LIBRO
QUARTO
Capitoli
I - XIII

CAPITOLO I
In forma quadra era il loco ch’io dico,
disabitato tutto e senza porte,
messo in dispregio per vecchio e antico.
E, poi che dentro fui con le mie scorte,
vidi una loggia fatta per memoria, 5
a volte tutta, intorno a una corte.
In ogni quadro suo avea una storia
con gran figure di marmo intagliato
sí belle, che ’l veder mi fu gran gloria.
Quivi era nel principio storiato 10
Cres, figliuolo di Nembrot, del cui nome
apresso Creti fu cosí chiamato;
poi Cielo, poi Saturno, e seguia come
Giove cacciava il padre fuor del regno
con poca compagnia e con men some. 15
Seguia di Giove ancor, sí come a ’ngegno
con Almena giacea e quanto Giuno
ebbe il figliuol ne la culla a disdegno.
Sí mirando gl’intagli a uno a uno,
seguir vedea come Ercules conquise 20
Anteo gigante, che vincea ciascuno;
similemente come a morte mise
Busiris, le tre Arpie e Gerione
e come Cacco ne la cava uccise.
Quivi era ancora del fiero dragone, 25
che guardava il bel pome, l’aspra morte
e quella de la cerva e del leone;
poi come entrava per le infernal porte
e ’ncatenava Cerber con tre teste,
e sostenea il ciel, tant’era forte. 30
Seguia, apresso, il danno e le tempeste
del fiero porco, ch’Arcadia guastava,
e come l’uccidea ne le foreste.
Quivi era ancor come la morte dava
a Diomedes, a Nesso e al centauro 35
e la cagion perché ben loro stava.
Quivi era in terra Acheloo il gran tauro;
quivi tollea lo scudo e la lorica
a Menalippa, che lucean com’auro.
Quivi era Iole, l’ultima sua amica; 40
quivi parea tagliar le teste a l’idra
e rotare ad un sasso il tristo Lica.
E sí come uom, che mirando disidra
di piú vedere e che quel che ha veduto
ne la sua mente imagina e considra, 45
facea io; e poi che proveduto
ebbi la prima parte, gli occhi porsi
a l’altra, e, come gli occhi, il passo muto.
Carano re con molta gente scorsi
sí come Agar edificar facea 50
e l’agurio del sito non trascorsi.
Cinus, Tiramans, Perdiccas vedea,
Archelao, Filippo e, dopo lui,
Aeropus, Alceta e Amintas parea;
poi seguiva Alessandro e di costui 55
prima parea che statua d’oro
Apollin ricevesse che d’altrui.
Nove n’annoverai dopo costoro,
tra’ quali vidi Archelao secondo
piú dato a studio ch’ad altro lavoro. 60
Aspero e fiero quanto fu al mondo
nel suo aspetto quivi si mostrava
Filippo armato e d’animo profondo.
Quivi era come Olimpia sposava
con molta festa e, apresso, seguia 65
come Atenes e Tessaglia acquistava.
Quivi era come in rotta si fuggia
la gente sua, ferito ne la coscia,
lasciando la gran preda per la via.
Quivi era il gran martiro e quell’angoscia
che sofferson da lui le genti grece,
per che suggette e ferme li fun poscia.
Quivi era come sedici anni e diece
regnato avea allora che fu morto
tra’ suoi e la vendetta che sen fece. 75
Non vidi lá tra quelli intagli scorto
come Arruba a la morte condusse
e tolse il regno falsamente e a torto.
Non vidi lá, né credo che vi fusse,
sí come i suoi fratelli ancora uccise 80
né la cagion che a tanto mal l’indusse.
Non vidi lá quel fallo che commise
per aver Cappadocia al suo dimino,
e quando i due signori a morte mise.
Quivi era com Natanabo fuggio 85
di Egitto a Filippo e cosí come
Alessandro era tal, che nel disio
piú non cercava latte né idiome.
Allor pensai e dissi: “Oh quanto è falso
chi incolpa altrui a torto e dá mal nome 90
e quanto è giusto se ’l compra poi salso!”.
CAPITOLO II
Compreso le due fronti de la loggia,
con le mie guide a la terza mi trassi,
ch’era piú degna assai e d’altra foggia;
e vidi, come quivi fermai i passi,
una reina seder sopra un letto 5
sí come donna quando in parto stassi.
Questa parea mirar con gran diletto
un suo figliuol co’ capei crespi e adorno,
ch’era dinanzi al suo vago cospetto.
Piú e piú donne vi parean d’intorno 10
per lui servire e per tenerlo ad agio
e per darli diletto notte e giorno.
Due aquile parean sopra ’l palagio:
l’una guardava in verso l’oriente,
l’altra a ponente, ma con men disagio. 15
Parea, come piú lá puosi poi mente,
Aristotile star per suo maestro,
Natanabo gran mago e intendente.
Bucifal v’era, indomito e silvestro,
legato con catene, come quello 20
che mordea e rompea ogni capestro.
Il giovinetto sicuro e isnello
n’andava a lui e cosí ne facea
come il pastore fa del suo agnello.
Vedea sí come il regno prendea, 25
morto Filippo, e sí come assalio
Nicolao re, vincendo quanto avea.
Vedea con quanti fuor di Grecia uscio
e, giunto in Asia, la bella proposta
che fece, quando il suo tra’ suoi partio. 30
Vedea Dario far beffe de la tosta
impresa sua e ’l papaver mandare:
ed ello a lui il pepe, per risposta.
Vedea il magno core e ’l gran donare;
vedea quant’era sollicito e presto 35
e rettorico bel nel suo parlare.
Vedea come salio aspro e rubesto
sul mur di Tiro e poi dentro gittarsi,
quando da’ suoi di fuori era piú chiesto.
Parea in vesta e in atto trasformarsi 40
per veder Dario e nasconder la coppa
e, conosciuto, fuggire e scamparsi.
Parean le schiere, parea com s’intoppa
l’un re con l’altro e Dario fuggire,
benché la gente sua fosse piú troppa. 45
Parea la crudel caccia e ’l gran martire;
parea la ricca preda e ’l grande arnese
e come largo e giusto fu il partire.
Parea quant’era benigno e cortese
a quelle donne pallide e ismorte,
che nel bel padiglion di Dario prese.
Parea l’altra battaglia acerba e forte
e come Dario, essendo sconfitto,
dai suoi tradito ricevette morte.
Lá vidi i traditori e vidi scritto 55
la lor dimanda e la risposta ancora,
seguendo la giustizia, dopo il ditto.
Lá vidi com l’antica madre onora
del morto re e la bella Rossena,
ch’era una dea, a riguardare, allora. 60
Lá vidi come la grand’oste mena
vincendo Ircani, Siti e Armini
e come Gog e Magog incatena.
Lá vidi adorna, e sopra i biondi crini
una corona, Talestris reina 65
venire a lui, oltre le sue confini.
Lá vidi come a forza e per rapina
Iberia prese, Albania e Paflagona,
i Battri e i Seri, in fino a la marina.
Seguia Dionides, del qual si sona 70
che ’l mar rubava e che parlò sí vivo,
che acquistò terra e scampò la persona.
