DIALOGO DI MESSER BENEDETTO VARCHI
INTITOLATO L'ERCOLANO, OVVERO AGLI
ALBERI (Prima Parte)
Nel quale si ragiona generalmente delle lingue, e in particolare
della FIORENTINA, e della TOSCANA.
Interlocutori
Il Molto Rev. D. Vincenzio Borghini Priore degl'Innocenti,E Messer Lelio Bonsi Dottore di Leggi.
Che vi par di questa villa, Messer Lelio? Dite il vero,piacevi ella? M. LELIO. Bene, Monsignore, e credo che a chi ellanon piacesse, si potrebbe mettere per isvogliato. E purtesté guardando io da questa finestra, considerava tra me medesimo, che ella essendo quasi in sulle porte di Firenze,
e fatta con tanta cura, e diligenza assettare, e coltivare da V. S. debbe arrecare moltissimi non solamente piaceri,
e comodi, ma utili a quei poveri, e innocenti figliuoli i quali oggi vivendo sotto la paterna custodia vostra,
si può dire che vivano felici; né vi potrei narrare, quanto questa bella vigna, ma molto più quelli alberi ond'io
penso che ella pigliasse il suo nome, mi dilettino, sì per la spessezza, e altezza loro, i quali al tempo nuovo deono
soffiati da dolcissime aure porgerne gratissima ombra, e riposo, e sì per lo esser eglino con diritto ordine piantati
lungo l'acqua in sulla riva di Mugnone, sopra la quale (come potete veder) non molto lontano di quì fu un tempo
con M. Benedetto Varchi, e con M. Lucio Oradini il luogo de' Romiti di Camaldoli la mia dolce Accademia, è
'l mio Parnaso; e quello che mi colma la gioja, è l'aver io trovati quì per la non pensata tutti quelli onoratissimi, e
a me si cari giovani, fuori solamente Messer Giulio Stufa, e M. Jacopo Corbinegli, in compagnia de' quali vissi
così lietamente, già è un anno passato, nello Studio di Pisa; e ciò sono M. Jacopo Aldobrandini, M. Antonio Benivieni,
M. Baccio Valori, eM. Giovanni degli Alberti; la
cortesia de' quali, e le molte loro virtù mai della mente
non m'usciranno. Per le quali cose non V. S. a me, come
dianzi mi diceva, ma io a lei sarò dello avermi ella fatto
quì venire perpetuamente tenuto. D. VINC. Pensate voi, M. Lelio, ciò essere stato fatto
a caso, e senza veruna cagione ? M. LELIO Signor no, perché la S. V. è prudentissima,
e i prudenti uomini non fanno cosa nessuna a caso, né
senza qualche cagione. D.VINC. Di grazia lasciamo stare tante Signorie, e
chiamatemi, se pur volete onorarmi, e lodarmi, non prudente,
ma amorevole; perciocché dovete sapere che questi
quattro con alcuni altri giovani miei amicissimi, e per
avventura vostri, i quali mi maraviglio che non siano a
quest'ora arrivati, ma non possono stare a comparire,
avendo inteso del ragionamento che fece a' giorni passati
sopra le lingue M. Benedetto Varchi col Conte Cesare
Ercolani in vostra presenza, e desiderando grandemente,
d'intenderlo, mi pregarono strettissimamente che
io dovessi mandar per voi, e oprar sì, che vi piacesse in
questo luogo dove non fussimo né interrotti, né disturbati,
raccontarlo; perché io, il quale molto disidero soddisfare
a cotali persone, ed anco aveva caro d'udirlo, sappiendo
qual fusse la cortesia, e amorevolezza vostra, feci
con esso voi a sicurtà, e ora colla medesima confidenza
vi prego che non vi paja fatica di compiacere e a loro,
e a me; se già non pensaste che ciò dovesse dispiacere
a M. Benedetto; il che io, e per la natura sua, e per la
scambievole amistà nostra, e per l'amore che egli a tutti,
e a ciascuno di questi giovani porta grandissimo, non
credo. M. LELIO. Troppo maggior fidanza che questa non
è stata, potevate, Monsignore, e potete, quantunque voglia
ve ne venga, pigliare di me, il quale né in questa, la
quale però non so come sia per riuscirmi, né in altra cosa
alcuna la quale per me fare si possa, né voglio, né debbo
non ubbidirvi, e M. Benedetto non solo non si recherà
ciò a male, ma gli sarà giocondissimo, sì per le ragioni
pur ora da voi allegate, e sì ancora per quelle che poscia
nel ragionar mio sentirete. Ma ecco venire di quaggiù
Piero Covoni Consolo dell'Accademia, con Bernardo
Canigiani, e Bernardino Davanzati; oggimai questo giorno
sarà per me da tutte le parti felicissimo; e se la vista
non m'inganna, quei due, i quali alquanto più addietro
s'affrettano di camminare, forse per raggiugnerli, sono
Baccio Barbadori, e Niccolò del Nero. D. VINC. Sono dessi; chiamiamo questi altri giovani,
e andiamo loro incontra; ordinate intanto da desinare
voi; e voi, M. LELIO mio caro, desinato che aremo, e
riposatici alquanto, potrete cominciare senza altre scuse,
o cirimonie, che vi so dire che arete gli ascoltatori non
solamente benivoli, ma attenti, e per conseguente docili. M. LELIO. Quando le parrà tempo, V. S. m'accenni,
che io di tutto quello che saprò, e potrò, non sono per
mancare, che che avvenire mene possa, o debba. D. VINC. Messer Lelio, le nostre vivande non sono
state né tante, né tali, e voi insieme con questi altri di
quelle poche, e grosse avete sì parcamente mangiato,
che io penso che ne voi, né eglino abbiano bisogno di
riposarsi altramente; però potete, quando così vi piaccia,
incominciare a vostra posta. M. LELIO. Tutto quello che a V. R. Sig. e a così orrevole
brigata piace ed aggrada, è forza che piaccia, e aggradi
ancora a me. Avete dunque a sapere, molto Reverendo
Signor mio, e voi tutti nobilissimi, e letteratissimi
giovani, che il Conte Cesare Ercolano, giovane di tutti i
beni da Dio, dalla Natura, e dalla Fortuna abbondevolmente
dotato, passando, non ha molti giorni, di Firenze
per andarsene a Roma, volle per la somma, ed inestimabile
affezione che si portano l'uno l'altro, vicitare Messer Benedetto, e benché avesse fretta, e bisogno di ritrovarsi
in Roma con M. Giovanni Aldrovandi Ambasciatore
de' Signori Bolognesi, uomo di singolarissime virtù,
starsi tutto un giorno con esso seco, e non l'avendo trovato
in città, come si pensava, se ne andò alla villa sopra
Castello, dove egli abita, nella quale mi trovava ancora
io; e perché giunse quasi in sull'ora del desinare, dopo le
solite accoglienze, e alcuni brevi ragionamenti d'intorno
per lo più al bene essere del Sig. Cavaliere suo padre, e
di tutti gli altri di casa sua, spasseggiato così un poco in
sul pratello, ch'è dinanzi alla casa, e dato una giravolta
per l'orto, il quale molto gli piacque, ancoraché vi fosse
stato un'altra volta più giorni col Conte Ercole suo fratello,
e commendata con somme, e verissime lodi la liberalità,
e cortesia dell'Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signor
Duca nostro, il quale così comoda stanza e così piacevole
conceduto gli avea, ce ne andammo a desinare in
su uno terrazzino, il quale posto sopra una loggetta con
maravigliosa, e giocondissima veduta scuopre, oltra mille
altre belle cose, Firenze, e Fiesole; dove, fornito il desinate,
il quale non molto durò, il Conte Cesare con dolce,
e grazioso modo verso M. benedetto rivoltosi cominci a
favellare in questa maniera.
