano nella capitale dello Stato in tempi così gravi era sempre più necessaria; ma senza risultato.

Fin dal 24 febbraio 1849 il Comune si era messo in aperto contrasto col governo provvisorio, che aveva promulgato lo stato d'assedio, prendendo la seguente energica deliberazione: "Visto il Decreto del Governo provvisorio Toscano de' 22 corrente col quale viene promulgata la legge militare e viene sottoposta ad un Tribunale di Guerra la generalità dei cittadini;

Considerando che in tempo di agitazioni politiche è troppo facile ritenere delittuose le azioni le più innocenti per il che qualunque procedura sommaria riesce una minaccia alla sicurezza personale ed è a buon diritto tenuta da tutti i popoli liberi lesiva agl'imprescrittibili diritti dell'uomo;

Considerando che anche in mezzo a politiche convulsioni l'indole del nostro popolo si mantenne sempre sì mite che neppure l'assolutismo ricorse a mezzi eccezionali di natura estrema come quella testé pubblicata:

Considerando in specie che la condotta del popolo e della Guardia nazionale di Firenze e nella leva del 21 corrente dà al Governo garanzia sufficiente che i cittadini bastano senza eccezionali misure a tutelare l'ordine e la libertà;

Considerando che la pena di morte in fatto ed in diritto abolita da molto tempo in Toscana sarebbe infausto principio di un governo repubblicano; e rammentando il nobile esempio del Governo provvisorio Francese, che inaugurava quella giovine Repubblica coll'abolizione della pena capitale per delitti politici;

Considerando infine che la ruina dell'arbitrio e l'acquisto di solide garanzie di libertà fu mai sempre al pari della nazionale indipendenza lo scopo dei conati di tanti martiri della Patria;

Delibera,

Che fermo nella volontà di mantenersi vigile custode dei diritti dei cittadini, mancherebbe a sé stesso ove non si facesse organo dell'universale rimostrando al Governo contro un atto non consentito dalle sociali esigenze ed al quale mal si affida un libero reggimento;

Che perciò sia trasmessa al Governo copia della presente deliberazione, e sia la medesima pubblicata per le stampe". La deliberazione fu approvata con dieci voti tutti favorevoli.

Il Governo impressionato del fermo contegno del Magistrato civico pregò il Gonfaloniere di sospendere la pubblicazione della deliberazione presa dal Magistrato facendo "formale promessa" che nel giorno successivo sarebbe stata revocata la legge militare. Le cose andaron però sempre più a rifascio, e si tornò indietro di cent'anni.

Caduto il Governo provvisorio, nel dì 12 aprile 1849 il Magistrato di Firenze prese le redini dello Stato per tutelare l'ordine, impedire disordini che avrebbero portato all'anarchia e nominò una Commissione che lo cooperasse.

Quindi nel giorno stesso venne nominato un Governo provvisorio composto dei seguenti cittadini: colonnello Giacomo Belluomini, incaricato del portafoglio della Guerra; Tommaso Tornetti, del portafoglio degli Affari esteri; Antonio Allegretti, del portafoglio dell'Interno; Vincenzo Martini, di quello delle Finanze, Commercio, e Lavori pubblici; Augusto Duchoqué, del portafoglio di Grazia e Giustizia; Francesco Giaconi, del portafoglio degli Affari Ecclesiastici; Marco Tabarrini, dell'Istruzione Pubblica e Beneficenza. Il nuovo Governo domata la rivoluzione, iniziò pratiche per il ritorno del Sovrano.

Fu deliberato di richiamare Leopoldo II, che francamente non lo meritava per la sua pusillanime e non troppo leale condotta, verso un popolo che lo aveva inalzato molto più del suo merito.

Frattanto il Magistrato della Comunità di Firenze in ringraziamento "di quanto operò a favore della patria la Commissione governativa" nel dì 5 maggio 1849:

"Considerando esser debito del Municipio di porgere formali ringraziamenti a tutti i cittadini che insieme alla Commissione governativa cooperarono al reggimento della cosa pubblica dal dì 12 aprile al 10 maggio 1849" deliberò che fossero rese grazie ai cittadini Gino Capponi, Bettino Ricasoli, Carlo Torrigiani, e Cesare Capoquadri.

