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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

LE FACEZIE

Di: Poggio Bracciolini

 

 

PREFAZIONE ALLE FACEZIE di POGGIO BRACCIOLINI

detto

Poggio Fiorentino

e da lui scritta

Che per la povertà dello stile gli invidiosi non devono condannare la raccolta delle facezie

Io penso che saranno molti che daranno biasimo a questi discorsi, sia come cose di niun conto ed indegne de la gravità dell'uomo, sia perché essi vi cercassero maggiore eleganza nel dire e piú animato lo stile. Ma se io loro risponda di aver letto che i nostri maggiori, uomini di grandissima prudenza e dottrina, di giuochi, di facezie e di favole si dilettarono e non si ebbero biasimo ma lode, credo che abbastanza avrò fatto per ricuperare la loro stima. Imperocché chi vorrà credere che io abbia fatta cosa turpe imitandoli in questo, non ponendolo nelle altre cose, e dando a le cure de lo scrivere quel tempo che gli altri perdono ne le società e ne la conversazione, quando principalmente non sia questo lavoro indecoroso e qualche piacere possa dare al lettore? Ed è cosa onorevole ec necessaria anzi, ed ebbero per essa lode i filosofi, sollevare l'animo nostro oppresso da molestie e da pensieri e trarlo alla gioia ed alla allegria con qualche lieta ricreazione. Però ricercare l'alto stile ne le piccole cose, o in queste che si hanno a esprimere con la parole propria e faceta,o per riferire ciò che altri disse, sembra cosa di troppa noia. Poiché vi son certe cose che non amano maggiore ornamento e vogliono invece esser dettate quali vennero da chi parlando le disse
Ed alcuni forse penseranno che questa scusa che chieggo venga da mancanze di ingegno: ed io stesso lo reputo. Ora coloro che sono di questo avviso ripiglino queste favole, le presentino e le rivestano a loro grado, ed io li esorto a farlo, ché la lingua latina in questa nostra età è fatta ricca anche ne le cose leggiere; e l'esercizio di scrivere quelle cose gioverà sempre a la grande arte del dettare. Io stesso volli fare la prova, se molte cose che si riputava non potessero essere scritte in latino, potessero tuttavolta scriversi senza cader nel vile; e non cercai in questo né l'eleganza, né l'ampiezza del dire, ma mi contentai e mi contento che le mie istorie non sembrino malamente narrate.
Del resto, risparmino la lettura di queste conversazioni (è così che le voglio chiamare) tutti coloro che sono troppo rigidi censori e critici troppo acerbi, e come una volta fece Lucilio coi Cosentini e i Tarentini io amo che i miei lettori siano d'animo lieto e sereno. Che se essi invece saran troppo incolti, non ricuso lor di pensar come vogliono, purché non se la prendano con l'autore, che solo per esercitar l'ingegno e sollevar lo spirito scrisse.

I

DI UN POVERO NOCCHIERO DA GAETA

Quelli del popolo di Gaeta vivono quasi tutti sul mare: uno di costoro, il più povero nocchiero del mondo, dopo avere errato per molti luoghi per guadagnare, tornò dopo cinque anni a casa, dove aveva lasciata povera masserizia e la moglie giovane. Appena mise piede a terra, corse a veder la sua donna (che disperando intanto che il marito tornasse, con altro uomo viveva). Entrato in casa e vedendo questa tutta instaurata e ingrandita e abbellita, chiese a sua moglie, come mai quella stamberga, prima tanto brutta, si fosse così mutata. Rispose tosto la moglie, che la era stata la grazia di Dio che dà a tutti gli uomini la ricchezza. «Benediciamo dunque il Signore», disse l'uomo, «che ci ha fatto così gran beneficio». Poi, di sopra, vide la stanza da dormire, con un letto più bello e con tutta la mobilia più elegante di quello che la condizione di sua moglie permettesse; e quando chiese di dove anche tutto questo fosse venuto, ella gli rispose che anche ciò si doveva alla misericordia di Dio; e ringraziò di nuovo il Signore che così generoso verso di lui si era mostrato. Nello stesso modo, quando vide nella casa tutte le altre novità, che sua moglie diceva provenienti dalla munificenza di Dio, e mentre egli restava ammirato di tanta profusione di grazie, sopravenne un fanciullo di più di tre anni, che corse, come fanno i bambini, ad accarezzare la mamma; allora il marito chiese di chi fosse il marmocchio, e la donna gli rispose essere suo. Meravigliato, l'uomo, che fosse venuto fuori un fanciullo, se egli non c'era entrato, la donna rispose sempre che esso proveniva dalla grazia di Dio. Allora non poté contenere lo sdegno per questa sovrabbondanza di grazia celeste, che veniva fino a regalargli dei figli. «Ah, sì», disse, «che lo devo ringraziar molto, il Signore, che si è preso tanto pensiero delle mie faccende!». Gli pareva, povero uomo, che Dio avesse pensato troppo, se gli faceva nascere dei fanciulli mentre egli era lontano.

II

DI UN MEDICO CHE CURAVA I MATTI

Eravamo in molti a discorrere di quella vanità, per non chiamarla stoltezza, che certuni hanno di mantenere cani e falchi per la caccia. Allora saltò su Paolo fiorentino a dire: «Aveva proprio ragione di ridere di loro quel matto di Milano». E poiché noi lo pregammo di raccontarci la storia: «Fuvvi, una volta», egli disse, «un cittadino milanese che faceva il dottore a' dementi ed a' pazzi e che prendeva a guarire in un certo tempo coloro che erano affidati alla sua cura. Ed ecco in qual modo egli la faceva: aveva in sua casa una corte dove era uno stagno di acqua sporca e fetente, nel quale, legati ad un palo, egli immergeva i matti che gli conducevano; e alcuni fino a' ginocchi, alcuni altri fino alle anche, qualcun altro anche più profondamente, secondo la gravezza del male, e li teneva a macerare nell'acqua e nell'inedia fino a che paressergli risanati. Gli fu tra gli altri una volta condotto un tale, che egli mise in quel bagno fino alle cosce, e che dopo quindici giorni ritornò alla ragione e pregava il medico di toglierlo da quel pantano; e questi lo tolse dal supplizio a patto però che non uscisse dalla corte; e quando ebbe per qualche giorno obbedito, lo lasciò passeggiare per tutta la casa, a condizione che non uscisse dalla porta sulla via: intanto i colleghi del matto erano sempre nell'acqua, e il matto osservò diligentemente gli ordini del medico.
Una volta che egli stava sulla porta, né per timore della fossa osava di passarla, vide venire un giovine cavaliere col falco sul pugno, e due di que' cani che servono per la caccia; e poiché non aveva memoria delle cose avvenute o viste prima della follia, gli parve cosa nuova, e lo chiamò a sé; e il giovine venne: «Ohé tu», gli disse, «ascoltami un poco e rispondimi se ti piace: Che è la cosa su cui stai, e per che uso ti serve? «È un cavallo», rispose, «e l'ho per la caccia». «E l'altra cosa che hai sul pugno come si chiama essa e a che è buona? «È un falco educato alla caccia delle arzavole e delle pernici». E il matto: «E quelli che ti accompagnano chi sono e a che ti giovano? «Sono cani», disse, «ammaestrati a snidare la selvaggina». «Sta bene, ma codesta selvaggina per la quale hai pronte tante cose, che prezzo ha quando tu ne abbia cacciato per un anno intero? «Poco ne so», rispose, «ma non credo più di sei ducati». «E quanto spendi tu nei cani, nel falco e nel cavallo?» «Cinquanta ducati». Allora meravigliato della pazzia del giovane cavaliere: «Oh, oh!» disse, «va' lontano di qui tosto prima che il medico torni a casa; perché se ti trova qui, come se fossi tu il più stolto fra i viventi, ti getterà nella fossa per curarti cogli altri matti, e come non fa cogli altri ti metterà nell'acqua sino alla gola». Mostrò così che la passione per la caccia è stoltezza se non è de' ricchi e per esercizio del corpo.

