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Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

FIRENZE VECCHIA

STORIA - CRONACA ANEDDOTICA - COSTUMI

(1799-1859)

 

di: Giuseppe Conti

  

XXVII

Mercato Vecchio - Il Ghetto

Le rovine della civiltà romana - Il palazzo dell'Arte della Lana - La Colonna di mercato - L'osteria della Cervia - La spezieria del Giglio - il Barba vinaio - Un cuoco di baldacchino - La beccheria - La fila - La spezieria dello Spirito Santo - Il palazzo della Cavolaia - Il palazzo Vecchietti - San Pier Buonconsiglio - Il Mercato Vecchio nelle solennità - L'Arte in Mercato Vecchio - Il Gran Postribolo - Gli ebrei prima del Ghetto - Quando e come fu edificato il Ghetto - L'interno - Sono levati i portoni - Cosa divenne il Ghetto - A toccaferro con la polizia - Le cose a posto.

Se Piazza del Granduca aveva un'impronta caratteristica, Mercato Vecchio ne aveva una non meno singolare e curiosa.

Dallo sdrucciolo di San Michele e Baccano - quel tratto di Via Porta Rossa fra Via dei Calzaioli e le Logge di Mercato Nuovo - si entrava in Calimara, breve tratto dell'antica via lunga due miglia toscane, che da San Gallo a Porta Romana divideva Firenze in croce; un'altra strada, lunga a tanto, dalla Porta alla Croce menava diritto a quella del Prato attraversando Mercato Vecchio.

Sarebbe ozioso e superfluo rifare la storia fortunosa di questa antichissima parte della città, che fino dalla sua origine fu la più importante, e poi divenne il cuore di Firenze. All'epoca romana quivi sorgevano il Campidoglio, il foro, le superbe terme con impiantiti a mosaico e vasche e forni e tepidari e calidari, che potrebbero servire anche oggi di efficace esempio nelle costruzioni di locali consimili.

Mercato Vecchio fu una località sontuosa e ricca a tempo de' romani, e quindi dei fiesolani quando scesero "ab antico" come dice Dante, nelle ridenti rive dell'Arno.

Sulle rovine della civiltà romana sorsero allora i superbi palazzi e le sontuose case del medio evo, che poi alterate, deturpate e trasandate, ridussero quel luogo il peggiore della città. E dove prima erano state le linde, fastose case romane, e le severe dimore degli antichi fiorentini, Si fecero catapecchie e casupole di povera gente, il Mercato, e il Ghetto.

Entrando in Calimara da Baccano di fronte alle Logge di Mercato Nuovo, si poteva dire d'esser già in Mercato Vecchio. Sull'angolo a sinistra v'era la rinomata bottega del Valenti tabaccaio, famoso per le acetose, le orzate, e per il popone in guazzo. Qui la strada cominciava subito stretta, piena d'una folla affaccendata di serve, di cuochi con la sporta, come allora usava, e di gente che non avendo né cuoco né serva, andava da sé a far la spesa lesinando il quattrino e cercando di spenderli "co' gomiti" secondo l'antico modo di dire de' fiorentini.

In quel tratto, fino a Via delle Sette Botteghe, ci stavano i linaioli, i canapai e i venditori di ferrarecce: accanto al palagio dell'Arte della Lana c'erano i friggitori di roventini, di gnocchi, di sommommoli, di pesce e d'ogni cosa un po’.

Nelle sere specialmente di venerdì e di sabato, delle vigilie e di quaresima, la scena di quel punto di Calimara era veramente fantastica.

Le fiaccole delle padelle di sego, o dei lumi a olio infilati sopra un bastone, e le fiamme dei fornelli sui quali le padelle friggevano esalando acre odore di pesce e di baccalà, mandavano in distanza dei bagliori rossastri, degli sprazzi di luce e degli effetti d'ombra curiosissimi.

I friggitori urlavano chiamando la gente, e la gente si affollava a comprar la cena che consisteva in frittelle di mela, in carciofi, in baccalà, pesci d'Arno e fiori di zucca a seconda della stagione. In quella località, il movimento dalle ventiquattro all'un'ora era grandissimo.

Il palagio, o torrione, come lo chiamavano, che fu l'antica residenza dell'Arte della Lana, sembrava un rimprovero vivente d'esser lasciato in uno stato di spregevole abbandono, in mezzo a una turba schiamazzante e alle nauseanti esalazioni delle padelle e delle caldaie.

Presso al torrione dell'Arte della Lana tra San Michele e lo sdrucciolo, ebbero sede l'arte de' chiavaioli, de' calderai, de' beccai, e.... dei medici e speziali.

La residenza dell'arte dei linaioli, de' rigattieri furono presso Sant' Andrea; e quella degli oliandoli nelle antiche case dei Lamberti, nella Piazza del Monte di Pietà.