Deh caro, ed eccellente M. Benedetto mio, ditemi per
cortesia, se egli è vero quello che M. Girolamo Zoppio, e
molti altri m'hanno in Bologna affermato per verissimo,
cioè voi aver preso la difiesa del Commendatore M. Annibale
Caro contra M. Lodovico Castelvetri. Alle quali
parole rispose subitamente M. Benedetto: io non ho preso
la difensione di M. Annibale Caro, ancorché io gli sia
amicissimo, ma della verità, la quale molto più m'è amica,
anzi (per meglio dire) di quello che io credo che vero
sia e ciò non contra M. Lodovico Castelvetri, al quale
io nemico non sono, anzi gli disidero ogni bene, ma contra
quello che egli ha contra M. Annibale scritto; e (per
quanto posso giudicare io) con poca, e forse niuna ragione, e certo senza apparente non che vera cagione. Sta bene,
soggiunge allora il Conte Cesare, ma io vorrei sapere
quai ragioni, o quai cagioni hanno mosso voi a dovere
ciò fare. Poiché vi par poco (rispose allora M. Benedetto)
adoperarsi in favore della verità, la quale tutti gli uomini,
e spezialmente i Filosofi, deono sopra tutte le cose
difendere, e ajutare, quattro sono state le cagioni principali
le quali m'hanno, e (secondoché io stimo) non senza
grandissime, e giustissime ragioni a ciò fare mosso, e
sospinto; la prima delle quali è la lunga, e perfetta amicizia
tra 'l Cavalier Caro e me; la seconda, la promessione
fatta da me al Caro per conto, e cagione del Castelvetro;
la terza, il difendere insieme con esso meco tutti coloro
i quali hanno composto o in prosa, o in verso nella lingua
nostra; la quarta, ed ultima, non mi pare per ragionevole
rispetto, che si debba dire al presente. E perché
il Conte Cesare pregò M. Benedetto che gli piacesse di
più distesamente, e particolarmente dichiarargli ciascuna
di quelle quattro cagioni, egli in cotal guisa continovò
iil. favellar suo: quanto alla prima, sappiate che la familiarità
che io tengo con M. Annibal Caro, ed egli meco
infino da' suoi, e miei più verdi anni, è piuttosto fratellanza,
che amistà, e forse non inferiore ad alcuna di quelle
quattro, o cinque antiche, le quali con tanta maraviglia
sono raccontate, e celebrate dagli scrittori così Greci,
come Latini; perché io non potea, né dovea, ricercandomene
egli con tanta instanza, e per tante lettere, non
pigliare a difendere le ragioni sue in quel tempo massimamente
che egli per le molte, e importantissime faccende
dell'Illustrissimo, e Reverendissimo Cardinale Farnese
suo padrone, il quale si trovava in Conclave, non aveva
tempo di poter rifiatare, non che di rispondere alla Risposta
del Castelvetro. Quanto alla seconda, che vi parrà
forse maggiore, M. Giovanni... il quale per la Dio grazia
si trova oggi vivo, e sano, mi venne, sono già più anni
varcati, a trovare in sulla piazza del Duca, e salutatomi
da parte di M. Lodovico Castelvetro molto cortesemente,
mi disse per nome di lui, come egli avea inteso per cosa
certissima, che l'Apologia del Caro era nelle mie mani,
e di più, che sapeva che esso M. Annibale o la stamperebbe,
o non la stamperebbe secondoché fusse a ciò fare,
o non fare, da me consigliato: perché mi mandava pregando
quanto sapeva, e poteva il più, che io non solo volessi
consigliarlo, ma pregarlo, ed eziandio sforzarlo, per
quanto fusse in me, a doverla, quanto si potesse più tosto,
stampare, e mandare in luce; della qual cosa egli mi
resterebbe in infinita, e perpetua obbligazione, soggiugnendo,
che la spesa la quale nello stamparla si facesse,
pagherebbe egli, e a tale effetto aver seco portati danari.
Parvemi strana cotale proposta, e dubitando non dicesse
da beffe, gli domandai se egli, diceva da vero, e se M. Lodovico
gli aveva, che mi dicesse quelle parole, commesso;
e avendomi egli risposto, che sì, soggiunsi: M. Lodovico
ha egli veduto l'Apologia? E avendo egli risposto di
no, anzi che faceva questo per poterla vedere, gli risposi:
Fategli, intendere per parte mia, poiché voi dite ch'è
m'è amico, e tiene gran conto del mio giudizio, che non
si curi né di vederla egli, né di procurare che altri vedere
la possa, e che se ne stia a me, il quale l'ho letta più volte,
e considerata, che ella dice cose le quali non gli piacerebbono.
Al che M. Giovanni tostamente replicò: Egli
sa ogni cosa per relazione di diverse persone che veduta
l'hanno, e a ogni modo disidera sopra ogni credere che
ellasi stampi, e vada fuori. Deh diteli (gli dissi io un'altra
volta) da parte mia, che non se ne curi, perciocché se egli
in leggendola non verrà meno, farà non piccola pruova,
e di certo egli per mio giudizio suderà, e tremerà in un
tempo medesimo. Lasciate di cotesto (rispose egli) la cura,
e il pensiero a chi tocca, e non vi caglia più di lui, che
a lui stesso; e altre così fatte parole. Andate, che io vi
prometto (risposi io allora), e così direte a M. Lodovico
per me, che io farò ogni opera che egli sia sodisfatto,
non ostante che io fossi più che risolutissimo di volermi
adoperare (come ho fatto infin quì) in contrario. E così
scrissi tutta questa storia al Cavaliere, e rimandandogli
l'Apologia lo confortai, e pregai a doverla stampare,
e far contento il Castelvetro, allegandogli quel proverbio
volgare: A un popolo pazzo, un prete spiritato; e perché
egli si conducesse a fare ciò più tosto, e più volentieri, gli
promisi di mia spontana volontà, che rispondendo il Castelvetro
(cosa che io non credeva) piglierei io l'assunto
di difendere le ragioni sue. E perché non crediate che
queste sieno favole, avendomi M. Giovambatista Busini
amicissimo mio mandato da Ferrara una nota di forse
sessanta errori fatti nello stampare la sua risposta, molto
nel vero leggieri, e per inavvertenza commessi o de' correttori,
o degli stampatori, gli scrissi che lo dimandasse
se le cose dettemi in nome suo erano vere, come io credeva;
ed egli mi rispose di sì, e che avea ciò fatto per lo intenso
desiderio che egli aveva di poter rispondere, e giustificarsi.
Quanto alla terza cagione, oltre l'avere io detto
a M. Giovanni, che io non pensava che niuno potesse rispondere
alle ragioni, e alle autorità allegate da M. Annibale
contra l'opposizioni del Castelvetro, se non se forse
colui che fatte l'avea, dico ancora che tutte quelle parole
che egli riprende nella Canzone del Caro, e molte altre di
quella ragione, sono state usate non solo da me ne' componimenti
miei o di versi, o di prosa, eziandio, da tutti
coloro i quali hanno o prosato, o poetato in questa lingua,
come nel suo luogo chiaramente si mostrerà. E rendetevi
certo che se le regole del Castelvetro fossero vere,
e le sue osservazioni osservare si dovessero, nessuno
potrebbe non dico scrivere correttamente, ma favellare
senza menda, e, per non aver a replicare più volte, anzi
a ogni passo, una cosa medesima, intendete sempre, che
io favello secondo il picciolo sapere, e menomissimo giudizio
mio, senza volere o offendere alcuno, o pregiudicare
a persona in cosa nessuna, prestissimo a corregger
mi sempre, e ridirmi ogni volta che da chiunque si sia mi
saranno mostrati amorevolmente gli errori miei. Quanto
alla quarta, e ultima, io disiderava e, sperava, meditanti
gli esempi di molti, e grandissimi uomini così dell'età nostra,
come dell'altre, quello che io ora desidero bene, ma
non già spero, e se pure lo spero, lo spero molto meno
che io non faceva, e ch'io non disidero. Tacquesi, dette
queste cose, M. Benedetto, ma il Conte Cesare ripigliando
il parlare, Voi m'avete, disse, cavato d'un grande affanno,
conciossiacosaché io aveva sentito che molti sconciamente
vi biasimavano, i quali si credevano che voi, chi
a bel diletto, chi per capriccio, chi per mostrare la letteratura
vostra, foste o presuntuosamente entrato in questo
salceto, o non senza temerità; il che veggo ora essere
tutto l'opposito, e conosco che niuno non dovrebbe
credere cosa nessuna a persona veruna senza volere udire
l'altra parte, e il medesimo direi a coloro i quali dicono,
ciò non essere altro che un cercare brighe col fuscellino,
e comperar le liti a contanti. Ma che rispondete voi
a quelli che, molto teneri della salute vostra mostrandosi,
dicono che l'avere il Castelvetro fatto uccidere Messer
Alberigo Longo Salentino; il che voi da prima non potevate
credere, vi doveva render cauto, e farvi più maturamente
a' casi vostri pensare? Risponderei (rispose subito
M. Benedetto) che l'uficio dell'uomo da bene, e il debito
del vero amico non dee altro risguardare che il giusto,
e l'onesto, e che mai non si debbe un ben certo lasciare
per un male che incerto sia; e s'io nol potei credere
infino alla presenza vostra, e di tanti gentiluomini tanti
cavalieri me ne fecero in Bologna tante volte con testimonianze
ampissima fede non dee parere ad alcuno maraviglia,
perché . . . . . Non certo (rispose il Conte Cesare
anzi che M. Benedetto avesse fornito) e incontanente
soggiunse: Non occorre che me ne rendiate altre cagioni,
e tanto più che voi sapete che io so benissimo come andò
la bisogna; ma vorrei sapere due cose, l'una, se come
a' soldati è conceduto combattere coll'arme nelli steccati,
così alle persone di lettere si conviene non solamente
disputare a voce ne' circoli, ma adoperare eziandio: la
penna, e rispondere, colle scritture: l'altra, se dell'opere
che escono in pubblico con consentimento degli autori
loro, può ciascuno giudicare come gli piace senza tema
di dovere essere tenuto o presuntuoso, o arrogante. Ma
io, Lelio, ho pensato, per fuggire la lunghezza, e 'l fastidio
di replicare tante volte quegli disse, e colui rispose,
ragionarvi non altramente che se essi ragionatori fossero
quì presenti, cioè recitarvi tutto quello che dissero senza
porre altri nomi, o soprannomi, che il Conte, e il Varchi.