III

DI BONACCIO DE' GUASCI CHE S'ALZAVA TARDI DAL LETTO

Bonaccio de' Guasci, giovane di animo lieto, mentre eravamo a Costanza, sempre tardi sorgeva dal letto. E quando gli amici suoi gli rimproveravano questa pigrizia e gli chiedevano che mai nel letto facesse, egli sorridendo rispondea: «Ascolto la contesa di due litiganti; al mattino quando mi sveglio son presso a me due figure di donna, la sollecitudine e la pigrizia: quella m'esorta ad alzarmi, a muovermi, a non passare il mio giorno nel letto; questa la riprende e mi consiglia a non muovermi, poiché fuori è freddo ed è migliore il calore del letto, e il corpo abbisogna di riposo, né si può lavorare sempre. La prima ripete le sue ragioni; e così, poiché è lungo l'alterco fra loro e la disputa, io, giudice equo, non piego né dall'una parte né dall'altra, ascolto i contendenti, aspetto che si pongan d'accordo. Ed è così che m'alzo tardi, aspettando che sia composta la lite».

IV

DI UN GIUDEO CHE SI ERA PERSUASO DI FARSI CRISTIANO

Molti erano che esortavano un giudeo a farsi cristiano, ma egli non potea risolversi di staccarsi da' suoi beni; e lo assicuravano che se e' li avesse dati a' poveri, secondo la sentenza del Vangelo, che è verissima, avrebbe in cambio ricevuto il centuplo. Persuaso egli finalmente, si convertì alla fede e spartì i beni suoi fra poveri, malati e mendichi. Poi per circa un mese fu con molto onore ospitato e ricevuto da diversi cristiani e tutti lo accarezzavano e lo plaudivano per quel che aveva fatto. Egli intanto che viveva alla giornata, aspettava di giorno in giorno il centuplo che gli avevan promesso, e poiché molti s'eran già stanchi di dar gli da mangiare e gli ospiti si facean sempre più radi, così egli cadde in malattia e venne per questa in fin di vita, per un grande flusso di sangue. Disperava egli ormai della vita, ed ancora della promessa del centuplo, quando un giorno, per desiderio di prender fiato, uscì dal letto e venne per sgombrarsi il ventre sul prato di un vicino; ed ivi vuotatosi, cercava d'intorno delle erbe per detergersi, quando trovò un involto di cenci che molte pietre preziose conteneva. Così si fe' ricco, chiamò i medici, guarì, comprò case e poderi e visse di poi in grande opulenza. E quando tutti gli ripetevano: «Vedi tu, se ti predicevamo la verità, che Dio t'avrebbe restituiti tutti i tuoi beni centuplicati?» «Sta bene», diceva, «egli mi rese il centuplo; ma volle prima ch'io mandassi fuori per disotto sangue fino a morire». Ciò va detto di coloro che son tardi a compiere o a rendere un beneficio.

V

D'UNO SCIOCCO CHE CREDEVA CHE SUA MOGLIE AVESSE DUE COSE

Uno de' nostri paesani, assai poco furbo, e inesperto nelle faccende d'amore, prese moglie. Ora avvenne che una notte nel letto ella volse la schiena e'l resto al marito, il quale tuttavia colpì nel segno; onde meravigliato oltre misura si fe' a chiedere alla donna s'ella mai avesse due di quelle cose; ed avendo ella risposto che due n'aveva: «Oh, oh», disse l'uomo, «a me una sola basta; l'altra è di troppo». Allora la donna furba, che era amata dal piovano suo: «Possiamo», gli disse, «fare con l'altra elemosina; diamola adunque alla chiesa ed al nostro piovano che ne avrà gran piacere, e a te non verrà in danno, poiché una ti basta». E l'uomo acconsentì e per amor del piovano e per trarsi di dosso quel peso. E così, chiamatolo a cena, e narratogli il caso, dopo in tre sul letto si coricarono, la donna nel mezzo e dinanzi il marito e per di dietro il piovano, affinché si giovasse del dono. Il prete, affamato ed avido di quella pietanza tanto desiderata, attaccò pel primo la sua parte di combattimento, e poiché la donna se la godeva e lasciava sfuggir qualche rumore, il marito, temendo che il prete non passasse nel campo suo: «Bada», gli disse, «o amico, di stare a' patti e servirti della tua parte e lascia stare la mia». Che Iddio mi aiuti», rispose il prete, «ché la tua non tengo io in gran conto, purché mi possa godere i beni della chiesa». Con queste parole si quietò l'uomo sciocco e invitò il piovano a godersi liberamente della parte ch'egli aveva concesso alla chiesa.

VI

DI UNA VEDOVA ACCESA DI VOGLIA CON UN MENDICANTE

Sono gli ipocriti la gente peggiore del mondo; e un giorno ci parlava di questa genìa in luogo dove io ero presente, e diceasi che essi hanno ogni cosa in grande abbondanza, e che avidi come sono di dignità e di ricchezze, pure simulando e dissimulando pare che gli onori a malincuore ricevano e solo per ubbidienza a' superiori. E uno degli astanti disse: «Rassomiglian essi ad un certo Paolo, uomo santo, che abitava a Pisa; uno di coloro che si chiamano Apostoli e che sogliono sedere alle porte senza nulla domandare»; e a noi che gli chiedevamo chi fosse: «Questo Paolo», disse, «che per la santità della vita era detto il Beato, soleva assidersi alla porta di una vedova, che gli dava in elemosina il cibo. Essa, vedendo spesso costui che era assai bello, se ne invaghì, e un giorno, dopo averlo cibato, gli disse di venir il dì appresso, che gli avrebbe preparato un buon pranzo; e giacché egli venne spesso, così un giorno ella lo invitò ad entrare a mangiare dentro la casa, e avendo egli aderito, e quando ebbe il ventre pieno di cibo e di vino' la donna, matta di voglia, lo prese ad abbracciare e a baciare, giurando di non lasciarlo partire, prima di aver tutto fatto; ed egli finse di non voler sapere del giuoco, anzi di detestare l'acceso desiderio della donna, e alla fine, poiché ella più oscenamente insistette, come se cedesse solo all'importunità della vedova: «Dappoiché», disse, «tu vuoi far tanto male, chiamo Dio testimonio, che tutta tua è la colpa, e che io non ne ho. Tu stessa prenditi questa carne maledetta, e sèrviti come meglio ti piace, ché io non voglio neanche toccarla». E così egli fe' il piacer della donna, e poiché per astinenza non aveva voluto toccare se stesso, lasciò a lei tutto il peccato».

VII

DI UN PRELATO A CAVALLO

Andavo io un giorno al palazzo del Papa, e vidi passare a cavallo uno de' nostri prelati, forse assorto ne' suoi pensieri, perché non si accorse di uno che lo salutava scoprendosi il capo; e questi credendo che ciò provenisse o da superbia o da arroganza: «Ecco là», disse, «uno che non ha lasciato a casa la metà del suo asino, ma che lo porta tutto con sé». Volendo dire che è da asino non rispondere agli atti di riverenza.

VIII

DETTO DI ZUCCARO

Una volta io e Zuccaro - che fu il più ameno degli uomini - passammo per una città, e giungemmo a un luogo dove si celebravano sponsali. Era la domani del giorno che la sposa era entrata nella casa, e noi ci fermammo qualche poco di tempo per assistere alla danza degli uomini e delle donne. Allora Zuccaro disse ridendo: «Costoro hanno consumato il matrimonio, io il patrimonio consumai da lungo tempo». E disse cosa amena di se stesso, ché aveva già venduti i beni di suo padre e tutto il patrimonio suo per dissiparlo alla tavola del gioco.

