De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

FIRENZE VECCHIA

STORIA - CRONACA ANEDDOTICA - COSTUMI

(1799-1859)

 

di: Giuseppe Conti

  

XXX

Bagni e Teatri

A Livorno - La roba a buon mercato - Bagni d'Arno - La Vagaloggia - Furti e improntitudini - La "Buca del Cento" e il bagno del Fischiaio - Il padre di un artista - Donne e ragazzi - Le ciane al bagno - Il Pons, francese, riscalda l'acqua d'Arno - Il barone di Poallys e il principe Anatolio Demidoff - La più bella donna di Firenze - Il bagno delle Molina di San Niccolò - I Matton rossi - L'oste Dottore alla Piagentina - Nuotatori temerari - Il premio di dieci scudi - Amore per il teatro - Gli Stenterelli - Amato Ricci alla Piazza Vecchia - Lorenzo Cannelli al Borgognissanti - Il Cannelli e il Granduca - Il teatro Leopoldo o della Quarconia - La maschera del teatro - Palleggio d'improperii - Il gobbo Masoni - La parte dei pubblico - Teatro Goldoni - I veglioncini - Questioni e disordini abituali - Il tenente Saccardi - Attaccabrighe puniti - Il teatro Alfieri e gli esordienti - Il teatro Nuovo e gli Spedalini - Il Cocomero oggi "Niccolini" - La Pergola - Le prime rappresentazioni - La modestia del maestro - Esecuzioni d'opere e di balli - Spettacoli di quaresima - Cantanti di grido.

In Firenze, per coloro che potevan fare delle spese di lusso, c'era l'abitudine d'andare ai bagni della Porretta o a quelli di Livorno; e quando tornavano da quest'ultima città, portavano una quantità di roba acquistata a prezzi favolosamente bassi, perché essendovi colà il portofranco, non v'era dazio di sorta. Per conseguenza, quando si vedeva dagli amici di casa o dai conoscenti quella roba, pareva venuta dall'altro mondo, tanto era diversa dalle cose usuali che si compravano a Firenze, e che costavano il doppio.

Molti vi andavano anche apposta, e s'adattavano a unviaggio di due giorni in carrozza, per comprarsi i vestiti da inverno o da estate a seconda della stagione, perché oltre al gran risparmio c'era la novità del disegno e della stoffa da parer roba che non la potessero aver che i signori.

Quelli del popolo che erano appassionatissimi per il nuoto, e che non potevano andare ai bagni di Livorno o della Porretta, facevan di necessità virtù e si contentavano di quelli d’Arno. Le località non mancavano; ed una delle più frequentate era la Vagaloggia, fuori della Porticciuola del Prato, dov'erano le molina, che rimanevano precisamente di fronte dov'è oggi il palazzo Favard.

Ai bagni della Vagaloggia si entrava dalla Porticciuola; e voltando subito a sinistra, ove erano i molini, si trovava una specie di viottolo fiancheggiato da piante d'arancio selvatiche, ed altri alberetti. Arrivati in fondo, c'era una piazzetta dalla quale s'entrava in uno stanzone, alle cui pareti in alcuni punti per i più ambiziosi, che dopo fatto il bagno volevano pettinarsi, v'erano dei pettini di legno da cavalli, legati a una corda attaccata a un arpione, perché non li portassero via. Fidati era un brav'uomo; ma Non ti fidare era meglio di lui! Il bagnaiuolo forniva un asciugatoio di lino.

Chi desiderava questo servizio, doveva metter mano a tasca e spendere, nientemeno, una crazia! Coloro che non volevano o non potevano spendere, scendevano a basso dov'era il bagno, e lungo il muro in certe buche a volticciuola come quelle sotto i camini per il carbone, vi riponevano i panni, dei quali nessuno ne aveva la responsabilità. Accadeva spesso però, che qualcuno sbagliava a sommo studio i propri panni con quelli d'un altro, molto più che le buche non eran tante da contenere gli abiti di tutti; ed allora, alcuni quando uscivan dall'acqua si trovavano cambiata la propria roba in altra peggio, e spesso mancanti della camicia, o delle scarpe e anche dei calzoni!... Per conseguenza si vedevano certuni tutti stizziti, che bestemmiavan come turchi, andare a casa scalzi o mezzi nudi. E questo seguiva, nonostante che alla porta d'ingresso del bagno ci fosse un veterano intrepido, armato di un brando, e vi stesse di piantone per impedire che i furfanti i quali barattavano o portavan via la roba potessero fuggire, e cadessero invece nelle mani della punitiva giustizia. La quale, pareva invece che non avesse neanche le braccia; perché quasi ogni sera la roba spariva e il veterano lasciava passare i ladri, che d'altronde non poteva conoscere, poiché vedeva andar via tutti col suo comodo, senza destare il minimo sospetto.