Dico dunque che il Varchi rispose al Conte Cesare così:
Varchi. Quanto alla prima dimanda vostra, dico che
solo queste due professioni, l'armi, e le lettere, e sotto
il nome di lettere comprendo tutte l'arti liberali, hanno
onore, cioè deono essere onorate, e chiunque ha onore
può essere offeso in esso, e chiunque può essere offeso
nell'onore, dee ragionevolmente avere alcun modo
mediante il quale lo possa o difendere, o racquistare:
laonde tutti coloro i quali concedono il duello a' soldati,
e a' capitani, sono costretti di concedere il disputare,
e il rispondere l'un l'altro, eziandio colla penna, e con
gl'inchiostri, agli scolari, e a' dottori. È ben vero che,
come il modo del combattere è corrottissimo tra' soldati,
non si osservando più né legge, né regola alcuna che
buona sia; così, e forse, peggiormente, è guasto il modo
dello scrivere, e del disputare tra' dottori non solamente
di leggi, ma ancora (il che è molto più brutto, e biasimevole)
della santissima Filosofia. Quanto alla seconda,
tosto che alcuno ha mandato fuori alcuno suo componimento,
egli si può dire che cotale scrittura, quanto
appartiene al poterne giudicare ciascuno quello che più
gli pare, non sia più sua. Ma come i ciechi non possono,
né debbono giudicare de' colori, così né possono, né
debbono giudicare l'altrui scrittore, se non coloro i quali
o fanno la medesima professione, o s'intendono di quello
che giudicano; e questi cotali non pure non deono essere
incolpati né di presunzione, né d'arroganza, ma lodati,
e tenuti cari, come amatori della verità, e disiderosi
dell'altrui bene. Anzi crederei io che fosse maravigliosamente
non solo utile, ma onorevole sì generalmente per
tutte le lingue, e sì in ispezie per la nostra, che qualunque
volta esce alcuna opera in luce, alcuni di coloro che
sanno, la censurassino, e di sentenza comune ne dicessero,
e anco ne scrivessono il parere, e la censura loro.
Ben' è vero che io vorrei che cotali censori fossero uomini
non men buoni, e modesti, che dotti, e scienziati,
e che giudicando senza animosità non andassero cercando,
come è nel nostro proverbio, cinque pié al montone,
ma contentandosi di quattro, e anco talvolta di tre, e
mezzo, piuttosto che biasimare quelle cose che meritano
lode, lodassono quelle che sono senza biasimo; e insomma,
dove ora molti si sforzano con ogni ingegno di cogliere
cagioni addosso agli autori per potergli riprendere,
essi s'ingegnassero con ogni sforzo di trovare tutte le
vie da dovergli salvare. C. Se cotesto che voi dite, si facesse, la copia degli
Scrittori sarebbe molto minore che ella non è. V. Voi non dite che ella sarebbe anche molto migliore;
del che nascerebbe che la verità delle cose si potrebbe
apparare non solo più agevolmente, ma ancora con
maggiore certezza. C. Io per me la loderei, e mi piacerebbe che si censurassino
ancora degli Scrittori antichi; perché io ho molte
volte imparato una qualche cosa da alcuno autore, e
tenutola per vera, la quale poi per l'autorità d'un altro
Scrittore, o mediante le ragioni allegatemi da chicchesia,
e talvolta colla sperienza stessa, la quale non ha riprova
nessuna, ho conosciuto manifestamente esser falsa. Ma,
lasciando dall'una delle parti quelle cose le quali si possono
più agevolmente disiderare che sperare, e più sperare che ottenere, scioglietemi questo dubbio: Se voi siete
dell'oppenione che voi siete, perché non volevate voi
che il Caro rispondesse all'apposizioni fattegli dal Castelvetro,
come si può vedere nella vostra lettera stampata
nella fine dell'Apolologia? V. Per molte, e diverse cagioni; la prima: Io non
poteva persuadermi che cotali opposizioni fossero state
fatte da vero, né da peraona tinta di lettere, non che
da M. Lodovico, il quale io aveva per uomo dotto, e
giudizioso molto: la seconda, elle mi parevano tanto
parte frivole, e ridicole, parte sofistiche, e false, che io
non le giudicava degne, a cui da niuno, non che da
M. Annibale, si dovesse rispondere: la terza, elle non
erano fatte né con quel zelo, né a quel fine che vo'
dire io; oltreché elle mancavano di quella modestia la
quale in tutte le cose si ricerca, e da tutti gli uomini, e
spezialmente da coloro che fanno professione di lettere,
si debbe usare. C. Dichiaratevi un poco meglio. V. Voglio dire che il fine è quello che giuoca, e che in
tutte l'operazioni umane attendere, e considerare si debbe;
perciocché siccome molte cose non buone, solo che
siano fatte a buon fine, lodare si deono, così molte buone
fatte con non buono animo, sono da essere biasimate.
Non accadeva al Castelvetro né favellare tanto dispettosamente,
né così risolutamente le sue sentenze, (quasi
fossero oracoli) pronunziare, dico, quando bene avesse
avuto e cagioni, e ragioni da riprendere il Caro. C. Sì, ma poiché voi sapeste di certo, l'opposizioni
essere del Castelvetro, e avevate l'Apologia del Caro nelle
mani, non volevate voi che ella s'imprimesse? A me par
necessario, poiché voi concedete che si possa rispondere
colla penna, e in iscrittura, che voi giudicaste che M.
Annibale non si fosse difeso o bene, o a bastanza. V. Voi v'ingannate. C. Perché? V. Perché oltre l'altre cose non fate la division perfetta. C. In che modo? V. Perché egli poteva difendersi e bene, e a bastanza,
e nondimeno errare nel modo del difendersi. C. Voi volete dire (secondo me) che egli procedette
troppo aspramente; ma se egli fu il primo ad essere offeso,
e ingiuriato senza cagione, non doveva egli offendere,
e ingiuriare l'avversario suo con cagione per vendicarsi? V. Forse che no. C. Io mi vo' pur ricordare che non solo Poggio, il Filelfo,
Lorenzo Valla, e molti altri fecero invettive contra
i vivi, ma eziandio contra i morti, i quali non potevano
avergli offesi; e se pure offesi gli aveano, co' morti non
combattono (come dice il proverbio) se non gli spiriti. V. È vero, ma voi vedete bene a qual termine si condussero
le lettere, e che conto tengono i Principi de i letterati,
i quali, se fanno quelle cose che gli uomini volgari,
e talvolta peggio, non si debbono né maravigliare, né
dolere d'essere trattati come gli uomini volgari, e talvolta
peggio. C. È si vede pure che i soldati, che fanno tanto stima
dell'onore, quando sono offesi, o ingiuriati con soperchieria,
cercano con soperchieria di vendicarsi. V. E' fanno anco male. C. Perché? V. Perché se uno vi tagliasse la borsa, già non vorreste
voi, né vi sarebbe lecito tagliarla o a lui, o a un altro per
vendicarvi. C. Che rimedio c'è se il mondo va così? V. Lasciarlo andare, ma gli uomini prudenti l'hanno a
conoscere, e i buoni se ne debbono dolere, e amenduni
dove, e quando possono, ripararvi. C. Pare egli a voi, come a molti, che la risposta del Castelvetro
all'Apologia del caro sia scritta modestamente? V. Non a me, anzi tutto il contrari, perciocché egli
ha cercato non pure di difendere, e scaricare se, ma
d'offendere e di caricare in tutti quei modi, e per tutte
quelle vie che egli ha saputo, e potuto, M. Annibale. C. E Annibale, che fece verso lui? V. Il peggio che egli seppe e poté. C. Dunque il Castelvetro ha avuto ragione a render
pane per cofaccia, e il Caro non si può dolere, se quale
asino dà in parete, tal riceve. V. Sì, secondo l'usanza d'oggi, ma a me sarebbe piaciuto
che l'uno, e l'altro si fosse più modestamente portato. C. Deh ditemi chi vi pare ch'abbia detto peggio, o il
Caro o il Castelvetro? V. Il Castelvetro senza dubbio, perché quel di M.