IX

DI UN PODESTA'

Un Podestà che era stato mandato a Firenze, il dì che entrò nella città, fece com'è d'uso, nella cattedrale, alla presenza de' priori della città, un lungo e noioso discorso; poiché a sua lode prese egli a narrare come già fosse senatore a Roma, e ciò che egli aveva fatto e ciò che gli altri fatto e detto avean di lui; poi descrisse l'uscita sua dalla città e il seguito che l'accompagnava poi, che il dì dopo si recò a Sutri, e disse punto per punto ciò che egli aveva compiuto. E appresso mostrò dove era stato giorno per giorno, e parlò delle persone e de' luoghi dov'era stato ricevuto, e ciò che fatto vi aveva. Erano già di molte ore in questo racconto trascorse, ed egli non ancora a Siena era giunto. Questa eccessiva lunghezza di un discorso noioso aveva stancato tutti gli uditori, che avean ragione di temere che tutto il giorno sarebbe passato in questo modo; e poiché già si avvicinava la notte, un uomo faceto, che era fra gli astanti, venne alle orecchie del Podestà e gli disse: «Monsignore, omai è tardi, e conviene abbreviare il viaggio; perché se voi oggi non entrate in Firenze, giacché oggi stesso vi è prescritto di entrarvi, avrete mancato all'ufficio vostro». Udito ciò, quest'uomo sciocco e ciarlone si affrettò a dire ch'era venuto a Firenze.

X

DI UNA DONNA CHE INGANNO' SUO MARITO

Pietro, mio compatriotta, narrommi un giorno una assai piacevole istoria di un'astuzia che una donna ebbe. Egli aveva relazione con la donna di un villano poco furbo, il quale per fuggire da' creditori passava molto spesso la notte ne' campi. Una sera che l'amico mio era colla donna, il marito, verso il tramonto, improvvisamente tornò a casa. La donna allora, nascosto prontamente l'amico sotto il letto, si fe' a rimproverare acerba mente il marito, perché era tornato, dicendo che in quel modo egli volea farsi mettere in prigione: «Poco fa», disse , «i fanti del Podestà sono venuti per prenderti e condurti in prigione e hanno tutta la casa perquisita; io ho detto loro che tu di solito passi fuori di casa la notte, ed essi se n'andarono, minacciando però di ritornare ben tosto». Il pover'uomo, atterrito, cercava il modo di andarsene, ma a quell'ora le porte della città eran chiuse. E la donna: «Che vuoi tu fare infelice? Se ti pigliano, è fatta». E siccome egli tremante la chiedeva di consiglio, essa pronta all'inganno: «Monta», dissegli , «su questa colombaia; tu starai qui questa notte, io chiuderò al di fuori l'imposta, e toglierò la scala, affinché nessuno possa sospettare che sei là». Obbedì egli al consiglio della donna, la quale, chiuso al di fuori lo sportello, affinché non potesse egli più uscire, e tolte le scale, trasse l'amante dal nascondiglio. Questi, fingendo che i fanti del Podestà fossero ritornati, vocianti in gran numero, e la donna ancora che pregava pel marito, finirono con colmar di terrore il pover'uomo nascosto; poi, quetato il tumulto, entrambi in letto si coricarono e diedero a Venere la notte; il marito rimase fra lo sterco e i piccioni.

XI

DI UN PRETE CHE IGNORAVA IL GIORNO DELLA

SOLENNITA' DELLE PALME

È Aello un borgo molto campestre, ne' nostri Appennini; in esso abitava un certo prete, più rozzo e più ignorante degli stessi paesani; e siccome non conosceva egli le tempora e le stagioni dell'anno, così mai al popolo annunziò la quaresima. Venne costui a Terranova per il mercato, che ivi si tiene il sabato prima della festa delle Palme; vide i preti che preparavano i rami d'olivo e le piccole palme, per il dì seguente, e, meravigliato prima della cosa, conobbe di poi l'error suo e che la quaresima era passata senza che i parrocchiani suoi l'avessero osservata. Tornò al suo borgo, preparò i rami e le palme per il dì veniente, e la domenica, convocati i fedeli: «Oggi», disse, «è il giorno, che per uso si dànno i rami d'olivo e le palme; fra otto dì è la Pasqua; non dovremo adunque quest'anno protrarre a lungo i digiuni, poiché per questa settimana soltanto s'ha a far penitenza; ed eccovi la ragione: fu quest'anno il carnevale tardissimo e lento a cagione del freddo, e perché il viaggio per questi monti gli fu difficile, per l'asperità de' sentieri, per questo la quaresima faticò e stentò a venire e non poté recar seco che una settimana sola, avendo lasciate le altre per via; venite adunque alla confessione in questo po' di tempo che vi rimane, e fate tutti penitenza».

XII

DI ALCUNI CONTADINI AI QUALI VIENE CHIESTO DALL'ARTEFICE SE VOLESSERO IL CRISTO, CHE DOVEAN PER INCARICO COMPRARE,

VIVO O MORTO

Da questo stesso borgo furono mandati alcuni ad Arezzo, per comprare un crocifisso di legno, che dovea esser posto nella Chiesa, ed essendo essi venuti ad uno che vendea queste cose, quando s'accorse d'aver che fare con uomini zotici ed ignoranti oltremodo, l'artefice per cavarne da ridere, udita la domanda, chiese se il crocifisso volessero vivo o morto; essi presero tempo per consigliarsi, discussero piano fra loro e conclusero che lo preferivano vivo; ché, se così non fosse piaciuto a' loro compaesani, l'avrebbero essi in un attimo ucciso.

XIII

MOTTO DI UN CUOCO ALL'ILLUSTRISSIMO DUCA DI MILANO

Il vecchio Duca di Milano, principe di singolare eleganza in tutte le cose, aveva un cuoco sapiente che egli aveva perfino mandato in Francia a ciò che apprendesse ad apprestare intingoli. Durante la grande guerra che egli sostenne contro i Fiorentini, venne un giorno al Duca messaggio di cattive nuove e fu per questo grandemente turbato; e, dopo qualche momento, a tavola, essendogli presentate pietanze, delle quali non so perché disapprovasse il sapore, come se non fossero ben condite, le cacciò da sé, e fatto venire il cuoco, lo rimproverò aspramente come inetto nell'arte sua; e costui, che parlava liberamente: «Se i Fiorentini», disse, «vi han tolto il gusto e l'appetito, che colpa ci ho io? Sono i miei piatti saporiti e con grandissima arte composti, ma sono i Fiorentini, monsignore, che vi riscaldano e vi tolgon la fame». E il Duca, che era oltre ogni dire umano, rise della libera e allegra risposta del cuoco.

XIV

DETTO DELLO STESSO CUOCO AL MEDESIMO ILLUSTRE PRINCIPE

Lo stesso cuoco, durando la guerra di cui sopra s'è detto, scherzò anche un'altra volta alla tavola del Duca, un giorno ch'e' lo vide angustiato ed assorto ne' pensieri: «Non mi meraviglio», disse, «di vederlo tanto afflitto; imperocché egli va verso due cose impossibili; vorrebbe egli non aver frontiere, poi vorrebbe ingrassare Francesco Barbavara, uomo di tanta ricchezza e ardente di tanta avidità». Così il cuoco scherzava e sulla smoderata voglia di dominio del Duca e sulla cupidigia d onori e di ricchezze di Francesco Barbavara.

XV

DOMANDA DEL DETTO CUOCO AL PREDETTO PRINCIPE

Lo stesso cuoco, vedendo che moltissimi sollecitavano i favori del principe, una sera, mentre questi cenava, lo pregò di volerlo in asino mutare. Meravigliato il Duca di sentirsi fare una tale domanda, e richiestolo del perché egli preferisse più d'esser asino che uomo: «Perché», disse, «io vedo che tutti coloro che voi avete messo in alto, ai quali voi deste e magistrature ed onori, sonsi talmente gonfiati di superbia, e tanto insolenti si son fatti, da divenir asini davvero. E così desidero che voi asino mi facciate».

