LIBRO
TERZO
Capitoli
XIII - XXIII

CAPITOLO XIII
Cosí passando per lo mare adesso,
piú cose e piú mi disse il mio conforto,
ch’io lascio e in questi versi non le tesso.
Due giorni andammo senza piaggia o porto:
sempre diritta la nostra galea, 5
come per l’ago al padron m’era scorto.
Al terzo, come ’l dí quasi apparea,
noi venimmo e smontammo in Palermo,
cosí nomato dal nocchier d’Enea.
Solino in prima e io senz’alcun sermo 10
mirando andava dietro a lui, per modo
che de l’omero suo mi facea schermo.
Tanto questa contrada in fra me lodo
d’ogni diletto che vuol ciascun senso,
che sempre ch’io ne parlo me ne godo. 15
“O luce, che sai tutto ciò ch’io penso,
incominciai, qui giá fosti altra volta;
prendi al lungo cammino alcun compenso
col tuo parlare”. Ed ello a me: “Ascolta.
Buono è il tuo pensier, perché la via 20
è grave e, piú che tu non credi, molta.
Quest’isola fu nominata pria
da Sicano Sicania e da poi
Siculo, giunto, quel nome disvia.
E di costui ricordar ti puoi 25
ch’io t’ho detto chi fu e donde venne
e che notato l’hai nei versi tuoi.
Diversa gente il paese tenne,
Ciclopi, dico, e tennerlo tiranni,
per li quai sentio giá di male strenne. 30
Chi ti potrebbe dir li molti danni,
i diversi tormenti e le prigioni,
che qui soffrio le genti per piú anni?
Questa isola è posta in tre cantoni
e trovila Trinacria nominata 35
se ne’ suoi fatti antichi l’occhio poni.
Peloro con la sua punta guata
in verso Italia: e questa è la piú degna
parte de l’altre ed è la piú lodata.
Libeo pare che ’n vèr l’Africa tegna 40
e Pachino a levante, ond’ella è tratta
come scudo che ’n terra si disegna.
Tra Calavra e Peloro si baratta
Silla e Cariddi: l’un le navi rompe,
l’altro li dá, inghiottendo, la tratta.
E tre laghi ci son, ma di piú pompe
e fama è quel che chi la man v’attuffa
quanto ne bagna tanto ne corrompe.
Del fiume Imero dico non è buffa
che amaro è correndo a tramontana 50
e dolce, quando il mezzogiorno acciuffa.
Se maraviglia par quella fontana
che salta, quando l’uom sopr’essa sona,
minor non tegno l’altra di Diana.
Ed Aretusa è qui, di cui ragiona 55
Ovidio, poetando come Alfeo
la trasformò in fonte di persona.
Ancora è qui lo stagno Geloneo,
che, qual dimora sopra la sua sponda,
il terzo senso sente ciascun reo. 60
Due fonti ci ha: che l’una qual de l’onda
femina assaggia, senza alcun riparo,
se sterile è, diventerá feconda;
l’altra dir posso ch’è tutto il contraro.
Ancor vi trovi il nocevole stagno 65
a ogni serpe e a l’uomo molto caro.
Lo lago d’Agrigento pare un bagno,
perché di sopra olio sempre nuota,
util talor, ma di poco guadagno.
Eolo par che qui sempre percuota 70
e con piú voci di cagne ci latre
e che talora alcun monte ci scuota
per le molte caverne forti e atre,
che soffian foco e solfo per le gole,
come spiran del corpo de la matre. 75
Albo corallo nel fondo si tole
di questo mare, non che color mova
come fa il Sardo, quando vede il sole.
Oro chi ne ricerca assai ne trova.
Acato fiume dá l’acata pietra, 80
che molto a Pirro fu giá cara e nova.
E benché ora non suoni la cetra
d’Archimedes, ti dico, e di Lais illa,
pur colá, dove io posso, non s’invetra.
Non vo’ rimagna qui senza favilla 85
d’Anapio e d’Anfinomo il miracolo,
perché palese ci è per ogni villa:
Campo pietoso fu lor tabernacolo”.
CAPITOLO XIV
Sempre parlando, lungo la marina
andavam per le parti di Peloro
in fin che fummo lá dov’è Messina.
Dubbio non è, e fama n’è tra loro,
che da Mesen, che fu d’Enea trombetta, 5
lo nome prese, al fin del suo lavoro.
“Qui puoi veder, disse Solin, la stretta
lá dove Silla si converse in mostro
e puoi udire i mugghi che vi getta.
E guarda come col dito ti mostro: 10
vedi Reggio in Calavra, lo qual mira
con diece miglia e men dal lato nostro.
Ma vienne omai, ch’altro disio mi tira
e fa che spesso muovi la pupilla
al dolce e bel paese che qui gira. 15
Etna vedi, che il fuoco sfavilla
per due bocche, con mugghi, in su la vetta,
sí che vi fa tremar presso ogni villa.
E, con tutta la fiamma che fuor getta,
veder si può canuto in tutto l’anno, 20
sí come un vecchio fuor di sua senetta.
Quei di Catania in contro al fuoco vanno
col corpo di Colei, che per dolore
vinta non fu da Quinzian tiranno”.
Nel prato fummo, dove fior da fiore
Proserpina scegliea, quando Pluto
subitamente ne la trasse fore.
E poi che ’l lago fu per noi veduto
de’ cigni, ci traemmo a Siracusa
per quel cammin che ci parea piú tuto. 30
Questa cittade per antico è usa
d’essere prince e donna di ciascuna
altra, che veggi in questa isola chiusa.
Dedalo fabbro, dopo la fortuna
acerba del figliuol, qui si governa 35
con altri Greci che seco rauna.
Miracol pare a uom, che chiar dicerna,
che qui udii che mai giorno non passa
che ’l sol non apra chiara sua lucerna.
Due monti vidi, de’ qua’ ciascun passa 40
gli altri d’altezza, Etna ed Erice;
a Venus l’un, l’altro a Vulcan si lassa.
