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Discorso sull'indole di: Pietro
Verri |
I. -
Introduzione La sensibilità
dell'uomo, il grande arcano, al quale è stata ridotta come a generale principio ogni
azione della fisica sopra di noi, si divide e scompone in due elementi, e sono amor del
piacere e fuga del dolore: tale almeno è la comune opinione degli uomini pensatori e
maestri. Ognuno conosce e sente quanta influenza abbiano il piacere e il dolore nel
determinare le azioni umane; la speranza, il desiderio, il bisogno del primo; il timore,
lo spavento, l'orrore del secondo, dànno il moto a tutte le nostre passioni. Tutti gli
amatori delle belle arti sanno che il loro scopo parimente è il piacere col quale
allettano altrui a ben accogliere e l'utile e il vero. I tentativi adunque destinati a
conoscerne l'indole, a illuminare questi primordiali oggetti, sono meritevoli di qualche
attenzione. Se fra le tenebre, ove sta riposta la parte preziosa dell'uomo, che si cela
all'uomo medesimo, ci fosse possibile carpire una nozione esatta del piacere e del dolore,
una precisa definizione che ce ne palesasse la vera essenza, si sarebbe fatto un passo
importantissimo, e sarebbesi acquistata una generalissima e utilissima teoria applicabile
alla liberale eloquenza, alla seduttrice poesia, alle bell'arti tutte e all'uso comune
della vita medesima, perché ci darebbe la norma e ci additerebbe i mezzi onde potere
colle attrattive di lui rendere le azioni degli uomini cospiranti alla nostra felicità. Fra i molti filosofi,
che della natura del piacere hanno scritto dopo l'epoca della ristorazione delle lettere,
si distinguono singolarmente le opinioni di Descartes, del Wolf, e del signor Sulzer. Il
primo fa consistere il piacere nella coscienza di qualche nostra perfezione: il secondo
nel sentimento della perfezione: il terzo nell'avidità dell'anima per la produzione delle
sue idee. Sia però detto con la venerazione dovuta al merito di questi autori, queste
definizioni mancano e di chiarezza e di precisione. Il piacere di spegnere la sete, il
piacere di riposarsi dopo la stanchezza e una infinita schiera di piaceri singolarmente
fisici, né ci fanno sentire una perfezione qualunque, meno poi hanno relazione veruna
coll'avidità dell'anima per produrre le sue idee. Da ciò chiaramente si vede non essersi
in tal modo definito il piacere. Ma ne' tempi a noi piú vicini sopra di ogni altro ha
acquistata fama il signor di Maupertuis. Ci propose egli una definizione del piacere.
L'organizzazione geometrica ch'egli dié alla sua tesi, sommamente preparò gli animi alla
persuasione; e sebbene alcuni gli abbiano fatto contrasto, nondimeno prevalse la fama di
lui su quella degli oppositori. Egli cosí definí il piacere: Il piacere è una
sensazione che l'uomo vuol piuttosto avere che non avere. Questa però non è altrimenti
una definizione, se ben vi si rifletta; sarebbe la stessa cosa il dire che il piacere è
quel che piace: asserzione egualmente evidente quanto superflua, essendo che da essa non
ci viene veruna idea generale di proprietà stabilmente inerente a ogni sensazione di
piacere. La simmetria artificiosa delle parole ha sedotti molti lettori, che di essa
contenti accettarono una parafrasi per una definizione. Ogni uomo ha un'idea
esatta del dolore e del piacere, ed ogni uomo è giudice competente di quelo che eccita in
lui la sensazione che gli è aggradevole o disgustosa; ma non cosí ogni uomo ha la
ostinata curiosità di scomporre gli elementi che formano le proprie sensazioni e
rintracciare quale sia la proprietà comune a tante e sí variate sensazioni che sono
piacevoli, e a tante e sí variate che sono dolorose. Questo è quello che penso io di
fare; e se per ventura potrò ritrovare questa proprietà, che sempre ha seco il piacere,
e senza di cui non si può questo sentire, dirò d'aver mostrata la definizione di esso, e
di averne spolpata l'idea, e ridotta alla nuda precisione. Questa ricerca per sé
medesima spinosa forse mi può condurre all'errore. Forse la immaginazione mi farà
traviare, lo temo io stesso; pure tentiamo. I vari tasti, sui quali debbo porre le dita,
forse desteranno qualche idea nuova ne' miei lettori; lampeggerà forse fra questo buio
qualche utile vista, sebbene ancor io non riesca al mio fine. Sono ben augurati sempre gli
scritti che fanno ripiegar l'uomo in sé medesimo, e l'obbligano a rendersi un esatto
conto di ciò che sente. L'esame attento dei fenomeni interni è lo specchio della
filosofia e della morale umana. Quanto piú l'uomo s'abitua a scorrere nei labirinti della
propria sensibilità, quanto piú si rende amico di sé medesimo, tanto migliora, perché
tanto piú teme le inconseguenze e i rimorsi. Quindi le ricerche che si fanno fra queste
tenebre, quand'anche non giungano alla verità, possono paragonarsi ai lavori degli
alchimisti, i quali traviando dallo scopo hanno però, strada facendo, ritrovati non solo
gli utili rimedi, ma altresí le preparazioni chimiche piú fortunate. II. - Dei piaceri e dei
dolori fisici e morali Tutte le nostre
sensazioni si dividono i due classi, e le chiamerò sensazioni fisiche e sensazioni
morali. Chiamo sensazione fisica quella, l'origine di cui si vede cagionata da una
immediata azione sulla nostra macchina. Chiamo sensazione morale ogni altra, in cui questa
immediata azione non si conosca. Il dolore che nasce da
una lacerazione o irritazione violenta del corpo nostro si chiama un dolor fisico; una
forte percossa, un taglio, un abbruciamento cagionano un dolore fisico. Quando per lo
contrario si calma la irritazione, nascono i piaceri fisici; cosí, dopo un disastroso
viaggio d'inverno un letto tepido e molle, dopo una sobria ed affannosa caccia una mensa
delicata, sono piaceri fisici: dolori e piaceri cagionati da un'immediata azione sulla
nostra macchina. L'annunzio della morte
d'una persona che ci è cara, l'annunzio della rovina della fortuna nostra e de' beni
nostri ci tormentano dolorissimamente. Qual è la cagione di questo dolore? Noi non ne
vediamo l'azione immediata sugli organi nostri, perciò si ripongono nella classe de'
dolori morali. Medesimamente la notizia d'una inaspettata eredità, d'una carica luminosa,
d'una amicizia acquistata e desiderata da noi, ci risveglia un piacere vivissimo, senza
che compaia alcun oggetto applicato agli organi della nostra sensibilità; quindi vengono
chiamati piaceri morali. Ai piaceri e dolori
fisici ogni uomo anche rozzo e selvaggio è sensibile; ai piaceri e dolori morali tanto
piú l'uomo è sensibile, quanto è piú dirozzato dall'educazione, cioé quanto è
maggiore la folla delle idee che ha aggiunte alla propria esistenza. Noi osserviamo anche
nelle intere nazioni della diversità su tal proposito; i popoli piú inciviliti sono piú
sensibili alla gloria e al disprezzo; i popoli ancora piú rozzi lo sono alle percosse e
alla mercede. I piaceri e i dolori morali sono tanto maggiori, quanto maggiore è il
numero dei bisogni e delle relazioni che un uomo sente d'avere cogli altri. Per conoscere questa
verità esamino attentamente me stesso. Se nel momento in cui mi si annunzia la morte di
un mio dolcissimo amico, io potessi essere certo che dopo brevi istanti la di lui memoria
non esisterà piú nel mio animo, né piú mi risovverrò di averlo conosciuto; se avessi,
dico, questa certezza, il mio dolore sarebbe semplicemente la compassione del male altrui;
sentimento il quale preso isolato fors'anco non consiste che nel fremito di alcune parti
unisone della nostra sensibilità. Quel che cagiona la desolazione e lo squallore ov'io
piombo, si è che in quel momento prevedo quante volte avrò davanti agli occhi l'immagine
della perdita fatta; sento in quel momento la trista solitudine che mi si apre davanti, e
il paragone che ne farò col bene avuto: nelle mie afflizioni non avrò piú un fedele
compagno, a cui senza timore manifestarmi, e riceverne consiglio e assistenza; negli
avvenimenti felici non vedrò piú quella gioia dell'amicizia che moltiplica la felicità,
comunicandola. Dove trovare chi s'interessi meco ne' deliri della mia immaginazione, e che
per uniformità di genio avendo meco comune la curiosità di scoprire il vero mi
accompagni? Dove troverò piú un essere tanto grato, tanto sensibile, che mi consolava ad
ogni atto di amicizia che io usassi seco, dolce di carattere, robustissimo nella onestà,
attivo, discreto, nobile? Cosí mi vado col pensiero spignendo sulla serie delle dolorose
sensazioni che mi aspettano, e su quel primo momento contemporaneamente pesando tutti i
momenti del dolor preveduto, resto immerso nella piú crudele amarezza. Questo dolor
morale nasce dalla riunione de' fantasmi che occupano la mia mente, onde la parte piú
nobile di me stesso appoggiando sul passato, e sull'avvenire piú che sul momento attuale,
e paragonando i due modi di esistere, tutta inviluppata nel timore dei mali preveduti
s'immerge in un dolore morale. Mi ripongo in una
opposta situazione. Mi figuro che mi venga l'annunzio d'una luminosa carica ottenuta. Se
io potessi dimenticarmi del passato, se io non mi slanciassi nell'avvenire, la novella
recatami riuscirebbe insipida, e il mio animo non sentirebbe niuna sensazione piacevole.
Ma si affacciano alla mia mente le ingiustizie, l'orgoglio, la fredda indifferenza, che
hanno mostrato per me alcuni uomini insolenti per la loro carica sin tanto che restai
disarmato e senza potere, mi spingo nell'avvenire, e li prevedo cambiati; mi trovava
nell'impossibilità di acquistarmi l'opinione pubblica, eccomi il campo aperto per
guadagnarmela; ho in faccia degli amici che potrò coi benefici rendere agiati, e sempre
piú ben affetti; gli emuli, o riconciliati o ridotti all'impotenza di nuocere; tutto
questo ridente spettacolo mi si spalanca allo sguardo; tutte le sensazioni, alle quali
vado incontro, già in parte mormorano nel mio interno; il giubilo, la consolazione
invadono tutta la mia sensibilità; sono immerso in un voluttuosissimo piacer morale,
perché, poco o nulla pesando sul momento presente, tutto mi appoggio sul passato e
sull'avvenire. Questi due esempi
generalmente convengono a tutti i dolori morali, a tutti i piaceri morali. Essi non si
risentono se non inquel momento, in cui l'animo dimentico quasi del presente si risovviene
e prevede; e a misura che o teme, o spera, sente o dolore, o piacere. Se questo è vero,
ne scaturisce un teorema generalissimo. Tutte le sensazioni nostre piacevoli o dolorose,
dipendono da tre soli principî azione immediata sugli organi, speranza e timore. Il primo
principio cagiona tutte le sensazioni fisiche; gli altri due le sensazioni morali. Scelgasi un piacere
morale ancora piú nobile e puro; figuriamoci un geometra nel momento in cui per un
fortunato accozzamento di idee ha carpito lo scioglimento d'un problema arduissimo e
importantissimo. Qual sarebbe la gioia di quel geometra, se egli vivesse in un'isola
disabitata, icuro che nessun uomo potrà mai sapere la scoperta da lui fatta? A me pare
che poca, o nessuna consolazione ne proverebbe; o se qualche ombra ne risentisse, ciò
verrebbe perché da quella verità ne sperasse di cavarne o un uso pratico per viverne
piú agiatamente, ovvero maggiore attuazione a svilupparne in seguito una catena di altre
curiose verità, e guadagnare cosí una occupazione che lo sottragga alla inazione
insipida della sua vita solitaria. Il piacere adunque del matematico, quello che lo fa
nudo balzare dal bagno, e scorrere pieno di entusiasmo per la città, si è la speranza
de' piaceri che in avvenire aspetta e dalla stima degli uomini, e dai benefici che dovrà
riceverne. Perciò dico che tutti i piaceri morali, come tutti i dolori morali, altro non
sono che un impulso del nostro animo nell'avvenire: cioé timore e speranza. Un dolore morale dei
piú sublimi nella sfera degli umani, sarà quello che sente un cuor nobile e generoso,
qualora per disgrazia o acciecato da una violenta passione, ovvero per inavvertenza abbia
mancato di gratitudine a un virtuoso suo benefattore. Analizziamo i sentimenti dolorosi
che lo affliggono. Egli teme il disprezzo, o almeno la diminuzione di stima degli uomini,
e confusamente nell'avvenire scorrendo, se ne anticipa i mali; egli diffida di sé
medesimo, e sente la probabilità accresciuta di poter di nuovo in avvenire coprirsi di
simili macchie, e sempre piú veder diminuita l'opinione dei buoni; ei prevede che per
quanto sia generoso il suo benefattore, non potrà in avvenire stare in sua presenza cosí
tranquillo e sereno come vi stava in prima. Tutta questa nebbia gli offusca la serie delle
sensazioni che si vede avanti, e quand'anche sul momento non le analizzi a sé medesimo,
ma confusamente col solo vocabolo di rimorso annunzi il dolor che soffre, quest'è pure un
semplice timore delle sensazioni avvenire. Tutte le applicazioni
che ho fatte di questo principio, le quali se avessi a riferirle darebbero troppa
uniformità e tedio, ricadono costantemente al medesimo risultato, che tutti i piaceri e
dolori morali nascono dalla speranza e dal timore. Tutti i piaceri morali
che nascono dalla stessa umana virtú, altro non sono che uno spignimento dell'animo
nostro nell'avvenire, antivedendo le sensazioni piacevoli che aspettiamo. Abbiamo un
illustre cittadino in Italia, il quale essendo sovrano tranquillo della sua patria,
preferí la raffinata ambizione di vivere immortale nella gratitudine e memoria de' suoi,
alla volgare di comandare agli uomini nel corso della sua vita; rinunziò alla sovranità,
ristabilí la repubblica, si fece suddito delle leggi, subordinato ai giudici. Quale
azione piú grande, piú virtuosa, piú disinteressata! Silla l'aveva già fatta in prima,
ma Silla grondante di sangue romano, usurpatore violento d'un potere arbitrario, Silla, di
cui la tirannia fra gli sgherri e le stragi aveva immolate tante vittime, non poteva
sperare che venisse mai guardato come un atto di virtú il momento, in cui per lassitudine
terminava la orribile serie de' suoi delitti. L'immortale autore che lo fa parlare con
Eucrate, innalza quel feroce al livello della sua grand'anima; ma la storia di quegli
orrori non lascia luogo a immaginarselo somigliante al ritratto. Andrea Doria per
grandezza d'animo, per vera elevazione di genio, virtuoso, pieno di gloria, nel punto in
cui abdicando la sovranità diventò cittadino, e molto piú ne' momenti in cui prevedendo
quest'atto vi si andava disponendo, ha provato certamente i piaceri morali piú sereni ed
energici. Si slanciava egli nell'avvenire, e diceva a sé stesso: sulla faccia de' miei
concittadini leggerò scritta la riverenza e la gratitudine unita alla meraviglia;
attraverso del timido rispetto, che i sudditi presentano al sovrano, rare volte traspirano
i veri sentimenti del cuore; toglierò quest'ostacolo, e goderò dei sentimenti spontanei.