XVI

DI GIANNOZZO VISCONTI

Antonio Lusco, uomo di molta sapienza e di una grande gaiezza, una volta che un tale di sua conoscenza gli fe' vedere una lettera del Papa, gli disse di correggerla e di ritoccarla in certi punti; l'altro il dì dopo gliela riporto tal quale, e Lusco vedutala, gli disse: «Tu m'hai preso per Giannozzo Visconti». E una volta che noi gli chiedemmo ciò che questo detto significasse: «Giannozzo», disse, «fu già nostro podestà di Vicenza; ed era un ottimo uomo, ma rozzo e grasso di ingegno e di corpo; egli chiamava spesso il suo segretario e gli faceva scrivere lettere al vecchio Duca di Milano, e gli dettava egli stesso la parte de' complimenti; il resto lo lasciava scrivere dal segretario che dopo poco tempo gli recava la lettera. Giannozzo prendeva a leggerla, e la trovava sempre sconcIusionata e malfatta. Così non va bene, gli diceva, va' e correggila. Il segretario, che conosceva l'uso e la stoltezza del padrone, tornava poco dopo con la stessa lettera, senza avervi alcuna cosa mutata, dicendo d'averla e corretta e ricopiata. Allora Giannozzo la prendeva in mano, come per leggerla vi gettava su gli occhi e diceva: Ora la lettera va bene; va' dunque: apponvi il sigillo e mandala al Duca. E così era egli solito fare di tutte le lettere».

XVII

DI UN CONFRONTO COL SARTO DEL VISCONTI

Aveva Papa Martino incaricato Antonio Lusco di scrivere certe lettere, e, dopo averle lette, ordinò che fossero fatte vedere ad un o de' nostri amici, del quale egli aveva gran de stima; e questi, essendosi nella cena un po' riscaldato pel vino, non approvò le lettere e disse che dovean esser rifatte. E Antonio a Bartolommeo de' Bardi, che si trovava presente, disse: «Io rifarò le lettere nello stesso modo con cui il sarto di Gian Galeazzo Visconti allargò a questo le brache; tornerò domani pria ch'egli abbia mangiato e bevuto, e le lettere andranno bene». Bartolommeo gli chiese che cosa volesse con ciò significare: «Giovan Galeazzo Visconti», disse Antonio, «padre del vecchio Duca di Milano, era uomo di grande statura, pingue e corpulento; spesso costui s'imbottiva il ventre di gran cibo e di abbondante vino, e quando dopo cena iva a coricarsi faceasi chiamare il sarto e questo acerbamente rimproverava perché gli avesse fatta troppo stretta la cintola delle brache, e gli imponeva di allargarla in modo da toglierli quella molestia; e il sarto rispondeva: Sarà fatto come voi comandate, domani andrà perfettarnente. Poi prendeva la veste, e l'attaccava senza fare altra cosa. E quando gli altri gli dicevano: Perché dunque non allarghi le brache che stringon troppo il ventre di monsignore? egli rispondeva: Perché monsignore si leverà dal letto che avrà digerito, si sgombrerà il ventre e le brache saranno larghissime. E alla mattina gliele portava e il duca diceva: Ora sta bene: non mi stringon da veruna parte». Nella stessa guisa affermava Antonio che le sue lettere sarebbero dopo il vino piaciute.

XVIII

LAMENTI CHE FURON FATTI A FACINO CANE

PER CAUSA DI UN FURTO

Un tale andò a lamentarsi da Facino Cane, che fu un uomo crudele ed uno de' migliori capitani del nostro tempo, perché uno de' suoi soldati gli aveva per via rubato il mantello. E avendo visto Facino che egli era vestito di un bellissimo corpetto, gli chiese se questo egli avesse avuto il giorno in cui fu derubato. E l'altro rispose affermando. «Vattene adunque», disse Facino, «che colui che ti ha spogliato non può essere uno de' miei soldati; perché nessuno de' miei ti avrebbe lasciato codesto corpetto».

XIX

ESORTAZIONE DI UN CARDINALE A' SOLDATI DEL PAPA

Durante la guerra che il Cardinale Spagnuolo sostenne contro i nemici del Pontefice, quando un giorno i due eserciti si trovaron di fronte nell'Agro Piceno, e che dovevansi dar battaglia decisiva, il cardinale eccitava con molte preghiere i soldati al combattimento e affermava che coloro che vi fossero morti avrebbero pranzato con Dio e cogli angioli; e perché di miglior grado si facessero ammazzare, prometteva loro remissione di tutti i peccati. Poi, fatta questa esortazione, si ritirò lontano dalla pugna; e allora uno dei soldati: «Perché dunque», gli chiese, «non venite con noi a questo pranzo?» Ed egli: «Io non son solito di pranzare a quest'ora, non ho ancora appetito».

XX

RISPOSTA AL PATRIARCA

Il Patriarca di Gerusalemme, che dirigeva la cancelleria apostolica, avendo un giorno, per la discussione di una certa causa, radunati gli avvocati, rimproverò alcuno di questi con non so quali acerbe parole. E poiché Tommaso Biraco gli aveva risposto per tutti, il Patriarca, rivolto verso di lui, disse: «Avete una cattiva testa». E Biraco, ch era uomo faceto e pronto alla risposta: «Voi ben avete detto», rispose, «e nulla di più vero poteasi dire; perché se io avessi una buona testa, gli affari sarebbero in migliore stato, né sarebbe questa discussione necessaria». «Riconoscete adunque il vostro errore», disse il Patriarca. E Biraco: «Non parlo di me, ma della testa». Alludeva egli argutamente al Patriarca che era alla testa di tutti gli avvocati, il quale si sapeva aver la testa un po' dura.

XXI

DI PAPA URBANO VI

Un altro nello stesso modo scherzò con Urbano, che fu il sesto Papa di questo nome. Un giorno che egli un poco troppo acremente si opponeva non so per quale ragione al Pontefice: «Avete una cattiva testa», gli disse Urbano. «La stessa cosa», rispose, «dicono di voi gli uomini del popolo, padre santo.»

XXII

DI UN PRETE CHE IN LUOGO DI PARAMENTI SACERDOTALI

PORTO' DEI CAPPONI AL VESCOVO

Un Vescovo di Arezzo, di nome Angelico, che io ho conosciuto, convocò una volta al Sinodo i sacerdoti della sua diocesi, ingiungendo che coloro che avessero qualche dignità vi andassero in cappa e cotta, che sono due ornamenti sacerdotali. Un prete, cui mancavano queste vesti, stavasi afflitto a casa sua, non sapendo dove le avesse potuto domandare. La serva, a vederlo pensieroso e col capo basso, gli chiese la ragione del dolore; ed egli le disse che il Vescovo aveva indetto di andare al Sinodo in cappa e cotta: «Ma voi, mio buon padrone», gli rispose la serva, «non conoscete la forza di quest'ordine. Non è la cappa e la cotta che il Vescovo domanda e che voi dovete portare, sibbene dei capponi cotti». Il prete cedette al consiglio della donna, e portando seco i capponi cotti, fu assai cortesemente ricevuto dal Vescovo, il quale diceva ridendo, che questo prete soltanto aveva ben capito l'ordine dell'editto.

XXIII

DI UN AMICO MIO CHE SI AFFLIGGEVA CHE MOLTI GLI ANDASSERO INNANZI CH'ERANO A LUI INFERIORI PER PROBITÀ E PER DOTTRINA

Nella Curia Romana domina quasi sempre la fortuna e rarissime volte solo vi trovano posto l'ingegno e la virtù; ma tutto si ha per ambizione o per intrigo, senza parlar del denaro, che in vero pare aver dominio su tutto il mondo. Un mio amico, che si affliggeva che molti gli andassero avanti a lui inferiori per probità e per dottrina, si lamentava con Angelotto Cardinale di San Marco, di non avere nessuna ricompensa della sua virtù e di vedersi posposto a chi non gli arrivava in nessuna cosa. E parlò degli studi che avea fatti e delle fatiche spese a studiare. Allora il Cardinale, sempre pronto a sferzare i vizi della Curia: «La vostra scienza e la vostra dottrina», gli disse, «non giovano a niente, e se volete essere ben accetto al Pontefice, disimparate ciò che sapete e apprendete i vizi che ignorate».

