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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

FIRENZE VECCHIA

STORIA - CRONACA ANEDDOTICA - COSTUMI

(1799-1859)

 

di: Giuseppe Conti

  

XXXI

Befane e Carnevale

La vigilia dell'Epifania - La Befana a spasso - Befanate famose - La Befana e il poeta Fagiuoli - Genealogia della Befana - La calza al ferro del paiuolo - Notte di baldoria - La benedizione dell'acqua santa - Il corso della Befana - Giove in Arno - Non più befane! - Il carnevale al tempo de' Medici - Pallonate e fango - Odio fra gli Strozzi e i Medici - Il carnevale si trasforma - I corsi delle carrozze - Un tremendo mistero - Il capitano Serrati - Le gesta di Battifalde - Il passeggio delle maschere sotto gli Uffizi - Botteghe improvvisate - Feste a Corte In casa del principe Borghese - Nel giardino del marchese Torrigiani - La campana della carne - I veglioni alla Pergola.

Fin verso la prima metà del secolo presente, durò in Firenze un'usanza che datava da epoca remotissima.

C'era il costume, nella vigilia dell'Epifania, di portare in giro per la città una sorta di fantocci rappresentanti uomini o donne, seguiti ognuno da una folla di gente chiassosa, che portava lanterne e lumi, e che suonava a perdifiato in certe trombe assordanti, lunghe, di vetro, che schiamazzava ed urlava, facendo un baccano indiavolato.

Con quella baldoria, s'intendeva di commemorare la visita dei re Magi al presepio: e perciò il più delle volte facevan fantocci col viso sudicio, per rappresentare più al vero cotesti magi, che eran mori.

Il chiasso, il frastuono eran generali per tutta la città, ma più che altrove nel centro, specialmente in Piazza San Firenze, dove cominciarono molti, dopo fatta la facciata della

chiesa, a portarci i più gonzi colla scusa di far veder loro le trombe della Befana; e quando li avevan condotti sulla piazza, li facevan voltare in su a guardare gli angioli colossali, che suonan delle trombe enormi.

Allora i fischi, gli urli non avevan più limiti; e la scena si rinnovava ogni poco, cioè all'arrivo di qualche nuova brigata, che conduceva a mano a mano un'altra vittima della bessaggine umana.

Abituati all'uggia e alla smania dei pubblici divertimenti, o alle becerate di tanti bighelloni, che in occasione di feste vengono oggi dalla campagna e dai sobborghi a screditare la fama di città civile a Firenze, non possiamo farci un'idea di che cosa fossero i divertimenti popolari dei secoli passati.

I terrazzani, gli ortolani di sotto le porte ed i campagnoli, venivano allora in città come modesti e timidi spettatori, non per portarvi la tracotante loro ignoranza, l'aberrazione ripugnante della loro ubriachezza, o per rifugiarvici dopo commesso un delitto. Le bastonature e le lotte dei tempi scorsi, erano tra brigate e brigate, per gelosia momentanea dì precedenza, per bramosia di comparir più degli altri; ma c'era sempre quel non so che di battagliero e di marziale, che oggi non c'è davvero; perché in quattro o cinque, s'insulta o si provoca uno, gli si dà un paio di coltellate e si scappa.

Allora c'era più fierezza, più coraggio, e un'altra nobiltà di sentimento e d'onore.

In tutte le strade, la sera della vigilia dell'Epifania, si vedevano alle finestre qua e là dei fantocci illuminati, rappresentanti per lo più donne vecchie e brutte, o la caricatura de' re magi, o d'un personaggio qualunque. Molte brigate giravan per la città seguite ognuna da una turba di ragazzi e di giovanotti, con trombe, con chitarre, fischi, e ogni sorta di strumenti. Queste brigate eran sempre, s'intende, precedute da una gran Befana infilata in una pertica, e giravan finché avevan gambe, portando a spasso la Befana.

Quando una di queste brigate s'incontrava in un'altra, il frastuono, il chiasso. diventava sbalorditivo. Si finiva per non sentir più nemmen nulla. Le osterie eran piene zeppe, e si cantava e si suonava, bevendo come spugne.

A poter rivedere Firenze di quei tempi, sia pure per una mezz'ora, ci sarebbe da rimanere a bocca aperta.