Da Via delle Sette Botteghe fino alla chiesa di Sant' Andrea non c'erano che ortolani, i quali cuocevan anche l'erba in certe caldaie nere da non si giovare a guardarle, e che molti andavano a comprare per risparmiare il fuoco. Broccoli a palle, cavolo nero, spinaci, patate lesse, e tutto ciò che costava poco e faceva comparita, era lì a mostra in piatti enormi e andava via a ruba. Da Sant'Andrea c'erano anche ì salumai con fuori i bariglioni delle salacche, delle aringhe, del tonno e delle acciughe che si sentivano da lontano. Ed era tutto un formicolìo di persone che andavano, che venivano, che contrattavano, che chiedevano, che bisticciavano sul prezzo o sul peso; insomma, pur che trovassero da ridire, nessuno stava zitto.

E s'arrivava alla Colonna, centro e anima di Mercato Vecchio dove in antico si davano i tratti di corda ai delinquenti col corpo del delitto addosso. Si son visti dei notari falsari coi protocolli al collo; e dei civaioli ladri, coi quartucci legati pure al collo per dimostrare che rubavano sulla misura. Attorno alla Colonna, come tanti pulcini sotto la chioccia, c'erano altri ortolani che cuocevan l'erba, fruttaioli, friggitori e testicciolai, che pelavan le teste d'agnello dopo averle scottate nell'acqua a bollore della caldaia lì nella strada; e cotenne di maiale e zampe di vitella e trippa e roba fino a far venire la nausea, ma tutta accomodata per bene in certi grandi piatti di rame del seicento, che oggi si vedono nelle vetrine degli antiquari.

In Via degli Speziali si trovava l'osteria e albergo della Cervia sull'angolo di Via de'Cardinali, ora Via de'Medici, la quale esisteva fin dal 1578; ma la casa non era ancora destinata ad uso d'albergo; e nei libri delle Decime del 1378 trovasi che in una stanza di essa casa, Antonio di Francesco da Dicomano, del Gonfalon d'oro "vi faceva osteria" ed era conosciuto per Tonino oste alla Cervia. E Tonino confinava con un tal Bernardo profumiere e con l'albergo del Falcone ove nel 1317 Bernardino da Pistoia faceva egli pure osteria, che rimaneva presso il Canto del Giglio in Via Calzaioli, ove appunto in cantonata v'era fìno dal XVI secolo la "Spezieria del Giglio" rimasta fino a' nostri giorni.

Difaccia, più in giù, c'era l'osteria della Coroncina, sull'angolo che metteva al vicolo dello stesso nome alla Piazza dei Tre Re e al vicolo detto dell'Onestà rispondente in Via Calzaioli, perché quivi in alcune stanze dell'Arte de'beccai, risiedeva il Magistrato dell'Onestà: titolo che pareva una canzonatura, perché si doveva occupare invece delle meretrici. Questo magistrato piuttosto curioso si componeva di otto cittadini, popolani e guelfi, estratti a sorte due per quartiere, i quali sotto nessun pretesto potevan rinunziare a quell'onorifico incarico. Essi avevano ogni suprema autorità sulle donne pubbliche, a cui assegnavano il luogo dove dovevano abitare, rilasciavan loro il bullettino di libero esercizio, e stabilivano perfino il prezzo che potevan pretendere!... In quelle antichissime botteghe della Spezieria della Pina d'oro in Via degli Speziali e di un vermicellaio, che esistevano fino alla fine del secolo scorso, nel tempo di cui ora si parla, c'era un famoso vinaio detto il Barba, rinomatissimo per il vino della Rufina: e quando tirava fuori di cantina un fiasco di vino vecchio, che pareva rosolio, protestava innanzi, come se si trattasse d'una cosa enorme, che meno d'undici crazie - 77 centesimi - non lo poteva dare!

Dall'altra parte di Via degli Speziali accanto alla Cervia aveva gran nome la rosticceria del Baldocci, - che era stato un cuoco di baldacchino come si diceva allora - e che faceva l'arrosto meglio che alla famosa fila. Il che era tutto dire! Non meno celebre era l'antica bottega Bassi di pizzicagnolo in faccia alla Tromba, la più di lusso di quel genere.

E tornando in Mercato si trovava in angolo tra Calimara e Via dei Ferravecchi il tabernacolo - un gioiello d'architettura ridotto a bottega di coltellinaio, con le colonnette a spirale nascoste dentro l'intonaco, che già appartenne all'Arte dei medici e speziali, la cui residenza fu nella torre dei Caponsacchi sulla piazza di faccia al Ghetto. Accanto alla Colonna, a sinistra, cominciava la beccheria.

Verso il seicento i macellari cominciarono a tenere costì fuori dei deschi; poi li copriron con delle stoie, e adagio adagio li chiusero con assi e tramezzi di tela intonacata: così, senza che nessuno se ne accorgesse, divennero botteghe che pagavano più d'un piano di casa.

Dietro ai macellari, in un passare largo appena un braccio, c'erano i pollaioli e i venditori di caccia.