XXIV

DI UNA FEMMINA MATTA

Una femmina del mio paese, che pareva matta, era condotta da suo marito e da' parenti a una certa fattucchiera, per opera della quale credeasi di poterla curare; e per passare l'Arno la posero a cavalcioni dell'uomo più forte; ma ecco in questa ella imprese a muoversi sulle spalle dell'uomo similmente a' cani in calore, e a gridare ripetutamente: «Io voglio l'uomo, suvvia, datemi l'uomo». E con queste parole mostrò la ragion del suo male. Colui che la portava scoppiò a rider sì forte che cadde con la donna nell'acqua; e tutti gli altri ne risero, e conobbero che a medicar quel male non eravi bisogno d'incantesimi, ma di quell' altra cosa, e con questa sarebbe ella tornata in sanità; e volti verso il marito: «Tu, dissero, sei il miglior medico di tua moglie». E se ne tornarono tutti, e dopo che il marito fu seco e la contentò, ella tornò sana di mente. Questo, del resto, è il miglior rimedio della pazzia delle donne.

XXV

DI UNA DONNA CHE STAVA SULLA RIVA DEL PO

Sopra una piccola nave recavasi a Ferrara, insieme con alcuni uomini della Curia, una di quelle donne che fan servizio agli uomini. Una donna allora che stava sulla riva del Po, disse: «Matti che voi siete; credete forse che a Ferrara vi sian per mancar meretrici, quando là ne troverete tante, più che donne oneste a Venezia?».

XXVI

DELL'ABATE DI SETTIMO

L'abate di Settimo, uomo pingue e corpulento, recavasi una sera a Firenze, e per la via chiese ad un villano per qual porta dovesse egli entrare; l'abate intendeva di chiedere qual porta fosse aperta ancora per venire nella città. E il villano, scherzando su la grossezza dell'abate: «Se passa un carro di fieno», disse, «penso che anche voi passerete la porta».

XXVII

LA SORELLA DI UN CITTADINO DI COSTANZA È GRAVIDA

Per dimostrare quanta libertà molti si godessero al Concilio di Costanza, un nobile vescovo di Brittania raccontò il fatto seguente: «Vi fu», disse, «un cittadino di Costanza, la sorella del quale era gravida, per quanto non avesse marito; ed egli, quando s'accorse della grossezza del ventre, afferrata una spada, e minacciandola di ucciderla, chiese che cosa ciò fosse, e donde provenisse. Atterrita allora la fanciulla, rispose che era opera del Concilio e che di questo ella era gravida: e quando queste cose il fratello ebbe udite e per riverenza e per timor del Concilio non punì la sorella; e mentre tutti gli altri vi cercavano tante diverse libertà, egli fra queste poneva per prima quella di fare all'amore».

XXVIII

DETTO DI LORENZO PRETE ROMANO

Il giorno in cui il Papa Eugenio fece cardinale il romano Angelotto, un prete della città, di animo ilare e che aveva nome Lorenzo, tornò a casa giubilante, tutto pieno di letizia e di riso; e quando i vicini gli chiesero che cosa di nuovo gli fosse venuto, che egli era così lieto e vivace: «Stupendamente», rispose, «ho io adesso le più grandi speranze; e poiché gli sciocchi ed i matti si fanno cardinale, e Angelotto è più matto di me, così verrò io stesso della sacra porpora insignito».

XXIX

CONVERSAZIONE CON NICCOLO' D'ANAGNI

Anche Niccolò d'Anagni quasi in questo stesso modo rise di Papa Eugenio, il quale, egli diceva, non favoriva che gli ignoranti e gli stolti. Un dì che in parecchi eravamo al palazzo, e si discorreva in varie cose, come si fa, ed alcuni si lamentavano della iniqua fortuna, e di averla sempre avversa ne' loro affari, Niccolò, ch'era uomo dottissimo, per quanto di ingegno leggiero, e di lingua mordace: «Non vi è», disse, «nessuno al mondo, cui più che a me sia stata la fortuna nemica; in questo tempo, nel quale è la stoltezza che regna, noi vediamo tutti i giorni elevati alle più ampie dignità ed a' maggiori offici e i dementi e gli sciocchi; e fra essi fino Angelotto vedemmo. Io soltanto sono fra il numero de' dementi lasciato in disparte, io solo posso essere cosi maltrattato dalla sorte».

XXX

DI UN PRODIGIO

Quest'anno la natura ha fatto nascere molti mostri in diversi luoghi. Nel territorio di Sinigalia, che è nel Picentino, una vacca ha partorito un dragone di meravigliosa grandezza. Aveva la testa più grossa di quella d'un vitello, il collo lungo come un braccio, e il corpo come quello di un cane, ma più lungo; quando l'ebbe fatto, la vacca si volse, e vedutolo, diede in un gran muggito e voleva fuggire, e il dragone s'alzò, le avvinghiò le gambe di dietro con la coda, avvicinò la bocca alle mammelle, e vi succhiò il latte; poi, lasciata la vacca, si fuggì nella foresta vicina; dopo ciò, le mammelle, e quella parte delle gambe ch'era stata tocca dal dragone, rimasero nere e come bruciate per molto tempo. Questo hanno affermato i pastori, giacché quella vacca era di un armento; e dissero ancora che di poi la vacca aveva fatto un altro vitello. Questo è annunziato in una lettera che vien da Ferrara.
 

XXXI ALTRO PRODIGIO DI CUI MI

 HA NARRATO UGO DA SIENA

Il celebre Ugo da Siena, che è il primo medico del nostro tempo, mi ha narrato che a Ferrara è nato un gatto con due teste eche egli lo ha veduto.

XXXII

ALTRO PRODIGIO

Si sa che anche in quel di Padova, nel mese di giugno, nacque un vitello con due teste, con un sol corpo e con le quattro gambe raddoppiate, benché fossero congiunte. Questo mostro portavano intorno per guadagnare, e molti affermano di averlo veduto.

XXXIII

DI UN ALTRO MOSTRO

Ed è anche certo che fu recata a Ferrara l'immagine di un mostro di mare che fu trovato su la costa di Dalmazia. Aveva il corpo d'uomo fin all'ombellico, poi era pesce, così che finiva biforcandosi. Aveva la barba lunga, e come due corna gli uscivano di sopra le orecchie, le mammelle grosse, la bocca larga, le mani con sole quattro dita, e dalle mani alle ascelle e al basso ventre si stendevano ali di pesce con le quali nuotava; e in questo modo narravano di averlo preso: molte donne stavano a lavare pannolini alla spiaggia; quel pesce, spinto dalla fame, dicono che ad una di esse si avvicinasse e tentasse di afferrarla per le mani; non eravi molt'acqua, ed ella lottando, con grandi grida chiamò le altre in soccorso; accorsero cinque di esse e giacché non potea più tornare il mostro nell'acqua, con bastoni e con pietre l'uccisero, e trattolo alla riva fe' loro gran paura. Aveva il corpo un po' più lungo e più grosso di un uomo, da quanto si vedeva nell'incisione in legno che ci portarono a Ferrara. E che fosse per divorar la donna che esso l'aveva afferrata, ne fece fede il fatto che alcuni fanciulli, che in differenti tempi eran venuti per lavarsi alla spiaggia, non tornarono più mai, e questi dopo il fatto si credette che il mostro avesse presi ed uccisi.