E vidi ancor, cercando le pendice,
Nebroden e Nettunio alti tanto,
che due mar veggon, per quel che si dice. 45
Passato ca’ Passaro e volti al canto
di Pachino, vedemmo andare a frotta
tonni per mare, che parea un incanto.
Passato Terranova e le sue grotta,
e Gergenta, puosi a l’Africa cura, 50
che guarda in vèr Libeo e parne ghiotta.
Dubbio non è che per la sepoltura
di Sibilla, che fu sí chiara e vera,
al castel di Libeo la fama dura.
Ne l’isola dir posso che Cerera 55
sí per li cieli e sí per gli alimenti
sí come donna, quanto altrove, impera.
Uomini sottili ed intendenti
v’ingenera natura e temperati
con bei costumi e con buoni argomenti; 60
volti di donne chiari e dilicati,
con gli occhi vaghi quanto a Venus piace,
onesti e ladri in vista, se li guati.
Poco par posto il reame a aver pace
per le male confine e per la gente 65
aveniticcia, che dentro vi giace.
Maraviglia mi parve, a poner mente,
lo sale agrigentin fonder nel foco
e in acqua convertir subitamente.
E vidilo, ch’ancor non mi fu poco, 70
gittatolo ne l’acqua, con istrida
scoppiarne fuori e non trovarvi loco.
Cosí andando dietro a la mia guida,
notava de le cose, ch’io vedea
e ch’io udia da persona fida. 75
Io fui tra i monti, dove si dicea
che Ciclopis venia alcuna volta
a donneare e pregar Galatea.
Apresso, noi venimmo a dar la volta
dove trovata fu la comedia, 80
secondo che per molti lá s’ascolta.
Diverse cose ragionare udia
di natura di canne, tanto sono
dolci a sonar ciascuna melodia.
Non vo’ rimanga ascoso e senza sono 85
il campo agrigentin, ché, se non erra
colui con cui dí e notte ragiono,
quivi sempre esce terra de la terra.
L’isola tutta, a chi gira il terreno,
vede, per vero, che si chiude e serra 90
con tre milia stadi e non con meno.
CAPITOLO XV
“Poi che hai veduto e udito a parte a parte
le novitá de l’isola e il costume,
è buon prender la via in altra parte”:
cosí mi disse lo mio vivo lume.
E io a lui: “Va pur, ch’io son disposto 5
a te seguir con l’ali e con le piume”.
Indi si mosse e io altresí tosto
e, giunti al mar, salimmo sopra un legno,
ch’andava dritto ov’io avea proposto.
Per questo modo appunto ch’io disegno, 10
in Lipari passammo, cosí detto
da Liparo, che in prima tenne il regno.
Senza smontare, con benigno aspetto
m’incominciò il mio consiglio a dire:
“Apri l’orecchie qui de lo ’ntelletto. 15
Tu dèi pensare al cammin che de’ ire;
se ben dovessi ogni isola cercare,
col tempo ch’ai nol potresti fornire.
Per ch’io l’abbrevierò, senza l’andare,
additandoti sempre, quando andremo, 20
dove son poste e come stanno in mare.
Per queste parti, lá dove ora semo,
quattro ne sono nominate poco,
ché ’l ben, piú che non suol, n’è ora scemo.
Iera è l’una, che per lo molto foco 25
che fuori sbocca, a Vulcano è data
per fabbricare e posseder quel loco.
Ad Eolo re è Strongile sacrata,
per li gran venti ch’escon de la foce,
mortali e fieri alcuna fiata. 30
Ancor per tutto è nominanza e voce
come Erifusa e Fenicusa aora
Venus per dea e a lei fan la croce.
Dal mar di Pisa in fino a qui ancora 34
tu truovi la Gorgona e la Caprara, 35
Pianosa e dove Giglio fa dimora.
L’Elba in fra l’altre vi par la piú cara,
sí per lo molto ferro e per lo vino,
per Capolivro e ’l Porto di Ferrara.
E truova chi ben cerca quel cammino 40
Ponza, Palmara, ch’Astura vagheggia,
quando ’l tempo è ben chiaro e pellegrino.
E cosí, ricercando questa pieggia,
non si convien che Bucetta si lassi,
che con Gaeta ognor par che si veggia. 45
Ancor si truova l’Ischia in quei compassi
e Capri: e queste stanno in contro a Napoli
sí presso, che vi vanno in brevi passi.
Gli abitator vi son subiti e vapoli:
lodano Dio coloro che vi vanno, 50
se senza danno da lor sono scapoli.
Contro a Scalea e Andreano stanno
Didini e la Micea e questa gente
la via di Conturbia spesso fanno.
Or puoi veder ch’io son, se ben pon mente, 55
venuto in su la punta di Calavra,
a onde, sempre, come va il serpente.
E perché il vero a l’occhio tuo ben s’avra
qui la piú parte al modo di Grecia
parlano e hanno costumi di cavra. 60
Ora mi volgo al golfo in vèr Venecia,
dove isolette sono assai, ma tale
che per me poco ciascuna si precia:
perché la cosa tanto quanto vale
dee l’uom pregiare e chi tiene altro modo 65
inganna altrui e spesso a sé fa male”.
Qui si taceo; e io ch’a nodo a nodo
legato avea nel cuor le sue parole,
li dissi: “Ciò che di’ intendo e odo.
Ma fammi chiaro ancor, vivo mio sole, 70
da cui derivan questi tanti nomi,
che ’n questo poco mar la gente tole”.
Ed ello a me: “Per li superbi e indomi
pelaghi, venti e scogli, che l’uom trova
da Pisa al Corso, in fin ch’al Sardo tomi,
Leone è detto, e poi par che si mova
da Liguria il Ligur, la cui pendice
tien quanto mare il Genovese cova.
Ionio da Io ancora si dice
e da Adria cittade l’Adriano, 80
la qual di qua fu giá molto felice”.
Cosí, per non passare il tempo invano,
ragionavamo insieme ed ello e io
sempre di quello che m’era piú strano.
Passato noi Suasina, udio 85
dire al padrone: “Durazzo ci è presso,
dove Giulio Cesar giá fuggio”.
“Buono è smontar, disse Solino, adesso”.
