C. Oh state cheto, anzi m'hanno raddoppiato la voglia
di sapere così feconda lingua, però dichiaratemi.
Da chi si debbano imparare a favellare le lingue, o dal
volgo, a da' maestri, o dagli scrittori
Quesito ottavo
V. Le parole di questa dimanda dimostrano apertamente
che voi intendete delle lingue, parte vive, cioè che si
favellino naturalmente, e parte nobili, cioè che abbiano
scrittori famosi. Per dichiarazione della quale vi dirò pri
mieramente, come tutte le lingue vive, e nobili consistono
(come ne mostra Quintiliano) in quattro cose; nella
ragione, nella vetustà, ovvero antichità, nell'autorità,
e nella consuetudine, ovvero nell'uso. L'uso, per farci
dalla principale, e più importante, ultimo in numero, ma
primo in valore, è di due maniere; o del parlare, o dello
scrivere. L'uso del parlare d'alcuna lingua, ponghiamo
per più chiarezza della Fiorentina, è anch'egli di due
maniere, universale, e particolare. L'uso universale sono
tutte le parole, e tutti i modi di favellare che s'usano
da tutti coloro, i quali un muro, e una fossa serra, cioè
che furono nati, e allevati dentro la città di Firenze, e
se non vi nacquero, vi furono portati infanti (per mettere
in consuetudine, o piuttosto ritornare in uso, questo
vocabolo), cioè da piccolini, e anziché favellare sapessero.
L'uso particolare si divide in tre parti; perciocché,
lasciando stare l'infima plebe, e la feccia del popolazzo,
della quale non intendiamo di ragionare, il parlare di coloro,
i quali hanno dato opera alla cognizione delle lettere,
aggiugnendo alla loro natìa o la lingua Latina, o la
Greca, o amendue, è alquanto diverso da quello di coloro,
i quali non pure non hanno apparato lingua nessuna
forestiera, ma non sanno ancora favellare correttamente
la natìa; onde, come quel primo sarà chiamato da
noi l'uso de' letterati, così questo secondo, l'uso, o piuttosto
il misuso, degli idioti, che misurare dicevano gli antichi
nostri quello che i Latini abuti, cioè malamente, e
in cattiva parte usare. Tra l'uso de' letterati, e il misuso
degli idioti è un terzo uso, e questo è quello di coloro, i
quali, sebbene non hanno apparato nessuna lingua straniera,
favellano nondimeno la natìa correttamente, il che
è loro avvenuto o da tutte, o da due, o da ciascheduna
di queste tre dose, natura, fortuna, industria. Da natura,
quando sono nati in quelle case, o vicinanze, dove le balie,
le madri, e i padri, e i vicini favellavano correttamente.
Da fortuna, quando, per esser nati o nobili, o ricchi,
hanno avuto a maneggiare o pubblicamente, o privatamente
faccende orrevoli, e conversare con uomini degni,
e di grande affare. Dalla industria, quando senza lo studio
delle lettere Greche, o Latine si sotto dati alla cognizione
delle Toscane, o per praticare co' letterati, o con
leggere gli scrittori, o coll'esercitarsi nel comporre, o con
tutte e tre queste cose insieme. E perché questi tali non
si possono veramente, né si debbono chiamare idioti, né
anco veramente letterati, nel significato che pigliamo letterati
in questo luogo, gli chiameremo non idioti, e l'uso
loro sarà quello de' non idioti.
C. Piacemi questa divisione; ma se i non idioti favellano
correttamente la lor lingua natìa, che s'ha egli a cercare
altro? E in qual cosa sono eglino differenti da' letterati?
I quali già non faranno altro in questo caso, che
favellare correttamente ancora essi.
V. Voi dubitate ragionevolmente; ma se non vi fosse
altra differenza, si v'è egli questa, la quale non è mica
piccola, che i letterati sanno per qual cagione dicono
piuttosto così, che così, o almeno quali, o perché queste
sono proprie locuzioni, e quelle improprie, e traslate, e
infinite, altre cose; dove i non idioti, non sanno talvolta
perché, o in che modo si debbano congiugnere insieme il
verbo, e il nome; e insomma questi procedono colla pratica
sola, e quelli ancora colla teorica; senzaché, sebbene
ho detto che gli uni, e gli altri correttamente favellano,
non perciò si dee intendere che i letterati per la maggior
parte non favellino più correttamente, che gli non idioti
non fanno, come gli non idioti più correttamente, che gli
idioti.
C. Non si truovano di quelli, i quali sono dottissimi
o in Greco, o in Latino, o in amendue questi linguaggi,
e contuttociò sono forestieri, e favellano barbaramente
nelle lor lingue proprie?
V. Così non sene trovassero; e il Bembo agguaglia la
follia di costoro a quella di coloro, i quali bellissime, e
ornatissime case murano ne' paesi altrui, e nella patria
loro propria abitano male, e disagiosamente.
C. Senza dubbio cotestoro lasciano (come si dice) il
proprio per l'appellativo; ma come si debbono chiamare
in questa vostra divisione?
V. Come più vi piace; le parole di sopra mostrano che,
quanto alla presente materia s'appartiene, si debbano
chiamare idioti.
C. Io credeva che idiota volesse oggi significare volgarmente
un uomo senza lettere.
V. Già non lo piglio io in altra significazione, nonostanteché
appresso i Greci, onde fu preso, significhi privato.
C. E' mi pare un passerotto, o (come diceste voi
dinanzi) che implichi contraddizione, che uno che sia
letterato, non abbia lettere.
V. Se egli hanno lettere, e' non hanno di quelle lettere,
delle quali noi favelliamo. Anco molti preti, e notaj
hanno lettere, e nientedimeno nella lingua propria sono
barbari, e conseguentemente idioti. Bisogna bene che
voi avvertiate che nonostanteché io abbia chiamato questo
uso diviso in tre, uso particolare, egli non è che non
si possa, anzi si debba, chiamare uso comune, perché
egli comprende in effetto tutta la città; conciossiacosaché
gl'idioti sanno tutto quello che la plebe; i non idioti,
tutto quello che la plebe, e gli idioti; i letterati, tutto
quello che la plebe, gli idioti, e i non idioti insieme, fuori
solamente alcuni vocaboli d'alcune arti, o mestieri, i
quali non importano né alla sostanza, né alla somma del
tutto; onde perché gli abusi, o piuttosto misusi, non sono
usi semplicemente, ma usi cattivi, lasceremo da parte
(seguitando l'autorità di Quintiliano) l'uso degli idioti,
e diremo che il vero, e buono uso sia, principalmente
quello de' letterati, e secondariamente quello de' non
idioti, avvisandovi che nel favellare non si dee por mente
ad ogni cosellina, anzi, come n'ammaestra Cicerone,
accomodarsi in favellando all'uso del popolo, e riserbare
per se la scienza; perciocché, oltraché il fare altramente,
pare un volere essere da più degli altri, si fugge eziandio
l'affettazione, della quale niuna cosa è più odiosa, e da
doversi maggiormente schifare. Ora, per rispondere alla
dimanda vostra, dico che le lingue s'hanno a imparare a
favellare dal volgo, cioè dall'uso di coloro che le parlano.