Anche le arti facevano ognuna la propria befanata, e la sera appunto del 5 gennaio 1589, i setaioli portavano a spasso la loro befana, che era la più bella e la più ricca, tutta vestita in ghingheri, di seta, e con mille ornamenti. In via della Condotta, questa comitiva numerosissima dei setaioli, s'incontrò nella carrozza del marchese Sampieri di Bologna. Quelli della befana imposero al cocchiere di tornare addietro, o di entrare in una di quelle straducole laterali, per lasciar passare il rumoroso corteggio, che in una strada stretta come era quella di Condotta, avrebbe dovuto dividersi e disordinarsi per dar luogo alla carrozza. Il cocchiere, un certo Antonio Mondini, egli pure bolognese, non intendeva ragione; e gli altri seguitavano a sussurrare e a volerlo far tornare addietro. I cavalli, una pariglia morella stupenda, sbuffanti e cogli orecchi ritti scalpitavano e s'imbizzarrivano. Dalle narici si vedeva uscire il fiato, al lume delle torce, come i1 rifiuto d'una macchina a vapore, ed il cocchiere che durava molta fatica a tenerli, intimò sul serio, che gli sgombrassero il passo. Ci fu qualcuno allora, che indispettito dalla soperchieria del marchese Sampieri, che affacciato allo sportello gridava al cocchiere di tirare avanti, e dalla tracotanza del cocchiere stesso, si avventò alla testa de' cavalli per farli andare indietro.

Il Mondini allora, tirata fuori una terzetta, fece fuoco sul gruppo degli avversari, e ferì mortalmente un giovane di ventidue anni di distintissima famiglia, e per colmo di sventura figliuolo unico. Questo infelice fu "il signor Domenico Ricci", che sollevato subito a braccia da' suoi compagni, fu messo in una bottega, "e quivi in meno di mezz'ora, rese l'anima al suo creatore".

L'altra befanata, che cinque anni dopo diventò essa pure celebre, fu quella del 5 gennaio 1594.

Come al solito, la città era tutta una baldoria continuata da un capo all'altro. Le befane si incontravan per le vie salutandosi con fischi ed urli, che arrivavano alle stelle. Il chiarore delle innumerevoli torce rischiarava le strette viuzze, i vicoli e i chiassoli, per dove quelle matte brigate passavano, assordando cogli squilli delle trombe di vetro e d'ottone, e coi berci e le grida. Pareva un popolo contento e felice, spensierato per l'avvenire e dimentico del glorioso passato. Le osterie rigurgitavano di gente che vuotava i boccali di vino come bicchierini di rosolio, e che quindi usciva per andar dietro alle brigate delle befane per aumentare il chiasso e d il frastuono. Una di queste, venendo da Via Calzaioli, sboccò in Piazza della Signoria, e per Via della Ninna e Via de' Neri, si diresse al Ponte delle Grazie per andare a far baccano di là d'Arno. Questa comitiva, quando fu proprio a mezzo il ponte, s'incontrò in un'altra befanata, che da San Niccolò si rivolgeva dalla parte di qua. Al solito vi fu questione, per dir così, d'etichetta. Quelli che andavano di là d'Arno, volevano che gli altri di San Niccolò retrocedessero, per lasciare passar loro; e quegli altri, invece, pretendevano che la befanata, che sboccava dal Canto agli Alberti tornasse addietro lei. Ne nacque un subbuglio; e cominciarono le due parti a questionare sulla precedenza. Vedendo tanto gli uni che gli altri che con le buone non si persuadevano, cominciarono con le cattive; e fecero alle befanate, cioè a dire, si bastonarono con le pertiche e con le befane infilate nelle medesime, che eran tutte montate su un'armatura di legno, che perciò pesavano bene e non male, e nella testa specialmente si sentivano le busse per un pezzo. Gli urli e le grida cambiaron tono; non era più lo schiamazzo fragoroso della baldoria e del chiasso, ma il vocìo della rissa e le imprecazioni della zuffa. Rotte e spezzate le befane, si ricorse ai sassi che dalla porticciuola molti erano scesi a prender sul greto d'Arno, e cominciarono a fare alle sassate che piovevan come la grandine. Era una vera battaglia. Tutto il Ponte alle Grazie risuonò delle bestemmie e delle grida dei combattenti; e la vittima fu un tale Pietro Del Moro, che ricevuta una sassata in una tempia cadde come morto. Il subbuglio si fece allora generale, e gli animi si eccitarono più che mai. La cosa sarebbe andata a finire anche peggio, se fra i più autorevoli cittadini, tanto da una parte che dall'altra, non si fosse trovato il modo di attutire le ire, impedendo nuove vittime. Frattanto, siccome quelli che venivan da San Niccolò, avevan dovuto per davvero retrocedere per la violenza degli avversari, trascinarono il Del Moro privo di sensi in una bottega sui Renai, e fattolo un po' riavere, lo portarono allo Spedale di Santa Maria Nuova, dove, disgraziato, morì il giorno dipoi, lasciando la moglie con tre figliuoli. "E non eran quattr'anni ch'era stato sposo"!