Deliberò inoltre di ringraziare la Commissione che si trasferì a Gaeta per complimentare il Principe, e che si compose dei cittadini Francesco Cempini, Cosimo Vanni, Isidoro Del Re, Carlo Matteucci, Augusto Gori-Pannilini, e Francesco Lambardi. E voti di speciale ringraziamento furon fatti ai componenti il Governo provvisorio dal 12 aprile al 5 maggio.

Strano apparve che il Magistrato non approvasse un ringraziamento alla Guardia civica!

Il primo atto del Granduca richiamato fu di nominare il conte Serristori Commissario straordinario per la Toscana. Poi si seppe di un corpo d'armata austriaco che si preparava ad occupare la Toscana.

Il Magistrato indignato da questa notizia, nel dì 6 maggio 1849 prese la seguente energica deliberazione che trasmise al Commissario:

"Il Municipio di Firenze assumendo la direzione degli affari a nome di S. A. R. intese non solamente di redimere lo Stato dal dispotismo di una fazione, ma intese eziandio di salvare il paese dal non meritato dolore di un'invasione, di salvare il Principato rinascente dall'infausto battesimo di una protezione straniera.

Adottando questa linea di condotta, il Municipio si confermava alle intenzioni più di una volta espresse da S. A. R. ai precedenti del suo Benefico Regno, alle necessità del presente, alle ragioni dell'avvenire.

Le popolazioni Toscane pienamente secondando il movimento iniziato a Firenze, si adoperarono a gara a restaurare il Governo costituzionale. L'impero della legge fu dovunque ristabilito, fuorché nella città di Livorno. Gli altri Municipi tutti risposero con entusiasmo all'appello nostro, e possono attestare, come l'anarchia, per opera spontanea del popolo, subitamente cessasse.

Riconsegnando così il paese al Commissario straordinario nominato dal Principe, e rientrando nei limiti delle sue attribuzioni ordinarie, il Municipio sperò che avrebbe potuto l'E. V., col sapiente uso dei poteri che le sono conferiti, condurre a buon termine i negoziati intrapresi per ottenere un aiuto di forze esteriori, che non offendesse il sentimento nazionale.

In questa condizione di cose, il Municipio non poté intendere senza dolore né senza meraviglia, come un Maresciallo imperiale invadesse d'improvviso il territorio Toscano con un grosso corpo d'armata sotto pretesto di ristabilire l'ordine, e confidasse a questo effetto nella cooperazione di V. E., mentre le parole del Principe dall'E. V. rappresentate sembravano raffidarci dal pericolo di un intervento straniero.

Nell'atto di significare a S. A. R. per l'organo dell'E. V. la riconoscenza, con la quale il Municipio accolse le benevoli espressioni del Principe, non poteva astenersi dal manifestare questi sentimenti, i quali come furono la guida della sua condotta nel breve Governo dello Stato, così sono sempre un pubblico voto, di cui il Municipio di Firenze si reputava interpetre fedele e necessario".

La risposta fu il proclama del generale barone D'Aspre, che si apprestava ad entrare in Firenze. Vale la pena di riprodurre questo documento:

Abitanti di Firenze,

I vincoli di sangue che uniscono il vostro Sovrano alla Casa Imperiale del mio Monarca, moltissimi trattati che a S. M. l'imperatore e Re mio Signore impongono il dovere di proteggere l'integrità della Toscana, e di difendere i diritti del vostro Principe, hanno determinato l'Austria a cedere al desiderio di S. A. I. e R. il Granduca di por termine allo stato d'anarchia sotto il quale già da lungo tempo gemeva il vostro bel paese.

La fazione che opprimeva Livorno fu dalle mie armi distrutta, e quella popolazione fu levata dal giogo ed i ribelli si sottomisero al loro legittimo Sovrano.

CHIAMATO ora dal vostro Principe, vengo con le mie armi e truppe nella vostra città, come amico, come vostro alleato; unitevi a noi per viemeglio consolidare la quiete, la pace, e l'ordine; e ricondurre stabilmente la concordia e l'impero delle leggi in quei giorni di felicità onde già un tempo l'Europa vi invidiava.

Empoli, 24 maggio 1849.