Questo aristocratico bagno, era diviso da un cancello di ferro per tutta la sua lunghezza: una parte era riserbata per le donne, l'altra per gli uomini. E perché il pudore del sesso che qualche volta si bagnava in camicia, fosse salvo, il cancello era coperto da una lamiera, per impedire la malvagia curiosità dell'altro sesso. Ma la impediva fino a un certo punto; perché coloro che sapevan nuotar bene, si buttavan sott'acqua e riuscivan fuori passando di sotto il cancello nel bagno delle donne. Le quali urlavano come calandre, vedendo quegli sfacciati che si levavano il divertimento di far quel bel lavoro, più per farle arrabbiare che per sorprenderle quando si levavan la camicia fradicia per rimettersi quella asciutta.

Il costume da bagno degli uomini, permesso anche dalla legge, era quanto di più semplice si poteva immaginare, poiché scendevan nell'acqua come Dio li aveva fatti, e non sempre aveva fatto modelli di bellezza.

Due altri bagni come la Vagaloggia, ma senza il pericolo d'andare a casa mezzi nudi, erano quello detto della "Buca del Cento" lungo il prato del palazzo Del Nero, ora Torrigiani, e l'altro chiamato il Fischiaio dalla parte delle Molina de' Renai.

Di questi bagni era proprietario Giovan Battista Bianchi detto il Rosso; e dalla sua bottega sulla penultima pigna del ponte, dalla parte che guarda il Ponte Vecchio, dove stava a far le reti da pescare, si scendeva in Arno per mezzo di una scala di legno, pagando un quattrino: e coloro che volevano un canovaccio per asciugarsi, spendevano un soldo!

Il bagno della "Buca del Cento" era contornato e chiuso da tende, col permesso del Magistrato civico, che lo accordava al Bianchi ogni anno, previo permesso del Commissario del quartiere. Costui, nella sua umile condizione non avrebbe mai preveduto, che un suo figliuolo, Gaetano Bianchi, nato nel 1819 in quella povera casetta sulla pigna del ponte, sarebbe un giorno divenuto un artista provetto e di gran merito, esercitando la pittura a buon fresco e facendosi l'iniziatore del restauro e l'imitatore delle pitture degli antichi maestri, molte delle quali per merito suo furono in tempo salvate e restituite all'ammirazione degli artisti e degli studiosi.

In Gaetano Bianchi, il figlio del Rosso, nacque la passione dell'Arte in un modo assai singolare. Suo padre lo mise da ragazzo a fare il legatore di libri nella cartoleria Pistoi in Condotta, dove il maestro gli dava a lavare, con certi acidi, alcune pergamene tutte miniate, per fare sparire gli ornati e le figure, onde servirsene poi per le culatte delle filze. A cotesto bambino, passava l'anima di dover distruggere tante belle pergamene storiate, che il Pistoi comprava dai servitori delle case signorili e anche dai custodi dell'Archivio: e prima di distruggerle le lucidava alla meglio, come poteva. Quello fu il primo passo per, divenire artista.

Nella casa di Via Santa Reparata, dove Gaetano Bianchi morì nel 1892, molti artisti ed ammiratori suoi, col consenso del Comune, vollero porre una lapide, in memoria d'un uomo che da modesta origine seppe illustrare il proprio nome.

Tanto nei bagni della "Buca del Cento" quanto in quelli del Fischiaio vi era poco riguardo, perché stavan mescolati insieme le donne, che andavano a fare il bagno portando seco i ragazzi forse perché vedessero più presto come stavan le cose, e gli uomini che per costume e per rispettar la decenza si legavano alla vita un fazzoletto a fisciù! e ringraziare Iddio!