Seguia del pover misero e cattivo
che dimandò ’l bisante e quel li diede
una cittá di che fu sempre divo. 75
Seguia come in fra l’altre sue gran prede
Bersana prese, onde Ercules nacque
lo qual cortese v’era e stava in piede.
Seguia quant’era bella e quanto piacque
Isifile venendo incontro a lui; 80
ma del piú dir l’intagliator si tacque.
Seguia come al giogo di costui
vennero Arabi, Siri, Medi e Persi,
disperati d’ogni soccorso altrui.
Quivi eran vinti gl’Indian diversi 85
e di sotto da lui disteso Poro
e morto Bucifal poi vi scopersi.
Quivi vedea una tavola d’oro
e vescovi e giudei in bianche veste
ed esso inginocchiato star fra loro. 90
Quivi pareano i mostri e le tempeste
che vide per trovar la luna e ’l sole,
dico per l’India e per le sue foreste.
Quivi parea turbar de le parole
che li rispuose l’uno e l’altro lume, 95
e l’atto come altrui coprir le vole.
Quivi parea mandar su per lo fiume
a cercar nuovo mondo e qual li porse
pietra il vecchio da le bianche piume.
Parea isconosciuto e come corse 100
a forte rischio e sí come Candace,
per l’asempro ch’avea, di lui s’accorse.
Parea regnar con tutto il mondo in pace;
in Babilona parea il tosco bere.
Oh, mondo cieco, quanto se’ fallace! 105
Lá pianto e morto me ’l parea vedere.
CAPITOLO III
Fiso mirava per avere indizio
se fosse in quella grande e ricca storia
del magnanimo re alcun suo vizio.
Ma, poi ch’io vidi ch’alcuna memoria
di quel non v’era, mi volsi a Solino, 5
che era il mio consiglio e la mia gloria,
e dissi lui: “Livio, tu e Giustino
e molti scrivon che costui fu vinto,
che vinse il tutto, da ira e da vino.
E qui non è intagliato né dipinto
la mortal furia, che si vide in lui
quando da questi vizi era sospinto”.
Ed ello: “Ciò ch’è scritto, di costui
fu vero e propio, da sí fatti autori:
e caro alfin li costò per altrui. 15
Ma questo uso e natura hanno i signori:
che vaghi son che si dica e dipinga
le lor magnificenze e i loro onori.
Similemente voglion che si stringa
le labbra a ragionare i lor difetti 20
e che d’udire e di veder s’infinga.
Però, se a star con alcun mai ti metti,
nel tuo parlar di loro abbi riguardo,
perché i piú troverai pien di sospetti.
E se vuoi dire che ’l buon re Adoardo 25
fece del vero pagare il buffone,
pagatol prima, se parve bugiardo,
dico che di cotale opinione
ne troverai men di diece tra cento”:
cosí seguio apresso il suo sermone. 30
Io era a le figure tutto attento,
quando l’altro mi disse: “In che t’abbagli?
Non se’ tu d’esse ben chiaro e contento?”
Rispuosi: “Sí, ma guardava gl’intagli,
che son sí belli, che gli archi trionfali, 35
ch’io vidi a Roma, non par che gli agguagli.
Poi i porfidi e i marmi naturali
che in San Lorenzo ha Genova, a la porta,
sarebbon vili in vèr questi cotali”.
Ed ello a me: “È la tua vista accorta 40
ch’alcun come topazio il volto ha giallo,
l’altro ha la carne qual cenere smorta,
e chi qual rubin rosso over corallo
e tal par diamante o nera mora,
qual bianco come perla over cristallo? 45
Similemente ce ne vedi ancora
in indaco color tratto a zaffiro
e tal come smeraldo si colora”.
E io a lui: “Ben veggio chiaro e miro
che isvariati sono in forma e in visi; 50
ma la cagion perch’è saper disiro”.
Ed ello: “A ciò che, andando, te ne avisi,
se cerchi l’universo tutto a tondo,
è buon che com’è il ver qui ti divisi.
Qui son le forme d’uomini secondo, 55
e quelle di animali, com le vide
costui, che miri qui, che vinse il mondo.
Poi, come l’occhio tuo cerne e divide,
di far la storia tanto bella e propia
da diversi maestri si provide. 60
Ma muovi i piedi omai, se tu vuoi copia
di quei che sono nel quarto compasso
e vedrai signorie cadere inopia.
Io vidi, come mossi gli occhi e ’l passo,
que’ re, che funno al grande testamento, 65
tenere i regni, che nomar qui lasso.
Li spregionati e ’l lor raunamento,
superbia, invidia e avarizia
parean cagion del gran distruggimento.
Vedeva Olimpia a l’ultima tristizia 70
forte e viril del cuor; quivi parea
Cassander d’ira pieno e di nequizia.
Quivi armato Eumenes vedea
uscir di Cappadocia e come uccise
Neoptolemus e i colpi che facea. 75
Quivi era, apresso, come si divise
Antigonus di Frigia e sí com’esso
tradito Eumenes a morte mise.
Quivi era come Leonato apresso,
combattendo in contro a quei d’Atena, 80
fu con la gente sua a morte messo.
Seguia come fuor di Media mena
Perdiccas la sua gente e come alfine
in Egitto si sparse ogni sua vena.
Seguia l’agguato e ’l bosco e le confine 85
dove Antipater, morta la madre,
morto rimase in su le triste spine.
Vedea come piangea il suo buon padre
Demetrius, ricordando il valore
e le battaglie sue forti e leggiadre. 90
Vedea vecchio morire a gran dolore
Lisimacus: e questo parea degno,
tanto crudel mostrava e senza amore.
Vedea sí come a forza e con ingegno
Nicanor morto giacea in su la terra 95
e come Tolomeo si tollea ’l regno.
Poi vidi scritto: “Dodici anni in guerra
visse Alessandro e trentadue n’avea,
quando morte crudel gli occhi suoi serra”.
Poi seguitar, dopo questo, vedea 100
dico scolpito in lettere grece,
che da Adam fino a lui esser potea
quattro mila anni novecento diece.
CAPITOLO IV
Sí come mossi un poco innanzi il passo,
vidi quindici re seguire apresso,
ciascun, qual fu, regnar nel suo compasso.
Filippo Arideo quivi era messo
dinanzi a tutti e l’ultimo poi vidi 5
Perseo in atto d’uom che piange adesso.
Lettor, non vo’ che, leggendo, ti fidi
ch’io divisi le storie tutte a punto
ne le figure, com’io le providi,
però che sí mi stringe, a questo punto, 10
la lunga tema, ch’io fo come ’l sarto,
che per fretta trapassa spesso il punto.
Venuto al fin di questo quadro quarto,
Antedamas domandai se v’era
che fosse da notare altrove sparto. 15
Rispuose: “No; ma di questo t’avera:
che pria che Roma n’avesse il dominio,
di nove cose assai da notar c’era:
i’ dico quando Paulo e Muminio
acquistaro il paese, per che allora 20
arso e guasto fu ogni bel minio”.