E io a lui: “Quel che credi che sia
lo miglior, fa, ché tu sai qual’è desso”. 90
Indi scendemmo e prendemmo la via.
CAPITOLO XVI
Trattato del secondo sen, che serra
Italia, segue che dir mi convene
del terzo, che la Grecia tutta afferra.
Io dico che, seguendo, la mia spene
m’incominciò a dir: “Tu se’ in Dalmazia: 5
per che con senno andare si convene,
ché questa gente, per la lor disgrazia,
benché sian nati del sangue di Dardano,
pur non di men del mal far non si sazia.
Son come tigri, ché par che sempre ardano 10
per uccidere altrui e per rubare
e poco a Dio e meno ai Santi guardano.
Una cittá fu giá qui lungo il mare,
che diede il nome a questo paese
ch’ è grande, onde per noi fa l’affrettare”. 15
Cosí andando e parlando, discese
in Epirro, che dal figliuol d’Achille,
secondo ch’io udio, lo nome prese.
Noi trovammo, cercando quelle ville,
una fontana, dove l’acqua scende 20
fredda e sí chiara, che par che distille.
Quivi, se l’uomo una facella prende
accesa e ve la tuffa dentro, spegne;
poi, se lungi la gira, si raccende.
E perché chiaro ogni luogo disegne, 25
i Molosi son qui che da Moloso,
figliuol di Pirro, il nome par che tegne.
Non è qual fu di forma Oreste ascoso
nel paese di Sparta e di Laconia,
li quai cercammo senza alcun riposo. 30
Un monte v’è, il cui nome si conia
Tenaro, ed èvi ancora lo spiraglio
d’Inferno e qui si credon le dimonia.
Per questi luoghi dandomi travaglio,
presso a Patrasso nove colli vidi, 35
ch’ombra v’è sempre e non di sole abbaglio,
Taigeta e ’l fiume; e di lá li piú fidi
fan fe’ del prelio, che fu anticamente
tra i Laconi e gli Argivi, e de’ micidi.
Noi fummo dove andar solean le gente 40
al tempio di Castore e Polluce,
ben ch’ora è tal che poco si pon mente.
La galatica pietra quivi luce,
utile a quella che ’l figliuol nutrica,
ché natura ha ch’assai latte produce. 45
E, per quel che di lá par che si dica,
Antea, Leuttra, Teranna e Pitina,
ciascuna fu famosa e molto antica.
Dal re Inacus il nome dichina
d’Inaco fiume, che pare uno strale:
sí corre, quando pioggia vi ruina.
Vidi in Arcadia Cilleno e Minale:
questi son monti e passammo Liceo,
acerbo molto a colui che vi sale.
Ancor notai il fiume Erimanteo, 55
cosí nomato da Erimanto duca,
che per udita quivi si perdeo.
L’albeston lí natura par produca,
che a Giove in contro al padre fu difesa,
sì come in molti versi par che luca. 60
La pietra è tal, che, poi ch’ella è accesa,
mai non si spegne e somiglia a vederla
di ferrigno colore e grave pesa.
E come fra noi è nera la merla,
candida è sí di lá, che par pur neve: 65
dolce a udire e bella a tenerla.
Fama è quivi da gente antica e breve
che Arcas ad Arcadia il nome diede,
figliuol di Giove: e cosí l’hanno in breve.
Io ti giuro, lettor, per quella fede 70
ch’io trassi de la fonte, che sol quello
ti scrivo, che per piú autor si crede.
Assai mirai, ma non vidi, il castello
di Pallanteo, per quel che fece a Roma
Evandro col figliuol, che fu sì bello; 75
ma pur tra quella gente vile e doma
la fama è morta, sí ch’io dico bene
che qual ne parla quello indarno noma.
La vera Grecia fu dov’è Atene,
la qual cittade giá si scrisse alonna 80
di ciascun ben, ch’a buon regno convene.
Questa si disse sostegno e colonna
d’ogni arte liberal, questa si tenne
di filosofi antichi madre e donna.
Ellenadon Deucalionis venne 85
re del paese e da costui poi move
che la contrada Ellas dir si convenne.
Qui vidi cose molte, antiche e nove;
ma, per amor di Teseo, notai
sassi Scironia prima che altrove. 90
Cinque monti con Icario trovai:
Ebrieso, Egialo, Licabetto
e Imetto, degno piú degli altri assai.
Giunti a un sentiero solingo ed istretto
d’un gran monte, Solin mi disse: “Vienne, 95
ché buon per noi è far questo tragetto”.
Grave era il poggio a salir tanto, che nne
fece posar piú e piú volte; in prima
tremâr le gambe e riscaldâr le penne,
che noi fossimo giunti in su la cima. 100
CAPITOLO XVII
Come nel tempo de la primavera
giovane donna va per verde prato,
punta con l’oro de la terza spera,
con gli occhi vaghi e ’l cuore innamorato
cogliendo i fior, che li paion piú belli, 5
lasciando gli altri da parte e da lato;
e colti i piú leggiadri e i piú novelli
li lega insieme e fanne una ghirlanda
per adornare i suoi biondi capelli;
similemente io di landa in landa 10
cogliendo ogni bel fior del mondo andai,
lasciando i vili da parte e da banda:
e, raunati, apresso li legai
in questi versi, sol per adornare
le rime in che disio vivere assai. 15
Giunti in sul monte e volti verso il mare,
disse la guida mia: “Qui drizza il viso
e nota ciò che tu m’odi contare.
Teseo, avendo in Creti il mostro ucciso,
per lo caro consiglio d’Adriana,
venne ad Atenes con gaudio e con riso.
A tutti li suoi iddii, fuor ch’a Diana,
fe’ sacrificio Oeneo, ond’ella acerba
tempesta li mandò crudele e strana:
i’ dico un porco, che guastava l’erba, 25
le bestie, biade, le vigne e le pianti,
tant’era pien d’ardire e di superba.
Due denti grandi, qual de’ leofanti,
gli uscian di bocca affilati e taglienti
e forti, come fosson diamanti. 30
E quai sono a veder carboni ardenti,
cotai parean, nel crudel rimiro,
gli occhi suoi fieri, vermigli e lucenti.
