LIBRO
TERZO
Capitoli
I - XII

CAPITOLO I
Omai è tempo ch’io drizzi lo stile
a trattar de’ paesi, ch’io cercai,
ciascuna novitá o cara o vile.
Solino in prima e io apresso entrai
per quella fabbricata e lunga strada 5
che fa parlare di Vergilio assai.
Di dietro ci lasciammo la contrada,
dove Saturno ammaestrò a noi
piantar la vigna e seminar la biada.
Vidi dove Catillo visse, poi 10
che lasciò Tebe, e ne la cittá fui
che a la balia d’Enea dá fama ancoi.
Vidi Vesuvio, che dá lume altrui,
e vidi i bagni antichi, buoni e sani,
dove annegò Baia e gli ostier sui. 15
Soavi colli e piacevoli piani
noi passammo e trovammo molte selvi
di pomi ranci e d’altri frutti strani.
E, sempre andando, spiavamo se ’l vi
fosse pur da notare cosa alcuna 20
d’uccelli, di serpenti e d’altre belvi.
Vidi quel monte, ove stette digiuna
Circes piú volte a far suoi incantamenti
al lume de le stelle e de la luna.
E vidi quelli, onde parlan le genti, 25
che la sorore visitando andava,
l’erbe cogliendo a far soavi unguenti.
Passai la Mora, che ’l paese lava,
la Verde, e non ci fu la terra ascosa
dove Medea, morto il figliuolo, stava. 30
Pur dietro a la mia guida, che non posa,
andai tanto, che ad Aversa giunsi,
dove trovai la gente dolorosa.
E poi che con alcun lá mi congiunsi
e seppi la cagion del disconforto, 35
forte nel cuor per la pietá compunsi.
Detto mi fu che un giovinetto accorto,
bello e gentil, ch’aspettava il reame,
a tradimento v’era stato morto.
Non credo che mai fosse in gente brame 40
aguzza per disdegno, come quella
mostrava a la vendetta d’aver fame.
La gran cittade lacrimosa e bella,
la qual fu detta giá Partenopea,
sconsolata piangea per la novella. 45
Quivi l’infamia di Caserta rea
e de li Infragnipani e de la Cerra
per questa crudeltá morta parea.
Io fui nel castel, che, se non erra,
la gente quivi un uovo ci mostraro, 50
ch’esso rompendo, il muro andrebbe a terra.
Tanto è il paese piacevole e caro
di belle donne e d’altra leggiadria,
che piú che non dovea vi fei riparo.
Apresso questo, prendemmo la via 55
cercando Puglia e Terra di lavoro,
le novitá notando, ch’io udia.
In Arpi e in Benevento fei dimoro
per riverenza a Diomedes, il quale
porta ancor fama del principio loro. 60
Apuglia è detta, ché ’l caldo v’è tale,
che la terra vi perde alcuna volta
la sua vertú e fruttifica male.
E come quel che va e sempre ascolta,
seguitava, orecchiando, il mio disio, 65
che prese in vèr Salerno la sua volta.
Siler, Vulturno e uno e altro rio
passammo e vidi novitá, ch’a dire
lascio, per non far lungo il parlar mio.
Apresso questo, ci mettemmo a ire
quasi tra il levante e ’l mezzogiorno,
ognora dimandando per udire.
Cosí volgemmo a la punta del corno
che guarda la Cicilia, dov’è Reggio,
cercando la Calavra poi d’intorno. 75
Vidi Tietta, dove giá fu il seggio
de la madre d’Achilles e di questo
per testimon quei del paese cheggio.
Vidi lá dove ancora è manifesto
che le cicale diventaron mute, 80
perché Ercules dal suon non fosse desto.
Vidi la boa con le sanne acute,
che la bufola allatta e di tai fiere
non son di qua fra noi altre vedute.
Passato avea dove fun le schiere 85
ardite d’Annibal di sopra Canni,
quando cadde di Roma il gran podere.