“Indarno omai, diss’io, qui si dimora;
buono è il partire e ritrovar la via,
ché c’è del dí ben da sette ore ancora”.
E colui, ch’era in nostra compagnia, 25
ci disse: “In fine al fiume di Strimone
con esso voi la mia venuta sia”.
Noi, dopo questo, senza piú sermone,
indi partimmo e trovammo la strada
buona e diritta a la mia intenzione. 30
“A ciò che senza frutto non si vada,
disse la guida mia, è buon trattare
alcuna cosa di questa contrada.
Dico nel tempo, che piú vecchio pare,
questo paese Emazia si disse 35
da Emazio, che il prese ad abitare.
Apresso, Macedonia sí si scrisse
da Macedo di Deucalion nepote,
che tenne il regno tanto quanto visse.
Per queste piagge e pendici remote 40
a chi sa l’arte e far ne vuol la prova
oro e argento assai trovar ne puote.
Qui la pietra peanite non è nova
e propio in quella parte ov’è la tomba
di Tiresia molte se ne trova. 45
Quando ’l torbo aire per gran tron rimbomba,
e l’acqua versa sí forte e rubesta,
che sassi per le rive move e spiomba,
la battaglia crudel ci è manifesta
dove fun morti li giganti in Flegra,
perché grandi ossa scopre la tempesta”.
E poi che ’l dí, andando noi, s’annegra,
Antedamas ad un ostel ci guida,
dove stemmo la notte tutta integra.
Ma come il sol sopra ’l cerchio si snida 55
che si chiama orizzonte, il cammin presi
con la mia compagnia onesta e fida.
Forse otto miglia era ito, ch’io compresi
un monte innanzi a me, ch’era alto tanto,
che indarno l’occhio a la cima sospesi. 60
Allor mi volsi dal mio destro canto
e dimandai Solin: “Che monte è questo,
che sopra ogni altro si puote dar vanto?”
Ed esso a me rispuose accorto e presto:
“Olimpo è detto, lo quale ololampo 65
interpretato trovi in alcun testo”.
E io a lui: “Di salir suso avampo
sí per la fama sua, sí per coloro
che lá su, per veder, giá puosen campo”.
Qui non fun piú parole né dimoro: 70
le guide mie si misono a salire
su per lo monte e io apresso loro.
Lettor, tu dèi pensar che senza ardire,
senza affanno soffrire l’uom non puote
fama acquistar né gran cosa fornire. 75
Io non fui su per quelle vie rimote,
ch’ogni mio poro si converse in fonte
e acqua venni dal capo a le piote.9
Ma poi ch’io fui al sommo del gran monte,
dove posar credea e prender lena, 80
io mi sentio gravar gli occhi e la fronte,
e ’l sangue spaventar per ogni vena,
tremare il cuore, e venni freddo e smorto
come chi giunge a l’ultima sua pena.
Solino allora, sí come uomo accorto, 85
misemi al naso una bagnata spunga,
per la qual presi subito conforto:
“Piú non temer che l’accidente giunga,
però che qui trovâr questo argomento
quei buon che veder volsono a la lunga”. 90
Come fuor mi sentio d’ogni spavento,
con le mie guide e con la spunga al naso
mi mossi tutto ancor debole e lento.
Io vidi un fiumicel, che raso raso
passava per lo monte tanto chiaro, 95
che mi sovenne di quel di Parnaso.
Poi un divoto loco mi mostraro
somigliante a la Verna, ove giá fue
l’altar di Giove e ’l tempio santo e caro.
Cosí andando sol con questi due, 100
Solin mi disse: “Or puoi veder che Omero
non ignorava il sito di qua sue,
e che Virgilio ancor ne scrisse il vero:
vedi i nuvol che cuopron l’altre poggia
e qui è l’aire chiaro, puro e intero. 105
Grandine mai non ci cade né pioggia
e di quattr’ore pria che porti il giorno
il sol fra noi lá giú, qua su s’appoggia”.
Cosí cercammo quel monte d’intorno.
CAPITOLO V
Cercato il monte alpestro e romito
con le mie guide, cosí per quei sassi
discesi giuso, ond’io era salito.
E poi ch’al piano con que’ due mi trassi,
dimandai lor: “Quale è la nostra strada?”,
senza dar posa a’ membri, ch’eran lassi.
E colui ch’era nosco: “Se vi aggrada
d’essere in Tracia, questa da sinestra
tien dritto lá sí come un fil di spada.
E quest’altra, che ci è da la man destra,
va in verso Acaia ed è piú presso al mare
e l’una e l’altra è sicura e maestra”.
“Questa, disse Solin, si convien fare”.
E io a lui: “Poi che far si convene,
qui non bisogna, omai, di piú pensare”.
Allor si mosse la mia cara spene
e l’altro e io seguitavamo il passo,
istretti sempre dietro a le sue rene.
Io andava col capo un poco basso,
ascoltando que’ due che dicean cose
belle e antiche, che a scrivere qui lasso.
E poi che fin ciascuno al suo dir pose,
trovammo un fiume, che gran letto stende,
grave a guadar per le pietre noiose.
“Solin, diss’io, questo fiume onde scende?”
Ed ello a me rispuose: “Del monte Ida
surge una fonte, onde il principio prende.
A volte, come l’uom la ridda guida,
passando se ne vien per Macedona,
in fino che nel mar Egeo s’annida.
Partus ha nome, del qual si ragiona
che Io, per li poeti, fu sua figlia,
per la quale Argus perdeo la persona”.
E io: “Dimmi, il guado ove si piglia?”
Ed ello a me: “A la nave si varca,
ch’esser suol presso qui forsi a tre miglia”.
Cosí su per la ripa, che s’inarca,
andavam ragionando, in fin che noi
giungemmo ov’era a la piaggia una barca.
Passati lí, disse ’l nocchier: “Se voi
ite in Acaia, di salir la collina
e di tenere ad austro non vi noi”.
Per quella via solinga e pellegrina,
che ci additò il nocchier, andammo in fine
che ci vedemmo intorno la marina. 45
“Qui, disse Solin, sono le confine
d’Acaia, che da Acheo prese il nome,
che re ne fu in fino a la sua fine.
E guarda ch’ella è tutta nel mar, come
isola fosse, salvo che la terra, 50
dove noi siamo, la tien per le chiome.
Ricca è per pace e forte per guerra
per lo buon sito e per la molta gente
e perché ’l mar, come vedi, la serra.
Ma passiam oltra e, andando, poni mente, 55
perch’è piú ver ciò che l’occhio figura,
che quel che s’ode o imagina la mente”.
Secondo che mi disse, io ponea cura
or qua or lá, ciascuna novitade
addimandando, quando m’era oscura. 60
Io vidi e fui ne l’antica cittade
che ’l nome prese dal figliuol d’Oreste
e dove Polo di fama non cade.
E vidi Stix che move le rubeste
e grosse pietre con tanto furore, 65
che pare, a chi vi passa, che tempeste.
E vidi dove surge ed esce fore
Alfeo del nido e come la sua via
va dritto al mar Cerauno, dove more.
Vidi Chiarenza e vidi Malvasia 70
famosa e nominata piú al mondo
per lo buon vin, che per cosa che sia.