Non minor era che i tori d’Epiro;
tai, qual saette, le setole avea; 35
molto era, a riguardar, pien di martiro.
Per cacciar lui, che tanto mal facea,
si raunaron Castore e Polluce
con gran compagna e due fratei d’Altea.
Lá fu ancora l’uno e l’altro duce, 40
Teseo e Piritoo, e la bella Atalante
ch’era, in quel tempo, nel mondo una luce.
Lá fu Ianson con l’ardito sembiante,
Idas, Peleus, Fenice e Panopeo,
Ipoteus, Ceneo e lá Cteante; 45
lá fu Nestorre, Iolao ed Anceo;
lá fu il padre d’Achille ed Echione;
Pilius, Feretiade, Ippaso, Ileo.
Lá fu Anfirao, Laerte e Talamone,
Amficide ed il bello Meleagro, 50
Drias, Naricio, Acasto, Eurichione.
Ora, perché ’l mio dir ti sia men agro,
terrò piú lunga alquanto mia favella,
perché ’l corto parlar talora è magro.
Ben dèi pensar che la caccia fu bella 55
di cavalieri e d’argomenti strani,
quando fra noi ancor se ne novella.
Segugi, gran mastini e fieri alani
v’erano molti e tra quelli una schiatta
che prendono i leon: ciò son gli albani. 60
E tutti questi a quella gran baratta
fuggian dinanzi al porco, come fosse
ciascun coniglio stato, lievre o gatta.
Echion fu quello che primo percosse
l’alpestro porco e non passò la scorza, 65
ch’era come corazza o scudo a l’osse.
Ianson lanciò lo spiedo con tal forza,
che fallí il colpo; e il porco ferio
sí Palamon, che la sua vita ammorza.
Similmente Pelagona partio 70
con la gran sanna da la schiena al ventre,
onde subito cadde e lí morio.
E se Pilio non fosse stato in mentre
accorto che ’l gran porco uccise i due,
per un che li sgridò: – Guarda com’entre –, 75
morto era lí; ma piú che simia fue
presto a montare un albore: onde ’l porco
dentro al pedal ficcò le sanne sue.
Anceo, che era acerbo piú di un orco,
alzò la scure; ma ’l colpo li manca 80
e quel gittò lui morto in mezzo il sorco.
Per mal li venne Enesim tra le branca;
si fe’ d’Oritia, quando a lui s’arriccia:
tutto l’aperse da la coscia a l’anca.
Teseo, che ciò vede, a dietro spiccia; 85
ma Ianson, che lo volse ancor ferire,
cucí un cane in terra con la friccia.
Ed allora Pelleo il fece uscire
de la gran selva e Talamone il tenne
da lato al fianco per farlo morire.
Pollux e Castor, l’uno e l’altro venne
su due corsieri bianchi come cigni;
ma pur niuno a lui ferir s’avenne.
Qui vo’, lettor, ch’Atalante dipigni
sopra un corsier, con quel leggiadro aspetto 95
che fai Diana, quando non t’infigni,
con l’arco in mano e col vestire stretto
e i biondi suoi capelli sparti al vento,
sí che passi a veder ogni diletto:
perché tal giunse, fuor d’ogni spavento, 100
con l’arco aperto e die’ d’una saetta
al porco, in mezzo tra l’orecchia e ’l mento.
E tanto il colpo e ’l bel ferir diletta
a Meleagro, che a’ compagni disse:
– Morto è costui, se un’altra ne li getta –.105
Il porco contro a’ cacciator s’affisse,
credo per lo dolor, sí disperato,
che folgor parve che dal ciel venisse.
Qual li fuggia dinanzi e qual da lato,
e qual morio in quella gran tempesta, 110
e qual tra’ piè li cadde inaverato.
Qui Meleagro, in mezzo a la foresta,
uccise ’l porco e, per donar l’onore,
ad Atalante sua diede la testa,
la qual fu fin del lor verace amore”. 115
CAPITOLO XVIII
“Forse quaranta miglia son per terra
da Atenes a Tebe e poi per mare
cento e cinquanta insieme non le serra:
(sí incominciò la mia scorta a parlare)
e però noi farem questo traverso 5
ch’è meno e poi ha piú cose a notare”.
“Andiam, diss’io, ché tu sai dov’è il verso”.
Per che si mise a scender giú del monte
per un sentier, ch’era molto diverso.
Giunti in Boezia, trovammo una fonte 10
che a qual ne bee sí la memoria tolle,
che non s’ammenta dal naso a la fronte.
Qui la natura argomentar ben volle:
ché un’altra v’è, che tosto gliela rende,
pur che ’l palato e la gola ne molle. 15
Ancora udio, e ciò non si contende,
ma per ciascun del paese s’avera,
che per quella contrada un fiume scende,
lo quale è tal, che se pecora nera
di quello assaggia, in bianca si trasforma: 20
dico, se l’usa da terza e da sera.
Un altro v’è, che tiene un’altra norma:
che del color, che, bevendo, la vesti,
di tale il suo figliuol prende la forma.
Lo lago maledetto, dopo questi 25
truovi, lo qual, bevendo il suo licore,
uccide altrui, ch’atar non nel poresti.
Un altro v’è, lo qual le membra e ’l core
a colui che ne bee tanto avalora,
ch’accende e ’nfiamma nel disio d’amore. 30
Qui Aretusa ci si vede ancora,
e Cheriscon con altri fonti assai
di fama antichi, ma non sen parla ora.
Ismeno, Edipodea ci troverai
Psamate ed Aganippe e Ippocrina, 35
che dritto son per la via che tu vai”.
Cosí tra quella gente pellegrina
andando, dimandai lo mio conforto:
“Tebe dov’é? È lungi o è vicina?”
“Questo cammino, per lo qual t’ho scorto, 40
mi rispuose, ci mena a le sue rive
ed è lo piú diritto e lo piú accorto,
benché or quivi è la cittá di Stive,
e de’ Teban la fama tanto spenta,
che piú non se ne parla né si scrive”.
