De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

FIRENZE VECCHIA

STORIA - CRONACA ANEDDOTICA - COSTUMI

(1799-1859)

 

di: Giuseppe Conti

  

XXVIII

Le Stinche - Il Bargello

La campana della Misericordia

L'edifizio delle Stinche: sua storia - Ubicazione delle Stinche - Debitori celebri in prigione - Inquilini stranieri - L'arbitrio - Si castri! - Il lavatoio - A soffino e a cappelletto - Ragazzi renitenti - Le tintorie fiorentine -Abolizione delle Stinche - Il professor Girolamo Pagliano - Il palazzo del Bargello - Carceri e carcerati - Birri - Prodezze sbirresche - Picchiero celebre furfante - La gogna e la bollatura a fuoco - La campana della Misericordia – A caso e a morto - Ansie domestiche - Come finiva?

Gli edifizi più tetri di Firenze erano "Le Stinche" ed il Bargello, che servivano di carceri e di bagno dei forzati. Ma le Stinche specialmente, mettevan terrore a vederle. Quelle mura altissime, quell'isola nera che occupava quattro strade, facevano stringere il cuore. La storia di quel luogo di infinita pena, risaliva ai tempi della Repubblica.

Espugnato dai fiorentini, sui primi del secolo XIV, il castello detto "delle Stinche" in Val di Greve, che s'era ribellato alla Signoria, i prigionieri che furon fatti vennero portati a Firenze come trofeo di guerra e chiusi nelle carceri presso San Simone, le quali appunto, in onta a quei prigionieri, si dissero "le Stinche".

Questo edifizio costituiva un quadrilatero irregolare, che occupava per ottantanove braccia Via dei Diluvio - ora Via del Fosso - per centododici braccia Via del Palagio - oggi Ghibellina - cinquantatré braccia Via del Mercatino, e centosei quella de' Lavatoi. L'altezza dei muraglioni senza finestre variava dalle ventidue braccia e mezzo alle trentatré, a causa d'un'antica torre che non fu demolita.

Quasi all'estremità del lato che guardava il Canto agli Aranci, v'era una porta come di rimessa, e si chiamava la "porta dei forzati" o anche "delle carrette", perché quegl'infelici uscivano di lì per andare con la carretta, come è narrato in un capitolo precedente a far la pulizia della città.

in tempi più remoti, in quel tetro fabbricato si tenevano le donne di malaffare ed i pazzi, nonostante che la primitiva destinazione di esso fosse per i rei di delitto di Stato, e vi scontassero talvolta lunghe prigionie i più ragguardevoli personaggi sotto l'imputazione di traditori o di ribelli. Poi vi si aggiunsero i debitori e i falliti, fra i quali vi fu rinchiuso lo storico Giovanni Villani per il fallimento della Compagnia de' Bardi. Vi stettero per varie cause Giovanni Cavalcanti nel 1427 che vi scrisse un'opera concernente l'esilio di Cosimo I; Cennino Cennini, nel 1437, che ammazzò il tempo e la noia, scrivendo il suo pregevole libro del "Trattato della pittura" una delle più belle cose di quell'epoca. Ma uno degli avventori più zelanti delle Stinche, fu il poeta satirico Dino di Tura, una lingua che tagliava e fendeva ch'era un piacere. In seguito, Pietro Leopoldo, movendosi a compassione dei falliti per i quali riteneva troppo dure e rigorose le Stinche, fece fabbricare nel 1780 "alcune abitazioni" per essi nel palazzo del Bargello dalla parte di Sant’Apollinare. e furon chiamate le "Stinche nuove", destinando "le vecchie a servire d'ergastolo" pei condannati alla galera o alla prigionia.

Nelle Stinche, dal 1600 al 1620 sotto Ferdinando I e Cosimo II de'Medici, si rinchiudevano provvisoriamente anco i condannati dai diversi vicariati o tribunali della Toscana, in attesa della promozione.... alla galera. Ed avevan tanto credito queste Stinche, che nel 1606 vi vennero mandati dei galeotti dalla Lombardia, dal Veneto e dall'Emilia, che poi passarono alle Galere di Sua Altezza. Bell'acquisto !