Cosí, cercando per quadro e per tondo
questo paese, Inacus trovai
largo di ripe e cupo nel fondo. 75
“Da poi, disse Solin, che veduto hai
questa provincia, è buono d’aver copia
come confina, ché altrove non l’hai.
Lo mar Cerauno a levante s’appropia,
dal mezzodí lo Ionio e da ponente
l’Africo giunge e l’isola Casopia.
Ma vienne omai e troviamo altra gente”.
E io: “Va pur, ch’i’ sono a la tua posta
e ogni indugio è grave a la mia mente”.
Allor si mise propio per la costa, 85
ché noi venimmo in vèr settentrione,
lá dov’io dico che la terra è posta.
A la man destra, senza piú sermone
andava io diretro a le mie guide,
in fin che fummo al fiume di Strimone. 90
“Ecco l’acqua ed il ponte che divide
– disse Antedamas e fermò il passo –
Macedona da Tracia”, come ’l vide.
“Qui rimango io e qui è ’l vostro passo”:
onde Solin la man li porse allora, 95
dicendo: “Amico mio, a Dio ti lasso”.
E cosí li feci io e dissi ancora.
CAPITOLO VI
Qui segue ’l tempo a ragionar di Trazia,
però che giunti in su la proda semo,
e dir di quel che dentro vi si spazia.
“Questo fiume, che vedi, di monte Emo,
disse Solino andando noi, discende 5
né perde in fine al mar vela né remo.
Tiras fue da cui il nome prende,
creato da Iafet, questa provincia,
ben che per altro modo alcun lo ’ntende.
Questo paese, quando s’incomincia 10
il mondo ad abitar, molti e diversi
popoli tenne per traverse e schincia:
i’ dico Massageti, Siti e Bersi,
Sarmati e piú e piú barbara gente,
de’ quali i nomi i piú sono ora persi. 15
E se tu leggerai e porrai mente
non pur nel mio, ma in molti altri volumi,
come viver soleano anticamente,
vedrai ch’eran di modi e di costumi
sí svariati da que’ che s’usan ora, 20
quanto è un corbo dal cigno di piumi.
La natura de’ gru mi disse allora,
come la scrive, e i bei provedimenti
c’hanno al volare e al dormire ancora;
e quanto sonvi con grandi argomenti 25
le rondini, lo stino e ’l bisanteo
e nel viver solleciti e attenti.
Cosí parlando, vidi Rodopeo
al quale Rodopea di Demofonte
lo nome dié, quando ’l primo perdeo. 30
Un fiume surge d’una chiara fonte,
che Mesto noman quei de la contrada:
questo passammo su per un bel ponte.
Io udii ancora pur per quella strada
che un altro v’era tanto grosso d’acqua, 35
che la state e il verno mal si guada:
per lungo corso gran terreno adacqua
e bagna di Pangeo la radice;
poi corre in mare, dove si scialacqua:
Ebrum, secondo ch’io udio, si dice; 40
e cosí me ’l nomò la scorta mia,
andando sempre per quelle pendice.
Poi ci traemmo per la dritta via,
dove trovammo lo stagno Bistonio,
ch’assai famoso par che di lá sia. 45
Un luogo v’è che si chiama Sitonio,
ove Orfeo nacque, che col dolce sono
lusingava in inferno ogni demonio.
E cosí sopra il mare giunto sono,
lo qual si stringe tra Abidos e Sesto
sí, che da sette stadi esser vi pono.
“L’occhio aguzza, Solino disse, a questo
punto e nota ben ciò che io diviso,
ché senza chiosa qui val poco il testo.
Elles dal padre accomiatata e Friso, 55
colpa de la crudel noverca loro,
che non soffria mirarli per lo viso,
con un monton la madre e con molto oro
apparve lor, dicendo: “Questo mare
qui su passate e non fate dimoro, 60
e, per la vita, a dietro non guardare”.
Saliti in su la bestia forte e doma,
entrâr ne l’acqua e misonsi a passare.
Volsesi Elles lasciando corna e coma,
onde giú cadde e annegata quivi 65
per lei quel luogo Ellesponto si noma.
Passato Frisso e giunto sopra i rivi,
forte piangendo la bella sorore,
bagnava gli occhi suoi grami e cattivi.
Con grande avere e con molto dolore, 70
come detto li fu, passò in Colco
per fare a Marte, in quella parte, onore.
A piè d’un arbor puose, sopra il solco,
il drago e ’l tauro e suvvi l’aureo vello,
per lo qual poi Ianson si fe’ bifolco. 75
Ancor per questo mar, ch’io ti favello,
Aleandro, nuotando ov’Ero adora,
perdeo la forza e affogò in ello.
Similmente per questa stretta ancora
Serses fe’ far di navi il forte ponte, 80
onde passò di qua in sua malora.
Ma movi i piedi e drizza la tua fronte
per ritrovare l’isole Ciclade,
che cinque volte diece e piú son conte,
ché piú non veggio per queste contrade 85
da notar cosa alcuna e, se giá fue,
venuta è meno per la lunga etade”.
Per questo modo andando noi due,
trovammo un legno a punto su la riva,
sopra il quale ello e io salimmo sue. 90
Seguita ora ch’io divisi e scriva
le novitá, ch’io vidi e ch’io udio
per questo mar, di che la fama è viva,
poi che da piaggia in tutto mi partio.
CAPITOLO VII
L’isola prima, che ci diede porto,
quella di Creti fu, sí come piacque
ch’io dovessi arrivare al mio conforto.
Dal temperato ciel, la terra e l’acque.
Macaronneson in prima si disse; 5
ma da Cres re il propio nome nacque.
Io fui dove nascoso Giove visse,
benché fra lor n’è or poca memoria,
quando ’l suo padre volse che morisse.
E fui ancor dove Dedalo storia 10
la cosa ch’è ritrosa al Minotoro
di cui Teseo prese poi vittoria.
Fama è per quelli che vi fan dimoro
che giá si vide con cento cittade,
onde Centopol si dicea fra loro. 15
Qui fu, in prima che in altre contrade,
ragion trovata e ordinata legge,
arme, saette e altre novitade;
qui per Pirrico domi e messi in gregge
prima cavai, che in alcun’altra parte, 20
secondo che si conta e che si legge;
qui prima si trovò lo studio e l’arte
de la musica e qui prima fun remi
fatti a le navi e vela con sarte.
Solino andando e io per quelli stremi,
mi disse: “Guarda Ida, ch’è sí alto
che prima vede il sol che su vi tremi.
Cadisto e Ditinneo di minor salto
non credo: onde la gente navicante
per nuvol gli hanno nel lor primo assalto. 30
D’ogni buon frutto qui vedi le piante;
similemente ancora ci si trova
d’un’erba e d’altra, che son sane e sante.
Lupo né volpe alcuna ci cova,
nottol né serpe e, s’alcun ci si porta, 35
come pesce senz’acqua ci fa prova.
Ma se di questi la vita ci è morta,
di pecore e di capre grandi stuoli
trovar ci puoi e di simile sorta
e qual per piú salvatico ci toli. 40
La terra è sí de la natura amica,
che tutta è buona da far prati e broli.