Poi, com’uom che volentier s’argomenta
d’altrui piacer, mi disse a parte a parte
quanto lá vive la pernice attenta,
la sua sagacitá, gl’ingegni e l’arte,
le gran lusinghe, i nidi forti e fui, 50
appunto come l’ha ne le sue carte.
“Ma guarda fisso in que’ nuvoli bui:
lá son faggi che ’n contro a ciascun morso
di serpe san guarir, col tatto, altrui.
Piú lá son quelli che dánno soccorso 55
sol con lo sputo a simili punture,
pur che ’l velen non sia dentro al cuor corso.
E perché chiaro Boezia affigure,
in lei son Pelopesi e di Laconia
come vedi in un corpo piú giunture. 60
E sappi c’hai passato Calidonia,
dove fu la gran caccia ch’io t’ho ditto,
Corinto, Sparta con Lacedemonia.
Ma guarda in verso il mare, com’io, dritto:
un’isoletta v’è famosa e sana, 65
la qual truovi per Varro altrove scritto.
In questa, prima, fu filata lana
per le femine, nobile e sottile,
tessuta a punto e da lor tinta in grana.
Aulide guarda ancor per quello stile 70
onde il grande navilio si partio,
che sopra ogni altro fu ricco e gentile.
Poi mira a destra il mal fatato e rio
campo Matronio, dove il crudelissimo
prelio fu, come giá dire udio. 75
E guarda un monte sterile e nudissimo:
di lá da quello Olimpo troveremo,
che par che tocchi il cielo, tant’è altissimo”.
E io a lui: “Quando veder potremo
il Parnaso, del quale ho tanta brama, 80
che quasi a questo ogni pensier m’è scemo?”
Ed ello a me: “Se cotanto t’affama
di ciò la voglia, vienne pur, ché ’n brieve
prender potrai il frutto de la rama”.
“Va pur, diss’io, ché tanto sono lieve 85
giá fatto udendo le parole tue,
che ormai lo stare mi parrebbe grieve”.
Cosí parlando andavamo noi due
per quel paese povero e diserto,
che per antico tanto degno fue, 90
che innanzi agli altri si scrivea per certo.
CAPITOLO XIX
Sí come il pellegrino che si fida
per buona compagnia d’andar sicuro,
andava io apresso a la mia guida.
Ma però ch’io vedea diserto e scuro,
come ho detto, il paese d’ogni parte, 5
ch’era giá stato tanto degno e puro,
feci come uom, che volentier comparte
l’andar con le parole, per men noia
e per trar frutto del suo dire in parte.
E cominciai: “Nel bel viver di Troia, 10
e prima ancora e lungamente apresso,
si scrive che qui fu valore e gioia.
E io mi guardo e giro intorno adesso
e veggio la contrada tanto guasta,
ch’io ne porto pietá in fra me stesso. 15
E questo ancora al mio pensier non basta;
ma io truovo la gente cruda e vile,
ch’esser solea gentile, ardita e casta”.
Cosí parlai e la mia scorta umile
rispuose: “Come di’, pien di vertute 20
fu giá questo paese e d’alto stile.
Ma se or vedi le cittá abbattute
e coperte di verdi spini e d’erba,
e le vertú ne gli uomini perdute,
imagina che parte è per superba 25
e imagina che ’l ciel, che qua giú guata,
niuna cosa in sua grandezza serba.
Pensa ov’è Roma, che fu allevata
con tanto studio, e com’è ita giuso
quella che in Caldea ancor si guata. 30
Questa ruota del mondo l’ha per uso,
cioè di far le gran cose cadere
e le minor talor di montar suso”.
Cosí, prendendo del parlar piacere,
un poggio mi mostrò e disse: “Vedi: 35
quivi è la via che ci convien tenere”.
E io a lui: “Va pur, come tu credi
che ’l meglio sia, ch’io ti sono a le spalle,
ponendo sempre, onde tu levi, i piedi”.
A la man destra lasciammo la valle 40
e prendemmo a salir la grave pieggia,
per uno stretto e salvatico calle.
Saliti su ne la piú alta scheggia,
mi vidi sotto cosí gli altri monti,
come una cosa un’altra signoreggia. 45
Noi tenevamo in verso il mar le fronti,
quando mi disse: “Qui m’ascolta e mira,
se vuoi di quel che cerchi ch’io ti conti.
Al tempo d’Agenor, di Libia tira
per questo mare, anticamente, Giove 50
la bella Europa, cui ama e disira.
Con molti ingegni trasformato in bove,
condusse lei dov’io t’addito e guato
e rifé sé ne le sue membra nove.
Poi, per dar pace al bel volto turbato 55
d’Europa, il terzo del mondo per lei
volse che fosse Europa chiamato.
D’angoscia e d’ira pien, pensar ben dèi,
col precetto del padre si divise
Cadmus solo per ritrovar costei. 60
L’ardito serpe sopra l’acqua uccise;
poi, da l’idolo suo presa risposta,
a fabbricare una cittá si mise.
Guarda a sinistra a piè di quella costa,
ché quivi è ora la cittá di Stive, 65
lá dove Tebe fu per costui posta.
Vedi Asopo ed Ismen, de’ quai si scrive
che facean correr piangendo le genti,
quando ebri si gittavan per le rive.
Vedi quel bosco, ove partio i serpenti 70
Tiresia, quando cambiò le membra,
per che piú tempo poi fuggì i parenti.
Vedi lá il mar (non so se ti rimembra
che mai l’udissi dir) lá dove insana
s’annegò Ino col figliuolo insembra. 75
Piú qua, in quella selva, è la fontana
dove Atteon si trasformò in cervo,
per guardar le bellezze di Diana.
E vedi dove l’uno e l’altro servo
lassâr colui, che de’ fratei fu padre, 80
legato sí che poi si parve al nervo.
E vedi i campi, ove l’aspre e leggiadre
battaglie funno e dove Anfirao visto
fu ruinare in corpo de la madre.
E vedi il fiume, ove rimase tristo 85
Ippomedon, e il mal passo da spino,
dove Tideo fece il bel conquisto.