Molti però spendevano quel quattrino, che ci voleva per scendere in Arno, soltanto per divertirsi stando sul greto a sentir le questioni che tutti i giorni nascevano fra le ciane di San Niccolò che andavano a bagnarsi, e che se ne dicevan di tutt'i colori. Quand'erano arrabbiate, aprivan bocca e lasciavano andare! Le liti nascevano spesso per via dei figliuoli; chi s'allontanava troppo, chi li mandava via e dava loro anche uno scapaccione, suscitando un putiferio e un bailamme, che faceva scoppiar dal ridere quelli che si divenivano a sentirle, e che da esse eran trattati di tutti i titoli, appunto perché ridevano.

Anche alle Molina de' Renai dove oggi comincia il Lungarno Serristori, vi era un bagno: ma quello era frequentato sul serio da "fior di persone"; poiché era stato costruito apposta coi camerini, affinché ognuno avesse la sua libertà.

Il primo proprietario era un certo Lemmi; e poi fu un tal Pons, francese di Lione, venuto a Firenze per impiantarvi una tintoria che esiste tuttora. Egli ottenne il permesso di costruire un bagno profittando dell'acqua delle Molina; e appena fece fare alcuni stanzini con acqua d'Arno calda nelle tinozze, destò moltissimo fanatismo, perché nell'acqua d'Arno c'era una gran fiducia, e anche perché l'aver trovato l'espediente di riscaldarla era una vera novità. Vi accorsero ben presto tutti i primi signori di Firenze; quello però che diede maggior fama ai bagni delle Molina de'Renai, o "di Pons" come comunemente si chiamavano, fu, il barone di Poallys, addetto alla Legazione di Francia, che era entusiasta di quel locale per la libertà che vi si godeva, e per il divertimento del nuoto. Più fanatico del barone fu il principe Anatolio Demidoff, che essendo un nuotatore di prima forza vi trovava tutto il suo pascolo, lottando contro le correnti delle Molina ed il rigurgito dell'acqua, che metteva il bagno in una condizione veramente eccezionale.

La principessa Matilde, la più bella donna di Firenze, si moveva spesso dalla villa di Quarto, detta in suo onore Villa Matilde, per andare al bagno di Pons a prendere il marito. Un giorno, per curiosità, volle recarsi nello stanzino del principe Anatolio per fargli una sorpresa; ed affacciatasi al finestrino che dava sull'Arno per vedere il marito nell'acqua, si mise a ridere tanto di genio, vedendolo, che egli voltatosi in su e riconosciutala, non poté fare a meno di ridere anche lui, immaginandosi quello che passava nella mente della Principessa, che aveva voluto sorprenderlo in quell'atto.

Più su, risalendo il corso dell'Arno, vi era l'altro bagno delle Molina di San Niccolò, frequentato, se non dalla peggior feccia di Firenze, come quello della Vagaloggia, poco ci correva: poiché vi andavano tutti quelli della Porta a San Miniato e dei Fondacci.

Ma quel bagno era un po' pericoloso; perché dopo ogni più piccola piena che smoveva il letto della gora, si trovavano nel fondo vetri, ossi e spazzature buttati dalle case di San Niccolò; per conseguenza, molto spesso qualcuno si sfondava un piede con un pezzo di bicchiere rotto, o si feriva malamente in qualche altra parte; e molti correvano anche rischio di affogare, per il dolore della ferita che dava loro allo stomaco.

I bagni dei buontemponi e delle persone che potevano spendere perché ci voleva mezzo paolo - 28 centesimi – erano quelli della Zecca Vecchia in fondo a Via delle Torricelle, su una piazzetta detta la "Piazza della Ghiozza" dove, in una ventina, andavano i dragoni a far gli esercizi. Quei bagni comunemente si chiamavano i Matton rossi, perché dove si faceva il bagno era ammattonato; e col movimento continuo dell'acqua, i mattoni si mantenevan sempre rossi. Anche quei bagni erano all'aperto, e vi andavano soltanto le persone a modo, fra le quali vi eran dei notatori di polso, perché era un luogo pericoloso, non solo a causa delle correnti e dei molinelli, ma anche per la profondità, che era piuttosto ardita. I Matton rossi confinavano col giardino dello Scoti, che vi aveva la filanda della seta a cui serviva di forza motrice l'acqua dell'Arno.