Quelle cittá, che ne l’etate antica
eran di maggior nome, fun Gortina,
Cnoso, Teranna, Cilisso e Cidonica. 45
De’ fiumi, che ne vanno a la marina,
al tempo d’ora piú chiari ci sono
Gortina e Lipisso, che di qua china.
Di tutti i vermi, c’han tosco, ragiono
solo il falangio, che di ragno ha forma, 50
la cui puntura è il piú senza perdono.
Qui si trova una gemma, e scrivi in norma
Idaeus dactylus, di color ferrigna,
che di pollice umano mostra forma.
La pianta d’ogni vin, ch’è buon, vi alligna 55
quanto in altro luogo e qui t’insegno
che l’erba alimo nasce e c’ingramigna.
Al modo che giacer vedesi un legno
d’abete, lungo e grosso, in su la terra,
co’ rami tronchi, l’isola disegno. 60
Diciotto volte diece miglia serra
la sua lunghezza e cinquanta in traverso,
se l’antica misura qui non erra.
Le sue confine son per questo verso:
Libico mar dal mezzodì la cinge, 65
sí come legger puoi in alcun verso.
A Carpatos da levante si stringe;
poi da ponente e da settentrione
l’Egeo, overo il Cretico, costringe”.
Posto ch’ebbe silenzio al suo sermone, 70
io dimandai: “Dopo Giove chi tenne
e fu signore di questa regione?”
Ed ello a me: “Apresso re vi venne
Minos, che nacque di lui e d’Europa,
per lo qual Silla lodola divenne. 75
Atenes prese e ’l suo paese scopa
per la vendetta d’Androgeo suo figlio;
franco fu in armi e giustizia s’appropa”.
Così parlando, giungemmo sul ciglio
del mare, ove trovammo un legno a punto, 80
nel quale entrammo senza piú consiglio.
Lo nostro indugio, apresso, non fu punto:
prendemmo il mare e navigammo tanto,
ch’io mi trovai ov’è Carbasa giunto.
Di quest’isola udio contar cotanto: 85
che fu la prima che rame ci diede
e Calidonio le dá questo vanto,
antichissimo autor da darli fede.
CAPITOLO VIII
“Omai per questo mar gli occhi disvela,
disse la guida mia, se tu disii
trovar del filo a tesser la tua tela”.
E come da Carbasa mi partii,
io vidi Eubea, dove Titano regna,
che fu fratel del padre de gli dii.
Questa a Boezia sí presso si segna,
che crede, quando alcuno stran vi passa,
che l’una e l’altra insieme si tegna.
Poi fui in quella, la qual si compassa
tra le Ciclade che piú sia nel mezzo:
e questo vede qual di lá trapassa.
Al tempo che s’ascose sole e rezzo
pel diluvio, che fu sí tenebroso
ch’a ricordarlo ancor pare un riprezzo,
lo sol, che tanto era stato nascoso,
perché prima i suoi raggi lá su sparse,
Delos si scrisse e io cosí la chioso.
Ancor perché la cotornice apparse
in prima lí, che ’n greco ortigia è detta,
Ortigia il loco giá nomato parse.
La scorta mia non lasciò, per la fretta,
di dirmi com la cotornice è strana
e iusta a ciò che sua natura aspetta.
Apollo, in questa isola, e Diana
fun partoriti insieme da Latona,
fuggita qui per iscampar piú sana.
Poi fui in Chio, del qual si ragiona
che ci abbonda di mastice per tutto:
e chio, in greco, mastice a dir sona.
E ben che degna sia per sí buon frutto,
piú per Omero li do pregio e fama,
ché quivi il corpo suo giace del tutto.
In questo loco ancor rimase grama
Adriana da Teseo tradita,
cui ella troppo ed ello lei poco ama.
Non pur con l’ago e con la calamita
e con la carta passava quell’acque,
ma come quel, ch’era meco, m’addita.
Vidi Paros e il veder mi piacque 40
per lo nobile marmo che vi cova;
Paros fu detto quando Minoia tacque.
La sarda pietra quivi ancor si trova,
la qual tra l’altre gemme è compitata
sí vil, che non so dire a che si giova. 45
“Vedi Naxon, disse Solino, e guata
ch’a Delos otto e diece miglia è presso:
questa per nobil vin fu giá pregiata”.
Io la mirai ridendo fra me stesso,
ricordandomi come Ovidio pone 50
che, andando Bacco per quel luogo stesso,
vide Ofelte e vide Etalione
cader nel mare ed ebbri andare a gioco
Libis, Proreus, Licabas, Medone.
E vidi, ricercando a poco a poco, 55
Citerea, la quale è cosí scritta
per Venus, che d’amor vi pare un foco.
Tra Samo e Miconum io vidi fitta
Icaria, a la quale Icaro diè ’l nome:
porto non ha, tanto è da’ sassi afflitta. 60
Vidi Melos, dove si dice come
nacque Iansone, Filomeno e Pluto:
e quest’isola è tonda come un pome.
E vidi Samo e quest’è conosciuto
per Giuno, per Pitagora e Sibilla, 65
piú che per cosa ch’io v’abbia veduto.
Vidi Coos, dove la gran favilla
nacque che fece lume a Galieno,
per cui al mondo tanto ben distilla.
E vidi, ricercando questo seno, 70
Lenno, de la quale ancora si scrive
come ogni maschio giá vi venne meno.
Piú in vèr levante trovammo le rive
di Rodo, dove quel de lo Spedale
co’ Turchi in guerra il piú del tempo vive. 75
Qui sospirai e dissi: “Ecco gran male:
ché questi pochi son qui per la Fede
ed a chi può di loro poco cale”.
Di lá partiti, sí come procede,
navigavamo e io ponea in norma 80
sempre il piú bello che quivi si vede.
Noi trovammo uno scoglio in propia forma
di nave e per novella dire udio
che da quella d’Ulisse prese l’orma.
Un sasso sta tra Tenedon e Chio, 85
che Antandro è detto per quei del paese:
capra mi parve, quando lo scoprio.
Solino qui a ragionar mi prese
l’altezza e la natura di monte Atto
e durò in fin che de la nave scese. 90
E seguia poi: “De la Grecia t’ho tratto;
ma, perché chiaro ciascun punto copoli,
è buono udir come ’l paese è fatto.
Cinque ci son linguaggi e sette popoli
con quei del mar, che vedi che son due: 95
l’un le Ciclade e l’altro è Centopoli”.
E qui fe’ punto a le parole sue.
CAPITOLO IX
Seguita ora a dir del quarto seno
che da Bisanzo Europa racchiude
in fin al Tanai, dove vien meno,
overo a le Meotide palude,
lo qual con sette stadii divide 5
l’Asia da noi con le ripe crude.
Il nostro mar, che la terra ricide
fino a la Tana, a dietro ritorna,
perché strada non v’è che piú lá il guide.
Il Tanai, che nasce de le corna 10
di Rifeo, per la Sizia profonda
passa a la Tana, ma piú dí soggiorna.