Annibale è altro dire. C. Io non dico quanto allo stile, ma quanto a biasimare
l'un l'altro. V. Amendue si son portati da valentuomini, e hanno
fatto l'estremo di lor possa; ma dove M. Annibale procede
quasi sempre ingegnosamente, e amaramente burlando,
M. Lodovico sta quasi sempre in sul severo. C. Voi volete inferire, che M. Annibale morde come le
pecore, e M. Lodovico come i cani. V. Cotesto non voglio inferire io, perché tutti e due
mordono rabbiosamente, come begli orsi, ma che camminano
per diverse strade. C. Ditemi ancora, qual giudicate voi più bell'opera, o
l'Apologia del Caro, o la risposta del Castelvetro? Ma
guardate che l'amore non v'inganni,
Che spesso occhio ben san fa veder torto;
perché voi dovete sapere che come il Castelvetro è
biasimato da molti grandissimamente, come uomo poco
buono, e poco dotto, così è da moti grandissimamente
non meno di bontà che di dottrina lodato. V. Per rispondere prima all'ultima cosa, io non voglio
favellare di M. Lodovico, il quale, perché vorrei che fosse
come coloro che lo lodano, dicono che egli è, mi giova
di credere che così sia; ma solamente dell'opera sua, la
quale a me non pare che tale lo dimostri, anzi, se non
tutto l'opposito, certamente molto diverso, qualunche
se ne sia stata la cagione, perché alcuni l'attribuiscono
allo sdegno non ingiustamente preso per le cose che
di lui si dicono nell'Apologia. In qualunche modo io
non intendo di volere entrare nella vita, e costumi di
persona, se non quando, e quanto sarò costretto dal
dover difendere la verità; e allora (per rispondere alla
seconda dimanda vostra) mi guarderò molto bene (come
mi avvertite) che l'amore,
Che spesso occhio ben san fa veder torto,
non m'inganni; e tanto più che io in questo giudizio
voglio essere (se ben non sono stato chiamato se non
da una delle parti) non avvocato, o proccuratore, ma
arbitro, e arbitro lontano da tutte le passioni; perché
siate certo che tutto quello che io dirò, sarà, se non
vero, certo quello che io crederò che vero sia. Ora
rispondendo alla prima domanda, dico che l'Apologia
del Caro, se egli è lecito (come voi, e molti altri si fanno
a credere) procedere cogli avversarj in quella maniera, e
insomma fare il peggio che l'uomo può è la più bell'opera
che io in quel genere leggessi mai: dove la risposta del
Castelvetro mi pare altramente, e insomma che abbia a
fare poco, o nulla, con quella e in quanto alla vaghezza
dello stile, e in quanto alla lealtà della dottrina, in quel
modo che dichiarerò più apertamente nel luogo suo. C. Molto mi piace che voi abbiate cotesto animo di
non volere pregiudicare a nessuno, e così vi conforto, e
prego, e scongiuro che facciate, e anco giudico che vi sia
necessario il così fare; perché tutto quello che direte, dovrà esser letto, e riletto, considerato, e riconsiderato diligentissimamente
da molti, i quali cercheranno o riprendere
voi, o difendere lui, e forse biasimare insiememente
ambodue, e, se non altro, egli vi doverà voler rispondere,
poiché ha risposto a M. Annibale. V. Io pensava bene che m'avesse a esser risposo non
già da lui, ma da alcuno creato, o amico suo, ora intendo
per lettere di M. Giovanbatista Busini, che egli vuole
rispondere da sé. C. A me era stato detto che M. Francesco Robertello,
il quale legge Umanità in Bologna, voleva, se voi difendevate
il Caro rispondervi egli. V. E a me era stato riferito il medesimo da persona
amicissima di lui, e degna di fede; la qual cosa m'avea
indotto nell'oppenione che io v'ho detta, che non egli,
ma altri mi dovesse rispondere per lui ad instanza, e petizione
sua; il che trovo non esser vero, essendo ito Maestro
Alessandro Menchi mio nipote a Ferrara con Maestro
Francesco Catani da Montevarchi, che è quel grande,
e dabbene uomo che voi sapete, per dover medicare
l'Illustrissima ed Eccellentissima Signora Duchessa, mi
disse, tornato che fu, che aveva visitato Messer Lodovico,
e tra l'altre cose dettogli, come mi pareva cosa strana
che alcuno pensasse di voler rispondere a quelle cose
che io non aveva non che dette, pensate ancora gli fu da
lui risposto: Il Robertello non ha difeso sé, pensate come
difenderà altri excl Dissemi ancora che il medesimo Castelvetro
gli aveva detto, raccontando d'uno che per difendere
il Caro si scusava con esso lui d'averlo solamente
in cinque luoghi ripreso; Io non voglio essere ripreso in
nessuno; il che mi fa credere quello che prima non credeva,
cioè, che egli si creda che le cose scritte da lui contra
M.Annibale siano vere tutte, dove a me pare che tutte, o
poco meno che tutte, siano false. Laonde arei caro che
non solamente il Robertello, ma tutti coloro che possono,
volessero scrivere l'oppenione loro, affinché la verità rimanesse a galla, e nel luogo suo, e si sgannassino coloro
che sono in errore, tra' quali, se la risposta del Castelvetro
sarà giudicata dagli uomini dotti, e senza passione,
o buona, o bella, confesso liberamente essere uno
io, e forse il primo. E comeché a ciascuno soglia piacere
la vittoria, a me non dispiacerà il contrario, affermando
Platone, il quale come è chiamato, così fu veramente
divino, che nelle disputazioni delle lettere è più utile
l'essar vinto che il vincere. C. Uno a cui chicchessia avesse scritto contra, è egli
obbligato sempre a dover rispondere, e difendersi? V. Non credo io. C. Quando dunque sì, e quando no? V. In questi casi ha ciascuno il suo giudizio, e può
fare quello che meglio pare a lui che gli torni; io per
me, quando alcuno o non procedesse modestamente, o
si movesse ad altra cagione che per trovare la verità, o
veramente dicesse cose le quali agl'intendenti fossono
manifestamente o false o ridicole, non mi curerei di
rispondere. C. Voi portereste un gran pericolo di rimanere in
cattivo concetto della maggior parte degli uomini. V. A me basterebbe rimanere in buono della migliore;
perché, quando si può far di meno mai non debbe alcuno
venire a contenzione di cosa nessuna con persona; e
non è tempo peggio gettato via che quello che si perde in
disputare le cose chiare contra coloro i quali o per parer
dotti, o per altre cagioni vogliono non imparare, né insegnare,
ma combattere, e tenzonare, non difendendo, ma
oppugnando la verità; cosa piuttosto degna di gastigo,
che di biasimo. C. Presupponghiamo che uno scrivendovi contro procedesse
modestamente, si movesse a fine di trovare la verità,
e in somma vi riprendesse a ragione, che fareste voi? V. Ringrazierelo, e ne gli arei obbligo non picciolo. C. Dunque non terreste conto della vergogna? V. Di qual vergogna? C. Di non sapere, e, se volete che ve la snoccioli piú
chiaramente, d'esser tenuto un ignorante. V. Signor Conte, il non sapere, quando non è restato
da te, non è vergogna, ma sibbene, il non volere imparare.
Sapete voi qual è vergona, e quale è ignoranza, e merita
tutti i biasimi da tutte le persone intendenti? Il perfidiare,
e non voler credere alla verità; la quale a ogni modo
si scuopre col tempo, di cui ella è figliuola. La Natura
quando produsse Aristotile, volle (secondo che testimonia
più volte il grandissimo Averrois) fare l'ultimo
sforzo d'ogni sua possa, onde quanto può sapere naturalmente
uomo mortale, tanto seppe Aristotile, e contuttociò
le cose che egli non intese, furono più senza proporzione,
e comparazione alcuna, che quelle le quali egli
intese, dunque io, o alcuno altro si doverà vergognare di
non saperne, non dico una, o due, o mille, ma infinite? C. Cotesta ragione mi va, ma mi pare che militi contra
di voi. V. In che modo? C. Perché essendo la risposta del Castelvetro quale dite
voi, ella manca di tutte e tre quelle condizioni poste di
sopra, il perché non meritava che le si dovesse rispondere. V. Ben dite, e, se a me interamente stato fosse, non
se le rispondeva. Erasi determinato che a ogni modo si
rispondesse, ma alcuni volevano, in frottola, alcuni, in
maccheronea; chi con una lettera sola, chi solamente con
alcune postille, e annotazioni da doversi scrivere nelle
margini, e stampare insieme con tutta l'opera: altri giudicavano
esser meglio, e più convenevolmente fatto procedere
per via d'invettiva, introducendo alcuno uomo o
ridicolo, o maledico, o l'uno, e l'altro insieme, come giudiziosamente
aveva fatto il Caro, e non solo difendere M.
Annibale, ma offendere ancora il Castelvetro, affermando,
ciò non pure potersi fare agevolmente, ma doversi
fare giustamente. Nessuna delle quali cose piacendomi,
dissi, che io era fermato o di non rispondere, o di risponder
il meglio, e nel miglior modo che io sapessi, e potessi;
né perciò era l'animo mio di volere altro fare che quello
che io promesso aveva; cioè difendere il Caro da quelle
diciassette opposizioni le quali il Castelvetro fatto gli
avea; ma ora non so quello che io mi farò. C. Perché? V. Perché M. Lodovico ha fatto quello che egli non
poteva né doveva fare, cioè ha mutato la querela, o almeno
accresciutola perciocché l'usanza portava, e la ragione
richiedeva che egli innanziché entrasse in altro, rispondesse
alle ragioni, e autorità del Caro capo per capo,
come il Caro aveva risposto alle sue; e poi (se così gli
pareva) entrare a riprenderlo di nuovo nell'altre cose di
per se dalle prime. Conciossiacosaché chi avesse detto a
un soldato che egli fosse codardo, e vile, non potrebbe,
contestata la lite, dire, lui essere ancora traditore, e mancatore
di fede, e così mutare, e ampliare la querela, mescolando,
e confondendo l'una coll'altra: perciocché egli
è possibile che uno sia codardo, e vile, ma non traditore,
e, per lo rovescio, sia traditore, e mancator di fede,
ma non già codardo, e può volere confessare l'uno, e difendere
l'altro, e a niuno si debbono impedire né per via
diretta, né per obliqua, non che torre, le difensioni sue.