Non sarà certamente minore la mia influenza negli affari pubblici dopo una sí generosa
abdicazione, ed ogni adesione sarà per me cosí dolce, come se ogni volta mi
proclamassero sovrano. Regnando anche felicemente, potrebbe essere eclissata la mia gloria
da altri piú felici successori; ma osando render forti al par di me i cittadini, e
stabilendo una repubblica, rimarrà isolata la mia gloria, e s'innalzerà alla veduta ne'
secoli piú remoti. L'affetto, la spontanea sommessione, l'ammirazione, la fama, tutti i
beni che queste seco portano li sperava, e li vedeva di fronte quando si apparecchiava
all'atto generoso, e cosí la speranza era la sorgente di tutti quei piaceri morali. L'uomo fedele alle sue
promesse, grato ai benefici, attivo nel consolare e aiutare gli uomini, disinteressato,
nobile, guardingo a non nuocere sia coi fatti sia colle parole piú trascorrevoli, e
talvolta piú fatali, ogni volta che un nuovo atto rinfianca i suoi principî, prevede di
rendere sé stesso sempre piú forte coll'abitudine al bene, e di confermare e cementare
sempre piú la opinione pubblica, e singolarmente la stima degli uomini buoni. Quindi in
ogni atto virtuoso che fa, sente diminuito un grado alla possibilità di perdere questi
beni, e accresciuto un grado alla speranza delle sensazioni piacevoli che se gli
affacciano. Il piacere morale di lui sarà sempre piú forte, quanto piú diffiderà della
perseveranza, e quanto sarà piú incerto e timoroso sulla opinione altrui. O io m'inganno, oppure
questa teoria è costante, siccome ho detto, che tutti i piaceri egualmente come tutti i
dolori morali nascono dal timore e dalla speranza, in guisa tale che, se potesse darsi un
uomo incapace di temere o di sperare, questi non potrebbe avere che soli piaceri e dolori
fisici; come vediamo appunto accader ne' bambini, i quali sprovveduti d'idee, e altro non
avendo che gli organi disposti a ricevere le impressioni, tanto meno corredati di memoria,
quanto piú è vicino il momento in cui cominciarono ad essere, incapaci di grandi
paragoni o numerose combinazioni, non sentendo né speranza né timore, unicamente in
preda ai dolori e ai piaceri fisici, non cominciano a gustare i morali se non a misura che
gli anni e l'esperienza insegnano loro l'arte di sentire per antivedenza. Il senso morale
che si acquista se non allorquando, col séguito d'una lunga serie di sensazioni,
accumulatasi una folla di idee, giugne l'uomo a conoscere la successione di diversi modi
di esistere, onde si sviluppano nell'animo i due risultati speranza e timore. Sinché ciò
non si è fatto coll'opera del tempo, l'uomo altre sensazioni non potrà avere, come
dissi, se non le fisiche, le quali sono modi di esistere isolati, prodotti dalla
momentanea passività degli organi, bastante ad eccitare il movimento dell'animo. Infatti, se
attentamente esamineremo lo sviluppamento che per gradi fa l'animo di un fanciullo,
vedremo che la vergogna, la compassione, il pentimento, come l'ambizione, l'invidia,
l'avidità, l'entusiasmo, i germi insomma delle virtú e dei vizi, col lungo tratto di
tempo soltanto, e dopo aver fatto un grande ammasso d'idee, si vedono schiudere e
sviluppare. Di che il profondo Giovanni Locke trovò già una felice dimostrazione. III - Il piacere morale è
sempre preceduto da un dolore Dunque il piacer
morale nasce dalla speranza. Cos'è speranza? Ella è la probabilità di esistere meglio
di quello che ora esisto. Dunque speranza suppone mancanza sentita d'un bene. Dunque
suppone un male attuale, un difetto alla nostra felicità. Dunque non posso avere un
piacere morale se non supponendomi previamente un male; ché tale debb'essere un difetto,
una mancanza sentita alla mia felicità. Analizziamo
tranquillamente le sensazioni d'un sovrano. Esso pare agli occhi d'ognuno il centro de'
piaceri, e conseguentemente a chi ricerca di scoprir l'indole de' piaceri è un oggetto
particolarmente degno d'osservazione. Figuriamoci un monarca assoluto padrone d'un
vastissimo regno, temuto e rispettato dai vicini, glorioso presso le nazioni, amato,
venerato da' suoi sudditi. Sarebbe nella infelicità tristissima di non poter gustare
verun piacere morale, se potesse essere persuaso che l'amore, il rispetto, l'entusiasmo
del suo popolo non sono suscettibili d'un grado di piú, e se non temesse di perdere il
godimento di questi beni. Un monarca che fosse immortale, impassibile e sicuro possessore
di questi beni sarebbe il solo uomo sulla terra al quale nessun altro uomo potrebbe mai
portare verun fausto annunzio. La sola sorgente per lui dei piaceri morali, benché
languidi e scoloriti, sarebbe la sua noia medesima. Gli oggetti che gli facessero sperare
di sottrarsi da quella letargica uniformità, gli darebbero un momento di languidissimo
piacere. Cosí il romore d'una caccia, l'armonia, la pompa, le passioni, il ridicolo d'un
teatro, facendogli sperare una preda, e interessandolo nei sentimenti degli attori, e
appropriandosi le loro speranze, possono trarlo ad una esistenza meno noiosa. Egli
otterrà che per qualche ora in séguito la sua mente sia occupata d'idee meno uniformi;
quindi ne nascerà un qualche piacer morale. Ma a questo stato non può giunger mai un
monarca. Egli non può mai esser sicuro dei mali fisici, dolori, malattie, morte; nemmeno
può aver egli l'evidenza degl'intimi sentimenti di ciascun del suo popolo; quindi ha
sempre nel suo animo de' principi dolorosi di timore, i quali possono dar luogo al
nascimento della consolatrice speranza. Altra sorgente di piacere ha un buon monarca, ed
è quel ben augurato principio di umana benevolenza, deliziosa occupazione d'un ottimo
principe, che esercitando la piú invidiabile parte del suo potere, cioé adoperando i
mezzi onde si diminuisce la miseria di un gran numero d'uomini, con questa sublime
facoltà moltiplica le benedizioni e i voti del suo popolo, dilatando la pubblica
felicità, facendo regnare la giustizia, la fede, la virtú, l'abbondanza nel suo popolo.
Il bisogno che sente d'avere dei voti pubblici, bisogno inquieto e doloroso per sé
stesso, ma sorgente delle piú nobili azioni sconosciuta ai tiranni, il bisogno, dico, di
questi voti gli rende deliziose tutte le prove di fiducia, di benevolenza, di entusiasmo
che va ricevendo dai pubblici applausi. Ogni giorno piú vede egli assicurarsi in favor
suo quella pubblica opinione che dirige la forza. Ei vede gradatamente rendersi sempre
piú cospiranti a lui le azioni di ciascun cittadino; vede che s'ei dovrà adoperar
l'impeto di fuori, concorreranno a gara i suoi popoli a rinforzarne gli eserciti; si mira
già alla testa di una armata invincibile di entusiasti. Pensa egli a un grandioso
monumento, a un'opera di pubblica utilità? Quanto egli è piú amato, e piú possiede
l'opinione, tanto si spianano davanti a lui le difficoltà tutte. Egli sicuro passeggerà
in mezzo al suo popolo, qualora voglia spogliarsi della importuna, ma forse a tempo
necessaria pomposa maestà. Tutti questi sublimi e consolanti oggetti scuotono la fantasia
d'un saggio monarca a misura che egli vi si occupa nel procurare la felicità pubblica; e
la speranza di conseguire e di rassodare il possesso di questi beni è un vivissimo
piacere che lo rende beato; piacere non invidiato, perché poco conosciuto, mentre la
turba, paga della corteccia degli oggetti, incautamente invidia quel pesantissimo corredo
della maestà, e quelle insipide prosternazioni, e quei titoli, ai quali per lunga età
avvezzo un sovrano non può essere sensibile; e quand'anche talvolta se ne avveda, non
sarà per ciò che ne ritragga verun piacere morale, perché ciò non gli fa cessare alcun
dolore, né gli seda un timore o gli desta alcuna speranza. Un sovrano al primo
ascendere che fa sul trono, e singolarmente un elettivo, il quale colla sua educazione non
si poteva aspettare il regno, può essere lusingato dagli atti esterni di omaggio, perché
ciascuno di essi gli annunzia e gli ricorda ch'egli è veramente sovrano, nel tempo in cui
non ancora abituato per una lunga serie di sensazioni a persuadersi pienamente d'esser
tale, ha sempre nei ripostigli del cuore un resto di dubbio sulla sua nuova condizione, ed
ogni atto che annienti questo dubbio è sempre un grado che si aggiunge alla speranza dei
beni ch'ei vede uniti alla sovranità. Ma tanto è lontano che questi invidiati omaggi
possano piacere, acquistata che ne sia l'abitudine, che anzi io credo che ogni sovrano,
quando potesse essere certo che il popolo fosse per venerarlo e ubbidirlo senza l'esterno
apparato che percuota i sensi, volentieri se ne spoglierebbe. Ogni illuminato sovrano,
quando conosca che l'uomo al quale parla veramente lo onora e rispetta, ed è pronto a
ubbidire, sommamente si compiace, se altronde lo vede libero e ingenuo manifestargli i
suoi sentimenti; e talora si rallegra e gode, se essendo egli mal conosciuto, taluno lo
tratti con popolare dimestichezza e con eguaglianza da uomo a uomo. Per lo contrario gli
uomini ambiziosi posti in dignità meno sicure, e delle quali il potere sia piú soggetto
alle instabili vicende di fortuna, sono assai piú animati nel difendere i contrassegni
esterni di onore convenienti alla lor carica, perché la lor condizione è precaria e
dipendente dal beneplacito sovrano. Le cariche piú luminose hanno sempre degli emuli, e
ben di rado si può tranquillamente riposare sulla costanza di tal destino. Questa
inquietudine che sta piú o meno sempre riposta nel loro cuore, si diminuisce ogni volta
che scorgono atti di stima, di subordinazione e di attaccamento; poiché o sono esseri
sinceri e provano il voto pubblico in favore, o sono esterne apparenze soltanto, e queste
almeno provano che siam temuti; conseguentemente che è forte il nostro partito. Questi
atti aggiungono un momento di speranza sulla durata del potere, anzi sull'accrescimento.
Per lo contrario quegli atti di famigliarità e di cittadinesca ingenuità che rallegrano
un monarca, con maggior difficoltà rallegreranno un ministro, perché il primo non teme
di perdere la dignità, né di diventare uomo comune; l'altro lo teme, né può trovarsi
bene in un dialogo che anche per breve spazio lo trasporta in uno stato temuto. Questi pensieri in
generale si verificano; nel fatto però vi sono delle eccezioni. Se un sovrano temerà di
perdere il trono, non sarà piú in questo caso. Se un ministro bastantemente filosofo per
saper viver bene anche senza impieghi pubblici si presta per principio di virtú al bene
del sovrano e dello Stato; se egli consapevole de' propri servigi e della illuminata
rettitudine del sovrano placidamente eseguirà gli uffici del suo ministero, potrà
diventare insensibile ai fasci e ai littori che lo precedono, e conservando quell'esterior
decoro che esige la scena ch'ei rappresenta su questo teatro, essere esente nel fondo del
cuore da quella inquietudine che comunemente ne risente l'umanità posta in simili
circostanze. O si esamini adunque l'uomo in privata
condizione, ovvero si esamini ne' pubblici impieghi, sempre si verifica che il piacere
morale non va mai disgiunto dalla cessazione d'un dolor morale; giacché; come si è
detto, il piacer morale è sempre accompagnato dalla speranza di esistere meglio di quello
che ora esistiamo. Dunque prima che nasca il piacere morale dobbiamo sentire un difetto;
una cosa che manca al nostro benessere è sentire un difetto alla nostra felicità, è una
sensazione spiacevole e dolorosa. Dunque il piacer morale è sempre accompagnato dalla
cessazione di un male, giacché quand'anche sia tenue la speranza, ed ella non diminuisca
se non di pochi gradi la sensazione disgustosa che portiam con noi, quella quantità
diminuita è altrettanto male che cessa, alla quale quantità è paragonabile il piacer
morale. IV. Il piacere morale
non è altro che una rapida cessazione di dolore Né perciò abbiamo
ancora trovata la vera definizione del piacer morale; perché sebbene il piacer morale sia
sempre accompagnato dalla cessazione del dolore che presuppone, non però ogni cessazion
di dolore produce un piacer morale. Sia per esempio: un cuore sensibile ama teneramente la
virtuosa sua sposa; la dolce abitudine di convivere, la uniformità di sentimenti, la
bontà del suo carattere, tutto fa che in lei ritrovi la felicità de' suoi giorni: una
feroce malattia sopravviene alla sposa e la precipita ai confini della morte. Facile è lo
immaginarsi quale strazio crudelissimo soffre il cuore dello sposo; ognuno accorderà che
questo sia uno de' piú violenti dolori morali. Giunto al colmo il malore con gradi tardi
ed insensibili, passa dall'imminente pericolo ad acquistare alcuna speranza di ore, poi di
giorni, poi non è affatto disperatissimo il caso; indi appare un piccol raggio di
speranza che gradatamente e lentamente si va rinforzando sin tanto che si passa a una
lunga convalescenza, indi alla sanità. Supponiamo che senza salto veruno, ma
attraversando tutti gli stadi intermedi che non si possono esprimere gradatamente colle
voci, le quali in ogni lingua caratterizzano unicamente i modi principali e decisi, il
dolor morale dello sposo sia cessato. In questo caso il sommo dolore s'andò
insensibilmente mitigando, si rese poi sopportabile, indi leggiero, sin tanto che
placidamente passò alla calma, senza che in un solo istante l'animo dello sposo abbia
provato un piacer morale. Figuriamoci ora lo sposo medesimo nel punto in cui per una falsa
voce piange la perduta sua sposa, e nel momento della sua maggior desolazione si
spalancano le porte, entra la sposa inaspettatamente ilare e sana che si scaglia fra le
sue braccia; forse non avrà robustezza bastante nella fibra per resistere alla violenza
del piacere; pochi piaceri morali possono essere paragonabili alla delizia di questo.
L'istesso uomo nelle due supposizioni passa dal sommo timore al non temere; l'istessa
persona nei due casi da un dolore cocentissimo passa alla cessazion del dolore. Perché
mai nel primo caso non provò egli nessun piacere, e vivissimo lo provò nel secondo? Ne'
due casi dall'istesso dolore passò il di lui animo alla cessazione del dolore; come
dunque nasce il piacere? Nel primo non ebbe piacere, perché la cessazione fu lenta; nel
secondo caso ebbe un piacer sommo, perché la cessazione del dolore fu rapida. Se ciò è,
abbiamo la definizione dei piaceri morali, e sono una rapida cessazione di dolore. Dei dolori morali che
insensibilmente si annientano senza sentimento di piacere, ne abbiamo una schiera assai
grande, e sono tutti quelli che il tempo solo fa cessare. Lo stesso sposo detto poc'anzi
rimane vedovo. Uno squallido universo gli si apre davanti, non ha pace, non la spera, non
è piú sensibile che al dolore, e a quel dolore solo; non prevede piú alcun bene nella
sua vita. Dopo alcuni anni il dolore è diventato una memoria tenera, ma non tormentosa.