La maggior parte dei prigioni che furono inviati alle Stinche, dal 1600 al 1700, provenivano dalle carceri degli Otto e de' Rettori di fuori, che li avevan condannati per cause criminali. Spesso però, vi facevan passaggio per scontare il delitto che avevano col Fisco, per le spese e per il loro mantenimento. La reclusione si faceva per gruppi, non essendovi che varii cameroni chiamati: La Vecchia, la Nuova, de' Grandi, dei Macci, lo Spedale, la Pazzeria, la Torre ecc.

Nel XVII secolo quando le Stinche eran piene, i carcerati si mandavano nelle prigioni dei Signori Otto, specialmente in quei casi nei quali la procedura reclamava la segreta, o come si dice oggi, l'isolamento, per motivo dell'istruttoria.

La sorte dei carcerati delle Stinche dipendeva spesso dall’arbitrio che vigeva tuttora; ma non nel senso dì abuso, sivvero come disposizione libera di fare o di non fare una data cosa, sempre però col beneplacito del Sovrano. E a tempo dei Medici il Sovrano, anche in materia carceraria, era e voleva essere informato di tutto. Basti dire che una volta, sotto Cosimo I, Fu arrestato un ragazzo di dodici anni, di Pistoia, per avere oltraggiata e ammazzata una bambina di nove anni. Quando il Granduca ebbe la relazione dei Signori Otto, che rimettevano a lui la designazione della pena che intendeva di infliggere al precoce assassino, Sua Altezza trattandosi d'un ragazzo che aveva commesso un delitto di quel genere, perché non vi ricadesse, sotto il rapporto degli Otto scrisse soltanto si castri e firmò "Cosimo".

La parte meno triste delle Stinche era dal lato di San Simone in Via dei Lavatoi, così chiamata per il lavatoio lungo quanto era la strada, e largo diciotto braccia, diviso in due file di trogoli. Esso fu costruito presumibilmente nella prima metà del secolo XIV dall'Arte della Lana, affinché i tintori "vi potessero lavare le pannine specialmente nel tempo d'inverno, quando le acque del fiume Arno sono così crude, e spesso, torbide per la piena".

Quelle pannine, purgate e lavate, venivano poi portate a tendere, perché si asciugassero, ai tiratoi di Piazza delle Travi e agli altri della città. A questo servizio eran destinati i ragazzi dei tintori, che in antico si chiamavan cavallini dal loro modo di portar quelle stoffe ammontate sulla groppa d'un disgraziato cavallo, che avrà avuto cent'anni per gamba. I ragazzi, senza riguardo a quelle vecchie carcasse, montavan sopra alle stoffe; e stando ritti, li guidavano di lassù, facendoli correre come se fossero stati puledri.

Poiché la cimasa dei trogoli era fatta a pendìo, il lavatoio diventava spesso il ritrovo dei ragazzi che vi andavano a giuocare a soffino, facendo rivoltare dalla parte dell'arme i quattrini messi sulla pietra; a chi non riusciva col soffio di rivoltar la crazia o il quattrino perdeva, e quando giuocavano a cappelletto con le crazie d'argento, fini come veli di cipolla, e che da una parte avevano lo stemma de'Medici, dicevano fare a palle e santi.

Questo, come Piazza della Signoria, dinanzi ai casotti dei burattini o ai carrozzoni dei ciarlatani, era il punto più sicuro ove le mamme e i padroni di bottega che non vedevan tornare i ragazzi mandati fuori per qualche servizio, potevano rintracciarli. Perciò anche da Via de' Lavatoi non era raro vedere il maestro - o principale - scapaccionare il ragazzo dimenticone, e portarlo via di lì, trascinandolo seco per un orecchio.

Il chiacchierìo e anche il baccano che in certi giorni c'era a' lavatoi, si sentiva dalle strade vicine. Si udivan le più grasse risate, per qualche lazzo o qualche burletta fatta; e si confondevano con un effetto curioso con le stoffe fradice, battute ripetutamente sulla cimasa del trogolo, facendo quel rumore particolare che nell’inverno pareva diaccio, e faceva venire i brividi.

I tintori che mandavano a lavare le stoffe al lavatoio delle Stinche, avevano le loro antiche botteghe in Via Cornacchíaia, Via de' Vagellai, Via de' Saponai, Via Mosca, e Piazza delle Travi, dov'era il tiratoio. La seta però andavano a lavarla ai lavatoi di Via delle Torricelle, ora del Corso dei Tintori, passata la caserma dei dragoni, che sull'architrave aveva lo stemma dell'Arte della Lana. Fra le tintorie più rinomate portavano il vanto quelle Guerrini, Bonini e Querci; ed eran tenute in assai pregio per tingere di nero e di scarlatto, tanto le stoffe di seta che di lana. Per lo scarlatto era superiore a tutti la tintoria Querci, alla quale la Repubblica assegnò perfino una pensione annua di diversi fiorini, che le fu mantenuta fino al I700.