Di fronte alla beccheria c'era la famosa Fila, la rosticceria più antica di Firenze, poiché si afferma esistesse fin dal XVII secolo. La rinomanza di essa era proverbiale. Bisognava vedere in circostanze di feste, o di solennità, il numero infinito di polli che si arrostivano; e l'agnello e i fegatelli e il maiale e la vitella di latte della Fila, che dicevano, - faceva uscire i morti di sepoltura! - Nelle vigilie, nella quaresima e nei venerdì e sabati, la roba che si friggeva e la folla che aspettava era cosa da non credersi. Molta povera gente andava prima di mezzogiorno alla Fila a comprare mezzo pollo o un po' di vitella per portare, di nascosto ai serventi, ai loro malati all'ospedale, che quando sapevano di dov'era quella roba, tornava loro l'appetito e mangiavan con gli occhi ciò che gli amorosi parenti recavan loro.

Accanto alla Fila era l'antichissima Spezieria dello "Spirito Santo" del Carobbi, e di fianco alla chiesa di San Tommaso una vecchia bottega di semplicista con tutti fasci di erbe legati ai travicelli; la maestruzza per il dolor di corpo, che a vederla parevan ciocche di finocchio; e mazzi di papaveri polverosi, e vasi di mignatte nell'acqua verdastra tenuti a mostra, e tutt'intorno gli scaffali con le cassette contenenti la camomilla, i fiori di malva e un'infinità di erbe medicinali alle quali si credeva più che ai medici.

Dirimpetto al semplicista c'era un famoso fioraio, l'unico che fosse in Firenze, poiché il lusso dei fiori non era conosciuto; e tolto di qualche vaso di viole, di cedrina, di geranio, di violacciocche o di pensée - che le chiamavan "suocera e nuora" perché ogni fiore volta per così dire le spalle all'altro, non si coltivava né si apprezzava dal popolo nessun fiore speciale.

Vicino a questo fioraio esisteva un'altra bottega di semplicista; e quindi rigattieri, linaioli, cuoiai, fruttaioli e via dicendo fìno all'Arco de' Pecori. E poi, presso l'Arco dell'Arcivescovado, daccapo salumai, e ortolani e ottonai, e venditori ambulanti di zolfanelli, allora tanto in uso, che erano fuscelletti di gambo di canapa intinti dall'un capo e dall'altro nello zolfo, s'accendevano accostandoli al fuoco, e si vendevano per un quattrino mazzi di venti o venticinque ciascuno.

Girando da Piazza dell'Olio, e attorno al Ghetto s'entrava in mille straducole e piazzette tutte ingombre di barroccini, di ceste di venditori in una confusione incredibile. Piazza de' Marroni, Piazza dell'Uova, Via delle Ceste, "La Palla" ove era l'antico Campidoglio, che Firenze, a similitudine di Roma, sebbene più in piccolo, volle avere all'epoca romana; e che negli ultimi tempi divenne un albergo, e qualche cosa di peggio frequentato dai soldati e dai giovinastri; ed abitato da certe donne che facevano appunto a palla d'ogni virtù e d'ogni decoro.

Dal vicolo della "Luna" appena largo un braccio, fetido e buio da farsi il segno della croce prima d'avventurarvisi, s'entrava nella caratteristica Piazza della Luna, sulla quale corrispondeva l'antichissimo palazzo di questa famiglia, che fu costruito sugli avanzi del Campidoglio e rispondente sulla Via de' Vecchietti.

Il popolo lo chiamava il "Palazzo della Cavolaia" poiché si raccontava come una paurosa leggenda, che ai tempi di Totila, mentre egli abitava nel Campidoglio, invitò i principali cittadini di Firenze chi dice a consiglio e chi dice a una festa.

S'entrava in quell'edifizio per la Via tra'Ferravecchi, oggi degli Strozzi, e accanto alla porta c'era una donna che vendeva erbaggi ed era chiamata la cavolaia. Essa vedendo entrar sempre persone nel Campidoglio, e mai uscirne alcuna, cominciò dopo qualche ora a metter sull'avviso coloro che continuavano ad arrivare - i quali, insospettiti, non entrarono nel tristo fortilizio, e scamparon così la vita; poiché si seppe che coloro che vi eran già entrati, erano stati a mano a mano fatti trucidare.

Tanta fu la riconoscenza che ebbero coloro che vennero salvati dalla cavolaia, che dopo la sua morte stabilirono che le fosse ogni anno celebrato un uffizio in suo suffragio e la campana che dalla sera d'Ognissanti fino all'ultimo giorno di carnevale, suona anch'oggi le tre ore di notte, si disse la campana della Cavolaia, perché quella era l'ora in cui ebbe luogo, secondo alcuni, la festa fatale. La leggenda su riferita, piuttosto che a Totila v'ha chi l'attribuisce al Duca d'Atene e a' suoi tempi.