Ma non cercammo senza molti affanni
Isquillaci e Taranto e Brandizio,
perché v’èn malandrin da tutti inganni. 90
In quella parte ci fu dato indizio
che Bari v’era presso, ond’io divoto
di Nicolao visitai l’ospizio.
Similemente, quando ci fu noto
monte Galganeo, lá dov’è Sant’Agnolo, 95
in fino a lui non mi parve ire in vôto.
Con lo studio che fa la tela il ragnolo,
ci studiavam per quel cammino alpestro
e passavam or questo or quel rigagnolo.
Noi andavam, tra ponente e maestro, 100
lungo ’l mare Adriano, in verso il Tronto,
lasciando Abruzzo e ’l suo cammin silvestro.
Entrati ne la Marca, com’io conto,
io vidi Scariotto, onde fu Giuda,
secondo il dir d’alcun, di cui fui conto.
105
La fama qui non vo’ rimanga nuda
del monte di Pilato, dov’è il lago
che si guarda la state a muda a muda,
però che qual s’intende in Simon mago
per sagrare il suo libro lá su monta, 110
ond’è tempesta poi con grande smago,
secondo che per quei di lá si conta.
CAPITOLO II
Seguendo a dí a dí il mio cammino,
Ascoli vidi, Fermo e Recanata,
Ancona, Fano, Arimino e Urbino.
Ne l’ultima cittá, ch’è qui nomata,
trovai quel vago sol, trovai la rosa 5
che sopra Lun de’ mali spini è nata.
Or s’alcuna favilla in te riposa
d’amor, lettore, pensa qual divenni
ché la mia mano qui notar non l’osa.
Ma tanto ti vo’ dire: appena tenni 10
l’anima al cor, sí dolce l’aescava
l’alto piacer co’ suoi vezzosi cenni.
Or quivi fu che ’l partir mi gravava;
e poi la donna, per la qual fui desto
nel bosco, ov’io dormia, pur m’affrettava. 15
Alfin partio da quel bel volto onesto
contra ’l voler, come dal tempio Achille,
quando fu prima in Troia ad amar desto.
Con piccol passo fuggia le faville,
quando Solin mi riprese: “Che fai? 20
Se vai così, tardi vedremo il Nille”.
Io non rispuosi, ma co’ piè sforzai
quel gran disio, che mi traeva a dietro
come ago calamita fe’ piú mai.
La Potenza, il Lamone, il Savio e ’l Metro 25
passato avea, quando fummo a Ravenna,
che per vecchiezza ha il mur che par di vetro.
La novitá, che piú quivi s’impenna,
è ch’ogni pola per San Polinaro,
che può per lo paese muover penna, 30
vengono a festeggiare e far riparo
quel dí, come gli uccelli diomedei,
al tempio suo, che fu giá ricco e caro.
Cosí movendo in vèr Romagna i piei,
sempre cercando e dandomi lagno 35
s’alcuna novitá trovar potrei,
a piè de l’alpe udimmo ch’era un bagno
cinto d’un muro e pietre fitte in esso
che fan, di notte, altrui buono sparagno.
Per quel cammin, che piú ci parve presso, 40
per la pineta passammo a Ferrara,
dove l’aquila bianca il nido ha messo.
Ne’ suoi lagumi un animal ripara
ch’è bestia e pesce, il qual bivaro ha nome,
la cui forma a vedere ancor m’è cara. 45
La casa fa incastellata, come
a lei bisogna e la testa e le branche
tien sopra l’acqua e ’l piú vive di pome.
Qual d’oca ha i piè, che si tengon con l’anche,
coda di pesce e però non convene 50
che l’acqua a la sua vita troppo manche:
onde, quando per accidente avene
che ’l lago cresca, per la casa monta
e cosí in esso la sua coda tene.
Ferrara lungo il Po tutta s’affronta; 55
la gente volentier lá s’infamiglia,
per lo buon porto che quivi si conta.