Si è annientato il tormento senza che nell'annientarsi sia nato verun piacere morale,
perché appunto lentamente e per gradi si è estinto. Il piacere nasce
adunque dal dolore, e consiste nella rapida cessazione del dolore; ed è tanto maggiore
quanto lo fu il dolore, e piú rapido l'annientamento di esso. Quanto piú si diminuisce
la rapidità, di tanto viene a scemarsi la sensazione piacevole nella energia. Sin tanto
che la cessazione si farà a salti sensibili, l'uomo proverà tanti piaceri quante sono
esse cessazioni; e interamente sarà svanito ogni piacere, allorquando cesseranno i salti,
e lentamente calmandosi il dolore, toccherà l'uomo tutti gli stadi intermedi con pausa di
tempo. Pare che tutta la
serie delle sensazioni morali adunque corrisponda ai modi possibili di esistere concepiti
da noi. Nella nostra fantasia, dopo che la sperienza ci ha ammaestrati dei modi diversi
ne' quali possiamo esistere, e delle diverse affezioni delle quali possiamo essere
occupati, si dipinge come una scala di questi diversi modi; e considerando sempre la
nostra attual condizione sempre lontana dalle due estremità del sommo bene e del mal
sommo, ci resta che temere e che sperare. Quindi prevedendo una prossima discesa a un
genere peggiore di vita, ci addoloriamo e antivedendo la probabilità di ascendere a una
vita migliore, speriamo, e ne abbiamo piacere. Che se la nostra attuale condizione potesse
da noi considerarsi giunta o all'estremità del sommo bene ovvero a quella della somma
miseria, allora non vi sarebbe alcuna sensazione morale possibile per noi, perché la
somma infelicità esclude ogni speranza, il sommo bene esclude ogni timore, e cosí gli
uomini sono appunto sensibili alle affezioni morali, perché si conoscono lontani dalle
due estremità. Le sensazioni nostre morali sono adunque relative allo stato in cui ci
troviamo, a quello a cui prevediamo di dover passare. Un determinato modo di esistere non
è per se stesso né un bene né un male. Sarà un bene per chi da una vita peggiore vi
ascenderà, e all'incontro sarà un male per chi vi decada da una vita migliore. Quanto
maggiori sono i salti, e quanto piú sono rapidi, tanto è piú energica la sensazione. Il
voluttuoso, il molle Orazio sarebbe stato consolatissimo, se avesse potuto diventar
collega di Mecenate; ma l'ambizioso, l'accorto Orazio se avesse dovuto discendere al grado
di Mecenate, avrebbe trovato quella situazione la piú tormentosa a soffrirsi. Se i piaceri morali
nascono da una rapida cessazione di dolore, ne viene in conseguenza che quanto meno un
uomo è suscettibile dei dolori morali, tanto meno lo sia dei piaceri ed all'opposto
quanto piú l'uomo è in preda ai dolori morali, tanto piú lo troviamo sensibile ai
piaceri. Una nazione colta e vivace in cui i sentimenti dell'onore, della gloria e della
virtú sieno diffusi sopra un buon numero d'uomini sarà molto sensibile alla cortesia,
alla officiosa urbanità, alla lode; ivi l'uomo ragionevole e bene educato potrà vincere
l'amor proprio altrui , e cederanno l'ire e le ostilità al dolce solletico della lode e
ai contrassegni esterni di onore e di stima. Per lo contrario, presso un popolo che sia
meno colto, dove i bisogni fisici e l'immediata azione de' sensi tengano tuttavia piú
occupata la parte principale della sensibilità; dove, mancando la folla delle idee
combinate e astratte, rimanga l'anima piú oziosa ad accorrere alle piú immediate
sensazioni, ivi troveremo che o nessuno o tenuissimo sentimento faranno nascere i piú
raffinati uffici, e nessuna o scarsissima voluttà produrranno le lodi, e i contrassegni
del sentimento di stima. Il selvaggio non ha il dolor morale d'essere trascurato e confuso
nella folla degli uomini; perciò non ha piacere d'essere distinto. L'uomo incivilito
soffre gli stimoli dell'ambizione, ha dolore pensando di valer poco, di dover essere
nascosto tutto entro la tomba; perciò sente il piacer morale della lode, ed ogni volta
che può lusingarsi di valere, d'essere distinto, considerato, onorato, prova
voluttuosissime sensazioni. Lo stesso principio distingue la sensibilità dell'uomo
virtuoso da quella del malvagio. Due sono le sorgenti dell'umana virtú, e sono il bisogno
della stima generale e la compassione. L'uomo virtuoso soffre continuamente per questi due
principi, teme la volubilità delle opinioni, teme che o l'artificio o il caso possano
involargli la buona fama, non mai bastantemente contento del grado a cui essa si trova,
teme l'umana dimenticanza; mosso da tutti questi dolori morali, è spinto da continue
azioni di virtú umana, cioé di quella che ha per oggetto la gloria, la lode, il
sentimento del valor proprio e della propria eccellenza. La compassione, altro principio
meno imperioso, ma piú benefico, fa patire all'animo buono parte de' mali altrui, e il
dolor morale che nasce da questa disposizione, porta l'uomo a liberare gli altri dai
malori e dalle sventure che soffrono. Per lo contrario, l'uomo incallito nel mal costume,
insensibile ai mali morali, indifferente alla buona o cattiva riputazione, freddo e
immobile spettatore delle altrui smanie, perché minori dolori morali soffre, anche minori
piaceri morali può provare. Se poi sgraziatamente
troverassi impegnato nella strada del vizio un cuore originariamente buono e sensibile, lo
stato di lui sarà degno di somma compassione; e perciò tormentato da cocentissimi dolori
morali, sarà capace di voluttuosissimi piaceri morali. Egli soffre il crudelissimo peso
d'una coscienza che ad ogni momento lo avvilisce; quai beni può mai godere in pace quel
miserabile che legge scritto in fronte agli uomini illuminati e buoni il disprezzo e la
diffidenza; che in ogni sguardo teme un rimprovero, in ogni arcano la scoperta di qualche
sua bassezza; che gode precariamente la buona opinione di alcuni sedotti, e la conserva
con una laboriosissima sagacità di finzioni e con una intricata tessitura di artifici, e
sa che al primo momento in cui gli cadesse la maschera, farebbe orrore? Se quest'uomo che
di sua indole è straniero alla iniquità, con uno slancio felice carpirà il momento per
fare una generosa azione, o se mutando clima, e trasportato ove la memoria de' suoi mali
non giunga, si disporrà a cominciare una serie di azioni nobili e virtuose, egli tanto
maggiori piaceri morali proverà, quanto piú furono austeri i tormenti che il vizio gli
pose intorno al cuore. Gli sembrerà di respirare un'aria piú dolce e leggiera, il sole
avrà per lui una piú ridente faccia, gli oggetti che gli si presenteranno gli daranno
nuove e grate sensazioni, tutta la natura sarà abbellita per lui singolarmente al
principio della sua onorata vita. Non però i piaceri morali che
produce la virtú sono o possono costantemente essere tali, che disobblighino gli uomini
dal ricompensare l'uomo che la pratica. Sono lusinghiere le apparenze sotto le quali
alcuni filosofi rappresentarono l'uomo virtuoso, quasi che nella coscienza propria ei
debba ritrovare la voluttà sempre pronta, qualunque sia lo stato di vita o di fortuna,
sano o infermo, propizia o avversa; e ravvisarono la virtú sotto l'idea platonica di
premio a sé stessa. Felice immaginazione se fosse atta a riscuotere gli uomini e guidarli
sulle tracce di lei! Ma l'abitudine a ben operare diminuisce nel cuor dell'uomo il dolor
morale del timore della fama, e a proporzione vanno illanguidendo i piaceri morali che vi
corrispondono. Alcuni semiviziosi, vedendo l'uomo virtuoso assediato dalla gelosia e
dall'invidia degli emuli, amareggiato e contraddetto, s'immaginano ch'ei trovi
perfettamente ogni consolazione nel suo cuore, e soffocano in tal guisa il desiderio
spontaneo di recargli aiuto. L'uomo virtuoso sente l'ingiustizia, di cui è la vittima;
sente la debolezza propria contro il numero che l'opprime. Quindi il virtuoso, il forte
Bruto, inzuppato della idea della virtú di Platone, dopo averla esattamente seguita nelle
azioni, ritrovandosi il cuore oppresso da affanni, proruppe chiamandola un sogno; non già
pentendosi di averla seguita, non già negando l'esistenza di lei, ma unicamente
confessando la chimera di chi s'immaginò che la tranquilla serenità d'un'anima virtuosa,
che la beatitudine di occupare sé medesima della coscienza propria potessero preservare
la mente e il cuore dai dolori, dalle amarezze e da quel cumulo di mali che l'avversa
fortuna precipita indistintamente sugli uomini. La giustizia perciò del grand'Essere ha
riservato a sé medesima la distribuzione del premio alla virtú che non può essere
bastantemente ricompensata né dal sentimento proprio, né dalla mercede degli uomini. V. La maggior parte dei dolori morali nasce
da un nostro errore Quantunque
però io creda che la virtú stessa non basti a rendere perfettamente felice l'uomo in
terra, dico che l'uomo virtuoso a circostanze eguali sarà piú felice dell'uomo malvagio.
Dico di piú che se l'uomo potesse avere i sentimenti sempre subordinati alla ragione,
sarrebbe certamente meno soggetto ai dolori morali di quello ch'egli è. Ogni dolore
morale è semplice timore. Questo dolore è una mera aspettazione d'un d'un dolore
contingibile. Quando siam tormentati da un dolor morale, altro male non soffriamo in quel
momento fuorché il timore di soffrirne; questo timore spesse volte è chimerico, e sempre
ha un grado di probabilità contro la sua ventura realizzazione; può dunque colla ragione
o togliersi, o almeno scemarsi, o almeno, vistane l'inutilità di soffrirlo, procurarsene
la distrazione. Quanto maggiori progressi facciamo nella vera filosofia tanto piú ci
liberiamo da questi mali. Sia per esempio: prendo un ambizioso nel momento in cui gli
viene l'annunzio che una carica da lui ansiosamente desiderata, e quasi certamente
aspettata, dal principe vien conferita a un suo rivale. Ecco l'ambizioso nello squallore,
nell'abbattimento, immerso in un profondo dolor morale. Un freddo ragionatore s'accosta a
lui: - Che fai, uomo desolato e oppresso (gli dice), perché ti abbandoni cosí a un vago
e forse chimerico timore? Che temi? Quasi nol sai, confusamente tu prevedi di dover viver
male. Ma quai mali prevedi? Gli uomini non avranno per te quei riguardi che tu vorresti,
ti stimeranno meno, sarai men ricco? Calmati e per poco almeno esamina questo timore a
parte a parte; non prenderlo tutto in massa. Gli uomini ti mancheran di riguardi? Qualche
inchino meno profondo, qualche adulazione di meno non è una perdita da farti disperare:
se ambisci i riguardi degli uomini illuminati, essi non saran cambiati per te. Gli
uomini ti stimeranno meno? Non già gl'illuminati; per il restante hai perduta qualche
curvità negli inchini e qualche bassezza di chi mendicava il tuo favore? Non è poi
grande lo scapito. Sarai men ricco? Tutti i mali che vagamente temi, forse si riducono a
salariare due o tre sfaccendati di meno, a nutrire due o tre parassiti di meno alla tua
tavola. La tua sanità, la robustezza de' tuoi anni, il concetto della tua probità, delle
tue cognizioni, tutto ciò rimane intatto presso gli uomini ragionevoli, i quali sanno
quanta parte abbia il caso nella distribuzione degli uffici su di questo teatro del mondo;
ti resta con che nutrirti, alloggiare, vestirti decentemente. Se un chirurgo dovesse farti
soffrire una dolorosa operazione, compatirei il tuo affanno, prevedendola; ma se non puoi
esser pretore o tribuno della plebe, o console, sii cittadino, sii ragionevole, non ti
turbare per una chimera. Il freddo ragionatore ha una ragione cosí evidente, che quasi
non resta piú luogo a compatire l'ambizioso, se continua a delirare fra le tenebre d'un
avvenire chimerico. Pure lo compatirà quell'umano filosofo, che sa quanta distanza vi sia
dalla convinzione al vero sentimento. Obblighiamo
il ricco avaro ad analizzare egualmente il suo dolor morale per una porzione del suo
denaro che gli venga tolta. Obblighiamo l'amante che scopre infedele e sconoscente la sua
amica, e cosí andiam dicendo della maggior parte degli uomini appassionati, e
conseguentemente piú capaci di dolori morali; e troveremo che la maggior parte delle
volte si addolorano per chimere sognate, e si ingrandiscono le larve d'un avvenire, al
quale giugnendo poi, non si trovan sí male come previdero. Se dunque i sentimenti nostri
potessero essere sempre posti al prisma della ragione e analizzarsi, una gran folla di
dolori morali verrebbe ad annientarsi per noi, e faremmo come quel cinico, il quale
scoprendo che comodamente potea ber l'acqua nella cavità della sua mano, gittò il
bicchiere come un peso inutile nel suo fardello. Ma la previsione dei mali è talmente
nebbiosa e tumultuaria nell'uomo appassionato, che non dà luogo sí tosto a sminuzzarli
uno ad uno; anzi quantunque talvolta ci avvediamo che il dolor nostro è una mera
apprensione di dolori possibili o probabili, sendo questi tanto vagamente e
scontornatamente dipinti alla fantasia, non possiamo né conoscerli né apprezzarli con
distinzione; ma ci rattristano per le tenebre medesime che in parte li involgono, e questo
sconoscimento accresce in noi la diffidenza di superarli. Un'altra
difficoltà incontra l'uomo per uniformare ai dettami della tranquilla ragione tutti i
suoi sentimenti, ed è questa: che difficilmente possiamo noi stessi ritrovar l'origine e
la genesi di molti de' sentimenti nostri. È come un fiume di cui propriamente non sai
indicare qual sia la prima sorgente, poiché lo formano mille piccoli, divisi e lontani
ruscelletti, i quali si frammischiano col discendere; cosí i sentimenti sono conseguenze
di tante e sí varie e sí mischiate idee in tempi diversi e successivamente avute,
sicché la mente umana si smarrisce e si perde rintracciando i capi di tanti piccolissimi
e intralciatissimi fili che ordiscono la massa d'una passione; e come d'un fiume non puoi
toccare con sicurezza il punto onde comincia, cosí nemmeno esattamente puoi toccare il
piú delle volte l'idea primordiale da cui nasce un sentimento. Se
però né tutti i dolori morali, né la maggior parte di essi è sperabile di prevenirli
coll'uso della sola umana ragione, ella è però cosa certa che vari possono da quella
essere scemati, come dissi. L'uomo selvaggio ha pochissimi dolori morali: l'uomo
incivilito ne acquista in gran copia; l'uomo che perfeziona l'incivilimento addestrando la
sua ragione, e applicandola alle azioni della vita costantemente quanto si può, torna,
riguardo ai dolori morali, ad accostarsi al selvaggio. Cosí quale nelle scienze
dall'ignoranza si comincia, e all'ignoranza si ritorna, passata che siasi la mediocrità,
tale nella coltura si parte dalla tranquillità, si va al tumulto, e da quello progredendo
si avvicina di nuovo alla tranquillità. VI. - Sviluppamento della
teoria dei piaceri e dei dolori morali Sinché un uomo però
è capace dei due sentimenti motori, timore e speranza, è soggetto ai dolori ed ai
piaceri morali. Questo modo di sentire, assente l'oggetto esterno, è un fenomeno che
dipende interamente da quell'ignota parte di noi che chiamasi memoria: parte di me, che
agisce sopra di me, che tien luogo di oggetto esterno, che da sé eccita moti e passioni;
che, essendo io paziente, opera in me, mio malgrado talvolta, e forma essa sola quel me,
quell'io, che consiste nella coscienza delle mie idee. Quest'enigma della mia propria
essenza tanto umiliante, questa memoria è la produttrice di ogni mio piacere o dolor
morale, poiché non si dano questi se non per la speranza o pel timore; né speranza o
timore senza idee dei beni e dei mali; né queste senza averli provati e risovvenirsene. Come mai, quando la
fantasia ci rende presente l'aspetto de' mali futuri e ci agita il timore, nasce in noi la
sensazion del dolore? Questo è un mistero che l'Autore dell'universo non ha conceduto
all'uomo di penetrare. La cagione delle sensazioni nostre è talmente oscura che l'ingegno
dispera di rintracciarla giammai. Quando un ferro rovente a caso si accosti alle mie
membra, risento un dolor fisico: so che allora ivi si lacera e si scompone la mia
macchina: so che risento dolore; ma qual relazione abbiano questa lacerazione e questo
scompaginamento colla mia sensazione del dolore, non lo so. Se non intendo questa
relazione, se non distinguo gli anelli di quella catena che unisce la fisica lacerazione
colla sensazione dolorosa, quantunque una delle due estremità sia da me conosciuta, come
mai spererò di conoscere e distinguere gli anelli di quell'altra catena che comincia
dall'immagine presentata dalla memoria, e termina alla sensazione? In questo secondo caso
non conosco né l'una né l'altra delle due estremità. Forse la memoria quando è
vivacissima, e chiamasi fantasia, cagiona una irritazione nelle parti piú interne della
mia macchina. Il pallore, l'ansietà del respiro, il precipitoso battere delle arterie, il
tremore delle membra, la torbidezza dello sguardo, che accompagnano la sola viva
apprensione del male senza alcuna fisica azione esterna attuale, possono far credere
probabilmente uno scompaginamento interno prodotto da quella stessa facoltà di
ricordarci, che è la sorgente della maggior parte de' beni, come de' mali della vita. Ma
in questa materia non si può cautamente ragionare se non col forse. Dirà taluno: - è
vero che ogni piacer morale consiste nella rapida cessazion del dolore; ma egualmente
potrà dirsi che ogni dolor morale consiste nella rapida cessazion di un piacere. Ma a
ciò rispondo che una simile generazione reciproca non si può dare e per conoscere che
ciò non si può, basti il riflettere che se ciò fosse, non potrebbe l'uomo cominciar mai
a sentire né piacere né dolor morale; altrimenti la prima delle due sensazioni di questo
genere sarebbe e non sarebbe la prima in questa ipotesi, il che è un assurdo. Eccone la
prova. Dopo il momento in cui l'uomo ha ricevuto la vita, vi deve essere un primo piacer
morale, e un primo dolor morale. Supponiamo noi che la prima di queste due sensazioni sia
un piacere? Se questo consiste nella rapida cessazione di un dolore, è stato preceduto
dunque da un dolore; dunque al sensazion del piacere non è stata la prima. Supponiamo noi
invece che la prima sensazione sia stata un dolore? Se fosse vero che questo consistesse
nella rapida cessazion d'un piacere, il dolor pure non sarebbe stato la prima sensazione.