C. Dunque un forestiere non potrà mai favellar bene
Fiorentinamente, se egli non viene a Firenze?
V. Non mai; anzi non basta il venire a Firenze, che
bisogna ancora starvi, e di più conversare, e badarvi: e
molte volte anco non riesce, perché Messer Lodovico
Domenichi è stato in Firenze quindici anni continui, e
con tutte le cose sopraddette non ha ancora apparato a
parlare Fiorentinamente.
C. Egli sa pure Fiorentinamente scrivere.
V. Noi ragioniamo del parlare, e non dello scrivere.
C. Deh, poiché noi siamo qui, ditemi qualcosa ancora
dell'uso dello scrivere.
V. Deh no, che io ho riserbato questa parte nella mia
mente a un altro luogo, e tempo.
C. Deh sì, ditemene alcuna cosa.
V. Che vorreste voi sapere? Poiché io non vi posso
negare cosa nessuna.
C. Se una lingua si può bene, e lodevolmente scrivere
da uno, il quale da coloro che naturalmente la favellano,
appresa non l'abbia.
V. Voi non sentiste mai favellare naturalmente la lingua
Latina, e pure di molte volte Latinamente scritto
m'avete.
C. Io non dissi Latinamente, ma bene Latinamente;
poi io intendeva delle lingue vive affatto, e insomma
della Fiorentina, non delle mezze vive; che ben so, per
tacere di coloro che ancora vivono, che oltra il Bembo,
il Sadoletto, il Longolio, il Polo, e alcuni altri, Messer
Romulo Amaseo, e Messer Lazzaro da Basciano, e alcuni
altri scrivevano bene, anzi ottimamente la lingua Latina.
V. Non sapete voi che, per tacere del Bembo, il quale
stette più anni in Firenze da bambino col padre, che
v'era ambasciatore, e poi vi fu più volte da se, che molti
hanno scritto, e scrivono fiorentinamente i quali non
videro mai Firenze? E tra questi fu per avventura uno,
Messer Francesco Petrarca. Ma lasciamo lui, che nacque
di madre, e di padre Fiorentini, e da loro è verisimile che
apparasse la lingua; Messer Jacopo Sanazzaro, quando
compose la sua Arcadia, non era, ch'io sappia, stato in
Firenze mai.
C. Voi vedete bene che (come dicono alcuni) vi sono
delle parole non Fiorentine, e delle locuzioni contra le
regole, perché egli, oltra l'aver detto:
Anzi gliel vinsi, e lui nol volea cedere.
ponendo lui, che è sempre obliquo, in vece d'egli, ovvero
ei, che sempre è retto, egli non intese la forza, e la
proprietà di questo avverbio, affatto, quando disse:
Vuoi cantar meco? Ora incomincia affatto.
V. È vero, ma volete voi che sì poche cose, e tanto
piccioli errori, e massimamente in un'opera così grande,
così nuova, e così bella facciano che ella si debbia non
dico biasimare, come fanno molti, ma non sommamente
lodate, anzi ammirare? Non vi ricorda di quello che disse
Orazio nella sua Poetica?
Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis
Offendar maculis quas aut incuria fudit,
Aut humana parum cavit natura ec.
Non disse egli ancora nella medesima Poetica, che,
non che altri, Omero alcuna volta sonniferava? benché
quel luogo sia da alcuni diversamente inteso, e dichiarato.
Non devemo noi più maravigliarci, e maggiormente
commendarlo, che egli, essendo forestiero, scrivesse
nell'altrui lingua e in verso, e in prosa così bene, e leggiadramente,
che prendere maraviglia, e biasimarlo, che egli
in alcune poche cose, e non di molto momento, fallasse?
E poiché sono sdrucciolato tanto oltra per compiacervi,
sappiate che io tengo impossibile che uno, il quale non
sia nato in una lingua, o da coloro che nati vi sono, apparata
non l'abbia, o viva affatto, o mezza viva che ella
sia, possa da tutte le parti scrivervi dentro perfettamente,
se già in alcuna lingua lauti scrittori non si trovassero
che nulla parte di lei fosse rimasa indietro, la qual cosa è
piuttosto impossibile, che malagevole.
C. Dunque, per lasciare dall'una delle parti Virgilio,
e gli altri che potettero imparare la lingua Latina o in
Roma, o da' Romani uomini, tutti coloro che hanno
scritto Latinamente dopoché la lingua Latina si perdé,
hanno scritto imperfettamente?
V. Io per me credo di sì; e mi pare esser certo che
se Cicerone, o Salustio risuscitassero, e sentissero alcuno
di noi, quantunque dotto, ed eloquente, leggere le loro
Opere medesime, che eglino a gran pena le riconoscerebbero
per sue; e chi leggesse loro eziandio l'Opere Latine
del Bembo, non che quelle del Pio, non creda io che
fossero da loro altramente intese, che sono da noi il Petrarca,
o il Boccaccio, quando da un Franzese, o da un
Tedesco mezzanamente attalianato si leggono.
C. Con quali ragioni, o autorità potreste voi provare
che così fosse come voi dite?
V. Con nessuna, perché delle cose delle quali non
si può far pruova, né venire al cimento, bisogna molte
volte, per difetto di ragioni, e mancamento d'autorità,
starsene alle conghietture.
C. E quali sono queste conghietture che voi avete?
V. Io so molto io, voi mi serrate troppo; la prima cosa
noi non conosciamo la quantità delle sillabe, cioè se elle
sono brevi, o lunghe naturalmente, come facevano i Latini.