Passata la porta della Zecca Vecchia, in prossimità della quale si vedeva sulle mura lo stemma de'Medici, si traversava un androne dov'eran quelli che macinavan la gallonea per i conciatori; v'erano pure diversi pigionali, e perfino un bottegaio e un vinaio, dai quali dopo il bagno, molti si fermavano a mangiare il fritto di pesci d'Arno, o a fare uno spuntino con l'affettato e un buon bicchier di vino. I pesci d'Arno andavano anche a mangiarli da un oste chiamato il Dottore, perché medicava clandestinamente certe malattie; ed aveva bottega sull'Arno alla Piagentina, passate le Molina dove andavano a bagnarsi i nuotatori più appassionati, che per mostrare la loro valentìa preferivano la Casaccia, così chiamata da un'antica casa di navalestro rovinata, luogo pericolosissimo, perché i molinelli e i gorghi dell'acqua eran tremendi, e la profondità grandissima.

Quanti e quanti di quei bravi nuotatori hanno fatto accorrere la Misericordia per trasportarli cadaveri!

Oltre gli appassionati vi erano i temerari; i quali ambivano di mostrare la loro bravura buttandosi nel fiume dalle sponde de1 Lungarno, prima della Porticciuola delle Travi, vicino al Ponte alle Grazie, in quel punto dove è maggior corrente, per fare a chi resisteva più nuotando sott'acqua ed arrivando il primo all'arcata di mezzo del Ponte Vecchio.

La gente, ansiosa, si spenzolava dalle sponde, trepidando sempre per la vita di quei nuotatori audaci: e a quelli che arrivavano primi, faceva un evviva così spontaneo, così sincero e prolungato, da dimostrare tutto l'interesse che vi prendeva e l'angoscia sofferta per la tema di una disgrazia.

Fra questi nuotatori s'era reso celebre un tale soprannominato Mondo, che aveva salvato molte persone quando stavano per affogare. E siccome per ognuna di esse il Governo gli dava dieci scudi di premio, così l'apparente noncuranza della propria vita per salvar quella degli altri, divenne una speculazione. Infatti, questi celebri nuotatori di quando in quando si mettevan d'accordo con alcuni che andando a bagnarsi, a un certo punto figuravan d'affogare. E i nuotatori celebri, che senza parere stavan giù di li sempre pronti, compievan l'atto eroico di spogliarsi e buttarsi nell'acqua per accorrere a salvar l'infelice, che si seccava a stare a fare il falso affogato se il salvatore tardava, e a rubare i dieci scudi.

Scoperta però, a lungo andare, la cabala, le ricompense per consimili atti eroici furon soppresse, e a chi li compieva non rimaneva altra soddisfazione che il plauso della propria coscienza, il quale, valendo meno dei dieci scudi, nessuno si buttò più in Arno per salvare il prossimo suo anche se affogava per davvero.

A tutti i casi c'erano i renaioli per ripescarlo e la Misericordia per portarlo via!

Una delle passioni, si può dire, innate, nei fiorentini è stato sempre il teatro. Avranno cenato magari con una fetta di salame e avranno bevuto acqua, ma il teatro, almeno la festa ci doveva entrare.

I teatri più popolari erano quelli dove recitava lo Stenterello, la maschera inventata da Luigi Del Buono, nato nel 1751 e che prima faceva l'orologiaro. Questi teatri sono: la Piazza Vecchia, sulla piazza omonima in cima a Via del Melarancio ed oggi incorporato nel palazzo Carrega; il teatro Leopoldo o comunemente la Quarconia e il Borgognissanti.

Il teatro della Piazza Vecchia era talmente piccolo, che pareva un casotto da burattini; era costruito quasi tutto di legname, e parecchio più sudicio degli altri due. Si diceva degli Arrischiati, quasi per definire che era un bel rischio l'entrarvi. Sulla porta, per spiegare tale arguta e profonda definizione, c'era lo stemma con una trappola con dentro un topo che faceva di tutto per scappare, nonostante che un gatto fosse li pronto ad agguantarlo se gli riusciva.

Alla Piazza Vecchia recitava lo Stenterello Amato Ricci, il beniamino dei fiorentini, per il suo modo simpatico di recitare e di dire barzellette e frizzi pulitamente, senza le sguaiataggini di altri suoi colleghi, facendo ridere per la sua spontaneità e le mosse curiose ed originali. Più che Stenterello, poteva dirsi un vero caratterista, ed andavano a sentirlo anche i signori i quali nelle ultime sere di carnevale vi mandavano i figliuoli, accompagnati dalle governanti e dai precettori. Perfino il Granduca andava qualche volta a sentire il Ricci, e vi mandava i piccoli Principi.