Di lá da quello si trova il cammino
onde passaro Adrasto e Capaneo,
quando Isifil trovaro nel giardino. 90
Di lá è il bosco, ove Partenopeo
il serpe uccise, per tôr l’ira a quella
che ne la culla il suo figliuol perdeo,
come si scrive e di qua si novella”.
CAPITOLO XX
Poi, seguitando: “Due mila anni e piue
vent’otto volte venti son passati,
mi disse, che distrutta Tebe fue.
Quivi nascero e fun deificati
Ercules ed Apollo e ciò par degno, 5
se al ben far loro e a l’usanza guati.
Quivi Penteo, cui Bacco avea in disdegno,
converse in porco; onde la madre afflitta,
fuggendo a lei, li tolse vita e regno.
Quivi si vide Niobe trafitta 10
la figlia in grembo e riguardar nel pianto
le piaghe de’ figliuoli e la sconfitta.
Quivi s’udio il dolcissimo canto
d’Anfione, col qual facea i sassi
muovere e saltar di canto in canto. 15
Ma vienne omai e seguita i miei passi
e sappi ben che ’n Tessaglia se’ giunto
e che Boezia di dietro ti lassi”.
Apresso questo, non istette punto;
prese la via e io, mirando sempre 20
come ’l paese sta di punto in punto.
“Non vo’, figliuol, che la penna si stempre
del dire, per l’andare; e tu ancora
m’ascolta e fa che dentro al cor l’assempre.
Questa contrada piú tempo dimora 25
col nome di Emonia e poi Tessaglia
da Tessalo fu detta e questo ha ora.
Ma guarda dritto, se ’l sol non t’abbaglia,
oltre a que’ colli il Farsalico piano
dove fu de’ Roman la gran battaglia. 30
E vedi ancor, da la sinistra mano,
dove, accesi di vino e di lussuria,
fu de’ Centauri fatto il grande sbrano:
io dico quando funno in tanta furia,
che volsono sforzar uomini e femini 35
e che Ceneo morí per loro ingiuria.
E se mai versi al mondo di ciò semini,
la morte di Cillaro e la tristiziap
d’Ilonome farai ch’a dir ti memini.
Vedi lá il bosco, del quale è notizia 40
ch’ Erisiton tagliò la quercia sagra,
per che la Fame venne in fin di Sizia,
pilosa, con grand’unghie, oscura e magra,
la qual del fallo fe’ sí gran vendetta,
che sol l’udita altrui par forte e agra. 45
Oh, quanto è bestia l’uom, che non sospetta
di fare ingiuria a la cosa divina,
se non v’è Cesar, che ’l ciel gl’imprometta!
Guarda Larisa, ch’ è di qua vicina,
e Ftia ancora, che nel tempo antigo 50
famose funno per questa marina.
E sappi che lá Iuppiter fu origo
d’Eaco, di Pelleo e di Achille;
d’Esone e di Ianson, ma d’altro rigo.
Dopo queste lucenti e gran faville, 55
Pirro e Moloso seguîr senza fallo:
di qua signoreggiâr cittá e ville.
Quest’è il paese dove pria il cavallo
domato fu e coniata a spesi
moneta del piú nobile metallo, 60
e che veduti fun con gli archi tesi
in su’ corsieri per questa pianura
prima Centauri che in altri paesi:
onde la gente semplicetta e pura
i due credean uno e di tal mostro, 65
quando ’l vedeano, avean gran paura”.
Cosí parlando, dritto al cammin nostro
trovammo Anigro: uccide se vi caccia
bestia il ceffo ovvero uccello il rostro.
Io volea bere e rinfrescar la faccia,
quando disse Solin: “Non far, ché in esso
è tosco e sangue”; e presemi le braccia.
Come parlò, cosí pensai adesso:
quest’è quel fiume, dove si lavaro
le triste piaghe i compagni di Nesso. 75
Apresso disse quel padre mio caro:
“Vedi Parnaso: e se tu vorrai bere,
quivi son fiumi e ciascun dolce e chiaro.
Ma guarda a destra, ché lá puoi vedere
la selva dove saettando uccise 80
Pelleo Foco e non per suo volere.
Per questo, il padre del regno il divise:
onde passò in Trachinia a Ceice re
e per un tempo quivi a star si mise.
Indi partio; ma non ti dico che 85
fu poi di lui, né ’l dolce e vago amore
di Ceice e d’Alcione e la lor fè;
e non ti conto con quanto dolore
Ceice nel mar con la sua nave affonda, 90
né come l’alma si partio dal core
d’Alcione, trovatol sopra l’onda”.
CAPITOLO XXI
Giunti eravam sotto Parnaso, quando
disse Solino: “Alza gli occhi e vedi
l’altezza e come in su si va montando.
Non so che pensi, ma se tu mi chiedi
consiglio, ce ne andremo per lo piano, 5
perché ’l salire è peggior che non credi”.
“Sia quanto vuol, diss’io, acerbo e strano,
ché per amor di que’, che giá l’usaro,
cercar lo voglio da ciascuna mano”.
Cosí risposto, senza alcun contraro 10
a salir presi il salvatico poggio,
che, per non uso, altrui è molto amaro.
Non era al mezzo, quando stanco e roggio
sí venni, ch’io ’l chiamai piú d’una volta,
ché innanzi m’era: “Attienti, ch’io m’appoggio”. 15
Come la madre, che ’l figliuolo ascolta
dietro a sé pianger, si volge e l’aspetta,
poi lo prende per mano e dá la volta,
si volse a me, in su la ripa stretta,
con un bel volto e porsemi il suo lembo 20
e, presol io, mi trasse in vèr la vetta.
Saliti al sommo del piú alto sghembo,
le cittá vidi, che m’eran d’intorno,
di sotto, sí com’io le avessi in grembo.
E vidi ancora, sopra ’l destro corno, 25
dove fu giá sacrificato a Apolo
in un bel tempio e di ricchezze adorno.
E vidi l’altro dato a colui solo
per cui le figlie di Mineo giá grame,
lui dispregiando, fenno il cieco volo. 30
Cosí menando me per quelle lame,
trovammo un piano quasi in su la cima,
salvatico di spini e d’altre rame.