Le tintorie fiorentine avevano grandi commissioni dal Levante, dove i nostri mercanti facevano continue spedizioni dei tessuti di seta, operati, a fiorami e damascati, e dei panni di lana nei quali consisteva l'industria di Firenze, che era però di già agli estremi ma che fino allora per la città era una ricchezza; ed una brava tessitora, quando rimetteva al fabbricante ogni mese una tela, riscuoteva per lo meno dieci o dodici scudi. È facile immaginare perciò quanto fosse l'agiatezza anche in molte famiglie del basso Popolo, le donne del quale la festa facevano grande sfoggio di gioie, di orecchini o buccole - come le chiamavano - e di vezzi di perle di molto valore.

Le Stinche mettevano malinconia al solo vederle: perciò ingentiliti i costumi, e desiderosa la cittadinanza di toglier di mezzo quello sconcio, il granduca Leopoldo II, che per verità ebbe sempre passione di abbellire Firenze ed accrescerne le comodità con decreto del 15 agosto 1835 sanzionando le trattative già in corso fin dal 1833 ne ordinò la vendita, perché venissero destinate ad usi privati e più decorosi.

Acquistarono quel locale di trista fama i signori Giovacchino Faldi, Cosimo Canovetti, Giuseppe Galletti e Michele Massai, i quali in seguito lo rivenderono a Girolamo Pagliano, cantante, dopo ch'ebbe abbandonate le scene per dedicarsi allo smercio del suo fortunato sciroppo, che ha purgato mezza Europa. Questo sedicente professore col disegno dell'architetto Francesco Leoni, oltre all'edificare sulla vecchia area delle Stinche molte botteghe, e comode ed eleganti abitazioni, fece costruire una stupenda cavallerizza con annessa scuderia e la famosa gran sala, detta della Filarmonica, di stile dell'Impero, tal quale oggi si vede.

La cavallerizza fu costruita dove era prima il lavatoio; ed a questa era congiunto il locale per gli esercizi equestri, lungo settanta braccia, largo trenta ed alto ventitré, che prendeva luce da due grandi lanterne a cristalli. Codesto locale cedé poi il luogo al teatro Pagliano, che diede lo sfratto ai cavalli per dar posto.... ai cantanti.

L'ibrido connubio fra Euterpe ed Esculapio, riuscirono a fare del Pagliano una macchietta originale e curiosa. Un poema di 16 canti in sesta rima: La Paglianeide ossia Teatro e Medicina, dettato dal pittore Cesare Paganini, lo celebra come un eroe da strapazzo; ma questo poema, un grosso volume in ottavo, è restato incompleto, perché fu pubblicato nel 1855 e il protagonista visse ancora oltre 25 anni!...

Il Palazzo del Bargello, che in oggi è conosciuto più civilmente sotto il nome di Palazzo Pretorio, fu poi restaurato dall'architetto Mazzei e dal pittore Gaetano Bianchi. Ivi ha sede il Museo Nazionale, ma fino al 1859 era luogo di non men trista fama delle Stinche, tanto più quando i carcerati, abbattute quelle, vennero ivi rinchiusi.

Non è il caso di rifare la storia di cotesto antico monumento, che fu sede del Duca d'Atene, e d'onde venne cacciato per furore di popolo.

Il vetusto edifizio aveva subìto in più tempi deturpazioni ed alterazioni tali, da svisarne assolutamente il carattere e la primitiva impronta.

Dal lato di Via del Proconsolo e di Via Sant'Apollinare le antiche fìnestre bifore furono in parte rimurate e ridotte

a tramoggie per i carcerati, i quali, onde impietosire i passanti, calavano dalle inferriate uno spago con una borsetta bianca: e perché questa scostasse dalle bozze di pietra della facciata, tenevano lo spago legato a un pezzo di canna come se pescassero. E infatti pescavano i gonzi che credevano alle loro querimonie, ai loro lamenti, e più che altro alla loro innocenza.