Dunque evidentemente si conclude non esser possibile quest'alternativa essenziale
generazione; e se il piacer morale consiste nella rapida cessazione d'un dolore, ne viene
per conseguenza sicura che il dolor morale non può consistere nella rapida cessazione del
piacere, perché il primo piacer morale che ha sentito l'uomo sarà nato dalla distruzione
rapida di un dolore che non è stato preceduto da verun piacere. Dunque o né l'una né
l'altra di queste generazioni è vera; oppure, se una di esse è vera, l'altra è
impossibile. Se dunque concludentemente si prova che il piacer morale sia una cessazione
rapida di un dolore, ne verrà per conseguenza che il dolor morale non può consistere in
una cessazione rapida di un piacere. Il signor di
Maupertuis ha voluto calcolare i piaceri e i dolori, e il risultato che ne scaturisce al
paragone si è che la somma totale dei secondi eccede; onde valutata l'intensione e la
durata delle affezioni dell'animo nostro, piú pesano le disgustose che le amabili, e piú
soffriamo di quel che godiamo, qualunque sia la condizione e fortuna nostra nel corso
della vita. Questa conseguenza che ogni uomo trova purtroppo vera nella serie delle umane
vicende, scaturisce, almeno per le sensazioni morali, dalla stessa definizione che abbiam
ritrovata del piacere. Questo è una rapida cessazion di dolore; questo non può mai
essere una quantità maggiore di quella che ha fatta cessare. Può essere assai piú
energico perché concentrato in pochi istanti; ma la somma totale distesa per lo spazio di
tempo in cui si è sofferto il dolore che rapidamente è ceduto, non può esser minore
dell'effetto. Ogni piacer morale che si gode, suppone una quantità uguale per lo meno di
dolore che si è sofferto; sin qui potrebbero essere bilanciate le due quantità. Ma tutti
i dolori che non terminano rapidamente, sono una quantità di male che nella sensibilità
umana non trova compenso, ed in ogni uomo si dànno delle sensazioni dolorose che cedono
lentamente. Dunque se è vera la definizione già data al piacer morale, di necessità
deve l'uomo piú soffrire che godere nella serie delle sensazioni morali. Un'altra conseguenza
scaturisce da questo principio, ed è che non può l'uomo sentire due piaceri morali
contigui, se il primo almeno non è frammisto a qualche porzion di dolore; poiché il
secondo piacere consistendo nella cessazion rapida di un dolore, forz'è che questo
coesistesse col piacer primo. Quindi due piaceri perfetti di seguito nella serie delle
sensazioni morali saranno impossibili a darsi, ma necessariamente dovrà interporvisi un
dolore, la di cui rapida cessazione cagioni il secondo. Ed ecco perché la felicità vera
e depurata da ogni male non possa fisicamente essere uno stato durevole nell'uomo nemmen
per poco, ma appena per brevissimi intervalli ne vegga dei lampi per ripiombare ben tosto
nel desiderio animatore di riaccostarsi a quella seducente immagine, di cui sollecito e
ansante va in cerca durante lo spazio della sua vita. È una verità malinconica, ma
egualmente costante, che l'uomo può essere occupato da un séguito non interrotto di
dolori, e discendere per lungo tratto di tempo verso la infelicità senz'altro limite che
la stupidità, o la morte; perché uno scompaginamento, una lacerazione, una distensione
ne' nostri organi non esclude una successiva nuova lacerazione, scompaginamento e
distensione. Laddove sebbene possa succedere a un piacer frammisto con molto dolore una
nuova cessazione rapida di altra parte di dolore, e cosí un piacere meno amareggiato,
sintanto che si giunga a un momento di felicità; questa scala però nell'ascendere non
può essere tanto lunga quanto lo è quella della discesa. In fatti il dolore o morale o
fisico, può occupare miseramente un uomo per piú giorni senza lasciarli intervallo o
pace bastante per chiudere gli occhi al sonno; ma nessuna serie di piaceri vi sarà che
basti a tenere occupato piacevolmente un uomo piú giorni, senza che il sonno, la sazietà
l'abbiano interrotta. Non v'è piacere morale o fisico, il quale non s'annienti nell'animo
nostro alla sensazione d'un forte mal di capo o di denti. Ecco perché l'immaginazione
d'ogni uomo facilmente può figurarsi un cumulo di mali, e uno stato durevole di pene e di
assoluta miseria; e per lo contrario non può nemmeno nel liberissimo regno della nostra
immaginazione dipingersi uno stato di vita giocondo e felice, libero da ogni noia e da
ogni sazietà. Ecco perché le descrizioni del Tartaro riescono sempre piú colorite e
verosimili di quelle dell'Eliso, le quali dopo inutili sforzi compaiono stentate e fredde,
quand'anche sien fatte da uomini dotati di somma immaginazione. La religione può sola
consolarci a vista di queste tristi verità; essa ci assicura di un tempo in cui
modificatasi altrimenti la sensibilità nostra, saremo capaci d'una serie non interrotta
di purissimi piaceri, della quale frattanto portiamo inerente a noi stessi il desiderio. VII. - Dei piaceri e dei
dolori fisici Ho ragionato sinora
dei piaceri e dolori morali, e di questi credo d'aver ritrovata l'indole e la definizione,
dicendo essere i primi una rapida cessazion di dolore, e i secondi un timore. Resta ora
che entriamo nella medesima analisi sui piaceri e dolori fisici, affine di conoscere se
essi sieno d'eguale o d'indole diversa dei morali. Ogni lacerazione che
si faccia di un corpo vivente o col ferro, o col fuoco, ovvero colla compressione, cagiona
quel sentimento che esprimiamo colla parola dolore. I gradi poi di intensione differente
hanno fatto inventare le parole irritazione, incomodo, pena, smania, spasimo e
desolazione, colle quali s'indica il dolore a misura che dalla piú debole azione passa ai
modi piú forti e violenti, giunto ai quali distrugge la sensibilità medesima, e
l'annienta colla vita. Tale è la cagione di ogni dolore fisico, che sempre nasce da una
lacerazione o sull'esterne ovvero sulle parti interne del nostro corpo; giacché anche la
semplice compressione o stiramento delle parti sensibili, sebbene non sempre lasci dopo di
sé la cicatrice visibile della lacerazione, non può comprendersi se non immaginando una
separazione violenta di alcune parti della organizzazione. Sin qui mi pare di appoggiarmi
al vero, e di potere affermare il dolor fisico esser sempre cagionato da una lacerazione e
distacco delle parti sensibili; ma come questa lacerazione produca in me dolore, come
questo porti e noi e gli animali tutti alla fuga, al moto, alle grida, questo è l'arcano
che io dispero di giammai conoscere. Il Sig. di Maupertuis mi ha detto che il dolore è
una sensazione che dispiace d'avere, e lo saprei da me stesso, come ognuno lo sa; ma non
per questo siamo noi avanzati punto nel labirinto della sensibilità. Giunto che io sia a
conoscere che la lacerazione e separazione di una parte sensibile produce il dolor fisico,
e che questo non si dà senza di quella, io non ho piú guida per fare un passo sicuro
avanti. Allora rimango abbandonato alla immaginazione; essa mi fa parere che la
sensibilità nostra si raggruppi, per cosí dire, e si condensi tutta intorno alla parte
del corpo nostro che soffre lacerazione. Sembra che il dolore sia un rannicchiamento
forzato del nostro animo, e che la gioia che gli succede, qualora cessi rapidamente, sia
una espansione dell'animo istesso che ripiglia il suo elaterio, e si dilata sugli oggetti
piú rimoti. Sembra ancora che una tale condensazione della nostra sensibilità non si
faccia al momento, ma con prevenzione e apparecchio: soffriamo assai piú dolore per un
piccol taglio fattoci da un chirurgo, di quello che ne proviamo se una spada
improvvisamente ci trapassi il corpo. Nel primo caso la lacerazione sarà minima e per lo
spazio e per la finezza dell'acciaio, e ci dogliamo; mentre appena ci accorgiamo nel
secondo d'essere feriti. Ciò m'induce a credere che per ammassare me stesso in una data
parte del mio corpo e trasportarvi la sede della mia sensibilità, e attentamente
esaminare quanto ivi accaderà, conviene che in prima io ne sia avvisato; altrimenti
diramando l'animo nostro una sensibilità eguale su tutto il nostro corpo, quella sola
porzione di sensibilità è colpita nelle lacerazioni impensate, che trovavasi al luogo in
cui seguí la distrazione; e questa se però basta a renderci quasi indifferenti i colpi
non antiveduti, basta altresí ad avvisarci del danno accaduto, e condensarci poi
d'intorno ad esso per una disgraziata attrazione che ci rende piú cocente il dolore. Ma
queste immagini non sono appoggiate a fatti o a sperienze tali da renderne contento un
pensatore. Tale è la condizione nostra, che dei movimenti che succedono in noi medesimi
quando ci troviamo ridotti all'ultima analisi, mancano i mezzi e gli stromenti per
separare gli elementi e le fila originarie. Abbandoniamo perciò il pensiero di conoscerne
l'essenza, e accontentiamoci di sapere che il dolor fisico è un sentimento cagionato
dalla lacerazione delle parti sensibili. L'istessa
impenetrabile nebbia sta intorno al sentimento del piacere. Non ne cerchiamo l'intima
essenza; ma per accostarci al mistero che lo racchiude, io considero che una gran parte
de' piaceri fisici consiste in una rapida cessazione di dolore. Arso dalla sete dopo lungo
cammino fatto ai cocenti raggi del sole nella calda stagione, dopo averla sofferta per
lungo tempo, e cercato inutilmente ristoro, trovo finalmente una fresca soavissima
bevanda; in quel momento provo un piacer fisico assai sensibile, e questo facilmente si
vede cagionato dalla rapida cessazion del dolore. Affamato trovo una lauta cena; tanto ne
è maggiore la delizia, quanto piú forte la fame sofferta; e questo piacer fisico è pure
una rapida cessazion di dolore. Oppresso dalla stanchezza trovo un letto agiato;
intirizzito dal freddo, vengo trasportato a un tepido ambiente. Questi sono piaceri
vivissimi, piaceri fisici, cioé cagionati da una visibile azione sugli organi, e sono
piaceri consistenti nella rapida cessazion del dolore. Se ben si rifletta, si troverà che
la maggior parte dei piaceri fisici è di questo genere, e che evidentemente si conosce
consister essi in una rapida cessazion di dolore. Molti oggetti si
osservano con tranquillità da un anatomico; molte idee si analizzano senza tumulto di
passione da un curioso investigatore de' principi; ma talvolta il risultato
pericolosamente si presenterebbe nell'estrema sua semplicità all'esame del pubblico.
L'uomo curioso di meditare, che leggerà queste mia ricerche, non mi vorrà rimproverare
ogni omissione, e qualche applicazione negligentata non farà presso di lui pregiudizio
alla teoria. Talvolta l'uomo, anche
senza avvedersene, risveglia in sé medesimo delle sensazioni inquietissime e penosissime
unicamente per sentirle rapidamente cessare. Forse l'uso di quella polve caustica, che
sogliamo fiutare; forse l'uso che alcuni fanno masticando un'erba disgustosa e sozzamente
preparata; forse l'abituazione a riempirsi la bocca col fumo d'un vegetabile stimolante,
l'uso della senape nelle vivande e simili, sono stati introdotti per questo principio.
Molti uomini protraggono il passeggio o il ballo sino alla stanchezza per sentirla
rapidamente cessare adagiandosi. Questa classe di piaceri procuratisi da noi colla
volontaria creazione d'un previo dolore, non sono tanto circoscritti, quanto sembrerebbe
al primo aspetto. Se dunque tutti i
piaceri morali e una gran parte dei piaceri fisici consistono nella rapida cessazion di
dolore, la probabilità, l'analogia, ci portano a credere che generalmente tutte le
sensazioni piacevoli consistano in una rapida cessazion di dolore. Quello che piú d'ogni
altra cosa mi persuade, si è il riflettere che molte volte l'uomo ha dei dolori; ma
avendo essi la lor sede in qualche parte dell'organizzazione meno esattamente sensibile,
soffre bensí, ma non sempre sa render conto a sé stesso del principio che lo fa
soffrire, e dalla cessazione rapida di quel dolore innominato ne nascono dei piaceri dei
quali la sorgente esattamente non si conosce. In prova di ciò si rifletta ai diversi
nostri modi di sentire. Le parti del nostro corpo piú abituate al tatto, quando sieno
offese da qualche corpo estrinseco, dànno una sensazione decisa, per cui ci accorgiamo
precisamente dell'azione che si fa sopra di noi. Le parti per lo contrario meno abituate
al tatto, quando vengono esposte all'azione di un corpo estraneo, ci producono una
sensazione piú muta e incerta; e se ben distinguiamo se sia dolorosa o piacevole, non
però finitamente conosciamo qual precisa azione si faccia sopra di noi. Per esempio: se
alla parte interna delle dita un corpo mi cagionerà dolore, io distinguerò esattamente
se sia per troppo freddo o troppo caldo, se tagliente, se pungente; distinguerò se il
dolore che soffro venga da pressione, da division di parti, da lacerazione, ecc. Ma se la
medesima azione si farà sopra un piede, ovvero sopra un braccio, parti meno esercitate al
tatto, l'uomo sentirà un dolore, ma esattamente non saprà se vengagli fatta pressione o
lacerazione ecc. Progredendo in questo esame io trovo che le parti interne della nostra
organizzazione sono sensibili alle azioni dei corpi che possono ferirle, lacerarle o
irritarle: ma essendo esse piú di rado toccate, ancora piú muta e indecisa ne risulta la
sensazione. Un dolor di capo suppone certamente qualche irritazione interna sugli organi:
ma qual è il punto preciso che duole? Il dolore è egli una puntura? È egli una
distensione? È egli una pressione? Nol so. Duole il capo, l'uomo sta male, ma
precisamente non può nominare il luogo, il punto in cui succede lo sconcerto. I dolori
alle viscere sono dell'istessa natura. Vagamente si può dire presso a poco: in questo
spazio sento il dolore; ma non se ne può con precisione indicare il luogo o la qualità
dell'azione che ci fa soffrire. Il dolor de' denti medesimo, per quanto sia crudele e
violento, talvolta è incerto a segno che indichiamo un dente sano come sede del dolore,
il quale realmente risiedeva nel dente vicino cariato, e fattovi piú attento esame, chi
lo soffre se ne avvede. Ciò accade perché, come dissi, le parti di noi meno avvezze al
tatto ci cagionano sempre delle sensazioni, annebbiate ed equivoche. Infatti che altro
significano queste parole tedio, noia, inquietudine, malinconia, - se non un modo
di esistere doloroso, senza che ci accorgiamo di qual natura sia o in qual parte di noi la
sede del dolore? Ciò posto, io rifletto che ogni uomo ha quasi sempre seco qualche dolore
di questa natura, perché ogni uomo ha qualche fisico difetto nella sua macchina; per
esempio, qualche viscere sproporzionatamente grande o angusto, qualche corpo estraneo, o
nel fiele, o ne' reni, ecc. Un anatomico avrebbe di che troppo contristare un lettore con
la serie dei mali che può aver l'uomo entro di sé senza avvedersene; mali i quali ci
cagionano dei vaghi e innominati dolori, cioé dolori che piú o meno ogni uomo soffre
senza esattamente distinguerne la cagione. E sono questi dolori innominati, dolori non
forti, non decisi, ma che ci rendono addolorati senza darci un'idea locale di dolore, e
formano vagamente sí, ma realmente il nostro mal essere, l'uneasiness, conosciuta dal
pensatore Giovanni Locke. Questi dolori innominati sono, a parer mio, la vera cagione di
quei dolori fisici, i quali a primo aspetto sembrano i piú indipendenti dalla cessazion
del dolore. VIII. I piaceri delle
belle arti nascono dai dolori innominati La musica, la pittura,
la poesia, tutte le belle arti hanno per base i dolori innominati; in guisa tale che, se
io non erro, se gli uomini fossero perfettamente sani e allegri, non sarebbero mai nate le
belle arti. Questi mali sono la sorgente di tutti i piaceri piú delicati della vita.