Per quello un’acquicella si dilima
bagnando l’erbe e scende per lo monte 35
sí dolce a ber, ch’ogni altro amar si stima.
Poscia mi trasse ove sorgea la fonte,
dicendo: “Fa che dentro al cuor dipinghe
ciò che vedrai con gli occhi de la fronte.
Quest’è Aonia, ov’eran le lusinghe 40
al sacrar de le Muse, bench’adesso
pochi ci son, che di quest’acqua attinghe.
Di verdi pini, abeti e d’arcipresso43
d’ulivi, di mortella e di alloro
era aombrato da lungi e da presso.
Qui fun le nove suore e fen dimoro;
qui per esser ben certa Pallas venne
di questo loco e de la vita loro.
Qui trasformâr li peli umani in penne
le Pieride e qui udito avresti 50
li mal di Pireneo e che ne avenne.
E se quanta vaghezza mai vedesti
fosse ora qui di donne e di donzelle,
piene di bei costumi e atti onesti,
e per miracol ci apparisson quelle 55
nove, ch’io dico, diresti ch’un sole
fosse venuto tra piccole stelle.
Similemente ne le lor parole
soavi e vere ti sarebbe aviso
che le altre tutte ti dicesson fole. 60
E cosí in questo luogo, ch’io diviso,
quando vivean queste vergini sante,
dir si potea il terzo paradiso.
Questo bosco di prun, ch’abbiam davante,
era di fiori di gigli e di rose 65
adorno e d’altre dolcissime piante”.
Ragionato che m’ebbe queste cose
con altre assai, ch’io non pongo in norma,
cosí al suo parlar silenzio pose.
E io a lui: “Se tu puoi, qui m’informa: 70
questa fontana sí chiara e sí viva
in questo luogo come e chi la forma?
E dimmi ancora, a ciò ch’altrui lo scriva,
i propri nomi de le nove Musa,
che fun sí degne ne la vita attiva”. 75
Ed ello a me: “Del sangue di Medusa
nacque un cavallo alato, che qui vola
e con le zampe la terra pertusa.
In men ch’io non t’ho detto la parola,
quest’acqua, che tu vedi, fuor n’uscio, 80
che tanto chiara per lo monte cola.
Euterpe, Melpomene, Erato, Clio,
Talia, Polimnia: queste nota
perché cosí giá nominar le udio;
Tersicore intendente e rimota, 85
Calliope col suo parlare adorno,
e Urania, dico, celeste e divota.
Ma vedi il ciel che via ne porta il giorno:
onde letto farem di queste fronde,
ché miglior luogo non ci veggio intorno. 90
E ber potrai de l’acqua di queste onde
e de’ frutti salvatichi gustare,
che, bench’altri gli schifi, egli han pur donde
posson la vita a l’uom più lunga fare”.
CAPITOLO XXII
Poi ch’io ebbi compreso a parte a parte
le sue parole e vidi che si tacque,
un letto feci de le fronde sparte.
Del luogo degno, de’ pomi e de l’acque,
ch’io vidi e assaggiai, al sommo Padre 5
grazia rendeo, sí ciascun mi piacque.
Dopo la cena, piú cose leggiadre
mi disse ’l mio conforto, essendo stesi
sopra ’l gran petto de la nostra madre.
Sí per lo suon de l’acqua, ch’io intesi, 10
e sí per le parole belle ancora,
soave sonno e riposato presi.
E fui cosí in fino che l’aurora
trasse gli augelli fuor de’ caldi nidi,
a cantar per lo bosco che s’infiora. 15
Quivi udio versi, ma gli uccei non vidi,
con tanta melodia, ch’io potrei dire
che quei di qua fra lor parrebbon gridi.
Lo vago imaginar, lo dolce udire
sí mi piacea, ch’io tenea l’occhio chiuso
e non dormia e fuggia di dormire.
“Non pur giacer, mi disse, ma sta suso,
la buona scorta mia; ché la pigrizia
non men che per natura s’ha per uso.
Pensa quant’è il cammin di qui in Sizia 25
e girar poi sotto tramontana
e veder Tile e passare in Galizia,
e cercare Gaulea e Mauritana,
Libia, Etiopia e, dopo Gange,
l’isola Crise, Argire e Taprobana”. 30
Cosí come donzella, a cui l’uom tange
parole proverbiose, quando falla,
rossa diventa e ’l fallo in fra sé piange,
tal divenn’io, fuggendo in vèr la spalla
il volto, e mormorai: “Ben falla troppo 35
qual per diletto in grande affar si stalla”.
Indi si mosse e io li tenni doppo
pur per lo giogo in verso un altro spicchio,
che n’era per la strada di rintoppo.
Quivi mi disse: “Ascolta dove io picchio: 40
sappi ch’al tempo d’Ogigio diluvio
non arrivò qua su pesce né nicchio:
io dico quando fu sí grande il pluvio,
che bestial sacrifizio, incenso o mirra,
valse che il mare e ciascun altro fluvio 45
non soperchiasse Licabetto e Cirra,
onde per tema sopra questo corno
Deucalion fuggio con la sua Pirra.
Di questi sassi, che vedi d’intorno,
per consiglio di Temis nacque poi 50
la gente, che ’l paese fece adorno”.
E io a lui: “Rivolgi gli occhi tuoi
dove t’addito, ché io vorrei udire
che mura fun, che veggio presso a noi”.
Ed ello a me: “Per certo ti so dire 55
che lá fu Cirra ed Elicona è detto
quel monte per lo qual ci convien ire.
E quel che vedi, che ci è di rimpetto,
è Citerone; e quivi fu giá Nisa,
la quale è or, come questa, in dispetto. 60
Ma quanto puoi oltre quei colli avisa:
di sotto a essi move una fontana
ed èvi una cittá, che ha nome Pisa.
E benché la novella suoni strana,
giá fu chi creder volle, senza scusa, 65
che ’l nome desse a quella di Toscana.
La fonte, ch’ io ti dico, chiusa chiusa,
cacciata per Alfeo, per gran caverne
va sotto il mare e sorge a Siracusa.
Ma perché l’occhio tanto non dicerne 70
e cercar non si può, conviensi al tutto
che le parole mie ti sian lucerne.