Al Borgognissanti recitava Lorenzo Cannelli, lo Stenterello più sboccato e sguaiato d'ogni altro, che aveva certi frizzi a doppio senso, da far fare il viso rosso alla maschera del teatro. Perciò, talora, dopo la recita era accompagnato dai birri a dormire al Bargello invece che a casa sua, in special modo per certe allusioni impertinenti dirette al Granduca.

Una sera, prima di cominciare la commedia, venne alla ribalta come se avesse da fare una grave rivelazione. Rivoltosi serio serio al pubblico disse: - "Avverto il rispettabile pubblico che in Firenze vi sono tre Stenterelli: Piazza Vecchia, primo: Leopoldo secondo e Borgognissanti terzo". Le risate e gli applausi furono senza fine; ma la commedia fu senza principio, perché i gendarmi andati sul palcoscenico arrestarono il Cannelli per la sua allusione troppo trasparente al Sovrano e lo portarono in prigione.

Il pubblico del Borgognissanti, per quanto fosse un teatro frequentato generalmente dal popolo, era meno rumoroso, meno chiassose e meno screanzato di quello chiamato Leopoldo o della Quarconia, dove si spendevano due crazie e dalle otto vi si faceva anche il tocco dopo la mezzanotte. La Quarconia era la Pergola dei beceri e delle ciane che vi andavano all'un'ora: e in quelle due ore dell'aspettare, a quel buio, poiché in tutto il teatro non c'eran che tre o quattro lumi a olio, Dio solo sa che cosa armeggiavano. Non sarà seguìto nulla di male, questo no; ma ogni poco si sentiva lassù "in piccionaia" un urlaccio, o trattar male qualcuno e nascer questioni provocate spesso da un manrovescio da lasciar l'impronta delle cinque dita sul viso. La maschera del teatro, con le gambe a sghembo, la lucerna tutta unta e una livrea da insudiciarsi soltanto a guardarla, accorreva qua e là per sedare il subbuglio, e far rispettare la legge: ma quando giungeva, tutto era quieto e nessuno fiatava. Qualche volta si sentiva soltanto il rumore d'un lattone sulla lucerna del rappresentante dell'ordine, che minacciava ira di Dio; e che, a sentirlo, se avesse potuto avrebbe fatta una bracciata di tutti e portati al Bargello. Se la maschera poi faceva un po' più il rogantino, e s'investiva troppo della sua posizione, quand'era in cima alla scala per tornare in platea, si sentiva arrivare un di quei pedatoni nel luogo che par proprio fatto apposta, e senza sapere chi si ringraziare si trovava in fondo alla scala tutto in un volo!

Alla Quarconia, quelle civilissime persone, usavano andare coi tegami dello stufato o dell'agnello, coi fiaschi di vino e col pane, perché così cenavano in teatro facendo l'ora dello spettacolo, e buttando gli ossi giù in platea a quegli altri signori delle panche che glieli ributtavano, con una filastrocca di titoli che dal padre e la madre andavano a ritrovare anche i parenti più lontani. Spesso volavan fiaschi vuoti su qualche testa pelata, facendo anche del male, al punto da dover chiamare il medico; e quando l'ambiente era così riscaldato, da loggia a loggia e da palco a palco, s'iniziava un cordialissimo scambio di mele, torsoli e palle di foglio che era un piacere. Si udivan pure gli annunzi di felici digestioni, con certi sospiri degni di quelle creature degli stabbioli di fuor di Porta alla Croce; e alla maschera che redarguiva quelli screanzato dicevan sul viso: - Per lei.... non è nulla, caro sor Aringhe! e allora quel disgraziato a sbraitare e urlare finché poi non gli toccava a uscire; perché, chi gli girava la lucerna, chi gli tirava le falde e chi gli dava dietro nei ginocchi per fargli piegar le gambe, nei momenti in cui si dava importanza e si stizziva più che mai.

Quando finalmente alle otto compariva il gobbo Masoni in orchestra, e si accendevano quegli altri dieci o dodici lumi, allora era un pandemonio addirittura. Urli, fischi, applausi, tanto per far fracasso, in mezzo al quale si distingueva suscitando le più grandi risate, la nota acuta di qualcuno di quei soliti sospiri. E fosse finita lì!... Basta, non ne parliamo.

Ad un tratto si sentiva urlare: - So' Masoni ! la soni!... e qualcuno più sfacciato lo chiamava gobbo senza tanti complimenti.