Cosicché, queste due befanate che andarono a finir male, diventaron famose; e servirono di ammaestramento per l'avvenire. Poi, siccome l'indole del popolo fiorentino è stata sempre buona, tali sconci non si rinnovarono, e si continuò per un pezzo a portar le befane a spasso per la città, in mezzo alle torce, e fra le risate, gli schiamazzi e gli strilli delle trombe di vetro.

La vera festa della Befana non solo consisteva nel portare a spasso per la città i fantocci, ma nel mettere alle finestre delle case certe "fantocce che befane s’appellano" dice il Fagiuoli in una sua cicalata inedita, da lui detta nel 1724 la mattina di Berlingaccio in casa Viviani. C'era, a quanto sembra, una specie di gara nel far quei fantocci più belli e che paressero più veri; poiché il citato Fagiuoli racconta di averne veduta una, che destava la comune ammirazione, "la quale aveva nel collo una molla a cui era legato uno spago nascosto dalle vesti, e che tirandolo faceva fare alla befana un grazioso saluto del capo a chi dalla strada stava rivolto verso di lei per guardarla".

il Fagiuoli pare che avesse della ruggine con qualche dama del suo tempo, perché prendendo pretesto da quella befanella che faceva gli inchini ai passanti, esclama con una certa indignazione: "Onde io considerai che così bisognerebbe fare ad alcune nostre superbe Pasquelle incivili, che senza alcun segno di gradimento, su impalate in guisa tale si stanno, quasi che avessero nelle parti deretane - Dio ci liberi! - qualche anima di pagliaio, - o palo - che così le tenesse; ma credo che non solo lo spaghetto, ma né meno un canapo da pozzo, o una gomena da galera, tirata coll'argano bastasse a farle piegare il capo un tantino".

Il dominio della befana passò dalla strada alle pareti domestiche della famiglia; e le mamme, se ne serviron per intimorire i bambini, acciocché fossero buoni. Quindi raccontavano ad essi che la Befana è figliuola del Bau, nipote dell'Orco suo nonno paterno, cugina della Trentancanna, che fu sorella della capra ferrata, ambedue figliuole della Biliorsa, la quale rimase vedova ed erede dell'uomo selvatico chiamato Magorte.

E fin dagli antichi tempi inventaron le mamme la storiella, che i bambini stavan sempre a sentire a bocca aperta, maravigliati ed attoniti, che la befana scendeva nelle case dalla cappa del camino per portar via i bambini cattivi che se li mangiava e ingoiava come se fossero stati confetti; oppure con un coltellaccio spuntato bucava loro il corpo. E fu per questo che insegnarono a' ragazzi quella specie di preghiera, dimenticata, e che diceva:

Befana, befana non mi bucare,

Ch' ho mangiato pane e fave;

Ho un corpo duro, duro,Che mi suona come un tamburo.

Quando poi i bambini eran buoni, davano loro ad intendere che la befana avrebbe portato dolci e regali; e di qui nacque l'uso di mettere la calza al ferro del paiuolo, e che la mattina trovavan piena, perché la mamma aveva pensato a riempirla.

La vigilia dell'Epifania si cantava vespro solenne in tutte le chiese di Firenze, e vi assisteva una folla che non aveva nulla di comune con le folle delle altre circostanze; poiché per la massima parte eran donne e ragazzi con fiaschi, boccali, o anche con dei pentoli, che accorrevano alle chiese parrocchiali, dove dopo il vespro, si faceva la solenne benedizione dell'acqua santa e si distribuiva al popolo.

La sera poi, anche nella prima metà del secolo presente, sotto le Logge di Mercato Nuovo, si riunivano tutti i ragazzi e bighelloni a comprar le trombe di vetro e i pezzi delle torce a vento, essendo quello il punto di partenza per andare a girar per Firenze. Costoro si univano a certi carri sui quali vi eran per lo più dei coristi col viso tinto, che in mezzo avevano un fantoccio vestito da donna rappresentante la befana festeggiata dal suono delle trombe, che facevano assordire quanti avevano la disgrazia di combinarsi in quel casa del diavolo, poiché il complimento più gentile che si poteva ricevere, era di avere la torcia accesa nella faccia, o una strombazzata negli orecchi.