Per quella via, che in vèr Chioggia si piglia,
senza piú dir ci traemmo a Vinegia,
torcendo dove fu Adria le ciglia. 60
Se tra’ cristian questa cittá si pregia,
maraviglia non è, sí per lo sito,
sí per li ricchi alberghi onde si fregia.
E per quel che da molti io abbia udito,
Eneti fun, Paflagoni e Troiani, 65
che ad abitar si puosono in quel lito.
Per mar passammo verso gl’Istriani,
co’ quai lo Schiavo e Dalmazia confina
di vèr levante e piú popoli strani.
Vidi Fiume e ’l Carnaro a la marina, 70
Pola, Parenzo e Civita nova,
Salvor, nel mar, dove uom talor ruina.
Passammo un fiume, che per sole e piova
fellon diventa, il qual Risan si dice,
e Istria vidi come nel mar cova. 75
Vidi Trieste con le sue pendice:
e tale nome udio che gli era detto
perché tre volte ha tratto la radice.
Pur lungo il mare era il nostro tragetto
in vèr ponente e Timavus trovammo, 80
ch’al ber mi fu e al veder diletto.
Cosí andando, nel Friuli entrammo:
vidi Aquilea, Durenza, e ’l muramento
che fe’ lá Agoncio e Liquenza passammo.
Poi, per vedere Italia a compimento, 85
volgemmo in vèr la Marca Trevigiana,
che prende de la coda il Tagliamento.
Quivi è il Mesco e la campagna piana,
se non da costa, ove ’l giogo la cinge,
che passa in Osterich e ’n Chiarentana. 90
L’onore e ’l ben, che di lá si dipinge,
si son que’ da Collalto e da Camino,
ben ch’ora il lor per forza altrui costringe.
Noi trovammo Trevigi, nel cammino,
che di chiare fontane tutta ride 95
e del piacer d’amor, che quivi è fino.
Lo suo contado la Piave ricide
e ’l Sile; e ciascun d’essi alcuna volta
a chi li passa per gran piena uccide.
Questa per sé il Viniciano ha tolta.
CAPITOLO III
Poi che ’n Trevigi fummo stati alquanto,
in vèr Basciano prendemmo la strada,
lassando Feltro e Civita da canto.
Io ero stato giá per la contrada,
e visto Cenna, Concordia e Bellona, 5
con ogni fiume che di lá si guada.
E però dissi a la scorta mia bona:
“Non ci bisogna andar per quella via;
andiam di qua, ché piú dritto ci sprona”.
Vidi Romano, onde la tirannia 10
discese giá, secondo ch’io intesi,
e rinnovò per tutta Lombardia.
Passato Cittadella, la via presi
diritto a la cittá che ’l Carro regge
e che l’ha retta piú anni e piú mesi. 15
Con gran giustizia, con ragione e legge
la tien Francesco e molto si tien bona
ch’Abano e Montericco la vaghegge.
Colui, che quivi prima si ragiona
che l’abitasse, si fu Antenore 20
e ’l corpo suo per certo il testimona.
Quivi vid’io de’ gran destrieri il fiore
e quivi udio che Tito Livio nacque,
che de’ fatti roman fu vero autore.
Solin ne rise e io, tanto mi piacque 25
veder nel dí del sol por l’oste a Bacco
con gran campane a cerchio e schifar l’acque:
qual era scimia o leo, qual porco istracco:
per che d’Ovidio mi sovenne, come
trasforma l’uomo in cervo e quando in bracco. 30
Da Pado o dal padule prese il nome,
che presso n’è assai, questa cittade:
Brenta la cerchia e chiude come un pome.
Noi ci partimmo di quelle contrade
per Cimbria veder, che ’l Bacchiglione 35
bagna d’intorno e per mezzo le strade.