La rappresentanza non consisteva soltanto in una commedia o in una farsa. Abitualmente ci eran cinque o sei cose. Un dramma in sei o sette atti; la pantomima; la farsa, il balletto, e magari la lotta!

Infinite erano le interruzioni, le esclamazioni, le approvazioni, le ingiurie, gli improperii e le invettive ai personaggi del dramma o della commedia. Quando c'era sulla scena un re tiranno, era un continuo gridare: - Ammazzalo! ammazzalo!... - Se poi in qualche pasticcio intricatissimo dove nessuno raccapezzava nulla, avveniva che si cospirasse ai danni di qualche vittima, tentando di avvelenarla col mezzo di una bevanda, il pubblico frenetico, come se si trattasse di cosa vera, urlava: - Un lo bere, c'è i'veleno!... -

Nei drammi o nelle commedie quando veniva l’amoroso che faceva lo svenevole, o il caratterista a fare il buffone, si sentiva a un tratto qualcuno che diceva: - "Ch'ha egli fatto i'sor ammiccino!..." - all'amoroso. Oppure, al caratterista: - Dice bene Telempio. - 0 anche: - Brao suzzacchera!... - e via di questo passo.

Se si dava lo spettacolo della lotta poi, era un continuo smuoversi seguendone tutte le fasi. La platea pareva un campo di grano mosso dal vento.

Al tocco dopo la mezzanotte, tutto quel becerume se ne tornava a casa, ripetendo strada facendo gli avvenimenti della serata e discutendo i delitti visti commettere, le ingiustizie subìte dagl'innocenti, appassionandocisi come se si dicesse proprio sul serio.

Un genere press'a poco come la Quarconia era il teatro Goldoni, sebbene frequentato anche da qualche persona educata, molestata però dai trippai, dagli spazzaturai e dai beceri, onore di Gusciana e dei Camaldoli!

Il teatro Goldoni non si apriva che di carnevale e vi si rappresentavano quasi sempre opere in musica con cantanti.... da quel teatro!

Erano celebri i cosiddetti veglioncini del teatro Goldoni, che avevan luogo tutti i sabati di carnevale, e anche nelle ultime domeniche. Quei veglioncini riuscivano affollatissimi, ma di qual folla! Accadeva sempre qualche cosa.

Quel pubblico, sussurrone, provocante, pareva il padrone del teatro; e quando vi capitava, per sbaglio, qualche persona per bene, era sicuro d'esser molestato con atti e scherzi così villani, che provocavano questioni e disordini, con reciproco scambio di ceffoni, pugni e, occorrendo, anche di bastonate non essendo il coltello divenuto ancora di moda. Per conseguenza, bisognava sempre che accorressero i birri, i quali, conoscendo a capello con chi avevan da fare, arrestavano spesso i provocatori anco se ne avevan toccate, e lasciavan libere le persone educate e civìli, sebbene avessero picchiato, perché evidentemente provocate e costrette. Gli arrestati venivan consegnati all'ufficiale di guardia che li teneva a disposizione del deputato d'ispezione, per le misure da prendersi a loro riguardo. Spesso avveniva, però, che i compagni di quella canaglia, dopo finito il veglione, si riunissero all'uscita del teatro per liberare gli arrestati. I soldati si mettevano allora schierati nell'atrio, col fucile a pied'arm e con la baionetta in canna. Ma quei figuri non si sgomentavano per questo: si piantavan difaccia a loro, insultandoli e urlando in difesa dei compagni. Quando i soldati erano stanchi di sopportar quelle ingiurie, ciò che accadeva quasi subito, cominciavan a tirar calciate di fucile nello stomaco e puntate di baionetta, ed i feriti venivan poi portati a braccia a Santa Maria Nuova, accompagnati dai birri. Una sera in cui la ribellione si fece più seria, il tenente Saccardi che stava con lo spadino sfoderato dinanzi al drappello, in un'ondata di popolo fatta nascere apposta per buttar la gente addosso ai soldati, ebbe un lattone così tremendo sul casco, che glielo mise fin sotto il mento; e non furon buoni né lui né altri di levarglielo: gliel'ebbero a tagliare precisamente come accadde - il lettore se ne ricorda certo - ai due veterani della Quarconia! Questo fatto mise il colmo alla misura; e quei giovinastri attaccabrighe, a poco a poco furono asciugati e mandati per nove anni alla compagnia dei Coloniali a Portoferraio. Così si ebbe per qualche anno la quiete; fintanto cioè che non furon grandi i ragazzi della stessa sfera che davano di già tante liete promesse, che mantennero in seguito anche più del dovere!