Esaminiamo infatti l'uomo nel momento in cui è veramente allegro, contento e vivace, e lo
troveremo insensibile alla musica, alla pittura, alla poesia e ad ogni bell'arte, a meno
che la precedente abituazione meccanicamente non lo porti a riflettervi, ovvero la vanità
di mostrarsi sensibile non lo renda ipocrita in quel momento. L'uomo vigoroso che ha la
contentezza nel cuore, è nel punto il piú rimoto dalla sensibilità; questa s'accresce
col sentimento della nostra debolezza, dei nostri bisogni, dei nostri timori. Un uomo che
abbia della tristezza, s'egli avrà l'orecchio sensibile all'armonia, gusterà con delizia
la melodia d'un bel concerto, s'intenerirà, si sentirà un dolce tumulto di affetti,
godrà un piacer fisico reale, cioé sarà rapidamente cessato in lui quel dolore
innominato, da cui nasceva la tristezza, coll'esser l'animo assorto nella musica, e
sottratto dalle tristi e confuse sensazioni di dolori vagamente sentiti e non conosciuti.
Anzi, per uscire dalla tristezza che lo perseguita, l'uomo per sé medesimo si aiuta e
cerca di abbellire e di animare coll'opera della fantasia l'effetto delle belle arti, e
per poco che abbia l'anima capace d'entusiasmo come nella casuale posizione delle nubi ei
ravviserà l'espressione di figure in vario atteggiamento, cosí nelle variazioni musicali
s'immaginerà molti affetti, molti oggetti e molte posizioni, alle quali il compositore
medesimo non avrà pensato giammai. La musica singolarmente è un'arte, nella quale il
compositore dà l'occasione a chi l'ascolta di associarsi al suo travaglio per ottenere
l'effetto della illusione. Una bella pittura, una sublime poesia, faranno qualche senso
anche in chi non ne abbia gusto o passione; ma una bella musica resterà sempre un rumore
insignificante per chi non abbia orecchio a ciò fatto e positivo entusiasmo per la
ragione già detta che la musica lascia fare la piú gran parte alla immaginazione di chi
l'ascolta. Perciò la medesima musica piacerà a diverse persone, nel tempo medesimo in
cui le sensazioni di esse saranno diversissime; uno la troverà sommamente semplice e
innocente, l'altro tenera e appassionata; il terzo la troverà armoniosa e ripiena, e
cosí dicendo. Le quali diversità non accadranno sí facilmente nel giudicare della
pittura, né della poesia; perché, come dissi, in queste l'artista è attivo, e
l'ascoltatore purché abbia una squisita sensibilità, è quasi puramente passivo; laddove
nella musica l'ascoltatore deve coagire sopra sé stesso e dalle diverse disposizioni del
di lui animo accade che ora in un modo ora nell'altro agisca, e sieno cosí diverse le
sensazioni prodotte dal medesimo oggetto occasionale. La pittura parimenti
non occuperà l'animo ilare e giocondo di un uomo in un momento felice; ma per poco
ch'egli sia rattristato da qualche passione o dolore innominato l'uomo si presterà alla
di lei azione, e da quella l'animo di lui resterà piú o meno occupato. Le anime
appassionate saranno piú sensibili ai quadri i quali sveglino sentimenti. Gli altri
meccanicamente conoscitori potranno essere assorbiti dalla maraviglia per le difficoltà
superate dall'artista, per la destrezza e giudizio col quale sono disposte le figure, le
ombre e i colori. Nell'animo assorbito da quest'oggetto cessa rapidamente il dolore
innominato e ne nasce il piacere; ma per gustare un piú gran numero di piaceri nella
pittura conviene ch'ella desti nel cuore de' sentimenti. La cessazione dei dolori
innominati allora è piú frequente, perché piú l'anima viene con ciò distratta dallo
stato di prima, e interamente occupata di oggetti che creano dolori, e li estinguono e li
riproducono, e rapidamente li annientano a vicenda. Io ho provato un piacere assai vivo
nel mirare la prima volta un quadro rappresentante la partenza d'Attilio Regolo da Roma.
L'eroe campeggia nel mezzo, vestito della toga e del lato clavo; la fisonomia presa
dall'antico esprime una placida e ferma virtú: pareami però nel riflettervi ch'ei
premesse a forza un profondo dolore. Egli è nell'atto d'incamminarsi alle navi
cartaginesi che sono sul Tevere, alle sponde del quale si passa l'azione. Conobbi alla
somiglianza il figlio dell'eroe; fanciullo ancora, sembra opporsi passionatamente al passo
di suo padre, mentre una figlia si copre il volto colla mano del padre in atto di
baciarla, e stringendola fra le due tenere sue mani cela le proprie lacrime e la sua
disperazione. Poco discosto da Attilio sta il console romano; la tranquilla maestà, che
gli signoreggia nel volto, non gli toglie punto i tratti d'una sensibile e dolente
amicizia. Una folla di Romani stassene dalla parte del console, e i piú rimoti si
arrampicano sulle piante per veder l'eroe al grand'atto. Una romana, che si vede per il
dorso, stendente il braccio verso l'eroe, e additandolo a un suo pargoletto sembra
ammaestrarlo con quest'esempio e dirgli: "Mira, quegli è un Romano". Frattanto
due Cartaginesi abbronziti sul mare e che si distinguono al barbaro vestito, non meno che
per i tratti odiosi della loro fisonomia, compaiono attoniti e confusi. Tutto il quadro è
esattamente conforme al costume, e spira maestà, grandezza e sentimento. La voluttà che
ne provai non fu breve; mi sentii commovere come da una tragedia; mi feci illusione come
se esistessero gli oggetti; m'immaginai i loro sentimenti, le loro parole in quell'atto;
tristezza, compassione, rispetto, ammirazione, stupore furono i diversi affetti che
successivamente mi agitaron l'animo. L'idea di questo quadro pieno di calore e di
grandezza è nata da un gran ministro, per cui fu fatto, il di cui genio ha operato una
felice rivoluzione negl'ingegni dei popoli alla sua cura confidati. Parimenti al teatro uno
spettatore veramente lieto e vegeto si troverà poco sensibile, e sarà continuamente
distratto; laddove, per lo contrario l'uomo che trovisi un po' infelice s'intenerirà,
singhiozzerà, proverà una voluttà squisitissima alla rappresentazione d'una buona
tragedia. L'uomo le poche volte, nelle quali veramente sta bene entro di sé stesso, non
si piega mai, né si lascia assorbire da un solo oggetto; i nostri affetti, le nostre idee
sarebbero di lor natura repubblicane, e non consentono infatti a soffrire un dittatore se
non quando i torbidi interni ci costringono. Ogni uomo entusiasta, ogni uomo che
appassionatamente ama o una scienza, o una bell'arte, o un mestiero, o cosa qualunque, non
l'ama per altro se non perché egli è originariamente infelice con sé medesimo, e tanto
piú avidamente ama i mezzi per sottrarsi quanto è maggiore la somma dei dolori
innominati ch'ei soffre abbandonato a sé medesimo. L'uomo che esiste male, isolato, cerca
di darsi in preda ad un oggetto prepotente per essere da quello occupato; ma l'uomo
robusto, lieto e felice, sfiora sorridendo gli oggetti, e signore della natura domina le
sensazioni proprie tranquillamente. Quindi poca o nessuna compassione troverai presso di
lui, non già per durezza o malignità, ma per la volubilità naturale del suo felice
animo che leggermente si occupa, tutto vede, nulla esamina e sente un solletico bensí
nelle idee, ma non urto, né impeto giammai. Molti hanno detto che gli sciocchi sono
felici; io anzi dico che i felici sono sciocchi, perché l'uomo che non soffra il pungolo
del dolore e che tranquillamente viva vegetando, non ha una ragione sufficiente per
superare l'inerzia e attuarsi presso di verun oggetto; quindi nessuna parte dell'ingegno
se gli può sviluppare, e nessuna idea viene da lui esaminata attentamente. Non v'è
principio che lo obblighi a balzar fuori dall'indolenza ed affrontare la fatica. Non è
dunque la sciocchezza cagione della felicità; ma al rovescio l'uomo è sciocco, perché
è felice. In fatti troveremo che tutti gli uomini che coltivano le scienze e le arti con
qualche buon successo, furono spinti dall'infelicità e dalla folla dei mali sulla
laboriosa carriera che hanno battuta. Leggiamo le memorie degli uomini piú illustri in
qualsivoglia parte dell'umano sapere e troveremo costantemente che o la domestica inopia,
o la persecuzione, o il disprezzo altrui, ovvero i mali di una cagionevole organizzazione
gli spinsero all'azione, al moto, alla fatica; la qual fatica per sé stessa è dolorosa,
e non si abbraccia dall'uomo naturalmente se non quando inseguíto da un dolore ancora
piú grande spera in essa di ritrovare un salvamento; ella è un dolore meno grande
dell'altro che si soffrirebbe senza di lei; e l'uomo, fuggendo sempre il dolore, lo
abbraccia non per acquistare una quantità di esso, ma per rifiuto e fuga della porzione
eccedente. Ed ecco come non solamente ogni piacere che risvegliano le scienze e le belle
arti nasca dai dolori principalmente innominati, ma dai dolori nasca ogni spinta a
conoscerle, a coltivarle, a ridurle a perfezione. Cosí l'idea terribile del dolore è
l'archetipo di quella serie di purissimi piaceri, che fanno la delizia delle anime piú
delicate e sensibili. Sebbene, parlando dei dolori
innominati, io principalmente gli abbia attribuiti all'azione fisica immediata dei corpi
sugli organi nostri, non intendo dire perciò che una parte di questi non venga anche da
sensazioni morali mal conosciute. Nella società di persone, le quali mostrino
indifferenza per noi, o poca stima, proviamo un dolore innominato, e lo chiamiamo noia;
quando quel sentimento è piú deciso e conosciuto, lo chiamiamo umiliazione, dispetto,
ecc. L'amor proprio riempie l'animo nostro di sentimenti innominati qualunque volta sia
offeso mediocremente e senza grande impeto. I dolori innominati adunque possono essere o
fisici o morali; sono soltanto alcune affezioni dolorose le quali sordamente fanno un
malessere in noi, senza che la riflessione nostra ne abbia analizzata e riconosciuta
esattamente la cagione. IX. Applicazione del
principio alle belle arti Se il fine delle belle
arti è quello di cagionar piacere e allettarci con esso a ben accoglier l'utile, dalla
teoria esatta del piacere ben conosciuta dovrebbero dedursi come corollarie conseguenze i
principî primordiali delle belle arti istesse. Non è tanto difficile all'artista di
colpire e sorprendere al bel principio, quanto assai piú è difficile il conservarsi
attento lo spettatore e con una serie di piaceri sempre gradatamente crescenti, sebbene
interrotti, impegnarne l'attenzione per qualche tempo costante. Le prime arcate clamorose
d'una grande orchestra, il primo periodo d'un oratore che con enfasi declami, il primo
affacciarsi di un quadro grande e colorito vivacemente, la prima scena di una
rappresentazione teatrale, ottengono facilmente il fine di aver lo spettatore attento e
occupato di un primo piacere, quale si è la sorpresa, da cui nasce l'istantanea
cessazione dei dolori innominati e la distrazione da sé medesimo. La grand'arte consiste
a sapere con tanta destrezza distribuire allo spettatore delle piccole sensazioni
dolorose, a fargliele rapidamente cessare, e tenerlo sempre animato con una speranza di
aggradevoli sensazioni, in guisa tale ch'egli prosegua ad essere occupato degli oggetti
proposti, e terminatane l'azione, richiamandosi poi la serie delle sensazioni avute, ne
veda una schiera di piacevoli, e sia contento di averle provate. A tal proposito io
osservo che sarebbe intollerabile una musica, se non vi fossero opportunamente collocate e
sparse delle dissonanze, le quali cagionano una sensazione disgradevole e in qualche modo
dolorosa. Cosí nella poesia dei versi aspri distribuiti sapientemente a tratto a tratto
cagionano una sensazione disgustosa, e rapidamente la fanno cessare armoniosi e sonori
versi. Cosí nella pittura alcune ombre piú crude, alcuni tratti di pennello
studiatamente strapazzati sono un oggetto spiacevole a vedersi, ma ci fanno gustare la
delicatezza, la luce, il colorito e il finimento del restante. Le belle donne amano piú
di comparire di notte, anzi che colla luce del giorno. Di giorno il gran corpo della luce
parte da un canto solo, tutte le prominenze del volto, tutte le cavità ricevono un'ombra,
la quale rende marcati i tratti. Una sala da ballo signorilmente illuminata invece riceve
la luce da tutte le parti in un colpo stesso; tutta la figura è uniformemente rischiarata
e quasi sempre lucente. Forse l'arte dello scrivere piacevolmente non consiste che in ciò
che reciprocamente non tanto i suoni delle voci, ma le immagini ancora si alternino
disgustose, poi aggradevoli e gentili. Un séguito d'idee tutte geometricamente ordinate e con simmetria disposte forma un libro eccellente per insegnare una scienza; ma un'opera piacevole elegantemente scritta fa ritrovare le grazie e i vezzi frammezzo a un leggiadro disordine. L'abile artista in ogni genere debb'essere come il voluttuoso giardiniere d'Aristippo. Un lunghissimo viale piano, uniforme, fra due siepi parallele, t'invita a un noiosissimo passeggio, che sempre ti presenta l'oggetto medesimo, e ti guida alla stanchezza prima che ti sia avveduto d'aver cambiato luogo. A quel viale s'assomiglia ogni opera laboriosa, esatta, regolare ove non siavi verun lato negligentemente tocco. Quel viale è un placido poema di versi tutti sonori, è una musica tutta di consonanze, è una pittura cinese tutta monda e di vivaci colori. Non v'erano viali nel giardino di quel filosofo. Il passeggio era preparato con una varietà deliziosa. Un sentiero t'invitava al bosco: l'attraversavi calpestando l'erbe e i fiori che i raggi del sole non avean veduti mai: una fresca umidità, un sacro silenzio regnavano d'intorno, e quasi provavi spiacere e timidezza come se ivi ti ritrovassi separato dal soccorso degli uomini. Appena questo sentimento cominciava a molestarti, improvvisamente eccolo cessato: termina il bosco, e ti si affacciava da un lato la vista d'una spaziosa campagna popolata di case; spigni l'occhio quanto puoi, non troverai altri confini che l'orizzonte. Esaminavi deliziosamente quest'oggetto; ma t'inquietava la curiosità di godere d'altre sorprese, che ben conoscevi esserti preparate ancora dopo un sí giudizioso principio, e questa curiosità, molestamente scuotendoti, ti obbligava ad inoltrarti. Dopo pochi passi inutilmente ti rivolgevi per rimirar nuovamente la bella vista, perché una collinetta vicina rimaneva frapposta all'oggetto e come un bel sipario chiudeva la passata scena. Qui diventava piú angusto il teatro che avevi davanti gli occhi; vari ruscelli parte cadenti, parte lambenti lo strato della collina, occupavano piacevolmente il tuo sguardo. Restava da ascendere. Il sentiero diventava rapido e di qualche incomodità; appena cominciavi a provarne dolore e stanchezza, eccoti una grotta non prima veduta dove l'acqua zampilla