Noi pronunziamo l'aspirazioni, perché nel medesimo
modo né più, né meno profferimo noi Latinamente
habeo, quando è scritto coll'h, e significa io ho, che abeo
senza aspirazione, quando significa io mi parto, e pure
in quel tempo, e in quella lingua si pronunziavano diversamente,
come dimostra quel nobilissimo epigramma di
Catullo:
Chommoda dicebat, si quando Commoda vellet
Dicere, et Hinsidias Arrius Insidias etc.
Noi avemo perduto l'accento circunflesso, il quale in
un medesimo tempo prima innalzava, e poi abbassava
la voce. Noi Latinamente pronunziando non facciamo
distinzione, né differenza dell'e, ed o chiuso coll'e, ed o
aperto, e nondimeno v'è grandissima. Noi non potemo
sapere se i Latini pronunziavano Florenzia per z, come
facciamo noi, o Florendia, come dicono che facevano i
Greci, o Florentia per t, come profferimo noi il nome
della mercatantia.
Chi può affermatamente dire con verità che noi in favellando,
o scrivendo Latinamente, non diciamo molte
cose in quel modo quasi che gli schiavi, o le schiave Italianamente
favellano? Perché si pronunzia in Latino questo
nome Francesco nel nominativo non altramente che
se fosse aspirato, e nel genitivo senza aspirazione? Perché
è differente il verbo peccare nel presente dello indicativo
dal futuro dell'ottativo, ovvero dal presente del soggiuntivo?
Il nominativo singulare di questo nome vitio si
scrive nel medesimo modo, e colle medesime lettere appunto,
che il genitivo plurale di questo nome vite, e non
è dubbio che la pronunzia era diversa, e differente. Il
nome species non dispiaceva a Cicerone nel numero del
meno, ma in quello del più sì, perché l'orecchie sue non
potevano patire il suono di specierum e speciebus, ma voleva
in quello scambio che si dicesse formarum, et formis;
la differenza del qual suono, se non fosse stata avvertita
da lui, nessuno oggi, che io creda, conoscerebbe.
Dice Quintiliano, che distingueva coll'orecchio, quando
un verso esametro forniva in ispondeo, cioè aveva nella
fine amendue le sillabe lunghe, e quando, in trocheo,
cioè la prima lunga, e l'altra breve; il che oggi non fa, che
io sappia, nessuno. Il medesimo afferma che conosceva
la differenza tra 'l _ Greco che i Latini scrivevano per
ph, e lo f Latino, il che a questi tempi non si conosce.
Io ho letto con gran piacere le giocondissime lettere che tu
m'hai mandato. Quas ad me jucundissimas literas dedisti,
legi summa voluptate, diranno alcuni, e alcuni altri: literas
quas ad me dedisti jucundissimas, summa legi voluptate,
e altri altramente; tantoché e possibile che nel volere
variare le clausule, e tramutare le parole per cagione del
numero, si scrivono oggi cose in quel tempo ridicole; come
chi scrivesse nella lingua nostra: Le giocondissime che
tu lettere m'hai mandato con sommo io ho letto piacere; e
in altri modi simili, e forse più stravaganti; e tanto più,
che l'orazione Latina più assai, che la volgare non è, circondotta
essere si vede, cioè atta a potersi circondare, e
menare in lungo, mutandola in varie guise, e diverse faccie
dandole, per farla, o mediante il numero, più sonora,
o mediante la giacitura più riguardevole.
C. Quando io tutte coteste cose che voi piuttosto
accennato avete che dichiarato, v'ammettessi, e facessi
buone, le quali molti per avventura vi negherebbono, elle
procedono tutte solamente, quanto alla lingua Latina,
la quale è mezza morta; ma come proverreste voi nelle
lingue vive, che coloro i quali non vi sono nati dentro,
o nolle hanno apparate da chi le favella, non potessero,
cavandole dagli autori, scriverle perfettamente?
V. Io v'ho detto che voglio ragionare oggi del favellare,
e non dello scrivere; nel quale scrivere sono altrettanti
dubbj, e forse più, che nel favellare.
C. Ditemi questo solo, e non più.
V. E' bisogna distinguere, perché altra cosa è il prosare,
e altra il poetare; e poetare si può Fiorentinamente
almeno in sette maniere tutte diverse.
C. Che mi dite voi?
V. Quello che è, e non punto più, anzi qual cosa
meno. La prima, e principale è quella di Dante, e del
Petrarca: La seconda quella di Luigi, e di Luca Pulci. La
terza, come scrisse il Burchiello, che fu Poeta anch'egli.
La quarta, i Capitoli del Bernia. La quinta, i Sonetti
d'Antonio Alamanni. Oltra questi cinque modi, cene
sono due da cantar cose pastorali, uno in burla, come la
Nencia di Lorenzo de' Medici, e la Beca di Luigi Pulci;
e l'altro da vero: e questo si divide in due, perché alcuni
scrivono l'Egloghe in versi sciolti, come sono quelle di
Messer Luigi Alamanni, e di Messer Jeronimo Muzio,
e di molti altri; e alcuni, in versi rimati: e questo si fa
medesimamente in due modi, o con rime ordinarie, o con
rime sdrucciole, come si vede nel Sanazzaro.
C. Perché diceste voi, anzi qual cosa meno?
V. Perché, oltraché questi stili si mescolano l'uno
coll'altro, talvolta da chi vuole, e talvolta da chi non sene
accorge, e per tacere delle Feste, Farse, e Rappresentazioni,
e molte altre guise di poemi, come le Selve, e le
Satire, egli si scrive ancora da alcuni in bisticci.
C. Che cosa è scrivere in bisticci?
V. Leggete questa Stanza che è nel Morgante la quale
comincia:
La casa cosa parea bretta, e brutta,
o tutta quella pistola di Luca Pulci che scrive Circe a
Ulisse:
Ulisse o lasso, o dolce amore, io moro,
e saperretelo; la qual cosa fa oggi Raffaello Franceschi
meglio, e più ingegnosamente, o almeno ridevolmente,
di loro. Ora voi avete a sapere che nelle marniere nobili,
cioè nella prima, e nell'ultima delle sette, possono
i forestieri così bene scrivere, e meglio, come i Fiorentini,
secondo la dottrina, e l'esercitazione di ciascuno;
perché alcuno quanto arà migliore ingegno, maggiore
dottrina, e sarà più esercitato, tanto farà o Fiorentino,
o straniero che egli sia, i suoi componimenti migliori;
ma nell'altre cinque maniere non già. E che ciò sia vero,
ponete mente, che differenza sia da' Capitoli fatti da'
Fiorentini, massimamente dal Bernia, che ne fu trovatore,
e da Messer Giovanni della Casa, a quelli composti
dagli altri di diverse nazioni, che veramente potrete dire,
quelli essere stati fatti, e questi composti.