Oltra questo il Castelvetro è proceduto colla sua risposta
(o a caso, o ad arte che egli fatto se l'abbia) con un modo
tanto confusamente intricato, e tanto intricatamente
confuso, che rispondergli ordinatamente è piuttosto impossibile
che malagevole; perciocché oltra l'altre confusioni,
e sofisticherie delle quali è tutto pieno il suo libro,
egli o perché paressero più, e maggiori i falli di M. Annibale,
che così li chiama egli o per qualche altra cagione,
lo riprende più volte d'una cosa medesima in più, e diversi
luoghi, il che come allunga molto l'opera sua, così
fa che non se le possa brevemente rispondere, e con ordine certo, e diterminato, la qual cosa è di non poca briga,
e fastidio a chi ha dell'altre faccende, e impiega malvolentieri
il tempo in cose di gramatica, le quali non sono
cose, ma parole, e che piuttosto si dovrebbono sapere,
che imparare, e imparate, servirsene a quello che, elle
son buone, e per quello che furono trovate, non ad impacciare
inutilmente, e bene spesso con danno se, e altrui;
e massimamente che se mai si disputò dell'ombra
dell'asino, com'è 'l proverbio Greco, della lana caprina,
come dicono i Latini, o questa è quella volta, da alcune
poche, anzi pochissime cose in fuora. C. Del modo col quale possiate rispondere, potrete
rispondere a bell'agio, rispondetemi ora a quello che io
vi dimanderò. V. Sibbene. C. La verità in tutte le cose non è una sola? V. Una sola. C. E l'obbiettivo dell'anima nostra, cioè dell'intelletto
umano, non è la verità? V. È. C. Dunque la verità è naturalmente sopra tutte altre
cose dall'intelletto nostro, come sua propria, e vera perfezione
disiderata? V. Senza dubbio; ma che volete voi inferire con queste
vostre proposizioni filosofiche? C. Che egli mi par cosa molta strana, e quasi incredibile,
per non dire impossibile, che l'opera del Castelvetro
sia tanto da tanti lodata, e tanto da tanti biasimanta,
non essendo la verità più d'una, e disiderandola naturalmente
ciascuno; e vorrei mi dichiaraste, questa diversità
di giudizj donde proceda. V. Il trattare del giudizio è materia non meno lunga
che malagevole, per lo che lo riserberemo a un'altra
volta; bastivi per ora di sapere che il giudizio del quale
intendete, è, come ancora l'intelletto, virtù passiva, e non
attiva, cioè patisce, e non opera, sebbene cotal passione
è perfezione; e che coloro che dicono, il tale è letterato
o Greco o Latino: ma non ha giudizio nelle lettere, o
il tale intende bene la pittura, ma v'ha dentro cattivo
giudizio, dicono cose impossibili, e (come si favella oggi)
un passerotto, e tanto è vero che alcuno possa dar buon
giudizio di quelle cose le quali egli non intende, quanto
è vero che i ciechi veggano. C. E mi pare d'intendervi: la diversità de' giudizj nasce
dalla diversità de' saperi, perché quanto ciascuno sa più,
tanto giudica meglio. V. Non che egli sappia più semplicemente, ma in quella,
o di quelli cosa la quale, o della quale egli giudica;
perché può alcuno intendere bene una lingua, e non
un'altra, esser dotto in questa scienza, o arte, e non in
quella; sebbene tutte le scienze hanno una certa comunità,
e colleganza insieme, di maniera che qual s'è l'una
di loro non può perfettamente sapersi, senza qualche cognizione
di tutte l'altre. C. Io l'intendeva ben così; ma donde viene che niuna
cosa si ritrova in luogo nessuno né così bella, né così
buona, la quale non abbia chi la biasimi; e per lo contrario
nessuna se ne ritrovi in luogo niuno né tanto brutta,
né tanto cattiva, la quale non abbia chi la lodi? V. Dalla Natura dell'universo, nel quale (come di sopra
vi dissi) debbono essere tutte le cose, che essere vi
possono, e niuna ve n'è né sì rea, né sì sozza, che rispetto
alla perfezione dell'universo non vi sia necessaria, e
non abbia parte così di bontà, come di bellezza. E perché
credete voi che tutti gli uomini, e similmente tutti
gl'individui di tutte le spezie degli animali abbiano i volti
varj e differenziati l'uno dall'altro, se non perché hanno
varj differenziati gli animi? In guisa che mai non fu, e
mai non sarà, ancorché durasse il mondo eterno, un viso
il quale non sia da qualunque altro in alcuna cosa differente,
e dissomigliante; come si trovano di coloro i quali
prendono maggior diletto del suono d'una cornamusa,
o d'uno sveglione, che di quello d'un liuto, o d'un gravicembolo,
così non mancano di quelli i quali pigliano
maggior piacere di leggere Apuleio, o altri simili autori,
che Cicerone, e tengono più bello stile quel del Ceo, o del
Serafino, che quello del Petrarca, o di Dante. Non raccontano
le storie che Gajo Caligula Imperadore non gli
piacendo quello stile, ebbe in animo di voler fare ardere
pubblicamente tutti i poemi d'Omero e che egli, non
gli piacendo il lor dire, fece levare di tutte le librerie tutte
l'opere di Vergilio, e di Tito Livio? Non raccontano
ancora che Adriano pur lmperadore preponeva, e voleva
che altri preponesse Marco Catone a Marco Tullio, e
Celio a Salustio? Non mancarono mai, né mancano, né
mancheranno cotali mostri nell'universo. C. A questo modo (per tornare al ragionamento nostro)
l'ignoranza sola è cagione della varia diversità de'
giudizj umani. V. Sola no, ma principale, perciocché oltra l'ignoranza,
le passioni possono molto nell'una parte, e nell'altra, cioè
così nel lodare quelle cose che meritano biasimo, come
nel biasimare quelle che meritano loda. Coloro che amano,
non solamente scusano i vizj nelle cose amate, ma gli
chiamano virtù; similmente coloro che odiano, non solo
giudicano le virtù essere minori di quello che sono nelle
cose odiate, ma le reputano vizj, chiamando verbi grazia
uno che sia liberale, prodigo, o scialaquatore, e uno
benparlante, gracchia, o cicalone. C. Ond'è che quasi tutti gli uomini s'ingannano più
spesso, e maggiormente in giudicando se stessi, che gli
altri, e le lor cose proprie che l'altrui? V. Levate pure quel quasi, e rispondete: perché tutti
amano più se stessi che altri, e più le loro cose proprie
che l'altrui; e perché i figliuoli sono la più cara cosa
che abbiano gli uomini, e i componimenti sono i figliuoli
de'componitori, quinci avviene che ciascuno, e massimamente
coloro che sono più boriosi degli altri, ne' loro componimenti s'ingannano, come dicono che alle bertucce
paiono i loro bertuccini la più bella, e vezzosa cosa
che sia, anzi che possa essere, in tutto 'l mondo. C. Intendo: ma sonoci altre cagioni della diversità de'
giudizj? V. Sonci. Quanti credete voi che si trovino i quali non
dicono le cose come le intendono, parte perché non vogliono
dispiacere, parte perché vogliono piacer troppo,
e parte ancora per non iscoprirsi, né lasciarsi intendere?
Quanti che dicono solamente, e affermano per vero quello
che egli hanno sentito dire, o vero, o falso che egli sia?
Quanti i quali, o seguitando la natura dell'uomo, la quale
è superba, e pare in non so che modo, che più sia inchinata
a riprendere che a lodare; o pure la lor propria,
per mostrare di sapere a quelli che non sanno, o sanno
manco di loro, danno giudizio temerariamente sopra
ogni cosa, e tutte le biasimano; e se pure le lodano, le lodano
cotale alla trista, e tanto a malincorpo, che meglio
saria che le biasimassero? Sono oltre ciò non pochi i quali
pigliandosi giuoco delle contese, e travagli altrui, parte
si stanno da canto a ridere, e parte uccellando (come si
dice) l'oste, e il lavoratore, danno, per mettergli al punto,
ora un colpo al cerchio, e ora uno alla botte; e quelli
che non possono all'asino, usano di dare al basto. Può
eziandio molto l'invidia, e non meno l'emulazione, senzaché
l'ambizione degli uomini è sempre molta, e molto
d'abbassar gli uomini disiderosa, dandosi a credere in
cotal modo, o d'innalzare se, o d'avere almeno nella sua
bassezza compagni per non dir nulla, che a coloro i quali
o sono veramente, o sono in alcuna cosa tenuti grandi,
pare alcuna volta di poter dire, senza tema di dovere
esser ripresi, tutto quello che vien loro non solo alla
mente, ma nella bocca. Or non s'è egli letto in Autore
letteratissimo in tutte le lingue, e di grandissima dottrina,
e giudizio nelle lettere umane, in un Dialogo contra
l'imitazione, intitolato Il Ciceconiano, oltra molte altre cose indegne d'un tanto uomo, esser anteposto Fra
Batista Mantovano a Messer Jacopo Sincero Sanazzaro,
e poco dipoi affermare che egli val più un inno solo di
Prudenzio che tutti e tre' libri della Cristeide, ovvero del
Parto della Vergine? C. E trovasi chi dica cotesto? V. Questo appunto che io v'ho detto. C. E trovasi chi gliele creda? V. Cotesto non so io. C. A me pare che egli vi sia quella differenza che è dal
Cielo alla Terra. V. E a me, quella che è dalla Terra al Cielo, e più, se
più si potesse. C. Io non mi maraviglio più, che alcuni tengano più
bella la Risposta del Castelvetro, che l'Apologia del Caro.