da ogni parte, e dove agiatamente ti siedi a rimirarla. L'acqua sapientemente diretta ivi dava moto a concerti musicali, che ti sorprendevano perché inaspettati. La dolce melodia pastorale ti lasciava in preda a soavissime immagini; l'ardita sinfonia della guerra e della caccia ti urtava in séguito e ti rinvigoriva sinché destandoti nuovamente l'importuna curiosità ti alzavi e proseguivi il passeggio, frattanto già punto da due dolori, stanchezza e curiosità. Il cammino giudiziosamente ti riconduce d'onde partisti, senza la noia di replicarti le stesse sensazioni. Ora ti ricreano i soavissimi odori de' fiori e delle piante piú rare; in séguito un prospetto impensato di antica architettura rovinata dal tempo; qui un tempietto, là un parco di fiere, poi un piccolo canale navigabile, ti sorprendono aggradevolmente e fanno rapidamente cessare i sentimenti dolorosi che naturalmente s'intrudono fra l'uno e l'altro oggetto; e ritornavi all'albergo dopo un'ora beatamente impiegata, pago del modo col quale cri frattanto vissuto. Parmi con questa immagine che resti toccato l'essenziale principio delle belle arti. Una galleria, un museo veduto di volo difficilmente fanno passar bene una giornata. Bisogna che le cose belle sieno a una certa distanza le une dalle altre, distanza o di luogo o di tempo, in guisa tale che abbia luogo fra una sensazione e l'altra d'intromettersi il dolore. Un libro in cui di séguito vi fosse una serie contigua di idee tutte sublimi e fitte, non potrebbe essere mai un libro piacevole, se non l'aiutasse l'oscurità. Questa oscurità obbliga il lettore a interporre uno spazio per meditare attentamente onde poter intendere il pensiero dell'autore. Frattanto il lettore soffre e per la fatica che è costretto di fare e per l'impazienza d'intendere. Se questo dolore non è indiscreto, viene rapidamente a cessare coll'intelligenza della proposizione; cosí le cose troppo fitte, se non ha lo spettatore il tempo di diradarle riescono sempre di poco pregio. È un'arte sagacissima quella di lasciar fare qualche cosa allo spettatore e di servire di occasione puramente alle sensazioni ch'egli eccita sopra sé medesimo. Alcune reticenze d'un oratore fanno il medesimo effetto, come la figlia di Attilio Regolo di cui ho parlato di sopra, coprendosi il volto colla mano del padre in atto di baciarla. Quel volto celato lascia in libertà la fantasia d'ogni uomo di figurarsi la fisonomia la piú bella, la piú addolorata che ciascuno può immaginare. Quindi ognuno risvegliando le idee piú analoghe a sé medesimo, agisce sulla propria sensibilità in un modo assai piú energico di quel che farebbe, se l'oratore, il pittore, il poeta, ecc. volessero agire in dettaglio essi medesimi e determinare l'impressione. La reticenza di alcune idee intermedie consola altresí l'amor proprio del lettore, e gli fa cessare quel sentimento di paragone che ordinariamente è doloroso, quando leggendo un buon libro si diffida di poterne fare altrettanto. Ma troppo mi svierei dall'argomento che mi sono proposto, se volessi entrare piú addentro coll'immaginazione fra questi ridenti oggetti; e ritornando al soggetto del quale ora io tratto, parmi che lo scopo d'ogni buon artista sia quello di spargere le bellezze consolatrici dell'arte in modo che vi sia intervallo bastante fra l'una e l'altra per ritornare alla sensazione di qualche dolore innominato, ovvero di tempo in tempo di far nascere delle sensazioni dolorose, espressamente e immediatamente soggiugnervi un'idea ridente, che dolcemente sorprenda e rapidamente faccia cessare il dolore. Quest'arte riesce anche nella civile società. L'uomo piú amabile è quegli il quale sa in noi calmare i dolori morali che portiamo con noi, e per dimenticare i quali ricerchiamo la società. Se quest'uomo fosse sempre dolce e compiacente, riuscirebbe noioso per la stessa uniformità; ogni dialogo con lui diverrebbe insipido e breve perché senza contraddizione; la stessa lode ci lascerebbe insensibili, e non sarebbe piú l'uomo amabile. Esso stuzzica in noi e risveglia qualche leggiero dolore, move qualche contraddizione delicata, c'inquieta industriosamente, e interpone a questi piccoli mali degli inaspettati contrassegni di stima e di amicizia, che dolcemente ci colpiscono. Un giovane ufficiale francese giugne all'armata, va al quartier generale, per presentarsi al maresciallo di Villars, francamente attraversa la folla e ad alta voce chiama: "Dov'è Villars?" Il maresciallo offeso da questa famigliarità indecente, "Dite almeno il signor di Villars," gli soggiugne. Al che l'ufficiale: "Non ho mai inteso dire il signor Alessandro, il signor Cesare". Il maresciallo a una lode cosí impensata, al paragone tanto consolante per la sua gloria fra i piú gran capitani dell'antichità e lui, dovette sentire un piacere tanto piú grande quanto piú rapida fu la cessazion del dolore. In mezzo al senato di Roma convocato davanti a Tiberio, s'alza liberamente un Romano, e, apostrofando l'imperatore, cosí comincia a parlare: "Cesare, tu sei l'uomo piu' ingiusto che viva sulla terra". Figuriamoci quai sentimenti si svegliarono ne' cuori a quest'esordio: que' senatori tanto bassamente avviliti, che Tiberio stesso li chiamava un gregge di schiavi, quegli uomini già al colmo della corruzione avranno paventato un supplizio in pena d'aver ascoltato. Tiberio doveva fremere...; ma proseguí il Romano: "Sí, il piú ingiusto, perché dipendendo la salute pubblica dalla tua, dimentichi affatto la propria conservazione e tutto consacrato alla felicità, alla gloria di Roma, impieghi per lei quelle cure che pur dovresti riserbare in parte a te stesso per rendere piú diuturna la beatitudine del tuo impero, ed esauditi i nostri voti". Il modo piú insinuante per lusingar l'amor proprio degli uomini si è appunto soggiugnendo la lode a qualche puntura, perché la prima cagiona dolore e ci fa credere d'esser poco curati in quel momento da chi ci parla. Sopravviene impensatamente l'encomio, e rapidamente cessa la sensazion dolorosa, e la sorpresa fa che piú intensamente ci occupiamo della dolce idea non preveduta. Un negoziante è impaziente, perché tarda a giugnere la nave che ha il carico delle sue merci; la dilazione lo ha reso inquieto, e già dubita di qualche sciagura. Mentre egli sta in casa tristamente occupato delle conseguenze che teme, un suo amico vede entrare salva la nave in porto. Corre a casa del negoziante, simula d'aver la tristezza in volto, entra a discorrergli della sua nave, finge una relazione avutasi d'una burrasca e d'un naufragio, indica alcune circostanze sul luogo, sulla bandiera, sulla qualità della nave. Il negoziante si agita, teme, gli pesa addosso in quel momento tutta la serie dei mali che prevede in conseguenza. L'amico lo riduce a quel punto e gli dà la novella che la nave è felicemente giunta; cosí cagiona nell'animo del suo amico una gioia assai piú vivace, quanto è stata maggiore la quantità del dolore che ha fatto rapidamente cessare. X. - Come l'uomo giudichi nella scelta fra i dolori e fra i piaceri >Nel calcolo dei piaceri e dei dolori, l'uomo valuta piú l'intensione che non la durata. Esattamente calcolando, un dolore che si esprimesse della forza d'un grado durando dieci minuti, dovrebbe considerarsi uguale a un dolore che avesse dieci gradi di forza, ma durasse un sol minuto. Eppure nella scelta l'uomo si determinerà piuttosto per la minor intensione di quello che per la minore durata, e crederà men male il dolore d'un grado benché duri dieci minuti. Osserviamo ciò che accade sul Moncenisio, allorché è coperto di neve, e che vi si discende rapidissimamente sopra di un traino mosso dalla sola gravità per il gran pendio della montagna. Moltissimi viaggiatori, finita la discesa e passato il monte, vogliono nuovamente affrontare il tedio, il pericolo, lo stento di rampicarvisi nuovamente a piedi sino alla sommità per provare un'altra volta il piacere di discendervi con quella rapidità, che non la cede al volo degli uccelli. Questa è l'immagine fedele della maniera colla quale calcola l'uomo sul punto della propria sensibilità. Egli affronterà un dolore spontaneamente, purché la di lui intensione non sia grande, quand'anche ei debba nella total quantità riuscir grande per la sua durata, e l'affronterà ogni qualvolta ei debba rapidamente cessare, dal che ne ottiene un piacere. La maggior parte delle debolezze e delle apparenti inconseguenze dell'uomo nasce appunto da questo principio, che piú resta colpito dall'intensione dei piaceri e dei dolori, di quel ch'ei non lo sia dalla durata; sebbene la quantità assoluta, per essere ben calcolata, dovrebbe desumersi dal prodotto dell'una per l'altra. Ma quando di due sensazioni dolorose una è da soffrirsi tutta in un colpo, e l'uomo nel momento immediato prevede tutto il grado d'infelicità in cui piomba, preferisce l'altra sensazione di cui la parte che se gli presenta è men dolorosa per il momento consecutivo, e senza esattamente trascorrerla sino al fine col di lui sguardo la sceglie con ribrezzo minore. La vita è una serie di momenti; la parte che è nostra è il momento attuale; tutto il restante avvenire è una mera probabilità tanto piú forte, quanto il tempo avvenire è piú vicino al momento attuale. Un dolore intenso e breve piomba sui momenti piú vicini alla nostra esistenza, e ci promette la pace per que' momenti che sono piú discosti. Un dolore piú durevole e meno intenso ci presenta i momenti piú contigui, piú nostri, sotto un'apparenza meno ripugnante, e sebbene per que' momenti piú rimoti non ci lasci vedere la pace, la lusinga che nasca in questo intervallo qualche soccorso che abbrevii i mali, sempre piú o meno sta nel cuore; e quindi nasce che comunemente gli uomini si determinino piú per l'intensione che per la durata, siccome dissi. Quantunque io creda generalmente condotto l'uomo a scegliere piú per l'intensione che per la durata, non ne viene però che con uguale misura uniformemente ci determiniamo; anzi quanto piú l'uomo è illuminato e placido nel suo giudizio, tanto si va egli accostando alla precisione nel calcolo, e sempre piú va considerando la durata, perché quanto piú l'animo umano si trova vicino allo stato ch'io dissi, tanto piú sa prevedere e scostarsi dalla maniera di operare de' bruti i quali quasi unicamente si determinano sugli oggetti esistenti e feritori de' loro organi. In tre classi quindi, io divido la maniera di sentire degli uomini; e sono le seguenti. La parte piú comune degli uomini rimira piú d'un oggetto a un tempo stesso, ma li
vede con un colorito pallido e contorni sfumati e incerti. Sono per lo piú quindi
dubbiosi ne' loro giudizi, timidi di equivocare nella scelta, ed essendo pure costretti a
dare un corso alle loro azioni, son forzati a prender di norma l'imitazione anzi che il
raziocinio. Incapaci di passioni grandi, incapaci di vigor d'animo, languiscono nella
imbecillità; si sottraggono al mordace sentimento del poco valor proprio col sonno, co'
liquori assopitivi, col giuoco, colla lettura, o colla compagnia che avidamente e senza
scelta ricercano, e a ciò vengono spinti da quel tedio abituale in cui restano immersi,
abbandonati a loro stessi. Questi vedon gli oggetti come attraverso la nebbia, e non
potendo spignere lo sguardo molto addentro, valutano nella loro scelta piuttosto la
superficie di quel lato che lor si presenta, anzi che la massa; quindi omettendo quasi del
tutto la durata, giudicano delle sensazioni quasi interamente sulla pura intensione
momentanea. Un minor numero d'uomini, in
vece, ha l'immaginazione fatta per modo che un fantasma vincitore s'impadronisce della
loro sensibilità, e il restante delle loro idee resta inconsiderato ed in disordine,
mentre quel fantasma è rappresentato con vivissimo colorito e con esatti contorni. Questi
hanno per loro carattere l'immaginazione, l'entusiasmo, l'elevazione; i voli piú arditi
non si vedono che in questi uomini. Essi però si suddividono in due specie. Gli uni sono
costantemente occupati da una idea prepotente, la quale ostinatamente tengono sempre di
mira: uomini capaci di grandi cose, perché esercitano un'azione energica assiduamente
prolungata per lungo spazio. Se il fantasma che gli occupa è conforme al bene del genere
umano, sono eroi: se contrario, sono illustri scellerati: se è incoerente, sono pazzi.
Gli altri sono della seconda specie, occupati da un dispotico fantasma, ma dove un
fantasma detronizza l'altro e si succedono vicendevolmente. Sono questi i migliori poeti,
i migliori pittori, gli oratori i piú eloquenti, uomini di grandi passioni al momento.
Non ti farà maraviglia se dopo aver essi declamato in favore della civile libertà, li
vedi diventati all'occasione cortigiani; combatteranno essi talvolta contro quella
libertà medesima che avevan sostenuta. Questi uomini d'immaginazione, i quali a foggia
degli istrioni risvegliano in lor medesimi le passioni del momento, e con calda energia le
sanno comunicare, mal si giudicherebbero se si credesse costante in essi quell'entusiasmo
che non parte dal cuore, ma da un'artificiosa e cercata fermentazione di sentimenti. I
primi, giudicando delle sensazioni che hanno rapporto all'idea signoreggiante, s'accostano
all'esattezza del calcolo e ne valutano non solamente l'intensione, quant'anche in parte
la durata, ma nel restante delle loro idee pochissima attenzione vi prestano, e si
determinano per la sola intensione. I secondi invece, quanto ai loro giudizî, interamente
si conformano al metodo volgare, e nella loro pratica restano perpetuamente plebei. Finalmente una parte ben
piccola del genere umano, è quella di coloro che sogliono ad un tempo stesso avere
davanti al loro sguardo piú oggetti illuminati, coloriti, e distinti: sagacemente li
paragonano, li accozzano, li separano. Conosciuta che hanno la schiera de' mali che seco
strascina il vizio, scelgono la virtú e tranquillamente e con costanza ne batton l'orme.
Essi non hanno quelle clamorose estasi colle quali cercano di accreditarsi gli empirici
della virtú; il loro animo piú in calma, pacatamente, e per una felice abitudine, li
porta a bene e virtuosamente vivere. Costoro, sebbene per costruzione loro abbiano il
cuore meno appassionato di quello degli entusiasti, con tutto ciò non sono esenti dalla
febbre delle passioni. Non sempre la placida ragione lascia viva alla mente loro questa
verità, che gli uomini cattivi meritano piú compassione che odio; la bassezza,
l'ingiustizia fanno nascere nel loro cuore lo sdegno talvolta, come le belle azioni amore
e benevolenza. Questi ultimi sono gli uomini piú simili a loro stessi nelle loro azioni.