Dalla Via tra'Ferravecchi fino agli Strozzi, e Via de' Pescioni dietro il palazzo Corsi, era sempre Mercato, e la strada era ingombra dì banchi, di deschi di macellari, di ceste d'ortolani, di fornelli di friggitori.

D'estate le strade di tutto quel quadrato del centro della città che costituivano il Mercato, era coperto di tende d'ogni colore, d'incerati gialli, di pezzi di traliccio e di stoie, in una confusione straordinaria di colori, di fogge e di toppe, da stancare qualunque immaginazione e da far disperare qualunque artista avesse voluto riprodurre il quadro strano, singolarissimo, pieno di vita, di movimento e di colore locale.

Ritornando in su per Via tra'Ferravecchi, si trovava il Canto de' Diavoli dov'era il palazzo Vecchietti, opera di Giambologna, del quale pure era il piccolo satiro in bronzo che serviva di portabandiera sull'angolo del palazzo stesso, e che ora si conserva nel Museo Nazionale. Quindi la chiesa di San Pierino, ossia di San Pier Buonconsiglio, che aveva sulla facciata la magnifica lunetta storiata dei Della Robbia una vera meraviglia d'arte, che si ammira nel citato Museo. Accanto, a sinistra, esisteva il Vicolo del Guanto e di faccia la caratteristica e graziosa Loggia del Pesce costruita nel 1568 sul disegno di Giorgio Vasari per ordine del granduca Cosimo I che la fece edificare dopo che la terribile piena dell'anno innanzi aveva distrutta quella antichissima a piè del Ponte Vecchio nella via che poi si disse degli Archibusieri, ove fin dall'epoca romana si faceva il mercato del pesce.

Dopo San Pier Buon Consiglio s'entrava in Pellicceria, dove c'erano i ramai, alcuni linaioli e tralicciai e fornai. A destra andando verso Porta Rossa si trovava il Chiasso del Mangano, ove fino ai nostri tempi è esistito l'antico mangano in uso fin dall'epoca della Repubblica, e che serviva per dare il lustro alle stoffe quando le levavano dalla gualchiera. Cotesto mangano consisteva in un gran piano di marmo liscio, dove si stendeva la stoffa su cui scorrevano i rulli sui quali pesava un enorme masso, che veniva messo in movimento da un meccanismo speciale quanto primitivo a guisa di bindolo o guindolo, girato da un cavallo.

In faccia al Mangano la Piazza del Monte di Pietà e poi Via de'Cavalieri e Via Lontanmorti e tutto quel ginepraio di vicoli e straducole e chiassoli dai nomi di antiche famiglie e molti anche curiosi e singolari: Vicolo del Refe nero, del Ferro, degli Erri, e del Guanto; il Chiasso de' Limonai che da San Miniato fra le Torri metteva in Porta Rossa; e Vie del Fuoco, de' Naccaioli, degli Stracciaioli, della Vacca, la Piazza degli Amieri, ove ebbe le case e la Torre la famiglia a cui appartenne Ginevra, celebre per essere stata sotterrata viva: Piazza dell'Abbaco, de' Pollaioli, de' Succhiellinai ed altre molte, che portavano i nomi delle più antiche famiglie fiorentine.

Mercato Vecchio in certe epoche dell'anno prendeva l'aspetto di festa e sfolgorava dì luce. La folla sì aggirava e si accalcava in quelle piazzette, in quei vicoli, e in quelle straduccie, ammirando tutta quella grazia di Dio messa in mostra con mille fronzoli, ed in tanta copia, da parere impossibile che dovesse esser tutta consumata dalla voracità umana. Era quello, si direbbe oggi, il ventre di Firenze.

La mattina della vigilia di Ceppo, dalla Colonna di Mercato c'eran tutti i trucconi e i contadini che vendevano i capponi vivi; chi voleva quel giorno un cappone per sé o per regalarlo alla maestra dei bambini, o al dottore di casa, bisognava che cascasse - come si usava dire - in Mercato.

La sera poi dalle ventiquattro in là - ossia dalle cinque pomeridiane - facevan la mostra tutti i pollaioli di faccia alla Fila, e i macellari, gli uccellai, i fruttaioli e i pizzicagnoli: e tutti, dalle botteghe vere a quella specie di baracche di tela intonacata che erano in beccheria, facevano uno sfarzo straordinario di padelle di sego e di lumi a olio, i cui lucignoli mandavano un fumo acre e nauseante, che annebbiava tutto Mercato.

Anche la sera dei giovedì santo, Mercato Vecchio era in festa, ma si faceva la mostra soltanto dai pizzicagnoli. Il soffitto delle botteghe era coperto da centinaia di prosciutti, di mortadelle e di salami, che rappresentavano addirittura un capitale: e presso la porta, colonne intere di grossi parmigiani unti, lustri che parevan verniciati. E tutto con festoni d'alloro, con lumi e padelle come per le processioni di campagna.