Ma ditemi, il vero non vince egli sempre alla fine, e si
rimane in sella? V. Io per me (come dissi di sopra) credo di sì. C. Ditemi ancora, è egli vero che il tempo, come tutte
l'altre cose, così muti ancora i giudizj degli uomini, e gli
faccia variare? V. Ben sapete; perché non pure un uomo medesimo
ha altro giudizio da vecchio, che egli non aveva da giovane;
il che però non è cagionato dal tempo: se non per accidente;
ma molti uomini d'una età hanno diverso giudizio
in quelle medesime cose che non avevano molti uomiui
d'un'altra età. C. Datemene un esempio. V. Dopo la morte di Cicerone, e di Vergilio, due chiarissimi
specchi della lingua Latina, cominciò il modo dello
scrivere Romanamente, così in versi, come in prosa, a
mutarsi, e variare da sé medesimo, e andò, tanto di mano
in mano peggiorando, che non era quasi più quel desso;
e nondimeno tutti gli Scrittori che venivano di mano
in mano, seguitavano la maniera dello scrivere del tempo
loro, come quelli i quali o la tenevano per migliore, ancorché vi fosse differenza maravigliosa, o, se pur la conoscevano,
come confessano alcuna volta, pareva loro o di
non poter fare altramente, o di non volere. Il medesimo
né più, né meno avvenne nella lingua Fiorentina; perché,
spenti Dante, il Petrarca, e'l Boccaccio, cominciò a variare,
e mutarsi il modo, e la guisa del favellare, e dello
scrivere Fiorentinamente, e tanto andò di male in peggio,
che quasi non si riconosceva più; come si può, vedere
ancora, da chi vuole, nelle composizioni dell' Unico
Aretino, di M. Antonio Tibaldeo da Ferrara, e d'alcuni
altri, le quali sebbene sono meno ree, e più comportevoli
di quelle di Panfilo Sasso, del Notturno, dell'Altissimo,
e di molti altri, non però hanno a far cosa del mondo né
colla dottrina di Dante, né colla leggiadria del Petrarca. C. Che segno avete voi che eglino si persuadessino che
lo stile nel quale essi così laidamente scrivevano, fosse o
più dotto di quel di Dante, o più leggiadro di quel del
Petrarca? E con quale argomento potrete voi provare
che gli altri il credessero loro? V. Se essi si fossono altramente persuasi, non avrebbero
gran fatto il corrotto, e guasto scrivere della loro,
ma il puro, e sincero dell'antica età seguitato: e gli altri
se non avessino loro creduto, e non si fossero maggiormente
di quel dire, che di quell'altro dilettati, non avrebbono,
lasciati dall'una delle parti gli Antichi; apprezzati,
letti, lodati, e cantati i componimenti moderni, come fecero.
A questo s'aggiugne che Giovanni Pico Conte della
Mirandola, uomo di singolarissimo ingegno, e dottrina,
in una lettera Latina la quale egli scrive al Magnifico Lorenzo
de' Medici vecchio, che comincia: Legi, Laurenti
Medices, rithmos tuos, non solo lo pareggia, ma lo prepone
indubitatamente così a Dante, come al Petrarca; Perché
al Petrarca (dic'egli) mancano le cose, cioè i concetti,
e a Dante le parole, cioè l'eloquenza; dove in Lorenzo
non si disiderano né l'une, né l'altre, cioè né le parole,
né le cose. Poi in rendendo le cagioni di questo suo giudizio, e sentenza, racconta molte cose le quali non sono
approvate nel Petrarca, e molte le quali sono riprovate in
Dante, delle quali niuna, dice, ritrovarsi in Lorenzo; e insomma
conchiude che nelle rime di Lorenzo sono tutte
le virtù che si trovano in quelle di Dante, e del Petrarca;
ma non già nessuno de' vizj. Le quali cose egli mai affermate
così precisamente non arebbe, se i giudizj di quel
secolo fossero stati sani, e gli orecchi non corrotti. C. Il fatto sta, se egli scriveva coteste cose non perché
gli paressero così; ma per voler piaggiare, e rendersi
amico Lorenzo, il credito, e la potenza del quale erano
in quel tempo grandissimi. V. Troppo sarebbe stata aperta, e manifestamente ridicola
cotale adulazione, se dagli uomini di quella età, la
buona, e vera maniera dello scrivere conosciuta si fosse.
E il Magnifico, il quale non era meno prudente, che egli
si fosse potente, n'arebbe preso o sdegno, o giuoco, e se
non egli, gli altri. Né sarebbe mancata materia al Pico
di potere veramente commendare Lorenzo, senza biasimare
non veramente il Petrarca, e Dante; perché nel vero
egli con M. Agnolo Poliziano, e Girolamo Benivieni
furono i primi i quali cominciassero nel comporre a ritirarsi,
e discostarsi dal volgo, e, se non imitare a volere,
o parere di volere imitare il Petrarca, e Dante, lasciando
in parte quella maniera del tutto vile, e plebea la quale
assai chiaramente si riconosce ancora eziandio nel Morgante
Maggiore di Luigi Pulci, e nel Ciriffo Calvaneo di
Luca suo fratello, il quale nondimeno fu tenuto alquanto
più considerato, e meno ardito di lui. C. Io ho sentito molti i quali lodano il Morgante di
Luigi maravigliosamente, e alcuni che non dubitano di
metterlo innanzi al Furioso dell'Ariosto. V. Non v'ho io detto ch'ognuno ha il suo giudizio? A
me pare che il Morgante se si paragona con Buovo, col
Danese, colla Spagna, coll'Ancroja, e con altre così fatte,
non so se debba dire composizioni, o maladizioni, sia qualche cosa; ma agguagliato al Furioso rimanga poco
meno che nulla, sebbene vi sono per entro alcune sentenze
non del tutto indegne, e molti proverbj, e riboboli
Fiorentini assai proprj, e non affatto spiacevoli. C. Credete che queste oppenioni così stratte abbiano
secondo la sentenza di Platone a ritornare le medesime
in capo di trentasei mila anni? V. Non so, so bene che Aristotile afferma che tutte
l'oppenioni degli uomini sono state per lo passato infinite
volte, e infinite volte saranno nell'avvenire. C. Dunque verrà tempo che il Morgante sarà un'altra
volta tenuto da alcuni più lodevole che 'l Furioso? E la
Risposta di Messer Lodovico Castelvetri più lodata che
l'Apologia di Messer Annibal Caro? V. Verrebbe senza fallo, non dico una volta, ma infinite,
se quello vero fosse che dice il' Maestro de' Filosofi,
cioè, se il mondo fosse eterno, e, come non ebbe
principio mai, così mai non dovesse aver fine. C. Io vi dirò il vero, coteste mi pajono prette eresie, e
per conseguente falsità. V. Elle vi possono ben parere, poiché elle sono. C. Perché dunque le raccontate? V. Perché, se io non v'ho detto, io ho voluto dirvi che
io favellava in quel caso secondo i Filosofi, e massimamente
i Peripatetici. C. E perché non secondo i Teologi? V. Perché le sentenze de' Teologi essendo verità, non
che vere, s'hanno a credere, e non a disputare, e, se
pur s'hanno a disputare, s'hanno a disputare da quelle
persone solamente alle quali da' loro superiori è suto che
ciò fare debbiano, commesso, e ordinato. C. Se quei tre che voi avete raccontati di sopra, tra'
quali il Poliziano, come mostrano le sue dottissime Stanze,
benché imperfette, fu più eccellente, vollero piuttosto
imitare il Petrarca, che eglino l'imitassero; chi fu il
primo, il quale osservando le regole della grammatica, e mettendo in opera gli ammaestramenti del bene, e artifiziosamente
scrivere, l'imitò da dovero, e rassomigliandosi
a lui mostrò la piana, e diritta via del leggiadramente,
e lodevolmente comporre nella lingua Fiorentina? V. Il Reverendissimo Monsignor Messer Pietro Bembo
Veneziano, uomo nelle Greche lettere, e nelle Latine,
e in tutte le virtù che a gentiluomo s'appartengono,
dottissimo, ed esercitato molto, e insomma, benché da
tutti gli uomini, o dotti sommissimamente, non però mai
bastevolmente lodato. C. Egli mi pare strana cosa che un forestiero, quantunque
dotto, e virtuoso, abbia a dar le regole, e insegnare
il modo del bene scrivere, e leggiadramente comporre
nella lingua altrui: e ho sentito dire a qualcuno che egli
ne fu da non so quanti de' vostri Fiorentini agramente, e
come presuntuoso, e come arrogante, ripreso. V. Ella non è forse così strana, quanto ella vi pare e
coloro che così aspramente, e falsamente lo ripresero,
fecero così, perché così credevano per avventura che a
fare s'avesse; e la regola di Aristotile è, che egli non si
debba por mente a quello che ciascuno dice, potendo
ognuno dire ogni cosa. Ma perche chiamate voi il Bembo
forestiero, se egli fu da Venezia, e Vinegia è in Italia?