Dato in Firenze, il 25 detto.

Il Comandante generaleBarone D’Aspre.

Questo proclama svelò chiaro e tondo che i tedeschi ce li aveva chiamati proprio lui; rinnegando tutto ciò che aveva detto, promesso e fatto pochi mesi indietro.

Il nefasto 25 maggio 1849, giorno di San Zanobi, fecero ingresso in Firenze le spavalde truppe austriache, che pareva entrassero in una città conquistata e presa per valore e forza d'armi. Il popolo minuto, dimentico di tutto il passato che era ancora così prossimo, andò a veder l'arrivo dei tedeschi. I codini, tutti gongolanti, si buttavano al collo a quei croati per abbracciarli; ed essi che non capivano, tiravano loro col fucile calciate nello stomaco da farli sputar sangue. - E feciano bene!... - come diceva il presidente Del Greco.

Il venerando marchese Gino Capponi, che in quel giorno, e a quell'ora, usciva dall'adunanza della Società Colombaria in Via de' Bardi, e che udì il suono de' tamburi de' soldati austriaci passare di sul Ponte Vecchio, ringraziò Dio di averlo reso cieco per non vederli!

I reggimenti bivaccarono sulle piazze; e fatti i fasci dei fucili cossero il rancio, mentre la gente stava d'intorno a guardarli. Per la città era tutt'un correre d'ufficiali a cavallo che andavano alle caserme, al Comando di piazza per combinare il cambio ai luoghi di guardia. Verso sera furon fatti i cambi con la Guardia civica che cedé il posto. La sera tutti gli ufficiali austriaci stavan sul caffè Doney e la Beppa fioraia dispensava loro i fiori, che gradivano molto, e le davan la mancia che essa gradiva anche più. Da quel momento, la Beppa diventò la donna più codina di Firenze.

Infinite furono le angherie, i soprusi e gli scherni di quelle milizie semibarbare.

Bastava un'occhiata a traverso per esser presi e bastonati in fortezza, o nella caserma più prossima. Per citare qualcuno dei primi fatti accaduti, un certo Nutini, giovane di 18 anni, s'incontrò in un ufficiale mentre sputava; per disgrazia gli sputò addosso. L'ufficiale l'arrestò e lo portò da sé in fortezza. Il D'Aspre lo voleva fucilare, e ci volle del buono e del bello per persuaderlo a lasciare in vita il disgraziato.

Un giorno, un tedesco teneva in una pezzòla un fiasco d'acquavite e la dondolava. Passando di Via Calzaioli, un certo Acquolina, conciatore, casualmente inciampò e gli ruppe il fiasco. Il tedesco cominciò a borbottare, lo prese per lo stomaco, ed altri soldati e un ufficiale l'arrestarono e lo portarono nella caserma di Borgo Ognissanti. Acquolina, appena entrato dentro, vedendo la rastrelliera dei fucili, si slanciò per prenderne uno; ma i soldati gli furono addosso lo misero sopra una panca e lì venticinque bastonate. Dopo un mese il disgraziato morì dalla rabbia.

Gli ufficiali, in segno di spavalderia, facevano per Firenze un gran chiasso con le sciabole strascicandole per terra; ed i ragazzi urlavan loro dietro: - Tira su la stadera! - I soldati comuni quando era l’uscita, e che andavano a girar per la città avendo i tacchi cerchiati sotto di ferro, parevan tante somare di quelle che teneva un certo Sorbi e che andavano a portare il latte alle case; e perciò quando passavano si sentiva dire: "Ecco le ciuche del Sorbi!". Fortuna che quei cosi non intendevano!

La grande maggioranza dei cittadini era indignata di questa immeritata occupazione straniera; e fino dalla prima sera qualche soldato sparì. Nelle conce ne accopparono parecchi; e ad uno di quei croati che si trovò sperso, solo, da San Niccolò, gli misero in capo un corbello e giù lattoni da far paura!

Ma i tedeschi quando potevano aver qualcuno, si vendicavano bene e non male. Gli portavano in Fortezza da Basso e senza tanti discorsi gli davano venticinque bastonate dove.... non batte sole!