XXXIV

GRAZIOSA FACEZIA DI UN COMMEDIANTE

SU PAPA BONIFAZIO

Bonifazio, nono Papa di questo nome, fu napoletano e della famiglia Tomacelli. Ora volgarmente diconsi «tomacelli» certi fegatelli di porco tritati moltissimo e fasciati nel grasso di quell'animale. Nell'anno secondo del suo pontificato, Bonifazio si recò a Perugia; erano con lui i fratelli e molti altri della famiglia, i quali, come avviene, per cupidigia di beni e di guadagno si erano stretti dintorno a lui. All'entrata nella città Bonifazio era seguito da una scorta di alti personaggi, e fra questi erano i fratelli e gli altri membri della famiglia, e i curiosi chiedeano i nomi di coloro che componevano il seguito; e si sentiva d'ogni parte rispondere: «Questo è Andrea Tomacello», poi: «Questo è Giovanni Tomacello»; e così molto spesso la parola Tomacelli si andava ripetendo. «Oh! oh!», disse un uomo allegro, «doveva esser ben grosso quel fegato di porco dal quale son venuti tanti tomacelli e così grandi!».

XXXVI

DI UN CURATO GHE SEPPELLI' UN CAGNOLO

Eravi in Toscana un curato di campagna assai ricco, e mortogli un cagnuolo che egli aveva molto caro, lo seppellì nel cimitero. Venne ciò alle orecchie del Vescovo, che, desideroso del denaro del curato, fece questo a sé chiamare come reo di altissimo delitto; e il prete, che conosceva l'animo del Vescovo, vi andò recando seco cinquanta ducati. Il Vescovo, vistolo innanzi a sé, lo rimproverò gravemente della sepoltura data al cane e co mandò fosse tratto in prigione: «Padre mio», disse il prete furbo, «se voi aveste conosciuta quanta intelligenza aveva il cagnuolo, non sareste ora così meravigliato che egli abbia avuta sepoltura con gli uomini; perché egli tanto in vita quanto in morte ebbe assai più ingegno di un uomo». «Che vuol dir ciò?», chiese il Vescovo. «Egli», rispose il curato, «agli ultimi della vita fece testamento, e conoscendo la povertà vostra, vi lasciò cinquanta ducati che io ho qui meco». E il Vescovo allora approvò e il testamento e la sepoltura, prese il denaro, ed assolse il prete.

XXXVI

DI UN SIGNOROTTO CHE INGIUSTAMENTE

ACCUSO' UN UOMO RICCO

In un borgo del Picentino chiamato Cingoli, era un uomo molto danaroso; e quando venne ciò a conoscenza del signore del luogo, questi a fine di togliersi il danaro, cercò pretesto di un delitto; e chiamatolo a sé, gli disse che e' lo riteneva reo di lesa maestà; e poi che l'altro rispondeva di non aver mai fatta alcuna cosa contro lo Stato e contro la dignità del signore, questi insisteva nella accusa, concludendo che doveva essere egli punito nel capo; il poveruomo gli chiese che cosa avesse egli alla fine fatto. «Tu», gli rispose il signore, «hai tenuto in casa nascosti i miei nemici e i ribelli che cospirarono contro di me». E quello capì finalmente che il signore voleva il suo denaro, e amando meglio di perder questo che la vita: «Sì, monsignore», rispose, «è vero ciò che voi dite; ma datemi con me alcuno degli uomini vostri, che que' nemici e ribelli vi darò tosto nelle mani». E mandati alcuni fanti alla casa, l'uomo li condusse alla cassa in cui era il danaro, e apertala: «Prendete subito questi denari», disse, «che non solo del signore nostro, ma pur di me sono nemici acerrimi e ribelli». E quando il signore li ebbe avuti, l'uomo sfuggì a ogni pena.

XXXVII

DI UN FRATE CHE FECE ASSAI BREVE SERMONE

In un borgo delle nostre campagne, molti erano e da molte parti convenuti alla festa, ed era quella di Santo Stefano. Un frate doveva, com'e di costumanza, fare il sermone al pubblico; l'ora era tarda, i preti avean fame, e quando il frate salì sul pergamo, un prete, quindi un altro, lo pregarono all'orecchio, di parlare assai brevemente. Ed egli si lasciò facilmente persuadere. Dopo il breve esordio d'uso: «Fratelli miei», disse, «l'anno passato da questo stesso luogo, allo stesso uditorio, parlai della santità della vita e dei miracoli di questo Santo nostro, e nulla omisi di quelle cose che io udii narrare di lui, o che si trovano scritte ne' sacri libri; e credo che voi ne conserverete memoria. Ma dopo, poiché non ho udito dire che egli abbia fatto nulla di nuovo, fatto il segno della croce, recitate il Confiteor e le preci che seguono». E, ciò detto, discese.

XXXVIII

GRAZIOSISSIMO CONSIGLIO DI MINACCIO A UN VILLANO

Un villano, che era salito sopra un castagno per raccogliervi i frutti, cadde e si ruppe una costola; e venne a consolarlo un certo Minaccio, che era uomo molto allegro, e fra le cose che gli disse, gli die' ancora un consiglio per non cadere mai più dagli alberi: «Avrei voluto saperlo prima», disse il malato, «ma tuttavia questo potrà altra volta giovarmi». «Ebbene», disse Minaccio, «fa in modo di non discendere giammai con maggior fretta di quella con la quale tu sei salito; ma discendi con l'eguale lentezza con cui sei salito; a questo patto tu non potrai mai cadere».

XXXIX

RISPOSTA DELLO STESSO MINACCIO

Lo stesso Minaccio, che era assai povero, avendo un giorno al giuoco dei dadi perduto qualche moneta e la veste, si era seduto piangendo alla porta di non so qual taverna. E un amico che lo vide in lacrime: «Che cosa hai, tu che piangi? «gli chiese. E Minaccio: «Niente», rispose. «Per ché dunque piangi, se non hai niente? «Per questo soltanto, che non ho niente». E l'altro meravigliato: «Ma perché, se non hai niente, piangi?» «Appunto per questa ragione», rispose, «che io niente posseggo». Quello credeva che egli piangesse per una causa da niente; questo piangeva perché niente gli era rimasto dal giuoco.

XL

DI UN POVERO GUERCIO CHE ERA ANDATO

PER COMPRAR FRUMENTO

Al tempo della grande carestia a Firenze, un povero guercio andò in piazza, a comprare, diceva, qualche sestario di frumento; e quando si fu informato del prezzo, sopraggiunse un altro, che gli chiese a quanto si vendesse al sestario il frumento: «Un occhio», rispose, volendo con ciò significare il caro prezzo dei viveri. Questo udì un monello presente, che saltò su a dire: «Perché dunque hai preso teco un sacco così grande, quando tu non puoi comperarne che un sestario solo ?».

XLI

DI UN UOMO CHE CHIESE PERDONO A SUA MOGLIE MALATA

Un uomo consolava sua moglie al letto di morte, e le ricordava che egli si era sempre mostrato buon marito e le chiedeva perdono se mai qualche cosa le avesse fatto di male; e disse ancora che, fra gli altri uffici maritali, egli non aveva giammai trascurato quello del letto, fuori che in quel tempo in cui era malata, perché quel lavoro non l'affaticasse. Allora la donna, benché malata, prese a dirgli: «Oh, davvero che di ciò non potrò io mai perdonarti; perché in nessun tempo fui io tanto malata, da non poter comodamente giacere». Che gli uomini adunque faccian l'opera loro, per non dover mai chiedere alla moglie perdono come questo, che esse a buon diritto potrebbero negare.