e' pare che voi non sappiate che quasi tutti coloro i
quali scrivono o nella lingua, o della lingua volgare, la
chiamano Italiana, o Italica; dove quelli che la dicono
Toscana, sono pochi, e quelli che Fiorentina, pochissimi. C. Io so cotesto; ma io so anche che voi quando eravate
in Bologna col Reverendissimo Vicelegato Monsignor
Lenzi Vescovo di Fermo, mi diceste una volta, andando
noi a vicitare i Frati in San Michele in Bosco su
per quell'erta, e un'altra me lo raffermaste spasseggiando
sotto la volta della Vergine Maria del Baracane, che
come chi voleva chiamar me pel mio proprio, e dritto nome,
mi doveva chiamare Cesare Ercolani, e non uomo, o
animale; così chi voleva nominare propriamente, e dirittamente la lingua colla quale oggi si ragiona, e scrive volgarmente,
l'appellasse Fiorentina, e non Toscana, o Italica:
la qual cosa mi dié molte volte che pensare, mentre
io leggeva la risposta del Castelvetro; perché, oltra che
egli dice nella seconda faccia della quarta carta, che la
lingua Toscana è la volgare scelta, e ricevuta per le scritture,
egli la chiama molte fiate Italica, e M. Annibale poeta
Italiano, e spesso ancora usa dire nella lingua nostra; il
che vorrebbe significare, se egli Italiana non la credesse,
Modanese, essendo egli da Modana. Ora, io non sapeva,
né so ancora, se la Toscana è la lingua scelta, e ricevuta
per le scritture, perché egli scrivendo la chiami ora
nostra, e ora Italica; e se dicesse che vuol porre alle sue
scritture nome a suo modo, oltraché ciò per avventura
lecito non gli sarebbe, egli doveva chiamare Messer Annibale
poeta, se non Fiorentino, non facendo egli menzione
alcuna in luogo nessuno, che la lingua sia Fiorentina;
almeno Toscano: perché di grazia vi prego che non vi
paja fatica, dichiarandomi come questa benedetta lingua
battezzare, e chiamare si debbia, sciormi questo nodo, il
quale mi pare avviluppatissimo, e stretto molto. V. La strettezza, e avviluppamento di questo nodo, il
quale per sua natura è piuttosto cappio, che nodo, nacquero
da due cagioni principalmente, l'una delle quali è
la poca cura che tennero sempre i Fiorentini della loro
lingua propria; l'altra il molto studio che hanno posto alcuni
Toscani, e Italiani per farla loro. Ma sappiate, Conte
mio caro, che a volere che voi bene, e perfettamente la
risoluzione intendeste di questo dubbio, sarebbe di necessità
che io vi dichiarassi prima molte, e diverse cose
intorno alle lingue; le quali dubito, che a un bisogno non
vi paressero o poco degne, e profittevoli, o troppo sazievoli,
e lunghe, sicché io penso che per questa volta sarà
il meglio che ce la passiamo. C. Voi m'avete toccato appunto dove mi doleva, conciossiacosaché
io da che fui con quella lieta, e onorata compagnia alla Pieve di San Gavino concedutavi dal
Duca vostro, e vi sentii un giorno fra gli altri ragionare
sotto l'ombra di quel frascato che copriva la fonte, parte
dalla natura, e parte manualmente fatto, della bellezza,
e onestà della lingua la quale voi dicevate essere Fiorentina,
ma la chiamavate, non mi ricordo, e non so per
qual cagione, Toscana, e alcuna volta Italica, arsi d'un
disiderio incredibile d'appararla. Ma come coloro i quali
s'imbarcano senza biscotto, o si trovano in alto mare
senza bussola, non possono gran fatto o non morirsi di
fame, o non lungamente andare aggirandosi per perduti;
così io, essendo in questo cammino senza quelle cose
entrato che a ben fornirlo sono necessarie, e non avendo
chi la via m'insegnasse, e mostrasse i cattivi passi, non
poteva in modo alcuno, non che felicemente, compirlo
perché quanto più procedeva innanzi, e m'affrettava di
doverne giugnere al fine, tanto mi trovava maggiormente
dalla buona, e diritta strada, non che dalla destinata,
e disiderata meta, lontano: né vi potrei narrare, quante
dubitazioni e circa il favellare, e circa lo scrivere mi nascevano,
non dico ogni giorno, ma a tutte l'ore. Laonde
se vi cale di me; come so che vi cale, e se volete fare gran
cortesia, come son certo che volete, o voi mi cavate di
questo laberinto voi, o voi mi porgete lo spago mediante
il quale possa uscirne da me. V. Che vorreste voi che io facessi, non sappiendo io
più di quello che mi sappia, e non potendo voi soprastare
quì, e soggiornare più che questa sera sola? C. Del primo lasciatene il pensiero a me: del secondo
m'incresce bene, ma mi basterebbe per oggi, che voi mi
dichiaraste quanto potete agevolmente, e minutamente
più, alcune dubitazioni, e quesiti che io vi proporrò di
mano in mano, pertinenti generalmente alla cognizione
delle lingue, e in ispezie della Fiorentina, e della Toscana,
avendo in ciò fare non al disagio, e fatica vostra, ma al
bisogno, e utilità mia, risguardo. V. Così potess'io soddisfarvi quanto vorrei, come vi
compiacerò come debbo, e quanto saprò, tanto più che
non solo il Magnifico Messer Lelio Torelli, ed il molto
Reverendo Priore delli Innocenti Don Vincenzio Borghini,
uomini di buontà, e dottrina piuttosto singolare
che rara, mi hanno, che io ciò fare debbia, caldissimamente
molte volte richiesto, e pregato; ma eziandio
l'Eccellentissimo Maestro Francesco Catani, col quale
sono con molti, e strettissimi nodi indissolubilmente legato.
Dimandatemi dunque di tutte quelle cose che volete,
che io vi risponderò tutto quello che ne saprò, senza
farvi più solenne scusa, o protestazione del sapere, e
voler mio, se non che io, già sono molti anni, ho ad ogni
altra cosa vacato, che alle lingue; e che tutte quelle cose
che io dirò, saranno, se non vere, certo da me vere tenute,
e dette solamente, affinché voi, e gli altri (se ad altri
voi, o M. LELIO Bonsi, le direte mai) sappiano quale è
l'oppenione mia, e possano coll'altre comparandola, che
moltissime, e diversissime sono, quella eleggere la quale,
se non più vera, almeno più verisimile parrà loro che sia,
non aspettando io di ciò, non che maggiore, altra lode alcuna,
d'avere lealmente, e con sincerità proceduto, e rimettendomi
liberamente al giudizio, e determinazione di
tutti coloro i quali sanno di queste cose, e più dentro vi
sono esercitati di me. Perché, potete cominciare a posta
vostra. C. Per non perdere tempo, né usare, cerimonie in ringraziarvi,
vi propongo primieramente queste sei dubitazioni:
1. Che cosa sia favellare.
2. Se il favellare è solamente dell'uomo.
3. Se il favellare è naturale all'uomo.
4. Se la Natura poteva fare che tutti gli uomini in tutti
i luoghi, e in tutti i tempi favellassino d'un linguaggio
solo, e colle medesime parole.
5. Se ciascuno uomo nasce con una sua propria, e
naturale favella.
6. Quale fu il primo linguaggio che si favellò, e
quando, e dove, e da chi, e perché fosse dato. V. Il parlare, ovvero favellare umano esteriore non è
ALTRO CHE MANIFESTARE AD ALCUNO I CONCETTI
DELL' ANIMO MEDIANTE LE PAROLE. C. Sebbene egli mi pare avere inteso tutta questa diffinizione
del parlare assai ragionevolmente, nondimeno io
avrò caro che voi per mia maggior certezza la mi dichiariate
distesamente parola per parola. V. Della buona voglia. Io ho detto PARLARE OVVERO
FAVELLARE, perché questi due verbi sono (come dicono
i Latini con Greca voce) sinonimi, cioè significano
una cosa medesima, come ire, e andare, e molti altri
somiglianti: ho detto UMANO, a differenza del Divino,
conciossiacosaché gli Angeli (secondo i Teologi) favellino
anch'essi non solamente tra loro, ma ancora a Dio,
benché diversamente da noi; e il medesimo si deve intendere
degli avversarj loro, e nostri: ho detto ESTERIORE,
ovvero ESTRINSECO, a differenza dello interiore, ovvero
intrinseco, cioè interno, perché molte volte gli uomini
favellavano tra loro stessi, e seco medesimi, come si vede
in Messer Francesco Petrarca, che disse:
Io dicea fra 'l mio cor, perché paventi?
e altrove nella Canzone grande:
E dicea meco, se costei mi spetra,
e più chiaramente in tutto quel Sonetto, che comincia:
Che fai alma? che pensi? e C.
Ho detto MANIFESTARE, cioè sprimere, e dichiarare,
il qual verbo è il genere del favellare in questa diffinizione. Ho detto AD ALCUNO, perché non solo favellavano
gli uomini tra se medesimi, come pure testé vi diceva, ma
eziandio in sogno, e talvolta o a' monti o alle selve, come
quando Vergilio dice di Coridone nella seconda Egloga.
. . . . . . ibi haeligc incondita solus
Montibus, et sylvis studio jactabat inani:
o al vento, onde il Petrarca disse:
Dopo tante, che 'l vento ode, e disperde.
o a chi non può, o non vuote udire, come quando il
medesimo Petrarca disse:
Poi (lasso) a tal che non m'ascolta, narro
Tutte le mie fatiche ad una ad una,
E col Mondo, e con mia cieca Fortuna,
Con Amor, con Madonna, e meco garro.
Ho detto I CONCETTI DELL'ANIMO, perché il fine di
chi favella è principalmente mostrare di fuori quello che
egli ha racchiuso dentro nell'animo, ovvero mente; cioè
nella fantasia, perché nella virtù fantastica si riserbano le
immagini, ovvero similitudini delle cose, le quali i Filosofi
chiamano ora Spezie, ora Intenzioni, ed altramente;
e noi le diciamo propriamente Concetti, e talvolta Pensieri,
ovvero Intendimenti, e bene spesso con altri nomi.