Or ciò che chiudon, da la nostra sponda,
lo mare e ’l Tanai, Europa è detta
con quanto l’Oceano la circonda. 15
Sopra ’l golfo di Trazia, in su la stretta
che chiude il mare in cinquecento passi,
del qual Costantinopol tien la vetta,
giunti eravamo, e io pur dietro a’ passi
de la mia guida; e trapassammo Pera, 20
che terra e porto di Genova fassi.
Cosí cercando per questa rivera
andavam noi e riguardando sempre
s’alcuna novitá da notar c’era.
Qui mi disse Solin: “Quando tu tempre 25
la penna, per trattar di questo mare,
ricordera’ ti, e fa che tu l’assempre,
di quel ch’or dico”. E presemi a contare
la forma del delfino e la natura
e quanto è velocissimo il suo andare, 30
e come ancor gli piace la figura
umana di vedere e propio quella,
ch’a riguardare è piú pargola e pura.
Apresso questo, disse la novella
come un s’innamorò giá d’un fanciullo, 35
ch’assai mi fu miracolosa e bella.
Sopragiunse: “Di tutti i pesci, nullo
è da notar per maggior maraviglia
de l’echin, ch’a vederlo è poco e brullo.
Questo ha la schiena ch’un arco somiglia, 40
piena di squame agute e paion ferra,
con cui in mezzo il mar la nave piglia.
E poi che bene a essa s’afferra,
remi o vento a muoverla han men forza,
che s’ella fosse in su la ferma terra. 45
E questo avièn quando il mare si sforza
di muover forti venti e gran tempesta;
poi sen va, come il mal tempo s’ammorza”.
Per quelle vie, che m’eran sí foreste,
trovammo un serpe, che per sette porte
passa nel mare con sette sue teste.
E, quando giunge, è sí feroce e forte,
che ben quaranta miglia dentro corre,
prima che ’l mar gli possa dar la morte.
E sí come ’l discepol, che ricorre 55
al suo maestro, quando in dubbio vive
d’alcuna cosa che voglia comporre,
dimandai il mio: “Di’ come si scrive
il nome di costui e dove nasce
e quant’è grande in fine a queste rive”. 60
“De’ germanici monti, tra le fasce
di Soapia, rispuose, par si spicchi
e quivi come agnel prima si pasce.
Poi, cercando Baviera e Ostericchi,
truova il fratello di gran signoria 65
e l’uno in corpo a l’altro par si ficchi.
Indi da Buda cerca l’Ungheria,
Burgaria, Pannonia, Mesia e Trazia,
e tre isole forma ne la via.
Seicento miglia di terra nol sazia: 70
da sessanta figliuoi seco conduce,
qual Drava, Ordesso, dove qui si spazia.
Istro lo chiamo e dove si riduce,
per lo cammino, Danoia si dice;
e qui Vicina il suo nome riluce”. 75
Cosí parlando, per quelle pendice
Costanza vidi, Laspera e Mauro Castro,
Barbarisi che ’n mar tien la radice.
E vidi, ricercando per quel nastro,
Pagropoli e Caffa del Genovese, 80
Soldana, Vespro, Gabardi e Palastro.
E poi che ’n verso il Tanai discese
presso a Porto Pisan, sopra la Tana,
la scorta mia a ragionar mi prese:
“Qui la pontica gemma è molto strana: 85
alcuna in color d’oro, chiara e bella,
e qual sanguigna, quasi come grana,
e dentro il mezzo lor luce una stella”.
Apresso questo mi disse del fibro
come e perché si caccia, la novella, 90
cosí come la scrive nel suo libro.
CAPITOLO X
Ora passiamo tra popoli barberi,
bestiali, mostruosi e salvatichi
quanto le scimmie che stanno tra gli alberi.
“Qui si convien ch’accortamente pratichi,
disse Solin, ché ne’ tempi preteriti 5
ismarriti ci son di ben grammatichi.
E però fa, ch’andando, chiaro averiti
per me o per altrui d’ogni tuo torbido,
se de la gran fatica aspetti meriti”.
“Non dubbiare, diss’io, che sia sí orbido 10
ch’io scriva cosa, onde non abbia copia
per te o per autor sentito o morbido;
ché matto è quel che sí nel cuor s’appropia
una cosa, che solo a sé vuol credere,
veggendo che fa male e follia propia”. 15
Qui non fu piú né ’l dimandar né ’l chiedere;
la strada prese per la nostra Sizia
su da levante, come dee procedere.
Noi fummo dove Meotide ospizia
con la figliuola, che vincea di correre 20
ciascun, secondo che di lá s’indizia.
Questo è paese a non voler trascorrere:
acquoso è molto, ma, dove tu ’l semini,
frutta sí ben, ch’altrui ne può soccorrere.
Non lungi qui fu il regno de le femini 25
che co’ mariti lor negavan vivere,
salvo ch’al tempo del Toro e del Gemini.
E se le lor confine deggio scrivere,
sí l’Europa e l’Asia le dividono,
che da niuna parte son dilivere. 30
E con tanta franchezza giá si vidono,
che Greci e Persi, quando n’han memoria,
per danno antico e per vergogna stridono.
Piú secoli regnaro in questa gloria;
l’ordine loro assai fu bella e strania, 35
come’ veder si può ’n alcuna storia.
Di sotto a queste è ’l paese d’Albania,
dove si truova gente senza novero;
acerbi, ch’a passarvi è una smania.
Cosí, seguendo dietro al mio ricovero, 40
attraversando vidi il fiume d’Ipano
tal, ch’ogni altro appo lui di lá par povero.
Lungo ha sí il corso, che quei che s’arripano
al suo principio, de la fine ignorano;
ed e converso quei ch’al fin si stipano. 45
In questa parte gli Auceti dimorano,
ai quali il fiume pare un gran rimedio:
navican quello piú che non lavorano.
Utile è molto in fine a Callipedio,
dove trova Exampeo, che, nel suo giungere, 50
di natura il trasforma e fassi tedio.
“Qui non bisogna ch’io ti debba pungere,
disse Solin, perché a’ luoghi domestichi
mille anni ognor ti dee parer di giungere.
Maraviglia udirai, se tu lo investichi, 55
de’ Neuri che in lupi si figurano
la state, e vanno silvani e rubestichi.
In fin che ’l sole è in Leo, cotali oscurano;
poi ciascun torna in sua figura ed essere:
non so il peccato, onde tal pena durano”. 60
“Qui si conviene, a lui diss’io, compessere
la lingua”; e, se non fossi il testimonio,
non l’ardirei nei miei versi tessere.
Tra questi corre il fiume Boristonio,
abondevol di pesce buono e nobile, 65
del qual le spine tenerume conio.
Vidi i Geloni, gente ferma e immobile,
e queste genti i corpi lor dipingono
e piú e men com’hanno onore e mobile.
Qui presso gli Antropofagi si stringono 70
i quali vivon tanto crudelissimi,
che d’usar carne umana non s’infingono.
Qui passai boschi d’animai fierissimi
che’n fin al mare di Tabi si stendono:
piú e piú dí penai, sí son lunghissimi. 75
Qui sono i Seres, che ’n Asia s’intendono,
onde Solin mi disse: “Buono è volgere
come a settentrion le strade scendono”.