Il sabato santo pure era giorno di gran mostra; ma più specialmente dei macellari, che mettevano quindici o venti manzi squartati in fila uno dietro all'altro, legati alle pulegge e pieni di fiori di carta, e ornati di foglie di lauro; al soffitto e alle pareti, agnelli sparati, e coratelle pieni essi pure di fiori di foglio, e teste di vitella con una mela in bocca; e ogni cosa illuminato al solito fantasticamente e affumicato parecchio.

Questo, su per giù, era il Mercato Vecchio, che variava a seconda delle stagioni, ma che nell'insieme si manteneva lo stesso. Nessuno dei più vecchi aveva ricordo d'aver visto le strade di Mercato asciutte, nemmeno nei solleoni! Ma era caratteristico, era curioso e pittoresco. Si vedeva, si ritrovava sparsa qua e là l'antica grandezza di Firenze. In quei vicoli sudici e bui, le fabbriche deturpate e alterate da aggiunte dei secoli precedenti, conservavano sempre in qualche parte la primitiva eleganza, la vecchia struttura medievale così bella, così semplice e così severa. Ad ogni passo ci si imbatteva in un mirabile ricordo: il bellissimo tabernacolo del quattrocento e la superba porta della residenza dell'Arte degli Albergatori in Via dei Cavalieri; quella dell'Arte de' Rigattieri sulla Piazza di Sant'Andrea; gli stemmi dell'Arte degli Oliandoli in Piazza del Monte di Pietà nelle case dei Lamberti, ed un'infinità di cose pregevoli e stupende, che nessuno guardava e di cui nessuno si curava.

Soltanto i forestieri si dilettavano di penetrare in quei vicoli e in quelle luride stradicciuole ad osservare tanta ricchezza d'arte, tanta profusione di ricordi negletti e abbandonati.

Anche non volendo, l'intelligente e l'artista bisognava che si fermasse ammirato dinanzi a un tabernacolo le cui linee purissime armonizzavano col bassorilievo di Donatello o di Benedetto da Maiano o d'una terra dei Della Robbia che v'era dentro: oppure dal lampione di ferro battuto, ricco di fregi e di foglie, come fosse d'una materia più delicata e meno difficile a lavorarsi. E questi tesori, questi esempi rari dell’arte fiorentina eran sulle facciate di povere case, o anche di postriboli e nei chiassoli di gente di malavita, ma non costituivano più un insieme artistico, come quello che ci si poteva immaginare, degli avanzi rimasti; quindi, l'aver demolito in servigio dell'igiene tante catapecchie malsane e tanti luridi vicoli, non è stata un'ingiuria né all'arte né alla storia; poiché, invece, da quelle demolizioni sono venute fuori pitture murali, stemmi e decorazioni occultate e da tutti ignorate, perché nascoste da intonachi o celate dall'imbiancature, e che saranno di giovamento grande agli studiosi e agli artisti.

Ammirabile straordinariamente era l'architettura severa medievale di certe case, delle quali si conservavano intatte le piccole porte a sesto acuto, le fìnestre e le terrazze, con le facciate tutte di filaretto lavorate e connesse come un mosaico, in modo che fra bozza e bozza non ci sarebbe passato un filo, e che ora, molti di questi esemplari sono stati raccolti a cura del Comune nel Museo di San Marco, e quelli dell'epoca romana nel Museo archeologico.

In Mercato Vecchio, ciò che fermava subito l'occhio era il Ghetto. Quell'antica località di cui tanto si è parlato e tanto si è scritto a proposito, ma anche a sproposito.

Quivi sorsero antiche case e palazzi delle principali e più potenti famiglie; e nel catasto del 1427 si trova che appartenevano ai più bei nomi della storia fiorentina, come i Pecori, i Fighineldi, i Filitieri, i Brunelleschi, i Della Tosa, i Catellini da Castiglione ed altri molti, che troppo sarebbe il rammentare, e che da altri eruditi sono stati ampiamente descritti.

Accanto alle antiche logge e alle torri di case illustri, sorgeva il Gran Postribolo difaccia a Santa Maria in Campidoglio, che fu detto poi la Palla edificato nel 1328 per ordine della Repubblica: furono chiuse da mura altissime merlate a guisa di fortezza, alcune catapecchie, dove venivano obbligate a vivere le baldracche, e la Signoria, per sommo spregio di esse e dei traditori della patria, che non erano altro che capitani di ventura, i quali trovando chi li pagava meglio andavano a servire il nemico, faceva dipingere questi spergiuri a capo all'ingiù sulle mura del Gran Postribolo, con una mitra in testa. La quale onta col tempo diminuì tanto di proporzioni, che la mitra di carta si metteva nelle scuole per penitenza in capo ai ragazzi più negligenti o cattivi; e si diceva "mettere la benda".