La maggior novitá, che lá si pone,
si è vedere il covol di Chiostoggia,
lá dove il vin si conserva e ripone.
Quivi son donne d’ogni vaga foggia; 40
quivi sta Venus, che le punge e venera;
quivi son prati, fonti e verdi poggia.
In quella parte lo paron s’ingenera,
la cui carne è di cotale natura,
che qual par bo e qual fagian, sí è tenera. 45
Le penne sue han di paon figura;
combatte per amore e come ’l cieco
prender si lascia, tanto a esso ha cura.
Similemente a la mente ti reco
che lá trovai l’uccello francolino 50
e provai quant’è buono a viver seco.
Dal Cane, ingenerato dal Mastino,
questa cittá si guida e si governa,
secondo ch’io intesi nel cammino.
Indi passammo a la cittá di Berna 55
a cui Brenno diè ’l nome; molto è grande;
e qui fa ’l Can la state e qui s’inverna.
Giú di vèr Trento l’Adige si spande,
che vien per la cittá bello a vedere
e Campo marzio abbraccia e le sue lande. 60
Nuovo mi fu, di ch’io presi piacere,
trovar, nel sol del Cancro, in su le some
vendere il ghiaccio a chi ne volse avere.
Vidi l’Arena, ch’è in forma come
a Roma il Culiseo, benché quivi
Diatrico ne porta fama e nome.
Vidi Peschiera e ’l suo bel lago e i rivi,
che sopra ogni altro d’Italia si loda
per lo bel sito e i carpion che son ivi.
Lettor, com’io lo scrivo e tu l’annoda: 70
la Marca di Trevigi il nome lassa
lá dove Alpone bagna le sue proda.
E nota che in Liguria qui si passa
ne’ Campi lapidari, ove li dii
superbia de’ Giganti giá fen cassa. 75
Noi fummo a la cittá che, se tu spii,
Manto n’ha il pregio e Vergilio l’onora,
chiusa dal Po, dal Mencio e da piú rii.
Quivi il corpo di Longino dimora
in Santo Andrea e con gran riverenza 80
si fa la festa sua e vi si adora.
L’onore, la grandezza e la potenza
de la cittade tien quel da Gonzaga:
tre fratei sono ed una coscienza.
Molto è la terra grande, bella e vaga, 85
e ’l porto suo, in tempo di pace,
l’entrata ha buona di quel che si paga.
Per quel cammin, che piú dritto si face,
passato il Chiese, ci traemmo a Brescia,
ch’a piè del monte quasi tutta giace. 90
Arditi sono e come vuol riescia;
dicon che portano in Gada la fede,
poi par ch’ogni signore a lor rincrescia.
Lo suo principio, per quel che si crede,
sí come di Verona, ancor fu Brenno 95
e ’l nome ch’ella ha or cotal li diede.
Passati il Serio, la Lama e il Brenno,
trovammo il Bergamasco in su la costa,
che grosso parla ed è sottil del senno.
La lor cittá, però ch’è si ben posta 100
in forte poggio, porta pregio e fama
ch’alcuna volta da Melan s’arrosta.
Cosí venuti noi sopra una lama,
divenni tale, quando vidi l’Oglio,
qual par colui ch’a sé la morte chiama. 105
O Federico mio, qui dir non voglio
quanto le ripe e ’l fondo maledissi
e quanta fu l’angoscia e ’l mio cordoglio.
Apresso i passi in quella terra fissi,
che sdegna in fine a morte ogni lebbroso: 110
Bascian n’ha il nome e io cosí lo scrissi.
Indi partimmo senza piú riposo;
Lambro passammo per trovar Melano;
ma non ci fu, per lo cammino, ascoso
veder Cassano, Moncia e Marignano. 115
CAPITOLO IV
Giunti in Melan cosí, volsi vedere
a Santo Ambruogio, dove s’incorona
qual de la Magna è re, se n’ha il podere.