Il teatro Alfieri in Via Pietra Piana, che si chiamava anco il teatro di Via Santa Maria, era quello dove esordivano i cantanti novellini, perché, come dicevano allora, era il teatro più armonico di quanti altri fossero in Firenze. Fra gli esordienti si ricorda con orgoglio il famoso tenore Moriani, il basso Tacchinardi, e altri che divennero vere celebrità.

Quando un cantante aveva superata felicemente le prova del teatro Alfieri, si poteva dire che la sua fama fosse assicurata.

Al teatro Nuovo era rara quella sera che passasse liscia, perché essendo frequentato da quasi tutti studenti, specialmente da quelli di Santa Maria Nuova chiamati gli Spedalini, una ne facevano e una ne pensavano. Burle tremende, scherzi sguaiati da far perdere la pazienza a Giobbe, tumulti effimeri tanto per fare accorrere i birri e i soldati e farli rimaner con un palmo di naso, eran le cose più usuali che ogni sera bisognava aspettarsi da loro. Per esempio, stabilivano di non lasciar rappresentare la commedia e vi riuscivano, cominciando appena alzato il sipario, ad applaudire fragorosamente l'attore, chiunque si fosse, anche un servo, alla prima parola. E così a tutti gli altri, con un baccano, con un frastuono indiavolato.

Se i birri e le maschere intervenivano e ammonivano i più rumorosi, questi rispondevano con l'aria più ingenua possibile:

- D'altronde mi piace! parla tanto bene; è così bravo! -

I birri non sapevan che rispondere; ed eran costretti ad andarsene.

Ma la sera dopo eran fischi sicuri; e allora dicevano: - Se applaudire non si può proviamo a fischiare.

Ma tutto ciò era usuale, comune. C'eran poi le serate più terribili, nelle quali le burle e gli scherzi finivano come le nozze di Pulcinella!

Fra i teatri di prosa, il primo posto lo teneva quello del Cocomero oggi "Niccolini", dove non si scritturavano che le primarie compagnie.

Era il teatro aristocratico della prosa: vi andava spesso la Corte, e seralmente i signori e la nobiltà. La storia del teatro del Cocomero si compone dei più bei nomi dell'arte: vi recitò la Pelzet, la Internari, il Gattinelli, il Pezzana ed il Modena, che formarono così la tradizione che fu via via mantenuta per molto tempo fino agli artisti più celebri dei nostri tempi.

La Pergola, nome di fama ormai mondiale, era frequentato quasi soltanto dai nobili e dai più ricchi forestieri che fossero in Firenze. Pareva d'andare in Duomo.... e quando c'era la Corte non si sentiva volare una mosca. L'Accademia "degli Immobili" scritturava i cantanti più rinomati che vi fossero a quei tempi; e spesso vi cantavano coloro che ebbero i loro primi applausi all'Alfieri, divenuti artisti provetti.

Alla Pergola si rappresentavano i migliori lavori dei maestri più celebri, e le prime rappresentanze d'ogni opera erano uno spettacolo straordinario, per l'addobbo per la ricchezza dello scenario e per l'intervento della Corte. Sembravan tante serate di gala.

Se nel carnevale si davano le opere dei più celebri maestri, nell'autunno e in quaresima, poiché la Pergola era l'unico teatro che potesse stare aperto di quaresima, si davano le opere nuove e spesso anche troppo adattate a quelle sei settimane di penitenza, sebbene vi prendessero sempre parte artisti di cartello.

Ma era anche da ammirarsi la modestia del maestro; poiché il suo nome nel libretto, bisognava andare a cercarlo col fuscellino, non essendo messo mai sulla copertina o sul frontispizio… ma sivvero dopo i personaggi e anche dopo il coro. C'era scritto semplicemente: "La musica è del signor maestro tal dei tali".

Nella "Didone" melodramma per musica del maestro Ferdinando Paer vi cantò la prima volta che fu rappresentata, cioè nel 1817, il signor Amerigo Sbigoli, nientemeno che "Accademico filarmonico di Bologna", nella parte di Enea, e in quella di Jarba re dei Mori il sor Pietro Bolognesi; la parte di Didone la faceva la signora Fanny Ecckerlin.