Bastava passar "dal Bargello" per sentire gridar forte le solite lamentazioni pietose del "povero padre di famiglia", e della "vittima" altrui. Costoro per fare effetto inventavan tutte le birbonate possibili: promettevan preghiere alla Madonna e a tutti i santi, anche meno conosciuti, purché chi passava buttasse nella borsetta bianca qualche cosa. A prima vista può sorprendere che i carcerati potessero avere lo spago, la borsetta e la canna, per tenerla distante dal muro; ma la meraviglia cessa quando si sa che il provvedere di tali oggetti i detenuti, era un incerto dei secondini e dei birri, contro il divieto dei magistrati, i quali pur vedendo e sentendo ogni cosa, facevan l'orecchio del mercante. Ma quelli che veramente ci guadagnavano, erano i birri; poiché sulla cantonata di Via Sant'Apollinare ci stava sempre uno di essi a sedere, per impedire che i carcerati discorressero, per quanto senza vedersi, coi parenti o con gli amici, dalla parte della strada.

Il birro di guardia non si dava per inteso di quelle borse che dalle tramoggie si calavano, né di tutte le cantilene dei delinquenti per chiedere l'elemosina ai passanti, che spesso mossi a compassione buttavano un soldo o una crazia nella borsetta. Ma quando, come avveniva altresì molto spesso, passava qualche signore che i birri conoscevano a colpo d'occhio, e che questi buttava dentro un fiorino o anche cinque paoli, il bravo birro spiegando allora tutto il suo zelo di rigoroso campione della giustizia, dava una bastonata allo spago che s'avvolgeva così al bastone, e con una stratta faceva venir giù la borsa.... e pigliava per sé ogni cosa.

Allora il carcerato che s'accorgeva di quel tiro birbone, e che poc'anzi implorava con tanto fervore la Beatissima Vergine, il suo divino Infante e tutta la corte celeste, cominciava a trattarli male tutti e a bestemmiare, accusandoli in certo modo di tenerla più dai birri che dai ladri, coi quali i primi spesso facevano a mezzo!

I birri erano ordinati per squadre, ognuna delle quali aveva il proprio capo; ma questi facevano il servizio della bassa polizia; sorvegliavano i precettati serali, e facevano il servizio di notte stando sulle cantonata con la lanterna cieca, a sorvegliar le botteghe.

Quando qualcuno tornava a casa a ora tarda, mentre metteva la chiave nell'uscio, bene spesso si sentiva abbagliare a un tratto dalla luce della lanterna, che il birro gli piantava sulla faccia senza che lui si vedesse. Questa dolce sorpresa era riserbata particolarmente a coloro che passavano dalle strade nelle ore della notte; egli si trovava accecato dalla lanterna, mentre il birro tutto premuroso gli dava la buona sera e intanto gli domandava di dove veniva, dove andava, dove stava di casa, ed il suo riverito nome e cognome. Se poi l'individuo fermato destava qualche sospetto, il birro senza starci a pensare, faceva un fischio convenzionale e in un momento sbucavan fuori i birri più vicini, e fra tutti arrestavano quel tale e lo portavano all'Arione, ossia nel loro corpo di guardia, così chiamato nel gergo birresco, per esser la mattina dopo interrogato; invece, se si trattava di persona degna di esser trattenuta, lo accompagnavano al Bargello con tutti gli onori delle manette o delle mani legate dietro la schiena!

Degli Arioni ce ne erano due: uno in Piazza di Santa Maria Novella Vecchia; ed uno in Borgo Tegolaia, dove si distribuiva il servizio notturno; e gli arrestati si mettevano provvisoriamente in una stanzaccia ridotta a prigione, che il popolo chiamava carbonaia.

Oltre ai birri, c'erano gli agenti, divisi anch'essi a squadre per ogni quartiere; ed ogni squadra era comandata da un capo il quale dipendeva dal "Capo agente". Questo corpo. al quale venivano affidate le funzioni più importanti, dipendeva immediatamente dal Presidente del Buon Governo.

Quando c'era da arrestare qualche soggetto pericoloso, si partiva dal Bargello una squadra di birri, avendo ognuno il suo nodoso bastone di marruca, guidata dal proprio capo che per distintivo aveva la mazza di canna d'India o di zucchero, ma con lo stocco. Uno zucchero.... piuttosto amaro. Quando avevano trovato l'individuo di cui andavano in cerca gli intimavano l'arresto: e se per sua disgrazia l'arrestato avesse avuta la infelice idea d'accennare soltanto, a far resistenza, si sentiva arrivare un tal carico di legnate, come se i birri ribattessero una materassa!