Per questi luoghi, donde io t’ho condutto,
si trovan laghi e assai fonti e fiumi
belli a vedere e che son di gran frutto. 75
Spercheo v’è, lo qual de le sue schiumi
lo nome prende e, s’altro non l’inghiotte,
non par che nel cammin mai si consumi.
Mezzo scornato e con le membra rotte
per la battaglia sua corre Acheleo, 80
bagnando Epirro e le sue belle grotte.
Degno di fama vi passa Peneo,
se pensi che per tema non mai Danne
né per lusinghe castitá perdeo.
Non molto lungi a quello un altro vanne 85
che Siringa cacciò, che vinta e lassa
venne palú, del qual sonâr le canne.
Eveno ancor per la contrada passa,
famoso piú però che quivi Nesso,
per suo gran fallo, il bino corpo lassa.
E benché tu non li vedessi adesso,
Ismeno, Ilisso e la Castalia fonte
veder potei, ché assai vi fummo presso”.
Cosí parlando, discendemmo il monte.
CAPITOLO XXIII
Sempre passando d’un paese in altro
e ascoltando la mia cara guida,
ch’era piú ch’io non dico esperto e scaltro,
fra me dicea: “Qui gli orecchi di Mida
non fan mestier, ma di Tullio la mente 5
a tante cose, quante insieme annida”.
Discese giú del monte incontanente;
prese il cammin diritto per lo piano,
come colui che gli avea tutti a mente.
Mi disse poi: “Da la sinistra mano 10
come tu vai, un paese incomincia:
Magnesia è detto per quei che vi stanno.
E come per Tessaglia, cosí schincia
per Macedona e tanto è buona e diva,
quant’è di qua alcun’altra provincia. 15
Moetena v’è, de la qual par si scriva
che Filippo ivi ciclopis divenne
un dí ch’armato la terra assaliva.
E perché non rimase ne le penne
de’ poeti Libetria, fontana 20
che surge lá, parlare a me convienne.
Ma vieni, ch’io non so piú cosa strana
da notar qui; troviamo altra contrada,
ché ’l perder tempo è cosa sciocca e vana”.
Con maggior passi prendemmo la strada, 25
quand’uno sopra un’acqua ci appario
in atto sí come uom ch’aspetta e bada.
E giunto a lui, de la bocca m’uscio
“Jiá su” e fu greco il saluto,
perché l’abito suo greco scoprio. 30
Ed ello, come accorto e proveduto,
Calós írtes allora mi rispose,
allegro piú che non l’avea veduto.
Cosí parlato insieme molte cose,
ípeto: xéuris franchicá? Ed esso: 35
Ime roméos e xéuro plus glose.
E io: Paracaló se, fíle mu; apresso
mílise franchicá ancor gli dissi.
Metá charás, fu sua risposta adesso.
Udito il suo parlar, cosí m’affissi, 40
dicendo: “Questo è me’ ch’io non pensava”;
e gli occhi miei dentro al suo volto fissi.
Poi il dimandai lá dov’ello andava;
rispuosemi: “Qui presso a una chora,
dove il re Pirro anticamente stava”. 45
Io mi rivolsi al mio consiglio allora
e dissi: “Che ti pare? Andrem con lui?”
Rispuose: “Sí, ché me’ non ci veggio ora”.
“Quando ti piaccia, e io e costui,
con lo qual son, ti farem compagnia 50
in fin dove tu vai”, diss’io a lui.
Ed ello allor: “Se a voi piace la mia,
la vostra in tutto m’aggrada e contenta”.
E cosí insieme prendemmo la via.
Nel mezzo era io, quando Solin mi tenta, 55
dicendomi pian pian: “Con lui ragiona,
ché vedi che n’ha voglia e non si attenta”.
Io mi rivolsi a la terza persona
e dissi: “Dimmi dove si diparte
Tessaglia, se lo sai, da Macedona”. 60
Ed ello a me: “Quel fiume propio parte
l’una da l’altra, ove tu me trovasti:
e cosí ’l troveresti in molte carte”.
La guida mia mi tenta ancor che ’l tasti
per udirlo parlare e io il come 65
penso fra me, ch’a sodisfarlo basti.
Poi, con parole accorte, dolci e dome,
io lo pregai che mi facesse chiaro
onde venia e qual era il suo nome.
“Ond’è ch’io vegna, questo a te fia chiaro 70
ora per me: Antedamas m’è detto”.
Cosí rispuose e fummi non avaro.
“Ma tu chi se’, che vai cosí soletto
con un compagno per questo cammino,
ch’è pien d’ogni paura e di sospetto?” 75
“Io mi son un che vado pellegrino
cercando il mondo, per essere sperto
d’ogni sua novitá e qui non fino”.
“L’impresa lodo, disse; ma per certo
troppo è grave e lunga la fatica, 80
se per grazia del Ciel non t’è sofferto”.
E io a lui: “Tu vedi la formica
che d’affannarsi la state non cala,
onde poi il verno vive e si nutrica.
E, per contraro, vedi la cicala, 85
che canta e di sua vita non provede,
trista morir come la state cala.
Folle è colui e poco innanzi vede,
che vive per pappare e per dormire
se pregio dopo morte aver si crede. 90
Per gravi affanni e lungo sofferire,
per non temer ne’ bisogni la morte,
può l’uom vita acquistar dopo il morire.
Nel Sommo Bene e ne la sua gran corte
ho tanta fede, che, per grazia, spero 95
fornir la ’mpresa ch’a te par sí forte”.
Cosí parlando, trovammo un sentero
su per lo quale Antedamas si mise
con dir: “Questo è piú presso e piú leggero”.
Non molto andammo per quelle ricise, 100
che noi giungemmo a una cittade,
la qual veder mi piacque per piú guise.
Larghe, diritte e lunghe avea le strade,
i casamenti a volte e alti tanto,
che m’era gran piacer tal novitade. 105
E cosí, ricercando d’ogni canto,
venimmo a un palagio grande e bello,
con ricche mura e forte tutto quanto,
posto in forma d’un nobile castello.

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