XLII

DI UNA GIOVINETTA CHE ACCUSAVA IL MARITO

DI ESSERE POCO FORNITO

Un giovane nobile e bello condusse in moglie la figlia di Nereo de' Pazzi cavaliere fiorentino, che fu, tra gli altri del suo tempo, uomo eminente ed egregio. Dopo alcuni giorni, tornò ella, com'è costume, alla casa paterna, ma non vivace e lieta, come sogliono essere le altre, ma mesta e pallida e con gli occhi bassi. E la madre la chiamò in una camera e in segreto le chiese se ogni cosa fosse andata bene, e la fanciulla lacrimando rispose: «Come vuoi, ma tu non m'hai sposata ad un uomo, sì ad uno che non è uomo; che cioè ha nulla o poco assai di quell'arnese pel quale si va a marito». La madre, afflitta assai della sventura della figlia, raccontò tutto al marito, e la cosa, come avviene, in poco tempo si divulgò fra' congiunti e le donne che erano state invitate al banchetto, e si riempì a tale nuova la casa di lacrime e di lagni, perché si diceva quella bella fanciulla non era stata maritata, ma sacrificata. Finalmente giunse il marito in onor del quale si imbandiva il convito, e quando vide tutti col volto lacrimoso ed afflitto, meravigliato della strana cosa, chiese che novità avvenuta mai fosse. Nessuno osava confessare la causa di quel dolore, finché finalmente uno più franco disse che la fanciulla aveva riferito che egli era poco provvisto dei beni maritali. «Non può essere questa», egli disse, «la ragione della vostra afflizione e per la quale non si vada al banchetto; però questa accusa mi verrà presto tolta». Erano già a tavola tanto gli uomini quanto le donne, e aveano già mangiato quando il giovane si alzò: «Miei cari parenti», disse, «sento accusarmi di una cosa della quale io vi chiamo giudici», e in questa mise fuori un ordegno di bellissima forma (poiché allora si usavano vestimenta corte) e lo pose sulla tavola e chiese agli astanti, che s'eran commossi per la novità e per la grandezza della cosa, se potevasi di esso lamentare o rifiutarlo. La maggior parte delle donne desideravano che i loro mariti avessero altrettanta abbondanza. Molti uomini si sentivano da quel tale arnese superati, tutti rivolti verso la giovinetta la rimproveravano della sua sciocchezza. «Perché tanto biasimarmi», diss'ella, «perché tanto riprendermi? Il nostro asino, che l'altro dì vidi alla campagna, non è che una bestia e ne ha tanto (e in questa distese il braccio), e questo mio marito che è un uomo non ne ha la metà». Credeva l'ingenua fanciulla che gli uomini ne dovessero aver di più delle bestie.

XLIII

DI UN PREDICATORE CHE PREFERIVA DIECI VERGINI

A UNA DONNA MARITATA

Al popolo di Tivoli predicava un frate assai poco circospetto, e con molte parole si scagliava contro l'adulterio, e questo abbominava, e disse, fra le altre cose, che era peccato talmente grave, che egli avrebbe preferito d'aver piuttosto dieci vergini di quello che una sola donna maritata. Molti che erano presenti erano dello stesso parere.

XLIV

DI PAOLO CHE MOSSE LA VOGLIA DI ALCUNI IGNORANTI

Un altro predicatore che aveva nome Paolo e che io ho conosciuto, mentre faceva a Secia, città della Campania, un discorso contro la lussuria, disse che alcuni erano tanto lascivi e scostumati, che per aver maggiore il piacere nel coito mettevano un cuscino sotto alla moglie. Alcuni, che ignoravano la cosa, se ne invaghirono, e a casa ne fecero tosto l'esperimento.

XLV

DI UN CONFESSORE

Una giovane, che poi mi raccontò questa storia, andò una volta a confessare i suoi peccati, come si usa in quaresima. E fra le altre cose disse che non serbava fedeltà al marito. Allora il confessore, che era un frate acceso di desiderio, levò dalla tonaca un superbo cordone, eretto, e lo diede in mano alla giovane, supplicandola ad avergli misericordia. Ella se ne andò, coperta di rossore, e alla madre che era lì presso e che gliene chiese la ragione, narrò della preghiera che le aveva fatta il confessore.

XLVI

GRAZIOSA RISPOSTA DI UNA DONNA

Una donna, alla quale il marito spesso chiedeva, per qual ragione, se uguale nell'uomo e nella donna era il piacere del coito, fossero piuttosto gli uomini che seguivano e sollecitavano le donne, di quello che queste gli uomini, rispose: «Questo è stabilito con molto senno, che noi non siamo che cerchiamo gli uomini. È provato che noi donne siamo sempre pronte alla faccenda, voi uomini no. E noi pertanto chiederemmo invano agli uomini quando questi non fossero all'ordine». Acuta e graziosa risposta.

XLVII

DI UN FRATE QUESTUANTE CHE IN TEMPO DI GUERRA

PARLO' DI PACE A BERNARDO

Nella guerra ultima, che i Fiorentini fecero all'ultimo Duca di Milano, era decretato che se alcuno avesse parlato di far la pace fosse punito di morte. Bernardo Manetti che era uomo di ingegno vivacissimo, trovavasi un giorno al Mercato vecchio per comprare non so che cosa, quando gli si fe' innanzi uno di quei frati che vanno per le vie alla questua e che stanno ne' trivii alcun che in elemosina chiedendo pe' loro bisogni. E innanzi di chiedergli l'elemosina, gli disse: «Pax tibi»; e allora Bernardo: «A che parlasti di pace? Non sai tu che va della testa a parlare di pace? Me ne vado», soggiunse, «perché non mi prendano per complice tuo». E così se ne andò, sfuggendo le molestie di quell'importuno.

XLVIII

ISTORIA DI FRANCESCO FILELFO

Eravamo fra amici e si parlava delle pene da infliggersi alle mogli infedeli. Bonifazio Salutati disse che la migliore di tutte era, secondo lui, quella della quale un bolognese amico suo minacciava sua moglie. E poi che noi gli chiedemmo quale essa fosse: «Fuvvi», diss'egli, «un bolognese, uomo molto stimabile, il quale si ebbe una moglie piuttosto generosa, e che qualche volta fu anche meco cortese. Una notte andavo io alla sua casa, quando fuori udii i due sposi che avevano appiccata acerba lite; il marito rimproverava alla moglie la sua impudicizia; questa, come è costume delle sue pari, si difendeva negando; e allora il marito prese a gridare: «Giovanna, Giovanna, io non ti percoterò, non ti bastonerò, ma ti sarò tanto addosso, che empirò la casa di figli, poi ti lascerò sola con questi e me ne andrò». Ridemmo tutti di questa specie così perfetta di supplizio, col quale quello sciocco credeva di vendicarsi della infedeltà della moglie.

XLIX

ISTORIA DI UN SALTIMBANCO NARRATA DAL CARDINALE

DI BORDEAUX

Gregorio decimo secondo, prima di esser Papa e durante il conclave, e anche dopo, aveva fatto promessa di far molte cose per lo scisma che in quel tempo travagliava la chiesa, e per qualche tempo mantenne ciò che aveva promesso, fino a dire che piuttosto che mancarvi sarebbe egli disceso dal Pontificato. Poi si lasciò prendere dalla dolcezza del potere, mancò a' giuramenti e alle promesse, e nulla di quanto aveva detto mantenne. Il cardinale di Bordeaux, che era uomo di grave e grande esperienza, sopportava male questa cosa e un giorno me ne parlava: «Costui», disse, «ha fatto con noi come quel saltimbanco coi bolognesi, il quale avea promesso che avrebbe volato». Ed io lo pregai di raccontarmi la storia. «Poco tempo fa», egli disse, «fuvvi a Bologna un saltimbanco, che con un pubblico avviso annunziò che avrebbe volato da una torre che è verso il Ponte di S. Raffaele a circa un miglio dalla città. Nel dì stabilito il popolo tutto si raccolse in quel luogo, e il saltimbanco si burlò di tutti, lasciandoli al sole e alla fame fin quasi alla sera. Tutti eran sospesi e fissavan la torre, aspettando che l'uomo volasse. E quando egli si mostrava sulla torre ed agitava le ali come se stesse per volare, e pareva slanciarsi fuori, sorgeva un grande applauso nella folla che stava a bocca aperta a guardarlo. E il saltimbanco, dopo il tramonto del sole, tanto per far qualche cosa, voltò al popolo le spalle e gli mostrò il deretano. Così tutti quegli illusi, oppressi dalla fame e dalla noia, se ne tornarono di notte alla città: «nello stesso modo» concluse, «il Papa, dopo tante promesse, ci contenta ora mostrandoci le rotondità posteriori».