Ercules vidi, del qual si ragiona
che fin ch’el giacerá come fa ora, 5
lo ’mperio non potrá sforzar persona.
Poi fui in San Lorenzo piú d’un’ora,
vago di quel lavoro grande e bello,
per ch’esser mi parea in Roma allora.
E veder volsi ancora il degno avello, 10
nel qual Protasio e Gervasio ciascuno
fenno d’Ambruogio come di fratello.
E fui ancora dove insieme funo
Ambruogio e Agustino, in loco antico,
per disputar di Quel ch’ è trino e uno. 15
Poi, come l’uom dimanda alcun amico,
se ’l truova, quando giunge in una terra,
fec’io un mio al modo che qui dico.
“Dimmi, diss’io, per cui s’apre e serra
questa cittá, che vive sí felice
con fede, con giustizia e senza guerra”.
Ed ello a me: “Se ciò che se ne dice
de’ suoi antichi e come funno stratti
d’alta, gentile e nobile radice,
dir ti dovessi, io te vedrei ne gli atti 25
maravigliare, come Edipus fece
quando Iocasta li scoprí i suoi fatti.
Ma qui discenderò da cento a diece,
per parlar breve, e conterotti a punto
di quel ch’io vidi e che piú dir mi lece. 30
Non è il centesimo anno ancora giunto,
ma presso v’è, che quello de la Torre
cacciò il Visconte con ogni congiunto.
E se saputo avesse modo porre
a regnar bene co’ suoi cittadini, 35
mal li si potea poi la cittá tôrre.
Morto Tebaldo fuori a le confini,
Maffeo ne fece sí alta vendetta,
qual sanno i diece, i guelfi e i ghibellini.
Qui cadde il Torresan con la sua setta; 40
onde Maffeo, per l’Arcivescovo Otto,
prese il dominio con senno e con fretta.
Un’altra volta ancor tornò di sotto
dico il Visconte, per invidia propia,
la quale a molti ha giá il capo rotto. 45
Or qui, per darti ben del mio dir copia,
s’allor non fosse quel di Luzinborgo
cercar poteano l’India e l’Etiopia.
Tornati qui, al tempo ch’io ti porgo,
preson la signoria per que’ bei modi, 50
che si vuole a tener cittade o borgo.
Ben penso che tu leggi spesso e odi
di que’ cinque figliuoi ch’ebbe Priamo
e che le lor virtú nel core annodi.
E penso ancor che giú di ramo in ramo 55
tu hai veduto in fine a Matatia
il Genesi, che comincia da Adamo.
Costui ancor cinque figliuoli cria,
che fun poi tali e di tanta possanza,
ch’assai multiplicaro in signoria. 60
Cosí Maffeo fu d’una sembianza
co’ due ed ebbe sí cinque figliuoli,
che fun co’ diece d’una somiglianza.
Chi ti potrebbe dir con quanti stuoli
e con che nuova gente per piú anni 65
combattero, vincendo insieme e soli?
Galeazzo fu l’un, l’altro Giovanni,
Luchino, Marco, Stefano e ciascuno
per gran valor sofferse gravi affanni.
Tutti questi son morti, fuor che uno, 70
cioè Giovanni, e costui ci conduce
sí ben, ch’al mondo non so par niuno.
E non pur sol del temporale è duce,
ma questa nostra chericia dispone
come vero pastore e vera luce. 75
Or t’ho risposto a la tua intenzione;
ma son sí ora dal voler sospinto,
ch’oltre vo’ seguitar col mio sermone.
Dico del primo, del terzo e del quinto
rimasen giovanetti e ciascun tale 80
qual par Sansone o Ansalon dipinto.
Piange il guelfo la vergogna e ’l male
ch’ad Altopascio e sopra la Scoltenna
li fe’ giá l’un sentir grave e mortale.
Parlasi ancora e scrive con la penna 85
del pregio e del valore, che acquistaro
li due in Francia, tra Rodano e Senna”.