C. I Capitoli del Mauro, e quelli d'alcuni altri sono
pure tenuti molto dotti, e molto belli.
V. Già non si biasimano per altro, se non perché
sono troppo dotti, e troppo belli, e insomma non anno
quella naturalità, e Fiorentinità (per dir così) la quale a
quella sorta di componimenti si richiede, Messer Mattio
Franzesi mio amicissimo avanzò tanto il Molza nello
scrivere in burla, quanto il Molza, che fu non meno
dotto, e giudizioso, che amorevole, e cortese, avanzò lui
nel comporre da buon senno.
C. Io vi dirò il vero, quando io potessi scrivere nelle
maniere nobili, io non credo che io mi curassi troppo
dell'altre.
V. Cene sono degli altri; voglio bene che sappiate che
anco nelle maniere nobili così di prose, come di versi occorrono
molte volte alcune cose che hanno bisogno della
naturalità Fiorentina; ma perché queste cose appartengono
allo scrivere, e non al favellare, vogliomi riserbare
a dichiararle un'altra volta.
C. Or non fuste voi indovino; poiché volete fuggire
appunto in quel tempo, e a quel luogo nel quale è il
pericolo, e dove bisogna star fermo.
V. Che cosa sarà questa?
C. Io ho penato un pezzo per condurvi a questo passo,
sicché ora non pensate uscirmi delle crani, e scappare sì
agevolmente. Udite quello che dice il Bembo nel primo
libro delle sue Prose.
V. Che cosa?
C. Tutto il contrario di quello che dite, e accennate di
voler dir voi.
V. Che?
C. Che gli vien talora in oppenione di credere che
l'essere a questi tempi nato Fiorentino, a ben volere Fiorentino
scrivere, non sia di molto vantaggio; talché, secondo
queste parole del Bembo vostro, la vostra Fiorentinità
sta piuttosto per nuocere che per giovare.
V. Avvertite, ch'egli dice, a questi tempi, cioè (per farla
grassa, e più a vostro vantaggio che si può) quando il
Magnifico Giuliano fratello di Papa Leone era vivo, che
sono più di quaranta anni passati; nel qual tempo la lingua
Fiorentina, comeché altrove non si stimasse molto,
era in Firenze per la maggior parte in dispregio; e mi ricordo
io, quando era giovanetto, che il primo, e più severo
comandamento che facevano generalmente i padri
a' figliuoli, e i maestri a' discepoli era che eglino né per
bene, né per male, non leggesseno cose volgare (per dirlo
barbaramente, come loro); e maestro Guasparri Mariscotti
da Marradi, che fu nella gramatica mio precettore,
uomo di duri, e rozzi, ma di santissimi, e buoni costumi,
avendo una volta inteso in non so che modo che Schiatta
di Bernardo Bagnesi, ed io leggevamo il Petrarca di nascoso,
ce ne diede una buona grida, e poco mancò che
non ci cacciasse di scuola.
C. Dunque a Firenze in vece di maestri che insegnassero
la lingua Fiorentina, come anticamente si faceva in
Roma della Romana, erano di quelli i quali confortavano,
anzi sforzavano, a non impararla anzi piuttosto a sdimenticarla?
V. Voi avete udito, e ancora oggi non vene mancano, e
credete a me che non bisognava né minor bontà, né minor
giudizio di quello dell'Illustrissimo, ed Eccellentissimo
Signor Duca mio padrone. Avvertite ancora che il
Bembo dice: Non sia di molto vantaggio; le quali parole
dimostrano che pure vene sia alcuno.
C. Io comincerò a credere che voi o siate, o vogliate
diventare sofista.
V. Oimè no; ogni altra cosa da questa in fuori.
C. Poiché quello che il Bembo disse per modestia, è da
voi interpetrato come se fosse stato detto per sentenza.
Non mostrano le parole che egli usa di sotto, e le ragioni
ch'egli allega, l'oppenione sua essere che un Fiorentino
abbia nello scrivere Fiorentinamente disavvantaggio da
un forestiere? ma quando bene nol dicesse, fate conto
che lo dica, o che il dica io, e rispondetemi.
V. Un Fiorentino, data la parità dell'altre cose, cioè
posto che sia d'eguale ingegno da natura, d'eguale dottrina
per istudio, e d'eguale esercitazione, mediante
l'industria, non arà disavvantaggio nessuno, ma bene alcun
vantaggio da uno che Fiorentino non sia, nel Fiorentinamente
comporre; e questa è cosa tanto conta, e manifesta
per se, che io non so come da alcuno sene possa,
o debba dubitare.
C. Che risponderete voi alle ragioni che egli allega?
V. Che dice il vero che i Fiorentini, avendo la lor
lingua da natura, non la stimavano, e che parendola
loro sapere, nolla studiavano, e che attenendosi all'uso
popolaresco, non iscrivevano così propriamente, ne così
riguardevolmente come il Bembo, e degli altri.
C. Voi non m'avete inteso bene. Io vo' dire che quando
i Fiorentini pigliano la penna in mano, per occulta
forza della lunga usanza, che hanno fatto nel parlare del
popolo, molte di quelle voci, e molte di quelle maniere
di dire che si parano mal grado loro dinanzi, che offendono,
e quasi macchiano le scritture, non possono tutte
fuggire, e schifare il più delle volte.
V. Io voglio tralasciare qui l'oppenione di coloro i
quali tengono che così si debba scrivere appunto, come
si favella; il che è manifestamente falsissimo; ma vi dirò
solo che il parlare Fiorentino non fu mai tanto impuro, e
scorretto, che egli non fosse più schietto, e più regolato
di qualsivoglia altro d'Italia, come testimonia il Bemho
stesso; perché dunque quella occulta forza dell'uso del
favellare popolesco non dee così tirare i Lombardi, e i
Viniziani o nel favellare, o nello scrivere come i Toscani,
e i Fiorentini? e tirandogli, gli tirerà a men corretto, e
più impuro volgare.
C. Io non saprei che rispondermivi, se già non dicessi
che la differenza la quale è dal parlare de' forestieri allo
scrivere Fiorentinamente, è tanto grande, che agevolmente
conoscere la possono, e per conseguenza guardarsene,
il che non potete far voi per la molta vicinanza che
è del parlar vostro allo scrivere.