Le prime genti, che qui seppi sciolgere,
Calibi e Dachi fun, che senza regola 80
vivon crudei, né mai li puoi rivolgere.
Una gente non lungi a lor s’impegola,
gli Esidoni, sí piena d’ogni vizio,
ch’a riveder quanto la morte negola.
Qui fui ed ebbi di ciò vero indizio: 85
che tanto sono acerbi li Scitauri,
che squartan l’uom per farne sacrifizio.
Li Numadi si pascon come tauri;
li Satarcei, nemici d’avarizia,
negan l’argento o cosa che s’inauri. 90
Tutti i diletti e tutta la letizia
de’ Georgi è quando i campi lavorano
e che n’abbian ricolta con dovizia.
Gli Asiati qui presso dimorano:
costor non han de l’altrui desiderio 95
né per ricchezza piú fra lor s’onorano.
Albergo od ospidale o monasterio
non vi trovai e però nel mio vivere
usar mi convenia gran magisterio.
Qui non val saper leggere né scrivere; 100
né qui per cenno alcun ti sanno intendere;
quivi non giova aver fiorin né livere,
onde a’ bisogni tuoi li possi spendere.
CAPITOLO XI
Tu dèi creder, lettor, ch’io non iscrivo,
in questi versi, cosa che non abbia
verace testimonio o morto o vivo.
Qui fui tra due confin, dov’è tal rabbia
di genti, d’animai, d’acque e foreste, 5
che qual v’entra può dir ch’è in una gabbia.
Qui vid’io tali che fan de le teste
de gli uomin coppe e bevono con quelle
come Albuino usava a le sue feste.
Quivi udii io diverse novelle, 10
quivi cercai di strane regioni,
quivi trovai di nove favelle.
Io fui lá dove guardan li grifoni
li nobili smeraldi e son come aspi,
ti dico, fiere tigri over leoni. 15
Questi nemici son de gli Arimaspi
che han solo un occhio e tolgon gli smeraldi,
ché altra gente non v’è che quivi raspi.
Dietro a monte Rifeo son questi spaldi,
nuvolo e ghiaccio, ond’io non vi passai, 20
perché stella né sol par che vi scaldi.
Ne la fine di Europa poi trovai
gl’Iperborei, che hanno il dí sei mesi
e sei la notte: e ciò non falla mai.
Settanta miglia, per quello ch’io intesi, 25
erano o piú da lo golfo di Trazia
a l’isola Apollonita, ov’io scesi.
Qual vivo scampa a Dio de’render grazia,
ché va per l’ocean settentrione,
dove ’l mar Morto over ghiacciato spazia. 30
Ne l’isola Albacia son persone
che vivon d’uova d’uccelli marini;
e qui il mar Cronio e ’l Boristen si pone.
Ne l’oceano, per quelle confini,
in fra l’altre isole, una ve ne vidi 35
tal che, pensando, ancor ne arriccio i crini.
“O luce mia, diss’io, che qui mi guidi,
che gente è questa, c’ha piè di cavallo?”
Ed ello a me: “Que’ son detti Ippopidi”.
“Questi non son, diss’io, d’andare a ballo; 40
e però quanto puoi pur t’apparecchia
partir da loro e cercare altro stallo”.
Indi passammo a un’altra piú vecchia,
dicendo: “Ecco i Fanesi, che le membra
si veston, come vedi, con le orecchia”. 45
“La gente di queste isole mi sembra
che Dio e la natura gli abbia in ira,
diss’io, né di piú trista mi rimembra.”
Ed ello a me: “Passa pur oltre e mira
che, come son bestiali in apparenza, 50
cotai l’anime pensa che li gira”.
Presa di questi vera esperienza,
tornammo a terra ferma, in su lo stremo
silvano, freddo e con poca semenza.
Si com’io il vidi, dissi: “Ecco lo scemo, 55
in fra me stesso, dove Lincus volse
uccider, per rubar, giá Trittolemo”.
La guida mia, parlando, a me si volse:
“Vedi ’l paese che la Fame graffia
e donde l’Oreade giá la tolse. 60
E come leggi in molte pataffia,
quest’è sí fuor d’ogni dolce pastura,
che poco giova se pioggia l’annaffia”.
Cosí cercando la secca pianura,
ed eravamo volti in verso sera,
mi ragionò del cervo la natura,
la vita e la beltá de la pantera,
e quanto i pardi e i tigri sono destri,
secondo che nel libro suo gli avera.
Usciti fuor di quei luoghi silvestri, 70
venimmo in Dacia, ove gli uomini vidi
piú belli, piú accorti e piú maestri.
Esperto de’ costumi e de’ lor nidi,
passammo in Gozia, dove l’oceano
da tre parti percuote ne’ suoi lidi. 75
De le Amazone funno, al tempo strano,
mariti e da Magog il nome scese;
piú regni acquistâr giá con la lor mano.
Imperando Valente, del paese
Gotti, Ipogotti, Gepidi e Vandali 80
passâr Danubio con poche difese.
Poi, dopo gravi affanni e molti scandali,
presono Italia e in Africa ancora
entrâr con navi, con galee e sandali.
Sotto la tramontana, ov’ero allora, 85
vidi Isolandia, de la qual mi giova
che memoria ne sia per me ora,
sí per lo bel cristallo, ch’uom vi trova,
sí che i bianchi orsi sotto il ghiaccio sale
pescano in mare il pesce che vi cova. 90
Io non vi fui, ma per certo da tale
autor l’udio, che senz’altro argomento
lo scrivo altrui e far non mi par male:
io dico lungo il mar, che qui rammento,
uomini e femine magiche sono 95
ch’a’ marinai col fil vendono il vento
e quanto piace a loro aver ne pono.
CAPITOLO XII
Tanto son vago di cercare a dentro,
ch’io mi lascio Solino alquanto a dietro
ed esco fuor del suo segnato centro.
E ciò ch’io veggio e per vero odo, impetro
ne la mia mente, e poi cosí lo noto
in questi versi con ch’io sono e cetro.
Io son su l’ocean ghiaccio e rimoto,
e a la fine di Suecia io sono
in luogo pauroso, oscuro e vôto.
Un’isola è apresso, ov’io ragiono:
Scandelavia di lá nomar l’udio,
onde Ibor fu, che giá fe’ sí gran trono.
E sí come da quella mi partio,
venendo in verso noi ne vidi un’altra
piú dimestica assai al parer mio.
La gente è quivi molto accorta e scaltra;
vendono e compran pelli e cose strani,
che mandan poi d’una provincia in altra,
diversi uccei, gran penne di fagiani:
Gottolandia da’ Gotti si dice,
che prima l’abitâr ne gli anni strani.
Dietro da me, lungo quella pendice,
lassai Livalia, ove il fiume di Narve
bagna il paese in fine a la radice.
Per quel cammin, che piú dritto mi parve
sotto ’l settentrion, vèr la marina,
Norvegia lungo Isolandia m’apparve.
Dal mezzodí con Dacia confina;
da levante Galazia e da ponente
l’Ibernico ocean li s’avvicina.