Qui si taceo e io, che aperto e chiaro
compreso avea il suo largo dire,
tutto il notai ove m’era piú caro. 90
Ma perché disiava ancor d’udire,
de’ cinque il domandai, acceso e vago,
che piú m’aprisse il valore e l’ardire.
Rispuose: “A Bassignana, u’ fen giá lago
del sangue de’ nemici, ne domanda, 95
a Vavari, a Moncia, a Parabiago
e qui ne’ borghi; poi, da l’altra banda,
a Genova, a Tortona e ’n su la Scriva,
se contentar ti vuoi di tal vivanda”.
E io, che volentier parlare udiva 100
le cose antiche, il dimandai ancora
Melan chi fe’ e ’l nome onde deriva.
“Colui la fe’ che disfè Roma, allora
che solo il Campidoglio si difese,
come per Livio è manifesto ognora. 105
Per una porca, che in questo paese
apparve, questa terra edificando,
mezza con lana, questo nome prese”.
Udito ch’ebbi il perché e il quando,
li dissi: “Amico mio, sempre son tuo. 110
Píú star non posso; a Dio t’accomando”.
Ed ello a me proferse sé e ’l suo.
CAPITOLO V
Poi ci partimmo da Melan, quel giorno
in vèr Pavia prendemmo la strada,
notando ognor le novitá d’intorno.
Esperti eravam noi de la contrada,
dove Adda fa il suo lago, e stati a Commo, 5
che qual va lá sotterra par che vada;
e cercato per tutto su dal sommo
de lo Lago maggior, che fa ’l Tesino,
io dico da Margotto in fine a Sommo;
ed a Castino udito, in quel cammino, 10
de’ fiorin che Riccieri, ch’è un demonio,
prestò sopra Giovanni a Conichino.
Io tenea prima li scongiuri a sonio,
ma non da poi ch’udio da’ piú contare
come Riccier Giovanni giunse al conio. 15
E questo ancor mi fece ricordare
che visto fu ne l’oste del buon Carlo
uno esser preso e portato per l’a’re:
per che ’l ghiottone, di cui ora parlo,
promise al suo cugino in su la morte 20
vendere il suo e a’ poveri darlo.
Oh quanto l’uom dee prima pensar forte
che altrui imprometta e, se pur impromette,
non mai serrare a le ’mpromesse porte!
Da man sinistra a dietro ci ristette 25
quella contrada, la qual s’incomincia
dove il Tesino giú dentro Po mette.
E noi ancora per quella provincia
eravam iti e cercato ogni foro
e ’l Tar passato, ove piú grosso schincia; 30
similemente stati fra coloro
che ’n su la Parma con gran reverenza
alcuna volta festeggiano il Toro,
e sopra ’l Crosto; e, passati l’Enza,
vedemmo la cittá u’ Prosper giace, 35
che fu al mondo un lume di scienza.
E fummo dove il Leone ora tace,
che soleva a Melan mostrar la branca,
come dicesse “posa e sta in pace”;
e ’n quella a cui la Secchia bagna l’anca 40
e ’l Panaro, ove alcun quel corpo crede
che col suo stil cacciò l’anima franca.
In tra Savena e Ren cittá si vede
sí vaga e piena di tutti i diletti,
che a caval vi va tal che torna a piede. 45
Quivi son donne con leggiadri aspetti,
e ’l nome de la terra segue il fatto;
buon v’è lo Studio e sottil gl’intelletti.
Così per tutto questo lungo tratto
cercando era ito insieme con Solino
le novitá di quelle genti e l’atto.
Ma qui ritorno al nostro cammino,
come quel giorno giungemmo in Pavia,
dove giace Boezio e Agustino.
Poi in vèr Piemonte prendemmo la via, 55
cercando s’io trovassi in alcun seno
filo da tesser ne la tela mia.