V. Piacemi che voi andiate cercando di salvare la capra,
e i cavoli, come si dice, benché io non so, se eglino
volessono essere per cotal modo salvati; ma ricordatevi
della parità dell'ingegno, dottrina, e esercitazione.
C. Quanto al giudizio, può un forestiere così bene
giudicare i componimenti Toscani, come un Fiorentino?
V. Io v'ho detto di sopra che tanto si giudica bene una
cosa, quanto ella s'intende.
C. Io ven'ho dimandato perché Quintiliano, il quale
fu secondoché scrivono alcuni, Spagnuolo, diede buon
giudizio di tutti i poeti non solo Latini, ma Greci; che ne
dite voi?
V. Che volete voi che io ne dica, se non bene? Se il
giudizio suo fu buono, come in verità mi pare, è segno
certissimo, che egli l'intendeva bene.
C. Vo' dire che egli non era però Romano, e anco non
so ch'egli fosse stato in Grecia.
V. Ondunque si fosse, egli nacque, fu allevato, e tenne
scuola pubblica molti anni in Roma, e se non andò
in Grecia, oltraché i Greci andavano a Roma, molto meglio
arebbe fatto ad andarvi, in quanto al potere meglio
intendere la lingua Greca, e più perfettamente giudicare
gli scrittori d'essa.
C. Dunque è possibile che alcuno giudichi bene d'una
lingua nella quale egli non sia nato, né l'abbia apparata
da coloro che naturalmente la favellano?
V. Io lo vi replicherò un'altra volta. Quanto è possibile
che egli l'intenda, tanto è possibile che egli la giudichi;
onde se non può intenderla perfettamente, non può
anco perfettamente giudicarla da se; dico, da se, perché
potrebbe riferire il giudizio d'altri: ma io voglio avvertirvi
d'uno errore di grandissima importanza, e oggi comune
a molti, il quale è, che ogni volta che hanno conchiuso
esser possibile che alcuno possa fare alcuna cosa, subito
credono, e vogliono, che altri creda ch'egli la faccia;
e non si ricordano che il proverbio dice che dal detto al
fatto è un gran tratto.
C. Datemene uno esempio.
V. Alcuno vi dirà che il tale, o il quale compone
un'opera la quale pareggierà di leggiadrìa, e di numero,
verbigrazia, gli Asolani del Bembo, e conoscendo alla
cera che io non lo credo, mi dimanderà, se ciò è possibile;
e perché io non posso negargli, ciò esser possibile, vorrà
che io creda che quello che è possibile ad essere, sia, o
debba essere a ogni modo.
C. Cotesta è una vaga, e pulita loica.
V. Per mia fe sì.
C. Ma torniamo al caso nostro. Il Castelvetro nella
sua risposta a carte 94 di quella in quarto foglio che si
stampò prima, e 148 di quella in ottavo che si stampò
ultimamente, confessa di non aver beuto quel latte della
madre, o della balia, né appreso dal padre, o dal volgo in
Firenze la lingua vulgare, ma essersi sforzato d'impararla,
da' nobili scrittori; e coll'autorità, e parole stesse del
Bembo par, che voglia mostrare che in impararla non si
richiegga di necessità il nascimento, e l'allevamento in
Firenze, né il rimescolamento, per usar le sue proprie
parole, colla feccia del popolazzo; che ne dite voi?
V. Così lo potessi io scusare negli altri luoghi, come io
posso in cotesto nel quale egli procede, e favella modestamente.
C. In che modo lo difenderete voi?
V. Primieramente quello che egli dice, si può intendere
dello scrivere, e non del favellare, e quando bene
s'intendesse del favellare, a ogni modo direbbe vero; perciocché
l'essere egli nato, e allevato a Modona, non gli
toglie che non possa sapere (come dice egli) alcuna cosa,
non pur d'altro, della lingua volgare ancora. Poscia egli
allega l'oppenione del Bembo, scrivendo le parole di lui
medesimo, senza interporvi il giudizio suo; perché viene
a riferirsi, e appoggiarsi all'autorità del Bembo, onde il
Bembo viene ad aver fallato, e non il Castelvetro (se fallo
è cotale oppenione, come io credo).
C. Che direte dunque di Messere Annibale?
V. Che dove Messer Lodovico si può scusare, il Caro
si dee lodare.
C. Quale è la cagione?
V. Perché l'oppenione sua è la migliore, come s'è conchiuso
di sopra; poi Messer Annibale non riprende il Castelvetro
semplicemente, ma come colui che voglia fare
della lingua Fiorentina, e dell'altre il Gonfaloniere, il Satrapo,
il Macrobio, l'Aristarco, e gli altri tanti nomi che
si truovano sparsamente nella sua Apologia: le quali cose
niega il Caro, e con verità che si possano fare da uno
il quale o non sia nato, o non abbia praticato in Firenze:
e quando mille volte fare si potessero, ne seguirebbe
bene che il Castelvetro fare le potesse, ma non già che le
facesse. Leggete quello che dice di questo fatto Messer
Annibale a faccie 151 e molto più chiaramente a faccie
167 le cui parole sono queste, nelle quali sono ristrette in
somma, e racchiuse in sostanza tutte le cose che infin quì
di questa materia dette si sono; però consideratele bene:
Vedete, Gramatico, e favellator Toscano che voi sete! E
forse che non presumete di farne il maestro, e d'allegarne
anco l'uso, come se vi foste nato, o nodrito dentro, e che
l'usanza, e 'l modo tutto con che sene dee ragionare, e scrivere,
fosse compitamente nelle sole osservanze che voi solo
n'avete fatte, non v'accorgendo che per fare una profession
tale, non basta che voi ne sappiate le voci solamente, né
la proprietà di ciascuna di esse, che bisogna sapere anco in
che guisa s'accozzano insieme, e certi altri minuzzoli, come
questi che si son detti, i quali non si trovano nel vostro Zibaldone,
né anco in su i buoni libri talvolta. L'osservazion
degli autori è necessaria, ma non ogni cosa v'è dentro; e
oltra quello che si truova scritto da loro, è di più momento,
e di più vantaggio che non pensate, l'avere avuto mona
Sandra per balia, maestro Pippo per pedante, la Loggia
per iscuola, Fiesole per villa, aver girato più volte il coro
di Santa Riparata, seduto molte sere sotto 'l tetto de' Pisani,
praticato molto tempo per Dio, fino in Gualfonda, per
sapere la natura d'essa.