Fra tante befane ce n'era una colossale, la quale veniva portata in un carro tirato da due cavalli; e nel mezzo un'antenna altissima, in cima alla quale era legato un uomo vestito da Giove con un mantello di velluto ricamato d'oro. Egli era circondato da diversi coristi anch'essi in costume, e andavano per tutta la sera a fare un baccano e un chiasso indemoniato. Successe un anno, che quando il carro fu sul Ponte alle Grazie, ci corse poco che Giove non andasse in Arno per un colpo di vento che ruppe l'antenna. Questo Giove che era un imbianchino, certo Cristofani, e faceva parte del corpo dei Pompieri, per quanto fosse avvezzo a star per l'aria, d'esser legato sull'antenna, dopo quell'avviso non ne volle saper più nulla. Perciò, negli anni successivi, il Cristofani andò a fare il Giove sopra il carro dei coristi della Pergola: ma parve che il nume non volesse esser più rappresentato in terra da un imbianchino, perché per l'Epifania del 1838 per levar lo scandalo fece piover così a dirotto, che dai tubi dei tetti veniva giù l'acqua a orci; ed il Cristofani, che faceva il "Giove nella sua piena Maestà", con tutta quell'acqua che prese si beccò un mal di petto tale, che in tre giorni andò nel mondo di là.

Dopo quell'anno non trovandosi più nessuno che volesse far da Giove, la Befana solenne fu abolita, e non rimasero che le altre spicciole messe alla finestra nei Camaldoli di San Lorenzo, in Via Romita, in Via Chiara, nel Gomitolo dell'Oro, dalle Fonticine, e in Via Panicale. Quelle, le lasciavano stare anche per tutto il giorno dell'Epifania, con gran gioia dei bambini e dei ragazzi che vedevano nella befana la fata benefica che aveva loro riempita la calza di marronsecchi, di farina dolce e del consueto tizzo di carbone per far la burletta.

Al giorno d'oggi, per far la burletta ai ragazzi ci vuol altro; perché son giusto peggio del carbone: o tingono, o scottano!

E con la Befana si entrava in pieno carnevale.

In antico, il carnevale di Firenze era dei più brillanti e dei più rumorosi. Fin dal tempo dei Medici eran famose certe mascherate fatte dagli stessi componenti di quella corrotta e fastosa famiglia, che insieme a coloro della loro parte, andavan per la città fino a notte inoltrata, con suoni e canti, e lumi di torce "come se fosse di pieno giorno". Non erano stati ancora inventati i corsi delle carrozze; ma la baldoria e il chiasso che si faceva per le vie, riducevan Firenze in quei giorni la città più spensierata e più gaia del mondo.

C'era invece l'uso, di carnevale, d'andar col pallone in Mercato Nuovo, dov'erano le botteghe dei mercanti di seta e di drappi; ed in Mercato Vecchio, tra' ferravecchi e tra' venditori di pannilani. I giovani delle migliori famiglie prendevan quasi tutti parte a questa gazzarra del pallone, andando mascherati in mille fogge. Essi, mescolandosi tra la folla, figurando di giuocare tiravano pallonate a tutt'andare alle persone che s'imbattevano in loro, le quali rimanevan senza fiato. Più che altro però, cercavan di mettere i palloni nelle botteghe dei fondachi e dei mercanti di seterie, per costringerli a chiudere e mandare i garzoni a divertirsi e a far carnevale anche loro. E fin che la faccenda rimase in questi limiti, il popolo ne rideva, specialmente quando in Mercato Vecchio mettevano qualche pallone in bottega d'un ferravecchio, che faceva venir di sotto padelle, treppiedi, paioli e bricchi, con un fracasso assordante.

L'effetto, com'è facile a credersi, era sempre raggiunto; poiché con quella razza d'avvisi, tutti s'affrettavano a chiudere le botteghe, per non aver danni maggiori dell'avviso ricevuto.

Ma la cosa, col tempo, eccedé in modo, che più d'una volta suscitarono dei veri tumulti.