Giunti a Mortara, quivi udimmo a pieno
che per i molti morti il nome prese,
quando li due compagni vennon meno. 60
E cosí, ricercando quel paese,
passammo il Sesia, Novara e Vercelli,
che Pico in prima a fabbricare intese.
Tutto ’l paese è in piano e monticelli,
come suona il suo nome, e pieno ancora 65
di pan, di vin, di fiumi grandi e belli.
La Dora, Astura, l’Agogna e la Mora
passammo e ricercammo Monferrato,
dove un marchese largo e pro dimora.
Saluzzo, Canavese e Principato 70
trovammo e sí vedemmo Alba e Asti,
che ’l Tanar bagna e tocca da l’un lato.
E benché i muri siano vecchi e guasti
d’Acqui, non è però da farne sceda
per Pico, che la fe’ ne’ tempi casti, 75
e per li bagni, onde si correda,
sani e buoni, benché ora poco
par che ne caglia al Signor che n’è reda.
Or per veder Italia in ciascun loco,
attraversammo i monti a Ventimiglia, 80
che vede la Provenza, se fa foco.
Genova stende lo suo braccio e piglia
in vèr ponente tutta quella terra
e Monaco e San Romolo e Oniglia.
Io ero stato al tempo de la guerra 85
de lo doge da Murta per que’ valli,
sí ch’io sapea ’l cammin di serra in serra.
“Guarda, disse Solin, che tu non falli,
ch’io so la via del mar, ch’è tutta bona,
e lasciamo l’andar per questi calli”. 90
E io a lui: “Da Porto ad Andona
la strada so, ma convien ch’uom si spoltri,
e come va da Finale a Saona,
da Albingano, da Noli e da Voltri
in fine a Genova”. E Solino rise; 95
poi disse: “Va, ché del cammin qui m’oltri”.
Per que’ valloni e per quelle ricise
andammo, in fin che fummo dove Giano,
dico l’antico, prima pietra mise.
Questa cittá è tutta in poggio e in piano, 100
racchiusa tra Bisagno e Poncevere,
con bei palagi e ’l sito dolce e sano.
E se vi fosse cosí Po o Tevere,
non si potrebbe dire il lor piacere;
sobrii sono nel mangiare e nel bevere. 105
Io fui in San Lorenzo, per vedere
la testa del Battista e la scodella,
ch’ è di smeraldo e vale un grande avere.
E vidi un’altra novitá in quella
cittá, che dura da la state al verno, 110
che strana pare, quando si novella:
io dico che i demoni de lo ’nferno
non son sí neri, come stan dipinte
le donne qui, ché piú non ne discerno
che gli occhi e i denti, sí son forte tinte. 115
CAPITOLO VI
Nobile e grande è la cittá di Genova
e piú sarebbe ancora, se non fosse
che ciascun dí per sua discordia menova.
Per la rivera a levante si mosse
la guida mia e io apresso a lui,
lasciando Bobio a dietro e le sue fosse.
Io vidi, presso al luogo dove fui,
i monti dove Trebbia e Taro nasce,
secondo che ’nformato fui d’altrui.
E vidi uscir la Magra de le fasce
del giogo d’Apennin ruvido e torbo,
che de l’acque di Luni par si pasce.
“Non vo’, disse Solin, che qui passi orbo:
da questo fiume Toscana incomincia,
che cade in mare al monte del Corbo.
E vo’ che sappi che questa provincia
da venticinque vescovati serra:
terren non so del tanto che la vincia.
Dal mezzogiorno la cinge e afferra
lo mar Mediterano; poi Apennino
di vèr settentrion chiude la terra.
E da levante com va pellegrino
Tevere in mar, che surge in Falterona,
compie Toscana tutto il suo cammino.
Lo giro suo, per quel che si ragiona,
è misurato settecento miglia
e Roma è quell’onor che la incorona”.
Così parlando come il tempo piglia,
vedemmo quel paese a oncia a oncia,
Verde, la Vara, Vernaccia e Corniglia.