C. Queste mi paiono molto efficaci, e molto vere
parole; ma se Messere Annibale è da Civitanuova, o
(secondoché vuole il Castelvetro) da San Maringallo,
terre amendue nella Marca d'Ancona, come scrive egli
così puro, e così Fiorentinamente, come si vede che
fa? E onde ha imparato tanti motti, tanti proverbj, e
tanti riboboli Fiorentini, quanti egli usa per tutte le sue
composizioni?
V. A Messer Annibale, se egli non ebbe né mona Sandra
per balia, né maestro Pippo per pedante, non mancò
niuna dell'altre condizioni che egli medesimo dice es-
ser necessarie a chi vuol ben favellare, o leggiadramente
scrivere nella lingua Fiorentina.
C. Riconoscesi in lui, o ne' suoi scritti quel non so che
di forestiero, come negli altri che Fiorentini non sono, la
qual cosa il Castelvetro, imitando Pollione, chiamerebbe
peravventura Sanmaringallità?
V. Voi volete la baja, e io non voglio rispondervi altro,
se non che egli è di maggiore importanza che voi forse
non credete, avere usato, e praticato in Firenze: e se il
Castelvetro si fosse talvolta rimescolato colla feccia del
popolazzo Fiorentino, egli non arebbe prima detto, e
poi voluto mantenere, che panno tessuto a vergato fosse
ben detto; né che consolare, né consolazione in quel
sentimento che egli lo piglia, si potessero comportare,
non che si dovessero lodare; e arebbe sentito infino a'
fanciugli che non sono ancora iti all'abbaco, né sanno
schisare, dire sempre cinque ottavi, e non mai le cinque
parti dell'ottavo, come usa egli più volte. A quanti ha
mosso riso, e a quanti compassione, quando egli a carte
95 tentando di difendersi da Annibale, il quale a facce
151 dice, che una volta, che il Castelvetro fu a Firenze
egli v'imparò piuttosto di fare a' sassi, e d'armeggiare,
che di scrivere, risponde, volendolo riprovar falso, che
non solamente non imparò d'armeggiare quella volta che
egli fu in Firenze, ma che non fu mai in Firenze in età
da imparar d'armeggiare, e da travagliare la persona in
esercizj giovenili, come aveva fatto prima in altre terre; e
non si avvede, come arebbe fatto, se si fosse rimescolato
colla feccia del popolazzo di Firenze, che egli, mentreché
vuole scusarsi dell'armeggiare, armeggia tuttavia; perché
(come si dichiarò di sopra) quando si vuol dire in Firenze
a uno: Tu non dai in nulla, tu t'avvolpacchi, e insomma
tu sei fuor de' gangheri, segli dice per una così fatta
metafora: tu armeggi.
C. Certo che io non avea avvertito cotesto, e per
la mia parte, di simil cose lo scuserei, perché cotali
parole non si truovano ordinariamente scritte ne' libri,
e massimamente degli autori nobili.
V. Il medesimo farei ancora io, solo che non volesse
stare in sulla perfidia, e mantenere d'aver ben detto,
anzi confessare che se il rimescolarsi col popolazzo non
è necessario allo scrivere, è almeno utile al favellare, e
per non istare ora fuor di proposito a raccontarle a una
a una, sappiate, che di tutte le prime dieci opposizioni
che egli fece contra la Canzone di Messere Annibale,
egli, se fosse stato pratico in Firenze, non n'arebbe fatta
nessuna, perché tutte quelle parole che egli riprende,
non solo si favellano, ma si scrivono ancora da tutti
coloro i quali o scrivono, o favellano Fiorentinamente,
crome al suo luogo si mostrerà, e tanto chiaro, che niuno
non potrà, secondoché io stimo, non maravigliarsi di chi
arà creduto altramente.
C. Se io potessi aspettare a cotesto tempo, io non v'arei
dato oggi questa briga; ma egli d'intorno a questa materia
dell'imparar le lingue non mi resta se non un dubbio
solo, però dichiaratemi anche questo.
V. Ditelomi.
C. Il Caro a fac. 31. narra come Alcibiade dice appresso
Platone d'avere imparato dal volgo di ben parlare
Grecamente; e che Socrate approva il volgo per buon
maestro, e per laudabile ancora in questa dottrina, e che
per voler far dotto uno in quanto al parlare, bisogna
mandarlo al popolo. Ora io vi dimando non se queste
cose son vere, perché essendo dì Platone, le credo verissime,
oltraché di sopra sono state dichiarate da voi; ma
dimandovi se Platone le dice.
V. Dicele tutte a capello, perché?
C. Perché le parole usate dal Castelvetro a car. 6.
nella prima impressione, e a 10. nella seconda mene
facevano dubitare, dicendo egli così: Posto che fosse vero
che queste cose si dicessero tutte appo Platone; perché
messe, egli in dubbio le cose chiare?
V. Io non vi saprei dire altro, se non che, come dissi
ancora di sopra, il Castelvetro, si va ajutaudo colle mani,
e co' pié, e come quegli che affogano, s'appiccherebbono
(come si dice) alle funi del cielo, usa tutte quelle arti
che sa, e può, non solo per iscolpar se, ma per incolpare
Annibale; oltraché il modo dello scrivere sofistico è così
fatto.
C. Non pensava egli, che almeno gli uomini dotti,
de' quali si dee tener maggior conto ben per l'un cento,
che degli altri, avessono, leggendo Platone, a conoscere
l'arte, e l'astuzia usata da lui?
V. Io non so tante cose; voi volete pure che io indovini;
la quale arte io non seppi mai, né so fare al presente.
C. Io non voglio che voi indoviniate, ma solo che mi
diciate l'oppenione vostra.
V. Eccoci all'oppenipne mia. La mia oppenione è che
ognuno dica e faccia, faccia e dica tutto quello che meglio
gli torna, e che tutto il mondo sia colà, per non dire
che il precetto de' retori è che chi ha 'l torto in alcuna
causa, vada aggirando se, e altrui, e per non venirne al
punto mai, favelli d'ogn'altra cosa, e metta innanzi materia
assai per isvagare i giudici, e occupargli in diverse
considerazioni. Tutti i dotti non sono atti ad andare a
leggere Platone, e intanto gli altri stanno sospesi, e i volgari
se la beono. Non dice egli ancora che quando tutte
quelle cose fossino vere, non può comprendere quello
che Annibale si voglia conchiudere? Come quasi non
fosse manifestissimo e per la materia, della qunale si ragiona,
e per le parole così di sopra, come di sotto, che
Messer Annibale vuole non solamente conchiudere, ma
conchiude efficacemente, che le parole usate da lui nella
sua Canzone, e riprese dal Castelvetro nelle sue opposizioni,
sono in bocca del volgo, ed essendo in bocca del
volgo, sono intese, ed essendo intese, non sono quali dice
il Castelvetro, e per conseguente non meritano riprensione, del che viene che ingiustamente sieno state riprese, e
biasimate dal Castelvetro.