Quando il cattivo esempio viene dall'alto non c'è da rimproverare il popolo se poi, come suol dirsi, dandogli un dito prende tutta la mano, e anche il braccio. Infatti, quando nei giorni di carnevale pioveva, andavano nonostante varie brigate di maschere per la città, ed in Mercato Nuovo ed in Vacchereccia facendo al pallone; e raccogliendo poi i palloni tutti fradici e inzuppati nella mota, li tiravano sulle stoffe e sui drappi, dei fondachi, rovinando e sciupando una quantità di drappi con danno rilevantissimo dei mercanti. Di qui nascevano liti e questioni infinite, anche con le persone che non eran risparmiate dalle pallonate motose, e che rimanevano bollate ch'era un piacere. Il popolo allora trasmodò. Se i nobili facevano quella sconcezza e si mostravano così poco civili, la plebe sentiva il bisogno di esser da più. E difatti molti popolani, di carnevale, desideravan più le giornate piovose che il bel tempo; perché, a modo loro, si divertivan di più. Invece del pallone portavan certi mazzi di cenci che strofinavano nelle pozze e nei rigagnoli; li battevano nel viso alla gente ed entravano a frotte nelle botteghe insozzando ogni cosa, completando così il danno cominciato dai nobili col pallone. Non è da credersi il numero delle bastonature e delle pugnalate che ne erano la conseguenza!

E come se ciò non bastasse, si volle esagerare fino in fondo.

Quando quegli scapestrati cominciavano a prender di mira qualcuno, a furia di pallonate o di quei cenciacci sudici, lo rincorrevano perfino in chiesa e sulle predelle degli altari, dove tanti disgraziati si rifugiavano, credendo d'esser salvi almeno nella casa di Dio, nella quale eran salvi gli assassini e i ladri, quand'erano a tempo ad entrarvi dopo commesso un delitto, e prima che i birri gli agguantassero.

Bisognava vedere come eran ridotti quegli infelici, specialmente le donne, che venivano perseguitate più degli uomini! Facevan rivoltare lo stomaco col viso lercio di mota, da non capir più a che specie appartenessero.

Da questa usanza, che in principio non era che una burla, degenerata poi in una vera sudiceria, nacque l'odio atroce fra gli Strozzi ed i Medici.

Nel 1534 alcuni della famiglia Strozzi insieme ad altri cittadini uscirono, nel carnevale s'intende, seguitando l'uso del pallone, con quella licenza delle pallonate fangose tirate nelle botteghe di Mercato Nuovo.

Il duca Alessandro ne prese pretesto per fargli tutti arrestare. Fra gli altri c'era il figliuolo di Filippo Strozzi, il quale, indignato per l'onta fatta dal Duca alla sua famiglia, tenne in sé l'offesa ricevuta, e mandò i suoi cassieri a pagare i danni nelle botteghe dei fondachí dov'era stato tirato il pallone. Tolto così il pretesto, il duca Alessandro fu costretto a rimettere in libertà gli arrestati, che si legarono a dito l'ingiuria patita.

I signori Otto dopo questo fatto, per mettere un freno a tanta licenza, mandarono un bando ordinando, con la minaccia di pene severissime, che nessuno potesse uscire col pallone prima delle ventidue ore, e prima che i trombetti del Comune fossero andati per le strade suonando le trombe, perché i mercanti così avvertiti, serrassero le botteghe.

Eliminata la causa di tanti spregi e di tanti tumulti, a poco a poco quell'usanza cessò, perché non aveva più ragion d'essere, una volta che i trombetti avvertivano i mercanti di chiudere prima che fosse permesso di giuocare al pallone; e poi, perché ormai che i rompicolli si erano abituati a trascendere, ad andare all'esagerazione ed alla frenesia, non si potevano più adattare al divertimento lecito e da persone pulite.

Da questo l'usanza si trasformò e divenne la passione del giuoco del pallone che dura ancora; e che, a quanto pare, durerà fin verso la fin del mondo, o giù di lì.

Dopo l'epoca medicea il carnevale prese un carattere più mite e più garbato, assumendo nuovo brio e nuova eleganza, per la quantità dei carri coi cori de' teatri, con orchestre eccellenti che si formarono, e delle mascherate rappresentanti fatti storici o mitologici degni d'ammirazione per i bellissimi costumi, per i ricchi vestiari, e per la fedeltà storica del soggetto che rappresentavano.

Quei carri e quelle mascherate, ad alcune delle quali come quella del "Trionfo di Arianna e Bacco" era talvolta permesso di recarsi nel Giardino di Boboli, dalla parte della Meridiana per fare atto d'omaggio ai Sovrani, prendevan parte ai corsi delle carrozze che si facevano nelle ultime tre domeniche di carnevale, nel giorno di Berlingaccio, e negli ultimi due giorni.

Ai corsi interveniva sempre anche la Corte in mute di sei cavalli, talvolta fino in numero di dieci; ed i principi e le principesse avevano seco il loro maggiordomo, le dame e i ciambellani di servizio. Quella dei Sovrani era scortata da otto guardie del corpo.