Il Gran Postribolo occupava quella parte del Ghetto, detta poi "le Cortacce" ove primamente venivano frustate ignude le donne di buona famiglia che si rendevan meritevoli d'esservi rinchiuse. Alcune di queste, venivano anzi condotte sul Ponte Santa Trinita dove il boia le calava in Arno, dando loro tre tuffi nell'acqua, quasi si volesse, con tale crudele e sfacciata punizione, simboleggiare di lavar la macchia da quelle sciagurate fatta all'onore della famiglia. Se fosse sempre in uso questa barbarie di mandare ignude coloro che appartenenti a buone famiglie hanno incespicato nel sentiero della virtù, quanto meno lavoro avrebbero le sarte!

Il Ghetto prima del 1571 non esisteva; e gli ebrei vivevano liberi per la città, abitando di preferenza straduccie e vicoli, perché non avevan piacere di mettersi in evidenza non solo per quella specie di stolto disprezzo che si ostentava verso di loro, quanto per il segno visibile che eran costretti a portare, cioè il segno giallo alle loro berrette o ai loro cappelli. E poi anche per dar meno nell'occhio quando compravano, come era fama che comprassero, non dirò roba rubata, ma portata via. Essi furono fin dagli antichi tempi tollerati in Firenze, soltanto in numero di settanta, con la facoltà di fare imprestiti a un tanto per cento. Di là d'Arno, una strada chiamata Via de'Giudei ricorda che ivi si accogliessero in un certo tempo. Ma arricchiti in breve gli ebrei di parecchi milioni di fiorini, gli usurai cristiani ingelositi dei loro colleghi, cominciarono a destare il malumore e ad incitare la plebe contro di essi: e la Repubblica per tema di sommosse o tumulti, giacché a quel tempo bastava un nulla per sollevar la città, diede loro lo sfratto. Però dopo pochi anni li ebbe a richiamare, perché i cristiani che prestavano ad usura eran più strozzini di loro, e tutti rimpiangevano gli usurai ebrei che a prendere quattro denari - un quattrino - per lira il mese, eran fior di galantuomini, perché veniva al dodici per cento l'anno, mentre quegli altri battezzati, ed era stata acqua sciupata, a meno del trenta per cento non davano un picciolo.

Dopo che gli ebrei furono cacciati dalla Spagna, accolti in Italia trovarono rifugio anche in Firenze, e aumentarono fìno a duemila; ma l'agitazione religiosa del secolo decimosesto che tanti mali addusse all'Europa cristiana, fu cagione agli ebrei di nuove e non minori sventure. Persecuzioni ed eccidi li colpirono negli anni 1541. 1554, 1559. Nel 1571 Cosimo I, istigato da papa Paolo IV, ordinò che tutti gli ebrei di Firenze fossero riuniti in una sola località, dalla quale non potessero uscire che in certe date ore; e la sera vi fossero chiusi dentro dalle tre porte che davano sulla Piazza di Mercato presso la Loggia del Pesce, in faccia a Via della Nave e sulla Piazza dell'Olio.

E così sorse il Ghetto, - la cui etimologia ebraica ghét, vale analogicamente separazione, - consistente in un vastissimo fabbricato costruito sul disegno del Buontalenti, che vi mise dentro tutti gli antichi vicoli, le vecchie e luride corti, le catapecchie delle meretrici, le antiche botteghe "ad uso di maestro di ballare" o "di suonare chitarra" e le antiche osterie del Frascato, del Porco, di Malacucina e di tutti i nomi adattati a quel luogo.

Fra le antiche case ed edifizi incorporati nel Ghetto ve n'erano perfino alcune appartenute ai Medici; e non faceva loro certamente grandissimo onore il trovare nei libri delle decime che Bernardo de'Medici aveva tranquillamente denunziato di possedere un albergo e tre botteghe "ad uso di meretrici" come se avesse detto "ad uso di spezieria", e di più dichiarava che non vi si trovavan "se non ladri e ribaldi" che le prendevan a pigione senza pagare. Sull'architrave di una casa vi era un cartellino di pietra con l'arme della famiglia dove era scritto MEDICI, perché prima serviva ad uso di banco, uno dei tanti che essi avevano. Ed anche i Brunelleschi e i Pecori, vi ebbero "un albergo atto a tener femmine" e una casetta con corte a due usci ad uso delle donne cortesi! E più cortesia di quella....

Il Ghetto consisteva in due piazze: Piazza della Fraternità o Ghetto nuovo, e Piazza della Fonte o Ghetto vecchio. Al Ghetto nuovo si accedeva da Piazza dell’Olio. Nel Ghetto vecchio si entrava da Via della Nave da un lato, e dalla Piazza del Mercato dall'altra. Un arco congiungeva le due piazze. Nel Ghetto vecchio erano le "Cortacce" la località più lurida di tutto il recinto. Il sudiciume, conseguenza inevitabile dell'agglomerazione sforzata di troppa popolazione quasi tutta miserabile, rendeva quel soggiorno tristo, puzzolente e malsano; gli ebrei ringraziarono Dio, e i fiorentini ne godettero quando sparì dal centro della città quell'avanzo di barbarie medievale.