Non per rimpiangere quei tempi; Dio ce ne guardi! ma facevan più due birri che dieci carabinieri; ed era tanta la temenza che avevano i malviventi di essi, che difficilmente si opponevano, e piuttosto cercavano di darsela a gambe. C'eran però certi fegati, fra quei birri, tutta roba che era stata prima vin che aceto, che spesso li rincorrevano anche per mezz'ora e finivan per agguantarli, facendo poi i conti col bastone.

Fra i furfanti più rinomati, v'era un certo Bartelloni macellaro, detto per soprannome Picchiero, che dava da fare alla polizia più che tutti i ladri messi insieme. Per dato e fatto suo, spesso si metteva sottosopra Firenze. Costui era un uomo temuto per la sua audacia e per le aggressioni che commetteva impunemente di pieno giorno e nelle strade anche più frequentate. Quando egli si sapeva cercato, si nascondeva nei dintorni di Firenze, e spesso anche in città, destando il terrore in tutti, perché si sapeva uomo sanguinario e risoluto. Una volta da alcuni birri più astuti fu scovato e fecero per arrestarlo esortandolo col solito affabile mezzo del bastone, a non far resistenza. Ma la prima bastonata del birro andò a vuoto, perché Picchiero gli era scappato di sotto e correva come un barbero. E via i birri dietro. Ma il malandrino aveva buone gambe e seguitava a correre voltandosi ogni poco con la testa indietro come fanno i fantini per vedere a che distanza si manteneva dai suoi inseguitori. Vistosi però quasi raggiunto da uno di loro che pareva una lepre, secco, segaligno, tutt'ossa e nervi, con cert'occhi che parevan quelli del gatto la notte, Picchiero entrò in una casa che forse conosceva, e via su per le scale a tre scalini per volta. E il birro dietro che saltava quanto lui, e lo raggiunse quando infilò in un abbaino e entrò sul tetto, dove il fuggiasco credeva di rifugiarsi al sicuro, non credendo mai d'esser rincorso con tanto zelo, fin lassù.

Fra ladro e birro seguì una lotta accanita. Dapprima, si abbracciarono come due fratelli; e poi vennero giù nella strada con grande spavento della gente accorsa, che rimase inorridita dal tonfo di quei due corpi sul lastrico della via. Picchiero non si mosse, tutto intronato com'era dalla botta di quella caduta; il birro credendo d'essersi tribbiate le gambe, si alzò con grandi smorfie rimanendo a sedere in terra, non avendo coraggio di rizzarsi. Fu però subito sollevato dai compagni e tutto malconcio la Misericordia lo portò allo Spedale e ivi rimase per qualche giorno. Picchiero invece andò a fare una cura più lunga al Mastio di Volterra, che fu il termine della sua brillante carriera.

Ritornando al Palazzo del Bargello, questo era luogo di trista fama non solo per i carcerati che vi si rinchiudevano, quanto per la lugubre cerimonia della gogna e della bollatura a fuoco.

Ogni condannato alla galera o all'ergastolo, prima di andare al suo destino, veniva esposto alla gogna sul muricciuolo esterno del palazzo, con le mani dietro legate ad una di quelle grosse campanelle che tuttora si vedono. Il condannato aveva sul petto un gran cartello dov'era scritto il delitto commesso; e doveva stare a capo scoperto. Per condiscendenza gli si permetteva di tenere il cappello ai piedi, perché quelli che passavano e si fermavano, vi buttassero qualche soldo. La gogna durava dalle dieci alle undici della mattina, e in quest'ora suonava la vecchia campana squarciata della torre, che col suo tristo suono fesso e lugubre, metteva il malumore addosso. Stava a fargli la guardia un birro dentro una specie di ringhiera o cancello di legno, che racchiudeva lo spazio destinato alla gogna.