Bianca, robusta e grande v’è la gente
e il paese alpestro e con gran selve
e freddo sí, che poco caldo sente.
Assai v’è pesce, selvaggina e belve
onde han la vita lor, ché da la terra 35
biada, olio e vin non si divelve.
Il mare intorno a tre parti la serra;
pescator sono e cacciatori isnelli
e, quai pirati, altrui per mar fan guerra.
Girfalchi bianchi e novitá d’uccelli 40
e diversi animai vi sono assai,
orsi canuti e fibri grandi e belli.
Un’acqua v’è, ch’a l’Elsa assomigliai.
Da poi che ’l sole è giunto in Capricorno,
passan piú dí, che non v’è giorno mai. 45
Norvegia lascio e a Isolandia torno;
prendo il cammino, a seguir la mia tema,
dove il lago di Scarse dá del corno.
Per molte isole si naviga e rema
in quella parte, com son Lite e Edia 50
e Silia nigra, Sanso e Finema.
E come quel che volentier si spedia
del suo cammin, Vetur, Chitan e Nu
passai con gran fatica e con gran tedia.
In questa parte, sotto il freddo piú, 55
si passa in Prussia, ove Lettan si trova;
senza fé son, quanto mai gente fu.
La legge che hanno è sí bestiale e nova,
ch’adoran ciò che prima il giorno vede,
pur che sia cosa che con vita mova. 60
E qual fa sacramento di gran fede,
uccide un bo e, sul sangue di quello
giurando, ’l giuro per fermo si crede.
Cosí per questa strada, ch’io favello,
entrai nel paese di Apollonia: 65
pover mi parve in vista e poco bello.
In Vandalia fui e per Graconia
e da lá Turon e molti altri fiumi
passai, che quella terra riga e conia.
Poi chiara e nota la Buemmia fumi, 70
copiosa d’argento e di metalli,
con bella gente e di novi costumi.
Praga v’è grande e con nobili stalli;
l’Albia l’adorna e quel paese onora
sí come corre per piani e per valli. 75
Abeti e pini assai vi sono ancora,
e orsi e pardi e diversi animali,
che ne’ gran boschi stanno e fan dimora.
Erbe aromatiche e medicinali
molte si trovano e gran pro ne fanno 80
la gente quivi in diversi mali.
Fra l’altre fiere, una bestia v’hanno
grande, che chiaman bo, crudele e dura,
con lunghe corna, che ferir non sanno.
D’altro l’ha proveduto la natura: 85
ché sotto il mento ha come una borsa,
che d’acqua l’empie e scalda in gran calura.
E poi ch’egli è cacciato e messo in corsa,
volgesi a dietro e l’acqua fuori getta
e ciò che giunge pela e i nervi attorsa. 90
E quanto piú è messo a grave stretta,
piú scalda l’acqua e con piú ira torna
in contro a quei che piú presso l’aspetta:
e cosí i cani e i cacciatori iscorna.
CAPITOLO XIII
Con gli occhi de la mente a te convene,
che leggi, imaginar di punto in punto,
se vuoi la via ch’io fo comprender bene.
Sizia ho cercato e sono, alfine, giunto:
sempre dal destro, l’oceano e i monti 5
Iperborei e Rifei e qui fo punto;
dal sinistro, il Danubio e le sue fonti:
or ciò ch’è in mezzo a queste due confini,
in fino a qui, Sizia par che si conti;
poi quanto dal principio pellegrini
del Danubio, com’io ti scrivo altrove,
Pannonia è detta in fino a le sue fini.
Dal monte Apennin lo nome move;
copiosa è molto di metalli
e marmi di piú guise ancor vi trove. 15
Sale ha sí bel, che par che sien cristalli,
larghe pasture e ubertose molto
e, per cacciar, dilettevoli stalli.
Lungo è il paese e in piú parti sciolto
di gente, ond’elli isvarian di costumi 20
e cosí fan di linguaggio e di volto.
Divisi sono i regni da gran fiumi;
ma sopra tutti l’Ungaria notai,
la qual Mesia si scrive in piú volumi.
Degna è d’onor, quanto reina mai, 25
Isabetta, che fe’ al marito scudo
del corpo, onde la man ne sentí guai.
Ma, perché non rimanga passo ignudo
in queste parti, che sia da notare,
Burgari, Rossi e Bracchi qui conchiudo. 30
Vidivi Sevo, che non minor pare
di Rifeo, sopra questa provincia:
alto è sí, che par che passi l’a’re.
Dove ’l Danubio il suo corso comincia,
e dove il Ren ne l’ocean s’annega, 35
German son detti in lungo e per ischincia.
Qui ritornai a quel, che non mi nega
cosa che possa e dissi: “Li Buemmi
sono per loro o col German si lega?”
“Come ’l rubino e ’l zaffir son due gemmi 40
per sé ciascuna, questi son divisi”:
cotal risposta a la domanda femmi.
“La lingua il dice e i lor costumi e i visi,
i monti e i fiumi, apresso mi disse,
come tu puoi veder se ben t’avisi”. 45
Poi, prima ch’io del paese uscisse,
volsi sapere chi n’era signore
per un che meco a ragionar s’affisse.
“Un nipote d’Arrigo imperadore,
figliuol del re Giovanni, il regno tene, 50
poco del corpo e men troppo del core:
Carlo si scrive e Cesar si contene.
Ben so che sai chi è, ché per Italia
quant’è di gran valor si dice bene.
Menato fu come un fanciul da balia, 55
patteggiato, a Melano a incoronarsi,
dove acquistar potea piú lá che Galia.
Quel che fece in Toscana ancora parsi
e ’l trionfar di Puglia e di Fiorenza
fu tôr danari e via pensar d’andarsi”. 60
“Or cosí va che la Somma Potenza,
rispuosi a lui, consente signoria
oggi nel mondo a sí fatta semenza!”
Da lui partito, in vèr la Germania
mi trassi, avendo l’occhio in vèr ponente, 65
come Solino mi facea la via.
German son detti per la molta gente
che germina il paese e Alemanni
da Leman, fiume ruvido corrente.
Robusti, grandi e forti a tutti affanni 70
gli uomini sono e ne le armi impronti,
leali altrui e buon, se non l’inganni.
Io vidi, per que’ boschi e per li monti,
diverse fiere e con nuovi costumi,
alce e uri, dico, e gran bisonti. 75
E vidi gli erquinei che fanno lumi
la notte, tal che mi fu maraviglia,
tanto mi risplendean le vive piumi.
Ne l’isola Gresana ancor si piglia
d’un arbore il succin, c’ha le sue rama 80
sí fatte e tal, ch’al pino s’assomiglia.
Vidi una gemma: gallaico si chiama
e, secondo ch’udio, la sua bontade
passa l’arabe per nome e per fama.
E vidi ancor, tra l’altre novitade,
lo ceraunio, lo qual candido è quive
come che ’l truovi in altre contrade.
Di ciò che ho conto, ch’è per quelle rive,
indi Solin mi disse la natura
di punto in punto come la descrive, 90
e la propia forma e la figura.

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