Il corso cominciava dalla Piazza Santa Croce dove lo spettacolo della folla delle maschere era veramente allegro e pittoresco. Quindi, girando attorno alla fonte, e poi per Via del Diluvio, Via del Palagio, Via del Proconsolo, Piazza del Duomo, Via de'Cerretani e Via dei Tornabuoni girava intorno alla colonna di Santa Trinita: in seguito poi, entrava fino in Lungarno.

Lungo lo stradale, a tutte le cantonate, era posta una sentinella di fanteria onde impedire che entrassero nel corso i barocci o le carrozze indecenti. Il comando di quei soldati era in Piazza Santa Croce in faccia alla fonte guardando la chiesa, dove stava schierato un plotone comandato da un capitano; ma il responsabile vero del servizio era il Comandante di Piazza, che stava alla destra del capitano, per dare gli ordini opportuni ove occorresse; e gli Aiutanti di Piazza dovevan perlustrare a cavallo fra le due file delle carrozze da un capo all'altro del corso per mantenere il buon ordine della popolazione e delle carrozze, affinché non accadessero disgrazie. La spesa che la Comunità pagava per questo servizio e per quello del passeggio delle maschere sotto gli Uffizi, era sempre di oltre 900 lire toscane.

Da Badia e da San Gaetano stava fermo un ufficiale con un tamburo e un piffero; e finito il corso, la truppa si raccoglieva strada facendo, venendo in giù dalla Piazza di Santa Croce e riunendosi in Piazza delle Cipolle. Quivi si formava un circolo, e dal capitano venivan chiamati i capoposti comandati ai teatri; e lì negli orecchi, come un mistero tremendo, si dava loro la parola d'ordine e al capoposto si consegnava in un plico, che si metteva in petto. Quindi, il Comandante rimandava tutti ai loro posti, perché prendessero ciascuno i suoi uomini; e dopo, via via, teatro per teatro, ogni drappello veniva chiamato e partiva per la sua destinazione, come se andasse a difendere l'integrità dello Stato. Il resto dei soldati tornava in Fortezza.

Gli Ufficiali di Piazza avevan tanta pratica nel regolare i corsi, che raramente avveniva uno strappo, o che una fila rimanesse ferma. Per dirigere e regolare un corso, ci mettevano un impegno straordinario, un amor proprio incredibile, come se fossero stati sul campo di battaglia, tanto più che non correvan nessun pericolo pavoneggiandosi tra la folla come tanti generali d'armata. Se qualche cocchiere non. stava agli ordini e voleva o attraversare, o tornare indietro, l'Ufficiale di Piazza lo dichiarava in arresto, lo faceva uscire dal corso ed accompagnare al Comando, dal dragone che ogni ufficiale aveva ai suoi ordini, per render conto della prepotenza usata.

Nella vita ristretta di quei tempi, nei quali quasi tutti si conoscevano, - e si sapevano anche i fatti altrui benché non ci fosse che un giornale o due che pochi leggevano - tutte le cariche, tutte le autorità, tutti gli impiegati erano noti; e quelli che più si mettevano in evidenza, o per vanagloria o per dovere d'ufficio, diventavan, per così dire, di dominio pubblico. Tra questi era celebre in Firenze il capitano Serrati, un avanzo delle guerre napoleoniche, un omiciattolo piccino e tutto rabbia, il quale, avendo acquistate abitudini marziali nella sua lunga carriera, ed insofferente d'una vita così meschina come quella dell'Ufficiale di Piazza, andava a nozze tutte le volte che gli si presentava l'occasione di montare a cavallo. Per conseguenza, i corsi delle carrozze eran per lui giorni di gloria. Prepotente e rogantino per natura, spiegava un'autorità, un'energia ed un sussiego fuor di luogo. Il popolo lo prese subito in uggia per quel suo fare ridicolo, e cominciò a canzonarlo ad alta voce quando passava, senza che egli, che si voltava indispettito ad ogni apostrofe che lo pungeva, potesse mai scoprire chi lo dileggiava così; perché mentre si voltava da una parte, si sentiva dire un'impertinenza dall'altra, e risate da non averne idea. E lui ci s'imbizziva e sgranava quegli occhietti di fuoco, come se avesse voluto fulminare la folla.

L'uniforme degli antichi Ufficiali di Piazza era una giubba corta, turchina, con faldine lunghe e strette; ed il capitano Serrati, l'omino rabbioso che caracollava un mite destriero, quando, trottava tra le file delle carrozze le falde gli svolazzavano e gli battevano sulla sella; perciò i fiorentini, così arguti, gli misero il soprannome di Battifalde, e non fu quasi più conosciuto per il capitano Serrati.