Il proclama del barone D'Aspre fece cader la maschera al Sovrano e la benda dagli occhi al Magistrato comunitativo; il quale si adunò d'urgenza la mattina stessa del 25 maggio, appena fu affisso quel malaugurato manifesto del generale austriaco, per protestare contro di esso proclama.

Il gonfaloniere Ubaldino Peruzzi propose un indirizzo al Granduca piuttosto vibrato, dove fra le altre cose si diceva a tanto di lettere:

"Il proclama del generale D'Aspre sta in opposizione così manifesta colle Vostre Parole e cogli atti del Vostro governo, che il Municipio ha creduto di doverlo a Voi denunziare, invocando una parola Vostra che illumini e rassicuri, perché un fatto il quale si compié per dura ed inevitabile necessità non venga rappresentato al Paese siccome un effetto della volontà vostra, la quale per prove indubitate sappiamo essersi dimostrata quanto più poteva contraria. E questa parola Noi invochiamo dalla bontà dell'A. V. sollecita, affinché la pubblica opinione traviata da asserzioni non vere, non rimanga troppo lungamente sotto la influenza di una funesta impressione, della quale, tardando non potrebbero forse cancellarsi gli effetti".

Sottoposto al segreto scrutinio il testo dell'indirizzo e veruna osservazione essendo stata elevata in proposito, restò approvato in tutte le sue parti e firmato da tutti i presenti che furono: Ubaldino Peruzzi Gonfaloniere, Orazio Ricasoli, L. G. Cambray Digny, Luigi Cantagalli, Carlo Azzurrini, G. Galletti, F. Brocchi, Filippo Bosi, Giuseppe Martelli, Carlo Bonajuti e Giuseppe Ulivi.

Leopoldo II il 28 luglio, giorno di San Vittorio, ritornò in Firenze acclamato dalla folla tornata scettica ed apatica, e preceduto da un drappello di cavalleria ungherese con la carabina a punto!

Invece d'andare a Pitti, volle recarsi alla Santissima Annunziata per ringraziarla del ritorno! Ed anche il Magistrato rappresentante il Municipio di Firenze che ormai aveva dovuto ripiegare per forza degli eventi, si recò "in abito di costume" la sera alle cinque e mezzo nella chiesa della Santissima Annunziata, "con intervento delle Magistrature per assistere al solenne Te Deum cantato per quella fausta ricorrenza".

Nell'adunanza del 7 agosto il Gonfaloniere comunicò ai Priori un'officiale del Ministro dell'Interno con la quale si attestava alla Magistratura "il pieno gradimento di S. A. R. e I. per la presentazione dell'indirizzo di felicitazione per il suo ritorno e del quale l'animo suo fu oltremodo sensibile". Ed in segno di tale gradimento ordinò che nella bandiera da lui donata al Comune il 12 settembre 1847 fosse scritta la data del 12 aprile 1849, giorno in cui fu proclamata la restaurazione. Non ci correva nulla!

Una cosa che non fece eccessivo onore al Municipio di Firenze fu quella che mentre approvò la spesa di 171 lira per le due tavole di bronzo coi nomi dei fiorentini morti in Lombardia nel 1848, da porsi in Santa Croce; rifiutò di spenderne altre cinquanta per comprare due altre tavole simili, pure in bronzo, che la fonderia Benini offriva per collocarsi nella chiesa del Cimitero di Trespiano "per moltiplicare le relative memorie", adducendo il Magistrato che era sufficiente la collocazione di quelle in Santa Croce mentre una settimana dopo approvava la spesa di L. 8915.8 per le feste fatte per il ritorno del Granduca!

I liberali che fremevano, ma ai quali toccava a tacere, sopportarono come un atroce smacco quella della gran rivista fatta alle truppe austriache alle Cascine il 18 agosto 1849 giorno natalizio dell'Imperatore d'Austria. Nel mezzo del prato delle Corse dov'ebbe luogo la rivista, fu inalzato una specie di tempietto ove fu celebrata la messa: ma come se anche il cielo ripudiasse quella funzione insultante per la nostra patria oppressa, verso le quattro pomeridiane imperversò una tale bufera, che di quel tempietto sfasciato e ridotto in pezzi non ne rimase un briciolo. Parve una maledizione! Molti fiorentini fedeli al loro sentimento d'indipendenza, quando incontravano il Granduca non lo salutavano più; si levavano invece il cappello al professore Ferdinando Zannetti, chimico valente, carattere integro, uomo benefico e caritatevole, perché rimandò sdegnoso la croce di cavaliere di Santo Stefano.