Alle ventiquattro si chiudevano le porte del Ghetto lasciandone aperta soltanto una a spiraglio per quelli che facevan più tardi un quarto d'ora o una mezz'ora. I birri vi potevano però entrare a qualunque ora per sorvegliare o cercare dai manutengoli più noti la roba rubata quando si scopriva qualche furto; poiché la polizia, in questi casi, la prima visita la faceva in Ghetto, ma non trovava quasi mai nulla, perché avevano già strutto gli ori e gli argenti, che ridotti in verghe, nessuno poi era più buono a riconoscere. Però la ragione vera della ricchezza degli ebrei, non era questa: non tutti facevano il manutengolo dei ladri; la generalità invece, doveva la sua agiatezza alla sola via che era loro lasciata, quella del commercio e del giro del denaro, alla parsimonia con la quale vivevano, all'ordine e all'economia domestica, e ai pochi incentivi di spendere e di menare una vita fastosa, che erano loro concessi.

Leopoldo I ammise gli ebrei a godere dei diritti municipali, e nel 1814 Ferdinando III abolì le loro giurisdizioni eccezionali e li sottopose agli ordini e alle leggi comuni, tutelandoli con speciali provvedimenti nell'esercizio del loro culto. Leopoldo II li accolse nella Guardia civica nel 1848, ma non li accettò nell'esercito, e li escluse, salvo una o due eccezioni, dagl'impieghi governativi come dalla professione forense, per quanto la laurea, se la guadagnavano, non venisse loro negata.

L'interno del Ghetto era sudicio e lercio quanto mai si può dire. Il Comune non vi faceva i lavori necessari, le fogne non si spurgavano, nessuno sorvegliava la pulizia né l'igiene; e tutti facevano quello che volevano. C'eran delle case perfino d'undici piani: quelle costruite sul muraglione del Gran postribolo difaccia alla Palla.

Sembra un'esagerazione, ma è proprio la verità.

Le case di sette e di nove piani erano comuni.

C'è da immaginarsi perciò quanta luce e quanto sole penetrasse in quelle corti e in quei vicoli rinchiusi.

Soltanto dalle finestre delle case più alte si godeva un panorama stupendo, e nelle belle giornate bastava alzare i piedi - come si dice a Firenze per giustificare in certo qual modo l'incuria domestica - e pareva d'essere in paradiso. Per altezza, a mezza strada ci s'era!

In Ghetto ci stavano anche famiglie ricche; ma si vedevano, tra la classe più miserabile, faccie gialle di gente che respirava aria malsana; ragazze sciatte, in ciabatte, tutte arruffate coi capelli senza pettinare, neri cresputi, che nell'insieme rivelavano la loro origine orientale. Le più vecchie, le madri, avevano il fintino, per una consuetudine religiosa che non permetteva alle donne di tenere i propri capelli dopo che fossero maritate, onde non provocare la concupiscenza altrui. E ragazzi mezzi ignudi che facevano il chiasso per le piazze, per le scale, con una poltiglia nera sugli scalini alta tre dita, formata da centinaia di anni di mota e di letame. Alle finestre di tutte le case, I cenci tesi, calze, sottane, lenzuoli pieni di toppe, ma tutto bigio e quasi sudicio, benché fosse roba lavata d'allora!

Il Ghetto pareva una piccola città murata. C'era una vita a parte, abitudini proprie, usi affatto diversi.

Da Piazza dell'Olio si saliva in quella specie d'androne che internamente conduceva in Via della Nave, ove trovavansi botteghe di fondachi e di merciai, che vendevano all'ingrosso a quelli di campagna, i quali oltre al cambrì e alla ghinea vi trovavan corone, crocifissi, saponi, e un'infinità d'altre cose, che gli ebrei vendevano a prezzi bassissimi. Nel 1826 vi fu nel Ghetto una epidemia di fallimenti; quei commercianti andavan giù come le carte, e un bell'umore, commosso, scrisse una canzone che aveva il seguente intercalare:

Qual flagello, Stenterello,

Il commercio desolò!

Questo Stenterello al quale si rivolgeva la canzone, era un salumaio.

In Piazza della Fonte intorno al pozzo, c'eran quelli che abbrustolivano sui fornelli i ceci e i semi di zucca; fra questi c'era un vecchio famoso per friggere le ciambelle, che anche i cristiani i quali attraversavano il Ghetto per far più presto, compravano ai loro ragazzi che ne erano ghiottissimi.

Era rinomato fra i venditori di quel luogo un certo Leone, che vendeva i polli e la tacchina scannati secondo il rito ebraico: ma egli non era rinomato per questo: sibbene per essere un sensale di cavalli conosciutissimo, ed era, a quei tempi, l'unico ebreo che maneggiasse i destrieri.