Erano famose le rabbie che Battifalde prendeva durante il corso quando qualcuno tentava d'uscire o di voltare; tanto più che molti cocchieri glielo facevano apposta. Ma è altresì vero che egli era troppo rigoroso ed usava modi provocanti ed alteri: per causa sua, per il corso di San Giovanni, dal Ponte alla Carraia per un'angheria da lui fatta ad un cocchiere, poco mancò che non nascesse una sommossa, la quale si convertì in una burletta. Mentre quel guerriero indomito pareva sfidar l'ira della folla e si dimenava e si sbracciava, da una mano ignota gli fu assestato un tal lattone sulla lucerna, che gli messe dentro anche il naso. Da tutte le parti si cominciò a gridare: "Dài a Battifalde, dài, dài...." Mentre l'infelice assordito dai fischi e dagli urli durava una fatica enorme a levarsi la lucerna, il dragone d'ordinanza non sapeva che cosa fare, perché la folla lo aveva messo anche più distante dei dieci passi di prammatica; per conseguenza rimase lì fermo tra le carrozze, senza potere andare né innanzi né indietro. E qui nuove irrisioni e nuove risate.

Quando una delle domeniche del carnevale cadeva nel due di febbraio, giorno della Purificazione di Maria, o della Candelaia come comunemente si dice per simboleggiare la Madonna che andò in santo, era proibito il corso delle carrozze e le maschere non potevano uscire prima delle ventiquattro.

Fin dal secolo passato c'era l'uso nei giorni nei quali aveva luogo il corso delle carrozze, del passeggio delle maschere sotto gli Uffizi da mezzogiorno alle due. Era quella una cosa veramente ed esclusivamente fiorentina, tipica addirittura, e d'una signorile eleganza.

Vi intervenivano i Sovrani con la Corte e le cariche dello Stato col segno della maschera al cappello, cioè con la morettina legata attorno al cappello a tuba - oggi si direbbe cilindro. - Il luogo di riunione della Corte era "in una delle stanze della Regia Zecca", espressamente preparate dalla Regia Guardaroba.

Il Passeggio delle maschere poteva dirsi un grande veglione pubblico di giorno. Le maschere che v'intervenivano erano non soltanto belle e spiritose ma di lusso addirittura. Lo scherzo era garbato ed il frizzo e la barzelletta, se pure qualche volta un po' salaci, non erano mai impertinenti. Il Granduca e la Granduchessa coi Principi, giravano tra la folla compiacendosi d'essere in mezzo a quell'allegria, a quel chiasso, corretto ma vivace, e ridevano e si divertivano quando qualche mascherina più ardita si avvicinava al Granduca e gli diceva, con la voce stridula convenzionale delle maschere: - Addio, Leopoldo, ti conosco, sai! - Oppure alla Granduchessa: - Addio, Tonia, se' bona! - O anche: - Come tu se' bella! felice lui!... - accennando il regio sposo!

Fino dalla metà del secolo passato si solevano costruire di legname alcune botteghe in fondo agli Uffizi, per chiudere il passo dalla parte dell'Arno. Quelle botteghe, in numero di cinque, venivan date in affitto a tre chincaglieri e due ad uso di "acquacedrataio e biscotteria per decoro e miglior servizio della festa". Ma col tempo non si trovò più nessun negoziante che le volesse occupare neanche gratis. Nel 1818 il Magistrato civico deliberò di costruirne due soltanto "ad uso di caffè e di bozzolaro". E siccome anche queste non le volle nessuno, perché era più lo scapito del guadagno, così nel 1830 il Magistrato "a proposizione del signor Gonfaloniere" ordinò che tanto nel carnevale di quell'anno quanto negli anni futuri non venissero più erette "in fondo agli Uffìzi" le due botteghe di legname perché non vi eran più "attendenti per fornirle, come costumavasi in addietro", e anche perché non erano più "di verun riparo al passeggio delle maschere ne' soliti giorni", veduto che la gente, alla quale era vietato l'ingresso perché non decentemente vestita, e specie i ragazzi, dalla parte dell'Arno trovava modo di passare di sotto i banchi alzando la tela dipinta a pietra.

Così la Comunità per l'avvenire risparmiò "una spesa affatto inutile", tanto più che vi rimaneva sempre quella, per quanto lieve, occorrente agli "opranti per mettere e riportare le catene, presso gli Uffizi lunghi e corti", in occasione dei corsi delle maschere o passeggio.