I loro discorsi sono della tempra de' loro fatti; i loro scritti hanno la tinta istessa
della lor vita e de' loro sentimenti: essi non cercano di ridurre gli uomini attoniti e
sbigottiti con gigantesche idee, ma illuminati e resi migliori da un raggio puro e sereno
di verità. Essi nella scelta delle sensazioni generalmente s'accostano piú di tutti
all'esattezza del calcolo, portano i loro sguardi sulle maggiori relazioni possibili e lo
inoltrano al tempo piú rimoto. Queste tre classi sono come i
tre tuoni principali del diverso modo di sentire degli uomini; ma ogni uomo, comunemente
parlando, è un misto e partecipa di piú d'una classe. I primi sono meno di tutti capaci
di piaceri e di dolori morali, perché, come si disse, dipendendo questi interamente
dall'appoggiarsi che fa la mente sul passato e sull'avvenire, e dal paragone che facciamo
fra il modo col quale esistiamo e quello al quale prevediamo di dover giugnere, un tal
modo di sentire suppone memoria e previdenza; e dove gli oggetti si vedono abitualmente
larvati e mal definiti, non v'è luogo a questo scagliamento dell'animo. I secondi che
hanno un fantasma costante in tutte le sensazioni, che a quello si accostano debbon essere
sommamente capaci di piaceri e di dolori morali. Se Colombo ci avesse lasciata la storia
dei suoi sentimenti per il lungo tratto di tempo in cui sollecitò i mezzi onde scoprire
un nuovo mondo; se ogni giorno avesse scritta la storia delle proprie sensazioni, e nel
tempo in cui viaggiava alle corti per offrire il progetto, e nel lungo spazio in cui
languí nelle anticamere fra un piccol filo di speranza e molti sorrisi de' cortigiani che
lo rimiravano come un uomo da romanzi; se ci avesse fedelmente tramandate le sensazioni
che provò quando le speranze crebbero, poi quando ottenne le poche navi, poi di quanto
nel cuore sentí durante la lunga navigazione per un mare immenso e sconosciuto;
finalmente se ci avesse descritti i sentimenti che provò allo scoprire la terra,
all'approdarvi, al conoscerne i tesori, avremmo un'idea allora de' sommi dolori e sommi
piaceri che occupano un entusiasta costante. Forse questa grande scena terminò nel
momento in cui ebbe scoperta l'America. La terza classe, come la piú capace su tutti gli
oggetti di timore e di speranza, cosí da ogni lato è accessibile ai dolori ed ai piaceri
morali; minori forse nell'intensione di quei che sentono gli entusiasti, ma nella
quantità e frequenza considerabilissimi. XI. -
Il dolore precede ogni piacere ed è il principio motore dell'uomo Osserviamo i bambini; essi
meritano la compassione e l'assistenza nostra, e sono i migliori maestri che possiamo
scegliere per conoscere l'uomo e lo sviluppo della sensibilità. Al momento in cui il
bambino nasce ci dà tutti i contrassegni del dolore e d'un violento dolore. I Persiani,
per renderci maravigliosa l'origine del loro legislatore, asserirono che appena nato
ridesse, ma la natura dovunque ci fa vedere il bambino gemente e smanioso al suo nascere,
e per due o tre mesi dopo nato ancora o ce lo mostra stupido ovvero addolorato. Le prime
sensazioni adunque dell'uomo sono il dolore. Infatti l'aria ferisce le loro membra molli e
sensibilissime; la luce percuote violentemente i loro occhi delicati; il latte aggrava il
loro stomaco e cagiona le irritazioni ne' loro visceri; le loro lagrime, le grida,
l'inquietudine, tutto ci manifesta lo stato dolorosissimo del loro essere. Trascorrono,
non che i giorni e le settimane, anche i mesi dopo che gli occhi sono troppo avvezzi al
pianto, che la loro bocca comincia ad apprendere i1 sorriso. Questo fatto ci prova che il
dolore lo può sentire l'essere organizzato al primo momento di sua esistenza, e che il
piacere non si sente se non dopo d'aver sofferto il dolore. Infatti una sensazione suppone
un cambiamento di stato nell'organo che la riceve, cioé o una tensione accresciuta ovvero
diminuita. Se l'organo era nello stato di perfezione la prima sensazione lo toglie da
quello, conseguentemente è un disordine e un dolore. Se poi l'organo era viziato o per
soverchia tensione o per ammollimento soverchio, la prima azione de' corpi esterni, può
bensí rimediarvi, ma sarà preceduta dal dolore che produceva il vizio della costruzione
organica, e cosí ne deriva che la prima sensazione deve necessariamente essere dolorosa. I dolori che soffrono i
bambini ne' primi mesi della loro vita potrebbero forse da taluno attribuirsi alla
gracilità e imperfezione de' loro organi ancora informi, anzi che alla primitiva legge
della sensibilità; e perciò figuriamoci che dal sommo Essere venga creato un uomo, il
quale nel primo istante della sua esistenza sia organizzato come lo sono comunemente i
giovani a venti anni, e immaginiamo se è possibile il presentargli una sensazione
piacevole, la quale sia la prima, e non preceduta da alcuna dolorosa. L'appetito del cibo
o della bevanda non lo potrebbe movere, perché conviengli prima aver provato i dolori
della fame e della sete; indifferente riuscirà ogni sapore a chi non ha potuto prima
sentirne mai il bisogno. L'odore parimenti d'una rosa o d'un gelsomino farà la piú
indifferente sensazione in quest'uomo, se pure farà sensazione; di che ne dubito perché
i sensi nostri si vanno educando colla società, modificando coll'uso, e artificiosamente
snaturando per modo che moltissime volte l'uomo colto crede di provare o piacere o dolore,
e s'inganna sedotto dall'abituazione di vedere associate ad un oggetto le espressioni del
piacere, ad altro quelle del dolore; di che fra poco tornerò a trattare. Lo stesso dirò
di ogni suono musicale, il quale se non giugne alla scossa dolorosa, non darà sensazione
all'uomo immaginato; e lo dico pure dell'amore anche fisico, ch'ei non può sentire se non
provò prima le dolorose inquietudini che lo fanno nascere in noi; e cosí ogni oggetto si
presenterà alla di lui vista indifferentemente, a meno che non lo addolori; ed ogni
giacitura o tatto del suo corpo sarà di nessun effetto, a meno che non lo addolori,
ovvero non si trovi già lasso e addolorato dalla situazione in cui giaceva. L'essenza
adunque della sensibilità importa di cominciare col dolore, perché o l'azione sopra i
nostri organi è dolorosa, ovvero è un rimedio alla dolorosa organizzazione, ovvero è
azione inefficace, indifferente e nulla: il dolore è un'azione, il piacere è una rapida
cessazione di essa. Con ciò l'uomo è riposto a vivere in mezzo ai dolori. Io non dirò che il dolore per
sé sia un bene; dirò bensí che il bene nasce dal male, la sterilità produce
l'abbondanza, la povertà fa nascere la ricchezza, i bisogni cocenti affinano l'ingegno,
la somma ingiustizia fa nascere il coraggio, in una parola il dolore è il principio
motore di tutto l'uman genere; egli è cagione di tutti i movimenti dell'uomo, che senza
di lui sarebbe un animale inerte e stupido, e perirebbe poco dopo di esser nato; egli ci
spinge alla fatica del lavoro de' campi, ci guida a creare e perfezionare i mestieri,
c'insegna a pensare, crea le scienze, fa immaginare le arti e le raffina; a lui siamo, in
una parola, debitori di tutto, perché dalla eterna Sapienza ci è stato collocato intorno
acciocché fosse il principio che desse vita, anima e azione all'uomo. Appena nati
trascorrono poche ore, e il dolore della sete sveglia l'assopito bambino, gl'insegna a
trangugiare il latte, poi dà moto alla sua lingua, alle sue mascelle, e gl'insegna a
succhiarlo; senza il dolore non si ciberebbe, e la morte sarebbe assai vicina al
nascimento. Poi, cade nella passiva indifferenza e dorme; non piú sarebbe richiamato alla
vita, se il dolore non lo scuotesse. Noi stessi, adulti che siamo, non ci svegliamo mai
spontaneamente dal sonno; comunemente il dolore, cagionato dalla lunga pressione sulle
parti sulle quali stiamo giacendo, è quello che ci desta; infatti la prima azione che
facciamo allo svegliarci si è un moto che cambi la nostra giacitura, e distendiamo i
muscoli che per quello spazio di tempo rimasero raggruppati; talvolta un affannoso sogno,
dolorosamente agitando la nostra immaginazione, ci desta: il sonno condurrebbe
naturalmente alla morte se non vi s'intrapponesse il dolore. Se uno sconcerto accade nella
nostra macchina, il dolore è quello che ci avvisa e ci scuote a ripararlo; senza del
dolore, il ferro, il fuoco, gli altri esseri consumerebbero le nostre membra prima che ce
ne avvedessimo. L'uomo, se non soffrisse dolore, apparirebbe alla luce per una brevissima
vegetazione, che lasciandolo svenire privo d'alimento, lo piegherebbe poco dopo alla
morte. Se l'uomo non avesse sofferto il dolore del caldo, del freddo, della umidità e
delle malattie, non avrebbe mai cominciato a formarsi delle capanne, poi delle case né a
tessere per riparare il suo corpo. Se il dolore della fame non l'avesse spinto non mai si
sarebbe dato alla caccia, alla vita pastorale, indi alla coltivazione della terra. Fatti
questi primi passi, sarebbesi l'uomo limitato a queste arti ed alle adiutrici; ma la
naturale fecondità della specie moltiplicò i dolori e la ricerca de' mezzi per sedarli;
e nacque l'industria, che dopo essersi esercitata in rapine, dovette passare a stabilire
le proprietà; e poscia i pochi che poterono profittare del moto altrui risparmiarono il
dolore della fatica, e si rifugiarono in quello stato di quiete e di torpore, che è lo
stato naturale dell'uomo mancante di dolori. I ricchi poi viventi col moto della classe
dei coltivatori e degli artigiani, liberati dai dolori primigeni della fame, della sete e
delle stagioni, nell'ozio divennero sensibili piú delicatamente; e quindi incominciando a
provar dolore nella ruvidezza del vestito, nell'ambiente dell'albergo, nella durezza del
letto, cominciarono ad esigere dagli artigiani esattezza maggiore; e cosí gradatamente i
dolori che nuovamente si andarono creando colla mollezza della vita, portarono l'uman
genere ai primi passi verso della coltura. Col passare dei secoli, ai dolori fisici si
aggiunsero i dolori morali; si sviluppò nell'uomo la gelosia di primeggiare; il fasto,
l'orgoglio di alcuni insultò molti: taluno si riscosse, e per liberarsi dalla dolorosa
umiliazione affrontò costantemente la fatica dell'ingegno e dell'eroismo; e per sottrarsi
a quei dolori pungentissimi altri divennero guerrieri, altri legislatori, altri scopritori
di verità. Cosí nacquero le scienze e le arti dalle piú facili sino alle piú astratte
e raffinate, cosí ogni bene del mondo ha la sua radice nel male, cosí il dolore è il
principio dell'azione, e cosí l'uomo per sottrarsene lo affronta e abbraccia, sempre
fuggendo dal maggior dolore e sopportando la fatica, che pure è dolorosa, perché lo
libera da dolori piú forti. Infatti le nazioni che abitano
un clima dolce, ove la terra facilmente somministra l'alimento, sono la sede
dell'indolenza; e ne' climi piú aspri, e ne' terreni piú avari veggiamo gli uomini
spinti ad un'attività abituale che forma nell'uomo quasi un bisogno di agire. Il regno
della immaginazione sta nelle prime: questa s'alimenta co' vaghi deliri d'una vacua
esistenza. Ma il liceo delle scienze lo troverai presso le seconde; esse sono il risultato
di sforzi continuati e combinati da una energica industria. Se nelle prime per la generale
mancanza di azione la società degli uomini dorme costantemente sotto il governo d'un
despota, detronizzato talvolta in un momento di furiosa impazienza, e ben tosto seguito da
un altro despota; nelle seconde la società sempre è in moto, e difficilmente persevera i
secoli nel medesimo stato. I Persiani oggigiorno s'assomigliano piú ai loro antenati del
tempo d'Ezechiello, di quello che noi abbiamo di somiglianza co' nostri avi dello scorso
secolo sí nelle usanze e fogge di vestire, alloggiare e cibarci, quanto nella serie
istessa delle nostre idee. La poesia, l'eloquenza, le favole, i romanzi, i racconti
esageratamente prodigiosi, nascono per lo piú ne' climi caldi e molli, e ne' paesi
spontaneamente fecondi, perché sono questi i prodotti di una vita priva di cure e
sedentaria; le matematiche sublimi, la erudizione laboriosa, la esatta critica, la
giudiziosa e paziente osservazione delle cose fisiche e intellettuali, sono effetti d'un
moto contenzioso del nostro ingegno il quale non affronta le difficoltà, né regge a
superarle se non viene incessantemente punto dal dolore, e perciò la loro sede trovasi
ne' climi piú ingrati, e se talvolta ne spunta un raggio in piú felice clima, ciò sarà
come una banana o un ananas, còlto in Europa per artificiali e separate cagioni
domestiche, non mai dipendenti dalla influenza generale e comune. Due
pensatori del primo ordine hanno stabiliti opposti sistemi sull'indole delle nazioni;
l'uno deriva tutto dal clima, l'altro deriva tutto dalla legislazione: il primo fa emanare
tutto immediatamente dalla fisica; il secondo tutto dalle istituzioni morali. Bramo che
gli uomini che hanno parte al destino dei popoli tengano la seconda opinione, poiché
l'altra mi sembra tanto perniciosa nella politica quanto nella privata morale la
fatalità. Io però credo che il dolore è il principio motore dell'uomo; questo nasce e
dal clima in cui l'uomo respira e dalla forma con cui è governato; bensí è vero che
piú ferma e durevole ed uniforme di ogni altra è l'azione meccanica del clima, e i
dolori da esso cagionati l'uomo li tollera e li ripara senza sdegno e ribellione, perché
inevitabili e senza insulto; ma non perciò una parte sensibile può ricusarsi
agl'istituti sociali, i quali se del cavallo e del cane possono formare due esseri per la
guerra, la caccia e i tornei, quantunque non giungano a formarli tutti di eguale coraggio
e docilità (il che dovrebbesi fare se l'educazione facesse il tutto), cosí degli uomini
possono formarne o buoni, o malvagi, o industriosi, o scioperati, a misura della sapiente
o inconsiderata o capricciosa creazione delle leggi. XII. - Di alcuni dolori e piaceri di opinione Ho accennato poco fa che i
sensi nostri vengono modificati dalle usanze, e che dall'esempio e dalla educazione
impariamo a dimostrar dolore o piacere talvolta per convenzione. Né parlo io di que'
sociali uflici che per condiscendenza urbana ci portano a mostrarci sensibili ad oggetti
che non agiscono sopra del nostro animo: il che facciamo conoscendolo e volendolo; ma
parlo di quelle illusioni che ingannano noi medesimi e ci fanno esclamare, quasi che
fossimo addolorati, o piacevolmente mossi, allorché veramente non lo siamo, e buonamente
crediamo di esserlo, non già perché sentiamo, ma perché siamo avvezzi a mostrarci
sensibili in quella guisa. Una distonazione clamorosa fa contorcere l'appassionato per la
musica, e lo fa dolorosamente sentire: lo crede egli stesso; un bel trillo granito e
mordente lo tocca deliziosamente, cosí dice, e lo crede. Io non ho trascurato questa
bell'arte; l'amo, ed ho un orecchio sensibile; mostro le stesse apparenze; ma dubito
assai, analizzando me stesso lontano dall'armonia, se veramente io provi allora il dolore
e il piacere che mi immagino. Questi due modi se potessero cagionare un dolore ed un
piacere ne vedremmo qualche traccia anche negli uomini incolti o educati ad una cultura
diversa dalla nostra. Un Inglese, un Olandese deliziosamente sorbiscono il thé, giudicano
delle minime differenze, gustano il giusto grado di forza, di volatile, di odoroso di
quella bevanda che noi italiani beviamo soltanto per consiglio del medico con somma
svogliatezza; siamo noi insensibili, ovvero s'ingannano essi credendo di sentire ciò che
non sentono? L'avere sino dalla piú tenera età osservato che le persone da noi credute
piú intelligenti mostravano dispiacere per una corda che distoni, l'averne piú volte
sentito il rimprovero noi stessi, colla lunga serie degli atti ripetuti non può forse
associare con una coesione durevole queste due idee, distonazione e dolore? Associate che
siano perché non ne mostreremmo noi gl'indizi anche ad animo pacato? Chi potrà mai
decidere se allora provi l'uomo il dolore che mostra? Lo decideranno i pochi che
preferiscono la verità alla opinione, che si occupano de' movimenti del loro animo, e
cercano di scacciare l'illusione che penetra sino entro i piú profondi ripostigli del
cuore. Quanto mai sono alcuni piaceri
indigeni d'un regno, e affatto diverrebbero insulsi col trasporto! Il Cinese ti dipinge la
sua Venere con una immensa fronte, con due occhietti schiacciati, un naso maccato e largo,
un ventre enorme: eccoti la piú voluttuosa donna per lui: s'inganna egli, ovvero
s'ingannò quel Greco incomparabile che scolpí la Venere Medicea? Io non parlo sull'idea
del bello, ma su quella del piacere che gli uomini in nazioni diverse collocano sopra
diversi oggetti. Gli antichi trovavano della delizia nell'odore della rosa; ora le persone
piú raffinate dicono di trovare disgustose quelle emanazioni. Un triclinio servito colla
delicatezza di Attico, ora moverebbe lo stomaco a nausea; il Falerno si raccoglie anche in
questo secolo, lo troviamo insipida e grossa bevanda, e le vivande impastate di mele
sarebbero postposte al mero pane. Un voluttuoso Mussulmano s'annoia alla nostra musica, ai
nostri spettacoli e prova ribrezzo de' nostri cibi; noi partiamo colla fame dalla mensa
degli Ottomani, che mischiano zucchero, ambra, e muschio nelle vivande, e fuggiamo la
melanconia de' loro concenti musicali, ai quali essi svengono per delizia. Fra i soli
Francesi e noi che disparità dí opinione non v'è per la musica vocale! l'uno trova una
sensazione grata, dove l'altro la trova dolorosa. Alcuni Turchi di maggiore distinzione
fatti prigionieri dai Russi nell'ultima guerra furono onorevolmente scortati a
Pietroburgo, ovc quella sovrana voleva che mirando da vicino la sua umanità e lo
splendore di sua corte, tornassero poi a darne un'idea nella loro patria. Portò la sua
cura l'imperatrice oltre l'alloggio ricco e agiato, sino a destinar loro una loggia al
teatro; ivi né la musica, né il ballo, né il prestigio delle decorazioni e
dell'inusitato spettacolo poterono mai ottenere dal loro volto un cenno di piacere;
tristi, svogliati, godevano nel momento solo in cui finiva. L'ufficiale destinato a servir
loro d'interprete fece loro sentire quanto ospitale fosse l'accoglienza che si faceva ai
nemici, pensando a rendere ameno e profittevole il tempo stesso della loro prigionia.