Era curioso il veder la mattina molti di cotesti ebrei con la balla legata dietro le spalle che uscivano di Ghetto a due e tre per volta per andare per la campagna o per le case a vendere la ghinea, la tela d'Olanda, le pezzuole d'Aleppo, e il cambrì. La maggior parte di essi facevan a credenza ed avevan le loro case fisse, ove vendevano a un tanto la settimana. E se non era puntuale l'avventore, era puntuale l'ebreo d'andare a riscuotere i denari!...

In Ghetto avevan le Sinagoghe o Scuole, gl'istituti d'istruzioni pei ragazzi e le botteghe ove si vendevano i commestibili alla loro usanza. Nell'insieme, quando lì non c'eran che ebrei non stavan male. Era una specie di repubblichetta; lo star chiusi a quel modo, mentre a prima vista poteva sembrare, ed era una crudeltà ed una barbarie, a molti di essi pareva un benefizio, e ci stavan volentieri, perché così nessuno vedeva ciò che accadeva là dentro. Ed infatti, c'era fino a notte inoltrata un giuoco fortissimo; e le lagnanze di molti capi di famiglia che venivano a scoprire che i loro figliuoli passavan la notte in Ghetto a giuocare, a finire i patrimoni, e a far debiti a babbo morto, arrivarono fino al Granduca più e più volte, senza che trovasse mai il modo di ripararvi.

Finalmente, il Presidente del Buon Governo, a tempo del gonfaloniere Pazzi, una bella notte fece occupare da una compagnia di granatieri e una squadra di birri tutte le piazzette, i vicoli, gli androni e le scale di quell'immenso laberinto, vennero sfilate le porte dei tre ingressi e portate via. La mattina dopo, quando i buoni ebrei si videro messi così allo sbaraglio, alcuni applaudirono, altri si lamentarono del provvedimento, perché ormai che erano avvezzi a star chiusi, volevano rimanervi. Ma s'ebbero a chetare, e lasciar gli ingressi senza porte, avendo dicatti che non accadesse loro di peggio. Per misura d'ordine chiesero e ottennero che vi fosse istituito un picchetto di gendarmi. Questo fatto rovinò il commercio.... notturno, e sparì il giuoco clandestino.

Molte famiglie israelite fra le più distinte non abitavano nel Ghetto, ed avevano dimore bellissime e ricche, specie coloro che esercitavano l'industria, che pur ve n'era fra tanti, o l'alta banca, come i Della Ripa, i Lampronti, la ditta "Mondolfi e Fermi". Nel 1848 anche gli ebrei di "mezza tacca" cominciarono ad abbandonare il Ghetto ma l'abbandono si accentuò dopo il 1859, al punto che anco la residenza dell'Università israelitica esulò nel 1864 dal recinto e dalla casa che aveva per tanti anni occupato. A poco a poco non rimasero ivi che le Sinagoghe e coloro che al servizio delle medesime si dedicavano: perciò quella località rimase quasi tutta in balìa dei cristiani; ci tornò una folla di straccioni, di precettati, di ladri e di tutta la feccia della città.

Così il Ghetto divenne un vasto ricettacolo di un miscuglio di gente che passava la vita a fare a tocca-ferro con la polizia. Tutte persone dabbene che avevan pagato puntualmente il loro debito alla giustizia non avendo potuto far di meno; e che potevan vantarsi d'essere state quindici o vent'anni in galera, come se fossero state in villa; e molti di quei bravi soggetti studiavano il modo di ritornarvi, che era poi, in fine, la cosa più facile del mondo. La sera, a veglia, si raccontavano a vicenda gli episodii del tempo scontato al bagno, si portavano via via le notizie di quelli di conoscenza che c'erano andati di fresco, si almanaccavano delitti, rubamenti e d'ogni cosa un poco: tutti affari però che portavano all'uscio della galera che s'apriva loro tanto agevolmente che era un piacere!

In Ghetto trovarono in ogni tempo sicuro asilo i ladri e i malfattori d'ogni genere; e quando qualche furfante inseguito da'birri che avevan la lingua fuori dal correre, riusciva a entrare in quel recinto, era bell'e salvo. Il giro intricatissimo delle scale che mettevano in comunicazione i quartieri da un lato all'altro del Ghetto rendeva facile lo sparire in un dedalo di corridoi, in un ginepraio di pianerottoli e d'abbaini che davan la via sui tetti, dai quali poi si riscendeva nelle scale d'un'altra casa e d'un' altra strada: e così il ladro inseguito era bravo chi lo pigliava.

Fuori di tutto questo però, e non è poco, non si poteva dir altro. I grandi delitti inventati per fare effetto e per far perdere i sonni; le paurose tragedie, i sanguinosi drammi, descritti e raccontati come cose vere e naturali accaduti in quel luogo, salvo rare eccezioni, non son mai esistiti che nella fantasia di chi gli ha scritti.

In Ghetto si ricoveravano gli assassini e i ladri quando avevan bell'e commesso il delitto, ma generalmente non lo commettevan mai lì.

Sarebbe stato uno screditare il locale!...

          

  

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Ultimo Aggiornamento: 08/01/99 22.15