Durante il carnevale oltre ai teatri ed ai veglioni avevan luogo a Corte feste da ballo e pranzi di gala con tale profusione di serviti da tavola, ricchezza d'argenterie, di vasellami d'oro, e di antichi parati, da superare, come s'è riferito altrove, qualunque Corte d'Europa a detta dei medesimi principi e regnanti stranieri, che più volte intervennero ai pranzi di Palazzo Pitti.

Ed il Granduca e la Corte intervenivano pure a feste private: la più celebre fu quella ai tempi di Ferdinando III la sera del 5 febbraio 1823, della quale festa nel Diario di Corte così si parla: "I Sovrani andarono alla gran festa da ballo data dal principe Cammillo Borghese ove sono stati anche a lauta cena. In questa occasione si son recati in una più che elegante mascherata rappresentante la famiglia di Lorenzo il Magnifico, col seguito degli uomini illustri di quei tempi, mascherata eseguita dalle persone reali e da diverse cariche di Corte, ciambellani e dame di Corte stati tutti preventivamente invitati alla medesima dal Reale Arciduca.

Il giorno dopo, l'arciduca Leopoldo invitò a pranzo nel suo quartiere della Meridiana tutti i componenti la mascherata, ed è stata servita la tavola per 18 coperti, essendo stato invitato anche il principe Borghese".

Fra le feste private di carnevale si rammentò per lungo tempo la mascherata di Pulcinella fatta verso il 1830 dal marchese Torrigiani nel suo splendido giardino di Via de' Serragli, e che venne riprodotta in un quadro che tuttora si conserva nella Villa Torrigiani a Quinto.

Il Granduca andava anche ai veglioni della Pergola, ma prima si recava allo spettacolo del Cocomero o del teatro Nuovo.

L’ultimo giorno di carnevale però, il devoto monarca, per dare il buon esempio, cenava alle undici coi suoi invitati "nella solita stanza dietro il palco reale", poiché appunto alle undici suonava la campana detta della carne. Questa campana, che suona sempre quella sera a quell'ora, annunziava ai cittadini che si affrettassero a cenare prima che entrasse la quaresima, e in certo qual modo ricordava loro il divieto dei cibi di grasso. Perciò quando sentivan quella campana, dicevano "Suona a carne". E Dio sa, se specialmente per molti di quelli che erano ai veglioni. suonava a carne davvero!

I veglioni della Pergola erano come una leggenda, una fantasia, una visione per le menti del popolo, molti del quale fra i loro desiderii, che sembravano inappagabili, mettevan quello di vedere, prima di morire, un di quei veglioni, sebbene ci volessero tre Paoli, somma enorme per quei tempi: e poi il resto !

Nel carnevale se ne davano tre dei veglioni alla Pergola: uno la notte di Berlingaccio; quello di gala l'ultima domenica; ed un altro l'ultimo giorno, che finiva col suono della campana, e allora non era più lecito divertirsi in pubblico.

Il teatro era tutto illuminato a cera, oltre la grande lumiera del mezzo. Nei palchi, i signori, che erano tutti accademici, facevano la cena con grande sfarzo di vivande, e con un apparecchio principesco. A quelle cene erano invitati gli amici e i conoscenti più intimi, e l'allegria, ed il brio era generale, sebbene contenuta nei limiti della più perfetta educazione e del rispetto reciproco anche tra le maschere.

Interveniva pure la Corte, che invitava nel palco reale tutti i ministri di Stato e quelli esteri, i quali godevano dello spettacolo di una folle enorme di maschere che ballavano "di scuola" che era una maraviglia. Il pubblico era sceltissimo.

Ogni maschera vestiva costumi elegantissimi.

Il servizio lo prestavano i granatieri comandati da un uffìciale, e si tenevano due sentinelle alla porta d'ingresso, una sulla cantonata di Via Sant' Egidio, ed una sul canto di Cafaggiolo, per fare stare le carrozze allineate in due file lungo tutta la Via della Pergola. Framezzo a queste perlustrava un caporale e un sergente per mantenere il buon ordine ed impedire questioni tra i cocchieri come spesso avveniva, volendo ognuno partire più presto dell'altro quando il chiamatore chiamava le carrozze delle famiglie le quali molte volte tornavano a casa a piedi, perché era stato arrestato il cocchiere ribellatosi ai soldati: ma il giorno dopo poteva star sicuro d'esser licenziato. Così toccava una volta per uno ad andar via a piedi!

             

  

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Ultimo Aggiornamento: 08/01/99 23.01