La prima prova di quanto perdesse nella stima pubblica Leopoldo II fu quella, che essendo tornato da Gaeta, coi baffi che prima non portava, forse per darsi aria marziale dovendo venire fra tanti soldati della sua razza, i ragazzi, messi su dai grandi, quando s'incontravano figurando di scherzar fra loro si dicevano: "L'ha'mangiate le radici col lesso?" e l'altro rispondeva: "Figlio d'un cane che baffi t'ha' messo".

Ed i liberali fiorentini, o meglio toscani, ammaestrati dai fatti del 1848, disillusi sulla fede che meritava un Sovrano che per dirla con frase comune aveva accennato coppe e dato danari, si riconcentrarono in loro stessi; e persistendo sempre più nell'idea della libertà della patria e della indipendenza d'Italia, lavorarono, come suol dirsi sott'acqua, preparando i nuovi eventi. Ciò che però finì di sdegnare il popolo contro il Granduca, fu il fatto, che essendosi egli recato a Milano ad ossequiare l'imperatore d'Austria, ed avendogli questi annunziato che aveva istituito un nuovo reggimento di dragoni chiamato in omaggio a lui "Granduca di Toscana", Leopoldo II accettò ringraziandolo. "Ve li manderò a Firenze" disse poi l'imperatore e mantenne la promessa. Quando quei dragoni furono in marcia per venirvi davvero, il Granduca vestito da colonnello del nuovo reggimento, andò ad incontrarlo per la strada bolognese; e giunto al Pellegrino s'incontrò nei due soldati di punta, come si diceva nel gergo militare d'allora, mandati dal Comandante per avvisarlo quando avessero veduto il Granduca. Essi infatti appena lo scorsero, voltarono i cavalli e tornarono indietro di carriera. Il Comandante allora, che si trovava alla Pietra, per fare sfoggio di bravura, ordinò a tutto il reggimento il galoppo, e venne giù per la scesa a rotta di collo, per fermarsi poi di botto dinanzi al Granduca. Leopoldo II che non se l'aspettava, impaurito badava a far cenni perché si fermassero, credendo d'esser travolto da quel turbine umano, dicendo nel tempo stesso all'aiutante di campo che aveva accanto: "Cervini, che cosa facciamo?..." e tirava il cavallo da parte più che poteva.

Frattanto il colonnello dei dragoni austriaci, giunto a pochi passi diede il segnale, e tutto il reggimento si fermò ad un tratto. Il Granduca si sentì sollevato; e pieno d'entusiasmo, con la sua abituale facondia, pronunziò queste commoventi parole: "Ben arrivati!...". Il Comandante gli domandò se desiderava prender lui il comando; ma Leopoldo si scusò dicendo: "Faccia lei, faccia lei!...". Quella figura così grottesca, così meschina del Sovrano, fece arrossire i suoi sudditi; quindi il sordo lavorìo dei liberali raddoppiò di zelo e di lena; il sogno desiato era la completa rivolta, l'emancipazione dello Stato da un potere reso odioso, e contro il quale si cospirava.

Nemmeno quando dopo sette anni l'occupazione austriaca cessò, i fiorentini perdonarono a Leopoldo II di averla voluta: nessuno lo poteva più soffrire, ed impunemente se ne parlava con sdegno. L'esercito toscano, che dovette subire un generale straniero nell'austriaco Ferrari Da Grado, mentre quel posto era riservato al toscano Fortini, si disamorò. Leopoldo II era diventato a poco a poco come Lorenzino de'Medici: non lo voleva né Dio né il diavolo! Quando nel 1857 venne in Firenze Pio IX e che il Granduca andato a riceverlo fuori di Porta a San Gallo entrò poi con Sua Santità in Firenze, non era finito d'arrivare a'Pitti che circolava questo epigramma, attribuito a Vincenzo Salvagnoli:

Esempio di virtù sublime e raro

Entrò Cristo in Sion su di un somaro;

Per imitarlo il nostro Padre Santo

Entrò a Firenze col Sovrano accanto!