In quella primavera fu anche dato un ballo pantomimo (!) intitolato "Armida e Rinaldo" composto dal signor Antonio Landini, il quale ne spiegava in poche righe al "pubblico rispettabile" il soggetto, e lo avvertiva che essendo necessario fra l'atto quarto e quinto un intervallo, uscendo dal tema del Tasso, aveva stimato bene di aggiunger di suo "l'episodio di due ninfe che tentano di sedurre Carlo e Ubaldo, per far comodo al preparativo della decorazione" e, nel tempo stesso, per non render conto a Dio dell'ozio!

Fra i personaggi rappresentati dai "primi ballerini serii" e dagli altri, che diremo faceti, erano da notarsi un solitario - non si sa di qual valore - damigelle, ninfe, amorini e guerrieri. La scena si svolgeva nell'accampamento dei Crociati, in un luogo remoto, in un'isola deliziosa, nella reggia d'Armida, in una grotta e finalmente nel giardino di Armida stessa, la quale, disperata, distrugge tutti i suoi incanti ed è portata via dai demonii con grande sollievo del pubblico, molti del quale però, ed i più parrucconi, prendevan sul serio certe scempiataggini, che oggi non si sopporterebbero neppure a sentirle dire dai ragazzi.

Teodoro "melodramma eroico per musica", era del maestro Stefano Pavesi; e la poesia di Gaetano Rossi, che faceva cominciare l'opera con "un coro di Cacichi, che fanno la loro preghiera mattutina al Sole" dicendo:

Splendi ridente e vivido,

Lume del mondo intero,

Nume di questo impero,

Padre dei nostri re!

Ai quali Cacichi, Palmore, padre di Anaide, vergine del Sole risponde:

Cogliete, o vergini,

I più bei fiori,

Natura spoglisi

Dei suoi tesori!

E basta così.

Il dramma giocoso per musica intitolato: Piglia il mondo come viene mandò in solluchero S. A. I. e R., la Corte ed il pubblico della Pergola, quando fu rappresentato per la prima volta nel 1826. La musica era del maestro Giuseppe Persiani, e la scena si fingeva, argutamente, nel castello di Falananna!...

In quei tempi beati, mentre la polizia credendo di vedere il pelo nell'uovo, teneva d'occhio qualche liberale innocuo, lasciò anche dopo, cioè quando Leopoldo II cominciò a pencolare, rappresentare impunemente quel dramma del Piglia il mondo come viene che pareva tale e quale una satira contro l’"ottimo Sovrano", celato sotto le spoglie, del protagonista "Ser Bartolommeo speziale, Sindaco della Comunità", che a un certo punto esclama:

Meglio è campar babbei,

Che quali eroi morir!

Nei quali versi si poteva riassumere tutto l'individuo posto in caricatura. Molto più poi quando canta:

Chi brama per i fichi

La pancia conservar,

Scordi gli esempi antichi

E lasci dire e far.

Lavare il capo all'asino

È un pessimo lavar.

La chiusa poi del dramma giocoso, per la profondità dei concetti e per la forma elettissima merita di esser riprodotta.

Bartolommeo dice:

Sono ormai disingannato,

Io rinunzio al sindacato,

Né velen né scappellotti,

Non mi voglio più pigliar.

D'ora innanzi a'miei cerotti

Non ad altro vo' badar.

Ed il coro gli risponde:

Viva, viva, bravo, bene.

Piglia il mondo come viene.

È un gran pazzo chi si affanna

A voler quel che non è.

Nel Castel di Falananna

Pensa ben chi pensa a sé.

Questo, press'a poco, era il genere delle opere rappresentate nella quaresima al massimo teatro di Firenze sebbene vi prendessero parte cantanti di grido, non perché urlassero, ma per la loro fama.

Nel dramma la Rosmunda, cantò nel 1840 la signora Giuseppina Strepponi, che fu poi la compagna della vita del grande maestro Giuseppe Verdi. Nello stesso anno cantò nell'opera Giovanni da Procida, del principe Poniatowski, la celebre Carolina Ungher, e Giorgio Ronconi. E nella Francesca da Rimini del maestro Quilici cantò la Giulia Grisi; e la Fanny Tacchinardi nel Danao re d'Argo del maestro Persiani.

Questo saggio d'opere e di libretti dimostra la cultura dei tempi!

            

  

 Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 08/01/99 22.58