Quando alla pena della galera si aggiungeva anche la bollatura, questa veniva fatta dal boia sulla spalla sinistra del delinquente con un bollo a fuoco, scaldato in una specie di saldatoio come quello dei trombai. Il popolo mormorava quando si faceva questa obbrobriosa operazione; ma correva sempre a vederla. Uno fra quelli che per la sua condizione commosse più degli altri, ricevendo pubblicamente quel marchio d'onta perpetua, fu un sottoprefetto di provincia, il quale, essendosi intenerito alle lacrime e alla disperazione di una povera madre, le liberò furtivamente il figliuolo dalla leva militare. Per questo fatto egli venne condannato a cinque anni di galera e ad esser bollato.

La triste campana del Bargello suonava tutte le sere dalle dieci e mezzo alle undici, per avvisare i cittadini più tardivi, che era l'ora d'andare a letto. E quando si sentiva quella campana, molti si affrettavano a tornarsene a casa per evitare anche l'incomoda luce della lanterna dei birri e la loro buona sera non meno incomoda e sgradita, perché c'era il caso, che in una serata di nervi, qualche fior di galantuomo fosse preso per una persona sospetta, e portato a passar la notte in carbonaia.

Quest'uso della campana fu tolto nel 1848, quando si cominciarono ad abbandonare tanti usi barbari e incivili, che avevan durato anche troppo.

Ma soppresso il suono della campana del Bargello, vi rimase quella della Misericordia, che anche nel cuor della notte suonava i suoi tocchi, spandendo nell'aria come un senso di sgomento e di paura in tutte le famiglie nelle quali c'era ancora fuori, qualcuno di casa. Ed anche di giorno, quante ansie, quante lacrime non ha fatto versare il suono di cotesta campana, che non dava altro segnale che di disgrazie! Se suonava due volte era a caso, vale a dire che si trattava di una disgrazia, incolta a qualcuno per la via o sul lavoro: e se suonava tre, era a morto: un affogato, uno venuto giù da una fabbrica, o un ammazzato. Ed allora era un accorrere pieno di trepidazione e di presentimenti tristissimi, alla Misericordia, per sapere che cos'era accaduto. E quando i fratelli che venivano essi pure a corsa per mettersi la veste, erano in numero e pigliavano il cataletto e col servo andavan via, la bramosia cresceva; e tutti anelavano il momento in cui veniva sulla porta un altro servo ad annunziare la disgrazia avvenuta. Nell'infinito egoismo umano, tutti si sentivano sollevare quando potevan credere che la disgrazia non risguardasse nessuno dei loro cari.

Tutti però quando sentivan la campana, non potevano uscire di casa per correre sul Duomo a sentir che cos'era seguito: perciò era un'agonia continuata finché quelli di famiglia non eran tornati: e se qualcuno contro il solito per disgraziata combinazione tardava, era un'agitazione, un orgasmo in tutta la casa; un prevedere una sciagura inevitabile, un montarsi la testa, un piangere disperato come se la sventura fosse veramente seguita. Un affacciarsi continuo alla finestra, spingendo lo sguardo fino in fondo alla strada per vedere di scorgere la persona attesa, passando da un'infinita trafila di torture quando pareva di vederla confusa tra la gente che andava e veniva, o qualcuno che le rassomigliava all'andatura; oppure se appariva un vestito o un cappello dello stesso colore: insomma era uno strazio da non si dire. Quando poi si vedeva per davvero venir quello tanto atteso, tanto agognato, allora si asciugavan le lagrime ridendo, si dimenticava ciò che si era sofferto sembrando d'avere avuto invece una gran fortuna, e che quel tale fosse restituito alla famiglia per un vero miracolo. Tante volte però accadeva che il dolore dell'ansia provata si manifestasse con dei rimproveri perché quello aveva fatto tardi; e allora finiva in litigi, e andava all'aria la tavola: nessuno mangiava più, ed erano imprecazioni alla campana della Misericordia e a chi la permetteva.

Questa era una delle tante varianti della vita fiorentina, la quale merita di esser narrata a parte, e che aveva in quei tempi tante singolarità e tante cose curiose, rimaste oggi come memorie e nulla più.

La compagnia della Misericordia ha reso e rende molti servigi a Firenze. Istituita nell'anno 1240 da Luca Borsi, decano de'facchini, per l'estirpazione della bestemmia, allargò la cerchia della propria attività e si ridusse com'è tuttora un'associazione ricca e potente.

Se anch'oggi, a un Luca Borsi qualunque venisse in testa di tassare con una crazia ogni bestemmia, si riscatterebbe il Debito pubblico di tutta l'Italia!

          

  

 Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 08/01/99 22.17