I tempi intanto si facevano più minacciosi per la dinastia lorenese e per l'Austria, ed i popoli fatti più accorti dalla dura scuola del passato, quando si mossero lo fecero con maggior ponderazione, giurando di non lasciarsi più ingannare, e tennero la parola.

Un gentiluomo fiorentino, liberale, appartenente ad una famiglia che ha dato alla patria valorosi soldati, sagaci uomini politici, attivi industriali, nel marzo del 1859 con un cortese pretesto fu mandato a chiamare dal Principe ereditario. Questi gli richiese notizie sull'atteggiamento del Re di Sardegna, sugli armamenti dell'Austria, su quello che se ne pensava a Firenze, perché il poveretto, nonostante avesse ventiquattr'anni e fosse destinato al trono, pare che lo tenessero all'oscuro di tutto ciò che accadeva al di fuori del Palazzo Pitti, e certi discorsi l'avevano incuriosito.

Il gentiluomo messo a quattr'occhi col Principe, disse: - Altezza, parlo con Ferdinando IV o con Ferdinando di Lorena?

- Diamine! con Ferdinando di Lorena.

- Allora prenda un fucile, scappi in Piemonte e....

- O il babbo? - interruppe il Principe.

- Il babbo è inutile;... lui è vecchio. -

E con queste parole si congedò.

Il 27 aprile 1859 giorno glorioso per Firenze e per la Toscana, il Granduca prese licenza da tutta una città unanime, che gli fece conoscere d'aver buona memoria, e che toccava una volta per uno a chinar la testa. Ora toccava a lui. E se n'ebbe a andare. Verso le quattro la Corte in tre carrozze, scortate da un drappello di dragoni, dalla porta di Boboli prossima alla Porta Romana uscì di città; e per le mura di San Frediano, il Ponte di Ferro, la Porta al Prato e quella di San Gallo prese la Via Bolognese diretta alle Filigare.

Alle sei pomeridiane di quello stesso giorno, adunati per urgenza i Priori e il Gonfaloniere componenti il Magistrato de' Priori della civica Comunità deliberarono:

"Il Magistrato de' Priori di Firenze,

Considerando che quantunque alla Magistratura non consti officialmente che S. A. R. il Granduca sia per abbandonare il territorio toscano dirigendosi verso Bologna;

Considerando che dalle informazioni prose dalla Magistratura e dalla lettera di questo giorno diretta dal Ministro sardo a questo nostro Gonfaloniere nonché della lettera del ministro Baldasseroni diretta al Ministro francese resulti la verità di questi fatti;

Considerando che non apparisce avere il Principe emesso veruna disposizione relativa a chi deve rappresentarlo nella di lui assenza ed assumer le ingerenze governative;

Considerando che ad evitare le gravissime calamità che potrebbero verificarsi nella mancanza anche momentanea dell'azione governativa sia di necessità che il Municipio devenga ad un provvedimento atto a prevenirle;

Per questi motivi: La Magistratura aderisce alla nomina di un governo provvisorio, ed elegge a comporlo i signori: cav. Ubaldino Peruzzi, avv. Vincenzo Malenchini, magg. cav. Alessandro Danzini". Firmò il primo Priore Domenico Naldini.

Il gonfaloniere Dufour Berte presiedé l'ultima adunanza il 9 aprile. Con decreto del Governo provvisorio del 28 aprile fu dispensato dalla carica di Gonfaloniere e fu nominato a quella dignità il marchese Ferdinando Bartolommei, il quale nel giorno stesso prestò giuramento, a forma delle istruzioni del 16 novembre I779.

Leopoldo II quando si separò da coloro che lo accompagnarono un pezzo in su per la Via Bolognese, credendo di essere sarcastico disse: "Signori, arrivederli, arrivederli!". Ma se gli era andata bene la prima volta non c'era da sperare che gli sarebbe andata bene anche la seconda. E infatti, ebbe voglia di dire ai suoi fidi: arrivederli. Se non lo rividero o lo rivedranno in Paradiso, quaggiù l'aspettarono invano.

Son cose che non si possono prendere a veglia!!…

               

  

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Ultimo Aggiornamento: 08/01/99 23.31