V. Io non dubitava in coteste cose, ma il fatto non istà
costì; il punto è questo. Messere Annibale afferma, che
Alcibiade dice d'avere imparato dal popolo di ben parlare,
e Messer Lodovico lo niega, dicendo che egli non dice
di ben parlare, ma di parlare solamente, volendo inferire
che dal popolo si può bene imparare a favellare,
ma non già a favellar bene: e per provar questo suo detto
allega che Platone usò il verbo _____´_____, il quale
usò ancora Tucidide nel medesimo significato, cioè per
favellar Greco semplicemente, non per favellar bene, e
correttamente Greco.
C. In questo sta la differenza loro; a questo bisogna
che rispondiate per Messere Annibale.
V. Il verbo _____´_____ non significa appresso Platone
favellare semplicemente, come afferma il Castelvetro,
ma bene, e correttamente favellare, come dice il Caro.
C. In che modo lo provate?
V. Quello che non è dubbio, non ha bisogno d'esser
provato; l'uso stesso del favellare lo prova sufficientemente.
Chi dice: il tale insegna cantare, o sonare; o sì
veramente: Io ho imparato a leggere, o scrivere; vuol significare,
e significa, che colui insegna bene, e che egli ha
bene imparato; perché chi fa male una cosa, o non bene,
non si chiama saperla fare, conciossiaché ognuno sappia
giucare, e perdere. E se chi favella, o scrive semplicemente,
non si dovesse intendere così, non bisognerebbe
che noi avessimo altro mai né in bocca, né nella penna
che questo avverbio bene.
C. Cotesta ragione mi par qualcosa, ma ella non
m'empie affatto; perché si dice pure: la gramatica è
un'arte di ben parlare, e di correttamente scrivere.
V. È vero che egli si dice da coloro, che non sanno più
là; ma egli non si doverrebbe dire, perché nelle buone,
e vere diffinizioni non entra ordinariamente bene, per la
ragion detta.
C. E' si dice pure: la retorica è un'arte la quale insegna
favellar bene.
V. Voi siete nella fallacia dell'equivoco, cioè v'ingannate
per la diversa significazione de' vocaboli. Bene non si
piglia in cotesto luogo, come lo pigliamo ora noi, ma
vuol dire pulitamente, e con ornamento; e poi se Platone
non avesse inteso del ben favellare, non arebbe soggiunto,
come egli fece, che gli uomini volgari in questa dottrina
son buoni maestri, e rendutone la ragione, dicendo,
perché hanno quello che deono avere i buoni maestri.
C. Voi diceste, non è molto, che non la ragione si debbe
attendere principalmente nelle lingue, ma l'uso; onde
pare che tutta questa disputa si debba ridurre all'uso.
Come hanno usato gli Scrittori Greci questo verbo?
V. Tutti coloro i quali hanno cognizione della lingua
Greca, sanno che _____´_____ s'interpetra per bene, e
correttamente favellare.
C. A questo modo il Castelvetro non arebbe cognizione
della lingua Greca, e pure nella sua risposta allega tane
volte tante parole Greche, e par che voglia ridersi di
Messere Annibale, e riprenderlo come colui a chi non
piacciano le parole Greche.
V. Io non so se il Castelvetro intende, o non intende,
la lingua Greca; so bene che in questo luogo, e in alcuni
altri che sono nel suo libro, egli o nolla intese, o non volle
intenderla.
C. Qual credete voi piuttosto di queste due cose?
V. In verità che io credo, in questo luogo, che egli non
volesse intenderla.
C. Che vi muove a così credere?
V. Che 'l Budeo stesso ne' suoi Commentarj della
Lingua Greca in quel luogo dove egli dichiara il verbo
_____´_____, lo mostra, allegando il medesimo esemplo
che allega il Castelvetro di Tucidide.
C. Gran cosa è questa!
V. E' vi parrà maggiore quest'altra.
C. Quale?
V. Aristotile nel terzo libro della Retorica, trattando
della locuzione oratoria, usa questo medesimo verbo,
dicendo (poiché 'l Castelvetro vuole che s'alleghino
le parole Greche) _&´_ _'___´_ _ ´_& _´___!& _&
_____´_____.
C. Io per me arò più caro che mi diciate volgarmente
il sentimento.
V. Il sentimento è nella nostra lingua, che il principio,
ovvero capo, e fondamento della locuzione, o volete del
parlare, è il bene, e correttamente favellare.
C. Donde cavate voi quel bene, e correttamente?
V. Dalla natura delle cose, dalla forza del verbo, e
dall'usanza del favellare. Che vorrebbe significare, e che
gentil modo di dire sarebbe: Il principio, o il capo, o il
fondamento della locuzione è il favellare?
C. Queste sono cose tanto chiare, che io comincio a
credere, come voi, che la risposta fosse fatta da beffe, e
che il Castelvetro intendesse questo luogo così agevole,
ma non lo volesse intendere. Coloro che tradussero la
Retorica in Latino, confrontansi eglino con esso voi.
V. Messer no; ma io con esso loro. Udite come lo
'nterpetró, già sono tanti anni, Messer Ermolao Barbaro,
uomo per la cognizione delle lingue, e per la dottrina
sua, di tutte le lodi dignissimo: Caput vero, atque initium
elocutionis est emendate luqui. Vedete voi che egli non
dice semplicemente parlare, come afferma il Castelvetro,
ma emendatamente, cioè correttamente favellare, come
lo prese il Caro?
C. Io vi dico che voi mi fate maravigliare.
V. E io vi dico che voi sareste buono per la festa de'
Magi. Un altro, credo Tedesco, che ha ultimamente tradotto,
e comentato la Retorica, del cui nome non mi ricordo,
dice queste parole: Supra indicatum est, quatuor
partibus elocutionem constare, quarum initium, ac caput
est in quavis lingua purè, emendatèque loqui. A costui
non parve tanto sporre il verbo Greco correttamente favellare,
ma v'aggiunse ancora puramente, e non solo nella
Greca, ma in qualsivoglia altra lingua. Messere Antonio
Majoragio, uomo d'incredibile dottrina, e incomparabile
eloquenza, nella sua leggiadrissima traduzione della sua
Retorica, dice così: Initium autem, et fundamentum elocutionis
est emendate loqui. Avete voi veduto che tutti gli
interpetri spongono il verbo _____´_____, non semplicemente
favellare, ma correttamente favellare?