Ho detto MEDIANTE LE PAROLE, perché ancora con atti,
con cenni, e con gesti si possono, come per istrumenti,
significare le cose; come si vede chiaramente ne' mutoli
tutto 'l giorno; e meglio si vedeva anticamente in coloro
i quali, senza mai favellere recitavano le commedie,
e le tragedie intere intere, solamente co' gesti, la qual cosa
i Latini chiamavano saltare. E chi non sa che chinando
alcuno la testa a chi alcuna cosa gli domanda, egli con tale
atto acconsente, e dice di sì, onde i Latini fecero il verbo Annuere; e chi dimena il capo, e per lo contrario, dice
di no, onde i medesimi Latini formarono il verbo Abnuere?
Onde nacque che, vendendosi un giorno in Roma
allo 'ncanto alcune robe del fisco, Cajo Imperadore
(sebben mi ricorda) veggendo uno il quale vinto dal sonno
inchinava il capo (come si fa spessamente), comandò
a colui che incantava che crescesse il prezzo fuori d'ogni
dovere, e volle (secondoché racconta Suetonio) che colui
(quasi avesse detto di sì col chinar la testa) pagasse quel
cotal pregio. C. Cotesto fu atto da Cajo, e non d'Imperadore. Ma
ditemi, perché aggiugneste voi, quando favellavate degli
Agnoli, quelle parole, secondo i Teologi? V. Perché i Filosofi non vogliono che all'Intelligenze
(che così chiamano essi gli Agnoli) faccia di mestieri il favellare
in modo alcuno, intendendonsi tra loro immediatamente,
e (come noi diciamo) in ispirito. C. Egli mi pare avere inteso che nelle diffinizioni non
si debbono porre nomi sinonimi, perché dunque diceste
voi PARLARE, ovvero FAVELLARE? V. Egli è vero che nelle diffinizioni, parlando generalmente,
non si deono mettere né nomi sinonimi, né metafore,
ovvero, traslazioni; ma quando il porvi o queste, o
quelli giova ad alcuna cosa, come, essempigrazia, a rendere
la materia della quale si tratta, più agevole, non solo
non è vizio il ciò fare, ma virtù, come si vede che fece
Aristotile stesso contra le sue regole medesime; e devete
sapere che alcuni vogliono che tra parlare, e favellare sia
qualche differenza: non solamente quanto all'etimologia,
ovvero origine, dicendo che favellare viene da fabulari,
verbo Latino; il che noi crediamo: e parlare, da _____
_____, verbo Greco; il che non crediamo, avendolo i
Toscani, per nostro giudizio, preso, come molte altre voci,
dalla lingua Provenzale; ma ancora in quanto al significato;
la qual cosa a me non pare, usandosi così nello scrivere, come nel favellare, quello per questo, e questo
per quello. C. Non ha la lingua Toscana più verbi che questi
due per isprimere così nobile, e necessaria operazione,
quanto è il parlare, o il favellare? V. Hanne certamente. C. Di grazia raccontatemegli. V. Eglino sono tanti, e tanto varj, che il raccontargli,
e dichiararvegli, perché altramente non gli intendereste,
sarebbe cosa, non dico lunga, e massimamente essendo
noi quì per ragionare tutto quanto oggi, ma che ci travierebbe
per avventura troppo dall'incominciato cammino;
ben vi prometto che se mi verrà in taglio il ciò fare, e
se ne arò destro, e, se non prima, spedite che saranno le
quistioni proposte da voi, non mancherò, per quanto per
me si potrà, di contentarvi; ma ricordatemi la quistione
che seguita. C. Se il favellare, ovvero parlare è solamente dell'uomo. V. Solo l'uomo, e niuno altro animale propriamente,
favella. C. Perché? V. Perché solo l'uomo ha bisogno di favellare. C. La cagione? V. La cagione è perché l'uomo è animale più di tutti
gli altri sociabile, ovvero compagnevole, cioè nasce non
solamente disideroso, ma eziandio bisognoso, della compagnia,
non potendo, né dovendo vivere per li boschi solo,
e da sé, ma nelle Città insieme con gli altri: se già non
fosse o grandissimamente perfetto, il che si ritrova in pochi;
o del tutto bestia. C. Dunque il parlare fa che l'uomo è animale civile,
ovvero cittadino? V. No, anzi il contrario; l'essere l'uomo animai civile,
o cittadino da natura fa che egli ha il parlare. C. A cotesto modo le pecchie, che hanno i loro Re, e le
formiche, che vivono a repubblica, e molti altri animali, i quali, se non sono civili (perché questa parola non credo
che caggia se non tra glia uomini) sono almeno sociabili,
e gregali (per dir così), hanno bisogno del favellare, come
si vede in alcuna sorte d'uccelli che volano in frotta, e
nelle pecore, e negli altri animali che vanno a schiera? V. Ancora a cotesti non mancò la natura, perciocché
invece del parlare diede loro la voce la quale, siccome è
spezie del suono, così è il genere del favellare, mediante
la qual voce possono mostrare e a se stessi, e agli altri
quello che piace, e quello che dispiace loro, cioè la letizia,
e il dolore, e tutte l'altre passioni, ovvero perturbazioni
che nascono da questi due. C. E credete che possano gli animali mediante la voce
significare i concetti loro l'uno all'altro, o a noi uomini? V. I concetti no, ma gli affetti dell'animo; cioè le
perturbazioni sì. C. Dante disse pure:
Così per entro loro schiera bruna
S'ammusa l'una coll'altra formica
Forse a spiar lor via, e lor fortuna. V. Dante favellò come buon poeta, e di più v'aggiunse,
come ottimo filosofo, quella particella forse, la quale è
avverbio di dubitazione. C. Ditemi un poco, gli stornelli, i tordi, le putte, ovvero
gazze, e le ghiandaje, e gli altri uccelli i quali hanno la
lingua alquanto più larga degli altri, non favellano? V. Signor no. C. Lattanzio fimiano scrive pure nel principio del
decimo capitolo della falsa sapienza, che gli animali non
solamente favellano, ma ridono ancora. V. Egli non dice (sebben mi rammento) che gli animali,
né favellino, né ridano, ma che pare che ridano, e
favellino. C. Io mi ricordo pure che Macrobio nel secondo libro
de' Saturnali, racconta come un certo sarto, quando Cesare avendo vinto Antonio se ne ritornava come trionfante
a Roma, gli si fece innanzi con un corvo il quale, disse,
come era stato ammaestrato da lui: Ave, Caeligsar victor
Imperator; delle quali parole maravigliandosi Cesare, lo
comperò un gran danajo; per la qual cosa un compagno
di quel sarto, avendogli, invidia, disse a Cesare: Egli n'ha
un altro, fate che egli ve lo porti; fu portato il corvo, e
non prima giunto alla presenza d'Augusto, disse (secondoché
gli era stato insegnato) Ave, Antoni victor Imperator.
La qual cosa non ebbe Cesare a male, né volle che
a quel sarto il quale per giucare al sicuro aveva tenuto
il pié in due staffe, si desse altro gastigo, che fargli dividere
per metà col suo compagno quel prezzo che Cesare
pagato gli avea. Soggiugne ancora che un altro buon
uomiciatto, mosso da cotale esempio, cominciò ad insegnare
la medesima salutazione ad un suo corvo; ma perché
egli non l'imparava, lamentandosi d'aver gettato via
il tempo, e i danari, diceva: Opera, et impensa periit. Finalmente
avendo imparato, salutò Cesare che passava, e
avendo Cesare risposto: Io ho in casa di cotali salutatori
pure assai; il corvo, sovvenutogli di quello che soleva
dire il suo padrone, soggiunse. Opera, et impensa periit;
per le quali parole Cesare cominciò a ridere, e lo fece
comperare molto più che non aveva fatto gli altri. Se
queste sono storie, e non favole, si può dire che anche
degli animali favellino. V. Qual volete voi maggiore, o più bella, che quel pappagallo
che al tempo de' padri nostri comperò il Cardinale
Ascanio in Roma cento fiorini d'oro, il quale, secondoché
racconta Messer Lodovico Celio, uomo di molta, e
varia letteratura, nel terzo capitolo delle sue Antiche Lezioni,
pronunziava tutto quanto il Credo non altramenteché
arebbe fatto un uomo ben letterato? e contuttociò,
questo non si chiama, né è favellare, ma contraffare,
e rappresentare le parole altrui senza, non che sprimere
i proprj concetti, sapere quello che dicano; onde a coloro che favellano senza intendersi, e in quel modo (come
volgarmente si dice) che fanno gli spiritati, cioè per
bocca d'altri, s'usa in Firenze di dire: Tu favelli come i
pappagalli; come quello che dicono degli elefanti, non si
chiama scrivere propriamente, ma formare, e dipignere
le lettere. C. Gli auguri antichi, e Apollonio Tianeo non intendevano
le voci degli uccelli? V. Credo di sì, perché tutti quelli chesordi non sono,
le intendono: ma le significazioni delle voci, credo di no,
se non in quel modo che s'è detto sopra. C. Che direte voi delle statue d'Egitto, le quali (secondoché
alcuni autori affermano) favellavano? V. Non dirò altro, se non che io nol credo. C. Pur ve ne racconterò una che voi crederete, e non
potrete negarla. V. Quale? C. L'Asina di Balaam. V. Cotesto avvenne miracolosamente, e noi favelliamo
secondo l'ordine, e possanza della natura. C. State saldo, che io vi corrò a ogni modo, e vi farò
confessare che non alcune, ma tutte le bestie favellano,
quandoché sia. (segue parte seconda)
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