"Convien bene piegarci e obbedire quando siam presi", cosí rispose il primo di
essi che credeva una pena e uno scorno l'essere cosí condotti in pubblico; e il sorriso
apparve sui loro volti, quando udirono che era ad essi libero il non venire, e di questa
libertà profittarono, né mai piú vennero al teatro. I veri dolori e piaceri fisici
non sono tanto variati, e sono quelli che sempre e in ogni paese cagionano dolore o
piacere all'uomo sanamente organizzato. Non si dà dolor fisico, senza lacerazione; e qual
lacerazione cagionerà mai nell'orecchio uno stromento discorde, un errore di lingua, un
endecasillabo sgraziato? Il compositore di musica, il grammatico, il poeta credono di
soffrirne dolore; ed io credo che non lo soffrano, e che per imitazione altrui dapprima,
poi per abitudine, ne mostrino i segni, credendosi essi medesimi addolorati; e per
convincermene ho osservato che né il canto gregoriano, né alcuni inni composti ne'
secoli meno colti cagionano dolore al musico, al poeta, al grammatico che gli ascolta. De'
piaceri fisici di opinione per lo contrario io credo che siano sentiti veramente, perché
veramente producono delle rapide cessazioni di dolore: non è poca consolazione il poter
dire a noi medesimi: "Sono un buono e delicato conoscitore". Il continuo timore
di valer poco che sta nel fondo del cuore dell'uomo incivilito è una sorgente perenne di
questi piaceri; un lampo che ce lo scuota, e che rapidamente ce ne storni la dolorosa
vista, è un piacere. L'educazione ci forma, per dir cosí, nuovi sensi: un fanciullo non
sa che gli odori possano cagionar dolore né piacere: indifferente prova i grati e
disgustosi senza dar segno di alcun sentimento, a meno che non diano una scossa capace di
formare una lacerazione negli organi dell'olfatto o della respirazione: il selvaggio
egualmente, e il sibarita al primo fiuto distingue l'ambra, la tuberosa, il muschio,
l'essenza di rose di Persia, rifiuta un'essenza oleosa, sviene accostandosi a una
traspirazione volgare. L'occhio d'un fanciullo e quello d'un uomo rozzo rimirano colla
tranquillità e disattenzione medesima, una facciata del Palladio, e un edificio di
struttura capricciosa, che impropriamente chiamiamo gotica: il conoscitore delle belle
arti crede di provare ad una vista il dolore e nell'altra sente un piacere, perché cessa
rapidamente qualche dolore innominato in lui, e singolarmente il timore di non valer molto
perché scopre qualche nuova combinazione che confusamente sentiva di non poter trovare, o
per altri moltissimi e sottilissimi dolori preparati sempre nello stato di società, ai
quali quella vista ha dato un rapido ammorzamento. L'uomo incivilito per l'istesso
principio anche nella società trova il tuono della voce di uno dolce e piacevole, e duro
e ingrato quello d'un altro: la voce d'una donna talvolta seduce e desta la sensibilità
del cuore per un non so che di velato e sensibile che ella annunzia; il Caraibo non se
n'è avveduto mai. Alla cena un elegante Europeo di questi tempi preferirà i vini del
Reno e della Borgogna agli altri; il meno raffinato cercherà una bevanda meno acida e che
conservi di piú il sapore del frutto; dico un elegante Europeo di questi tempi, perché
è verosimile assai che i nostri posteri trattino con noi come facciamo noi co' nostri
antenati, e che ci compiangano per le nostre delizie nella musica, nella mensa, e in tutti
i piaceri nostri di opinione, come facciamo noi della verdea, della malvasia, del Corelli,
del Bernini, e di quanto formò il raffinamento degli avi nostri. Una dimostrazione cospicua di
questa verità, che nell'uomo artificiale si creano moltissimi dolori e piaceri di
opinione, ce la somministra l'antica Roma tanto avida dello spettacolo de' gladiatori. Le
vergini, le matrone, i fanciulli romani si affollavano all'anfiteatro, e avidamente
godevano nel mirare piú uomini che col pugnale in mano si battevano a morte; li volevano
veder nudi per meglio osservare il ferro acuto che doveva forarli; li volevano ben
pasciuti perché l'adipe istesso rendendo piú lento lo sgorgo del sangue riusciva lo
spettacolo della morte piú prolungato; si assaporava la grazia della positura in cui
sapeva rendersi pittoresco il morire, e il gladiatore si applaudiva dagli astanti perché
agonizzasse con leggiadria. Nelle mense medesime piú festose, mentre coricati i Romani
epicurei ponevano pausa al cibo, venivano i gladiatori a ricolmare la voluttà de'
convitati; e le mense grondanti umano sangue, e coperte di murene e greci vini, e i
singhiozzi de' moribondi, frammischiati alle festevoli sinfonie, cagionavano le delizie e
il delicato raffinamento de' piaceri. Troppo è noto il fatto, ed è pur noto che somma
rusticità allora si reputava dai Romani se mai per annunziare che taluno era morto si
fosse detto obiit, o simile espressione, dovendosi usare la piú mite e dire vixit quasi
che il ricordare a voce la morte naturale d'un uomo potesse essere dolorosa cosa ad un
popolo che con giubilo la mirava eseguita con violenza e atrocità. Egli è certo che se
ai tempi nostri nel Colosséo si rappresentassero queste carneficine, non che le tenere
vergini e le donne e i giovani, ma gli uomini ancora meno sensibili ne proverebbero un
dolore, e il dolore e la lacerazione interna cagionata dalla compassione giugnerebbero al
grado di portare molti degli spettatori allo stato della malattia. Io credo che a misura
che l'uomo è piú rozzo ha bisogno di oggetti piú violenti per godere di uno spettacolo;
e all'altra estremità pure dell'artificioso raffinamento torna ad avere lo stesso
bisogno, perché conviene adoperare un colpo piú energico per conciliarci l'attenzione
d'un essere difficilmente sensibile, quanto d'un essere molto occupato delle proprie idee. XIII. -
Schiarimento sull'indole dei dolori e dei piaceri Il tempo che passiamo con
piacere ci sembra breve, e quello in cui soffriamo dolore lunghissimo. Il tempo
relativamente a noi altro non è che la successione delle nostre sensazioni. Se un uomo
potesse per degli anni di séguito restare assorbito nell'estasi di una sola idea, egli
non si accorgerebbe che sia trascorso tempo. Ciò posto, se le ore del dolore ci sembrano
lunghe, convien dire che molte e replicate e fitte sensazioni siansi provate durante
quello spazio di tempo; onde riflettendo noi alla serie per la quale passammo, giudichiamo
essere trascorso piú tempo che il pendolo non ci indica; e se le ore del piacere ci
sembran brevi, convien pur dire che il tempo trascorso non fosse variato da replicate
scosse e sensazioni. Quindi apparisce esser il tempo del piacere una cessazione d'azione,
uno stato uniforme dell'animo, e perciò giudicarsi breve, perché egli e' una quantità
negativa, ed un accostamento al non essere; laddove il dolore è una quantità di azione
positiva, e nella rapida cessazione di lei consiste il piacere. Ecco perché altresí il
piacere per sua indole debb'esser breve, né può protraersi oltre un corto spazio;
laddove il dolore può essere tanto lungo e durevole quanto la vita che ci può togliere;
perché una azione positiva sopra di noi non ha altri confini di tempo che la nostra
sensibilità; invece una mera cessazione rapida di dolore non può allungarsi senza
continuo discapito della rapidità sua, e annientata questa, s'annienta il piacere, come
si è detto di sopra. Quando è mai che l'uomo corra
piú avidamente in traccia dei piaceri? Ciò è nel punto in cui egli è piú infelice e
soffre i mali maggiori. Dopo di un tremuoto, di un grande incendio, nel tempo della
pestilenza, l'uomo naturalmente punto da mille oggetti di miseria propria e altrui si
getta alla piú libertina sfrenatezza; quei riguardi che tenevano nella moderazione il
cittadino in tempi migliori, nel disastro, nella folla de' mali, sono troppo deboli fili;
non è sopportabile lo stato continuato e atroce dei dolori morali; si rompono i ritegni,
e si corre clamorosamente dietro un piacere qualunque purché s'ottenga una tregua ai mali
con una rapida cessazion di dolore. Quanto è piú violento il dolore, e quanto ne è piú
rapida la cessazione, tanto piú intenso ne sarà sempre il piacere. I vecchi generali
induriti nella militare disciplina, e insensibili quasi alla gioia, si vedono dopo d'una
battaglia vinta, inondati di lacrime di allegrezza; sono in quel momento i piú sensibili,
i piú cordiali uomini del mondo. I dolorosissimi sentimenti che assalgono il cuore
d'ognuno al combattere, la natura che internamente grida, l'onore che forzatamente compone
il nostro aspetto, la fortuna dello stato nostro, sentimenti violentissimi che ci
stringono, scompaiono al momento che il nemico fugge e quella rapida cessazione fa
palpitare anco le fibre piú incallite. Da una pericolosa burrasca un soffio celere di
vento se ti salvi in un porto sicuro, vedrai i piú insensibili uomini marinareschi
abbracciarsi l'un l'altro con trasporto di gioia, gridare, cantare, abbandonarsi alla
delizia cagionata dalla cessazione rapida dei mali. Non mi si troverà un solo dolor
fisico o morale, la di cui rapida cessazione, non sia un piacere. Non mi si troverà un
solo piacer fisico ovvero morale, del quale sicuramente si possa dire non essere questo
cagionato da una rapida cessazion di dolore, o fisico o morale o innominato. Ecco ridotti
con ciò i fenomeni della sensibilità a un solo principio, cioé alla fuga del dolore,
giacché l'amor del piacere si risolve in una fuga rapida del dolore, e cosí i due
elementi della sensibilità nostra accennati all'introduzione di questo discorso, si
risolvono in un principio solo, la fuga, come si è detto, del dolore; e dipendendo il
dolor fisico dalla lacerazione e il dolor morale dal timore, eccoci ai due ultimi termini
che immediatamente toccano la nebbia sacra del nostro essere e che ci additano però i due
mezzi che producono il nostro movimento. Fra i misteri
della fisica deve riporsi la elasticità. Una molla di fino acciaio, stassene immobile sin
tanto che non venga compressa: il mistero della sensibilità vi ha molta rassomiglianza:
l'uomo privo di sensazioni rimane parimenti immobile; comprimilo, addoloralo, ei si
rannicchia in sé stesso e si move. Se la compressione è passeggera e tenue, la molla
rimbalzando se ne libera e nel primo slancio si dilata anche oltre il limite in cui prima
trovavasi. Cosí la sensibilità. Se il dolore sia moderato e passeggero al cessare di
esso la gioia sembra che la dilati e la estenda anche quasi fuor di sé: il dolore è
quasi un raggruppamento, una condensazione; ed è espansiva, e sembra grandeggiare la
gioia. Comprimi la molla con eccessivo peso, ella perderà l'elasticità, o sarà
infranta: opprimi l'uomo con eccessivo dolore, o lo renderai stupido, o lo ucciderai.
Togli alla molla la compressione per gradi insensibili, e ritorna allo stato primiero
senza rimbalzo: toglimi insensibilmente il dolore, e giungo alla tranquillità senza
piacere. Assoggetta la molla a un peso uniforme e lasciala per molto tempo compressa
immobilmente, la elasticità sarà diminuita, e non sarà mai piú quella di prima:
aggrava l'uomo di un dolore diuturno e uniforme, non riacquista piú la squisita
sensibilità di prima, col lungo tratto l'uomo s'indurisce ai mali, la sensibilità
s'incallisce e cade nella indolenza o nella disperazione. XIV. - Se nella
vita siano piú i dolori overo i piaceri Sono adunque piú i mali, o i
beni in questa vita? La somma totale de' dolori è ella eguale, maggiore, ovvero minore
della somma totale de' piaceri? Ogni uomo prova egli una porzione uguale di bene e male?
Su di tali questioni trattate ingegnosamente da vari illustri italiani all'occasione del
libro del signor di Maupertuis, io ardirò dire quello che ne sento, e quanto parmi
scaturire dai principi già indicati. V'è chi osservò non essere due quantità
paragonabili dolore e piacere, e non potersi mai esattamente trovare una di queste due
serie di sensazioni che sia uguale o doppia o tripla dell'altra. In fatti dammi un piacere
che esattamente valga un determinato dolore? La mente umana non ha mezzi onde graduarli,
né abbiamo veruna macchina che serva di misura, come i termometri, i pendoli, i palmi, le
once ci fanno paragonare i gradi di calore, il tempo, l'estensione, i pesi ecc. Ciò non
ostante nella pratica delle nostre azioni noi facciamo tacitamente paragoni continui fra
il male e il bene, fra il dolore e il piacere. L'ambizioso, l'innamorato, l'avaro, il
vendicativo quanti mali non affrontano, quante sensazioni dolorose spontaneamente non
iscelgono, perché giudicano praticamente che il piacere che se ne promettono sarà
maggiore del male che son disposti a soffrire per ottenerlo! Anche gli uomini piú pacati,
e non mossi da forte passione scelgono sempre fra il dolore e il piacere, e ne fanno
continuo calcolo di paragone. L'uscir di casa con un tempo cattivo, l'attraversare un
lungo cammino a piedi, l'uscir di buon'ora da letto ove mollemente ti giaceresti, il
differire a cibarti ecc., sono piccoli dolori, ma però lo sono; e ogni uomo li giudica
una quantità minore del piacere che avrà d'aver visitato un amico, d'avere esattamente
adempiuto agli obblighi dello stato, d'aver usata urbanità e compiacenza ecc. Se adunque
nella pratica l'uomo paragona continuamente i dolori e i piaceri, convien dire che sieno
due quantità prossimamente paragonabili. Ogni azione nostra si assomiglia a una compra:
si dà il denaro per avere una cosa: il privarsi del danaro per sé è un male; ma quando
compriamo, giudichiamo che è un bene maggiore di questo male la cosa che ricerchiamo. In
ogni condizione in cui sia l'uomo, anche sotto al trono, è costretto a fare una quantità
di azioni penose, incomode, dolorose per acquistarsi i piaceri. Questo calcolo l'uomo lo
fa abitualmente. Ciò posto, siccome di sopra
ho detto, il piacere non essendo che una rapida cessazione di dolore, non può in
conseguenza essere maggiore giammai della quantità del dolore, la di cui cessazione non
può essere maggior quantità che lui medesimo. Di piú l'uomo soffre dei dolori i quali
cessano lentamente, onde non hanno un piacere che ad essi corrisponda. Dunque la somma
totale delle sensazioni dolorose debb'essere in ogni uomo maggiore della somma totale
delle sensazioni piacevoli. Tal è la condizione dell'uomo; ma la seducente e consolatrice
speranza ci sta sempre al fianco sino all'ultimo respiro, sparge di rose la scoscesa e
laboriosissima via; per lei prendiamo vigore e fiato; e s'ella ci spigne al di là del
breve viver nostro, ci fa ridenti attraversare fra le difficoltà piú scabrose e placidi
soffrire anche i dolori piú forti. Se fosse vero
che ogni uomo egualmente avesse che soffrire e che godere; se fosse vero che il sano,
ricco, libero, rispettato, avesse tanti mali e beni, quanti ne ha l'infermo, povero,
carcerato e abbietto, questa odiosissima verità, distruggitrice di ogni germe benefico di
compassione, sarebbe da proscriversi da chiunque onora l'umanità. Ma la immortale verità
non nuoce ai piú cari e preziosi sentimenti dell'uomo, e l'opinione di questa sognata
uguaglianza è un patentissimo errore. Se ogni piacere consiste nella rapida cessazione
d'un dolore, e se ogni dolore può cessare anche lentamente ne viene per conseguenza che
può essere diversissima la proporzione fra l'uomo e l'uomo; e mentre uno nella serie
della sua vita avrà un terzo delle sue sensazioni piacevoli, un altro appena ne avrà un
decimo, un centesimo. E qui do fine al
mio discorso. Lontano egualmente dal gregge degli Epicurei, come dall'insensibilità della
Stoa, se avrò fatte cessare rapidamente e con frequenza le sensazioni dolorose di chi mi
ha letto; se avrò invitato a pensare ad analizzare l'inesauribile fondo della propria
sensibilità, avrò ottenuto il fine che mi era proposto. |
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Edizione HTML
a cura di: mail@debibliotheca.com Ultimo Aggiornamento: 14/07/05 23.49.05 |
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