C. Io vi dico di nuovo, che voi mi fate maravigliare.
V. E io di nuovo vi dico che voi sareste buono per la
festa de' Magi. Conoscete voi Messer Piero Vettori?
C. Come, s'io lo conosco? Non sapete voi che quando
io fui quì l'altra volta con fratelmo, noi andammo in
Firenze a posta solamente per vederlo, e parlargli? E chi
non conosce Messer Piero Vettori? Il quale mediante
l'opere che si leggono tante, e sì belle di lui, è celebrato in
tutto 'l mondo non solo per uomo dottissimo, ma eziandio
eloquentissimo, oltra la nobiltà, la bontà, l'umanità,
e tante altre lodevolissime parti sue.
V. Cotesto stesso, cioè Messer Piero Vettori medesimo,
il quale non è ancora tanto celebrato, quanto egli
sarà, e quanto meritano le singularissime virtù sue, ne'
Commentarj che egli fece sopra i tre libri della Retorica
d'Aristotile, traducendo, e interpetrando il luogo Greco
allegato di sopra, dice queste proprie parole: Initium,
id est solum, ac fundamentum elocutionis, et quod
magnam in primis vim ad eam commendandam habet,
est Graeco sermone rette uti, ac pure, emendateque loqui;
id enim significat _____´_____. Considerate, che
a sì grande uomo non parve abbastanza l'aver tradotto
il verbo _____´_____, usar bene il sermon Greco, che
soggiunse, e favellare puramente, e correttamente, e per
maggiore espressione, affinché nessuno potesse dubitarne v'aggiunse, perché così significo il verbo _____´_____
, cioè rettamente, puramente, e correttamente favellare.
Che dite voi ora?
C. Dico che non mi maraviglio più; e dubito che
molti non abbiano a dubitare che voi siate d'accordo
col Castelvetro, il quale a sommo studio abbia detto
cose tanto manifestamente false, affinché voi aveste che
rispondergli senza fatica nessuna. Egli nonmi par già che
voi gli rendiate il cambio, perciocché se voi difenderete
tutte le altre cose come voi avete fatto questa, io non so
vedere quello che egli s'abbia a poter rispondere, onde
sarà costretto o confessare la verità, o tacere.
V. Voi dite in un certo modo il vero, e in un altro ne
siete più lontano che 'l Gennajo dalle more. Se 'l Castelvetro
fosse di quella ragione che vo' dire io, e che forse
volete intender voi, prima egli non arebbe fatte quelle
opposizioni così deboli, così sofistiche, così false, né
tanto dispettosamente; poi, perché ogn'uomo erra qualche
volta, non doveva tanto, né per tante vie, instigare
Messere Annibale a rispondergli; e alla fine quando vide
le risposte, che nel vero sono lealissime, e contengono
in sostanza quasi tutte le risposte che alle risposte sue
dare si possono, egli doveva acquietarsi, e cedere alla verità.
E se pur voleva o vendicarsi delle ingiurie dettegli,
o mostrare che non era quale lo dipigneva il Caro, poteva
con bella occasione comporre un'opera, nella quale
arebbe potuto fare l'una cosa, e l'altra. Né dico questo
per insegnare a lui, ma per avvertir voi; e anco, se gli pareva
di poter difendere alcuna delle sue opposizioni, poteva
farlo, pigliando quella, o quelle tali, e lasciare star
l'altre, dove, avendo egli voluto mostrare che tutte le cose
dette da lui erano state ben dette, e ognuna di quelle
di Messere Annibale male, ha fatto (se io non m'inganno
affatto) poco meno che tutto il contrario, perché come io
ho difesa questa, così spero in Dio che difenderò quasi
tutte l'altre, e per cotal modo, cioè così chiaramente, che
ognuno che vorrà, potrà conoscere quanto egli fosse leggiermente,
e ingiustamente ripreso. Né per tutto ciò crediate
voi che o egli non abbia a rispondere, o molti non
debbiano credergli; perché troppo sarebbe felice il mondo,
se la maggior parte degli uomini volessero o conoscere
il migliore, o non appigliarsi al piggiore. Né crediate
anco che io non conosca che il Caro potrà, e forse doverrà,
se non male, almeno poco tenersi di me soddisfatto;
e nel vero, se io avessi preso a difendere lui, io non solamente
poteva, ma doveva, secondo l'uso moderno, più
gagliardamente difenderlo. Non dico, quanto al confutare
le ragioni del Castelvetro, perché in questo per tutto
quel poco che si distenderanno il sapere, e poter mio,
m'ingenerò con ogni sforzo di non mancare né di studio,
né di diligenza; ma quanto al modo del procedere, nel
quale arebbono voluto molti che io, senza cercar mai di
scusare, o difendere, o lodare il Castelvetro, avessi, come
fece Messere Annibale contra lui, ed egli contra Messere
Annibale, atteso sempre ad accusarlo, ad offenderlo, e a
biasimarlo, lasciando indietro tutte queste cose, che per
la parte di Messere Annibale non facessero. Ma oltraché
la natura m'invita, e l'usanza mi tira a fare altramente, io
(come scrissi da principio a Messere Annibale) ho preso
a difender non lui, ma le sue ragioni, cioè la verità, dalla
quale, per quanto potrò conoscere, non intendo mai di
partirmi. Confesso, quando a questo cimento, e paragone
venire si dovesse, d'essere molto più, anzi senza comparazione,
affezionato al Caro, che al Castelvetro. E contuttociò
voglio che questa mia buona volontà serva, come
io sono certissimo che egli si contenta, non a nuocere
ad altri, ma solamente a giovare a lui, dovunche possa
giustamente. Ma conchiudiamo oggimai, che le lingue si
debbono imparare a favellare da coloro che naturalmente
le favellano, e da' Maestri ancora, quando se ne potessero
avere in quel modo, e per quelle ragioni che si sono
dichiarate di sopra, leggendo ancora di quegli scritto-
ri di mano in mano, i quali sono riputati migliori. E non
aspettate ch'io vi faccia più di queste dicerie, ch'io veggo
che il tempo ne mancherebbe.
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