L

RISPOSTA DI RIDOLFO A BERNABO'

Si narra di una saggia risposta data da Ridolfo di Camerino. Era Bologna assediata da Bernabò della famiglia dei Visconti, signori di Milano; e Ridolfo, che era un uomo di senno nelle cose di guerra e in quelle della pace, era stato chiamato dal Papa a custodia della città, e si teneva egli dentro le mura a difenderla. Un giorno, in una piccola zuffa, che in una scorreria impegnarono alcuni, al di fuori, e nella quale non era Ridolfo, fu un cavaliere de' Bolognesi fatto prigione, e condotto al campo di Bernabò; e questi, tra le altre cose di cui lo richiese, gli domandò ancora del perché Ridolfo non uscisse a battaglia fuor dalle mura; e il cavaliere, dopo aver detto varie ragioni, fu rimesso in libertà e tornò a' suoi. Allora Ridolfo gli chiese che cosa si facesse nel campo de' nemici, e che gli avesse detto Bernabò, e quale era stata la risposta del cavaliere per scusare in vario modo che egli non fosse uscito dalla città: «E tu», disse allora, «hai molto male risposto: torna tosto da Bernabò e digli che Ridolfo non esce dalla città per impedire a lui d'entrarvi».

LI

ALTRA RISPOSTA FACETA DI RIDOLFO

Lo stesso Ridolfo, nella guerra che i Fiorentini fecero con Gregorio decimo, stavasi or dall'una or dall'altra parte. E interrogato del perché mutasse così spesso bandiera: «Perché», rispose, «non posso a lungo giacere su lo stesso fianco».

LII

COME I FIORENTINI ESPOSERO IL RITRATTO Dl RIDOLFO

COME DI UN TRADITORE

Dopo questo i Fiorentini lo tennero reo di tradimento e la sua effige, come quella del traditore fu posta ne' luoghi pubblici. Dopo qualche tempo egli, udito che i Fiorentini mandavangli messaggi di pace, il giorno in cui questi giunsero, si mise a letto, fe' chiudere le imposte e ordinò che lo coprissero di pellicce e per quanto corresse il mese d'agosto fece accendere il fuoco; e fece poi chiamar gli ambasciatori, i quali gli chiesero che male avesse: «Ho freddo», rispose, «perché sono stato per tanto tempo e anche di notte esposto all'aria sui vostri muri». Con questo egli alludeva alla pittura che i Fiorentini avevano esposta e che poi come condizione della pace venne tolta.

LIII

DI UN TAL CHE FERI' RIDOLFO TIRANDO L'ARCO

Alcuni cittadini di Camerino passavano un giorno il loro tempo esercitandosi fuor dalle mura al tiro dell'arco; e un tale mal destro lanciò la freccia e ferì lievemente Ridolfo, che assisteva di lontano. Costui fu preso, e, fra i vari pareri che si enunciavano su la pena da infliggergli, poiché in questa guisa ciascuno credeva di procurarsi la grazia del Principe, uno propose che gli si tagliasse la mano perché non tirasse più d'arco. Ridolfo comandò che lasciassero l'uomo, dicendo che quella sentenza sarebbe stata efficace se fosse stata eseguita prima ch'egli fosse ferito. Risposta piena d'umanità e di prudenza.

LIV

STORIA DI MANCINI

Mancini, che era un villano del mio borgo, recava carichi di frumento a Figline a some d'asini, che a questo fine egli spesso noleggiava. Una volta, tornando dal mercato, stanco del viaggio, montò su uno dei migliori asini e quando fu presso casa contò gli asini ch'erano innanzi a lui, e non tenendo conto di quello sul quale egli era, gli parve che ne mancasse uno. Angustiato per questo lasciò tutti gli asini alla moglie, dicendole di restituirli a' padroni. E sempre sull'asino tornò al mercato, che distava di là sette miglia, chiedendo ai passanti se per caso avessero trovato un asino smarrito. E poiché tutti negavano, tornò a casa la notte gemendo e lacrimando per averne uno perduto. Ma quando finalmente la moglie gli disse di scendere, s'accorse dell'asino che egli aveva con tanta fatica e così grave dolore cercato.

LV

DI COLUI CHE PORTAVA L'ARATRO SULLE SPALLE

Un altro villano, che aveva nome Pietro, uomo molto rozzo, dopo aver arato fino a mezzogiorno, stancati i buoi, stanco egli stesso per la fatica, ritornava al borgo; legò l'aratro sull'asino, mandò innanzi i bovi ed egli stesso montò sull'asino. Ma questo, carico di troppo peso, stava per cadervi sotto. Allora il villano discese, prese su le spalle l'aratro, poi rimontò sull'asino, dicendo: «Ora potrai camminare, perché non tu, ma io porto l'aratro».

LVI

ELEGANTE RISPOSTA DI DANTE POETA FIORENTINO

Dante Alighieri, nostro poeta fiorentino, fu per qualche tempo ospitato a Verona da Can della Scala, principe molto liberale. Alla sua Corte teneva questi un altro Cane, fiorentino, ignobile uomo, e imprudente e ignorante, non ad altro buono che alla burla ed al riso, e alle sciocchezze del quale (non poteansi chiamare invero facezie) Cane si dilettava tanto, che lo arricchiva di doni. Dante, che era uomo dottissimo, sapiente tanto quanto modesto, disprezzava naturalmente costui come un animale sciocco. Un giorno quel fiorentino venne fuori a dirgli: «Com'è che tu sei tanto miserabile e mendico, tu che sei creduto saggio e dotto, mentre che io sciocco ed ignorante son ricco?» E Dante a lui: «Quando io troverò un signore che mi rassomigli ed abbia il mio costume, come tu ne l'hai trovato, questo mi farà ricco». Grave e sapiente risposta! Ché sempre i signori si dilettano di coloro che li rassomigliano.

LVII

PIACEVOLE RISPOSTA DELLO STESSO POETA

Lo stesso Dante pranzava un giorno fra Cane della Scala il vecchio e il giovane, e i servi d'entrambi, per burlarsi di lui, gli gittarono tutte le ossa di nascosto dinanzi a' piedi; tolta la mensa, tutti si volsero verso di lui meravigliati che solo dinanzi a lui si vedessero le ossa. E Dante, che era pronto alla risposta: «Non v'è da far meraviglia», disse, «se i Cani mangiarono le ossa; io non sono un Cane».

LVIII

DI UNA DONNA OSTINATA

A CHIAMAR PIDOCCHIOSO IL MARITO

Si parlava un giorno della ostinazione delle donne, che è grande da far loro preferire la morte piuttosto che cedere: «Una donna dei nostri luoghi», disse uno, «che era sempre contro al marito, e respingeva rimproverandolo ogni sua parola, ostinandosi in ciò che aveva preso a dire, per essergli sempre al di sopra, ebbe un giorno con lui un grave alterco e lo chiamò pidocchioso: ed egli, perché ritrattasse la parola, la prese a legnate, a calci ed a pugni. E più glie ne dava, più essa chiamavalo pidocchioso. Stancatosi finalmente l'uomo di bastonarla, per vincerne l'ostinazione la calò per una fune nel pozzo, minacciandola d'annegarla se non avesse cessato di dire quelle parole; la femmina continuava, e anche coll'acqua alla gola, quella parola ripeteva. E l'uomo allora, perché ella non parlasse più, la lasciò andar giù nel pozzo, tentando se il pericolo della morte l'avesse guarita dall'ostinazione. Ma essa che non potea più parlare, anche quando stava per soffocare, non potendo più con la voce si esprimeva con le dita; e alzate le mani al di sopra del capo, e congiungendo le unghie dei pollici, finché poté, col gesto schiacciò i pidocchi all'uomo; perché le donne sogliono con le unghie di quelle dita schiacciare quegli animali».

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 22.35.15