Lussuria senza legge, matta e sconcia,
vergogna e danno di colui che t’usa,
degno di vitupero e di rimproncia,
noi fummo a Luni, ove ciascun t’accusa
che per la tua cagion propiamente 35
fu ne la fine disfatta e confusa.
E vedemmo Carrara, ove la gente
trova il candido marmo in tanta copia,
ch’assai n’arebbe tutto l’Oriente;
e ’l monte ancora e la spilonca propia 40
lá dove stava lo ’ndovino Aronta,
ch’a Roma fu quand’ella cadde inopia.
E poi passammo ove si mostra e conta
il Salto de la Cervia e par la forma
nel sasso e come per lo monte monta. 45
Cosí, ponendo il piede dove l’orma
facea il mio consiglio, passai il Frigido
con altri fiumi, ch’io non pongo in norma.
Mugghiava il mar, ch’era ventoso e rigido,
e l’aire con gran tuoni, per che noi 50
fuggivam piú che ’l passo quello strigido.
E passato Mutron, giungemmo poi
a la bella cittá, c’ha per insegna
l’arme romana, sí che par de’ suoi.
Del nome suo, donde ch’e’ si vegna, 55
è quistion: ché alcun dice da Piso,
ch’ al tempo de’ Troiani quivi regna;
e altri creder vuol che li fu miso,
ché Roma, al tempo antico, ne facea
porto a pesare il censo suo tramiso. 60
Ed è chi conta che fu detta Alfea
prima d’assai; ma Solin mi disse
che Pisa nome da Pelope avea.
Visto sopr’Arno il duomo, non s’affisse,
ma disse: “Vienne, ché lo star soperchio 65
e perder tempo è fallo a chi l’udisse.
Andando, noi vedemmo in piccol cerchio
torreggiar Lucca a guisa d’un boschetto
e donnearsi con Prato e con Serchio.
Gentile è tutta e ben tratta a diletto 70
e piú sarebbe, se non fosse il pianto
che quarant’anni e piú le ha stretto il petto.
Io vidi Santa Zita e ’l Volto Santo
e udii come al prego di Frediano
il Serchio s’era volto da l’un canto.
Io fui in su la Ghiaia, ove ’l Pisano
sconfisse il Fiorentin, quando fu preso
Giovanni de’ Visconti capitano.
Questa cittá, di ch’io parlo testeso,
Aringa o Fredia nominar si crede 80
al tempo, dico, che per vecchio è meso.
Ma perché illuminata da la fede
fu prima ch’altra cittá di Toscana,
cambiò il suo nome e Luce li si diede.
E Sesto, Massaciucco e Garfagnana, 85
la Lima vidi e, andando a Pistoia,
la Nievole, la Pescia e la Gusciana.
Dubbio non è, ch’ è scritto in molte cuoia,
che per la gran battaglia, che fu quando
Catellina perdeo grandezza e gioia, 90
che assai fediti e molti ch’avean bando
nobili assai de la cittá di Roma
si raunâr, l’un l’altro perdonando.
E come gente ch’era stracca e doma
si puoser quivi, e per la pistolenza 95
Pistoia questa cittá allor si noma.
Indi partimmo per veder Fiorenza.
CAPITOLO VII
Cosí cercando per quella pianura,
trovammo Prato che ’l Bisenzo bagna,
dove si mostra la santa cintura.
Passati la Marina, una montagna
Solino m’additò, dicendo: “Vienne; 5
non vo’ che per l’andare il dir rimagna”.
E cominciò: “Dopo il diluvio, venne
Atalante con la sua sposa Eletra
d’Asia, dico, e quel bel monte tenne.
Costui fu il primo che fondasse pietra 10
in Italia, per fermar cittadi,
come pare in alcuna storia vetra.
E ciò confessa il nome, se ben badi:
Fiesola la nomò, però che sola
prima si vide per queste contradi. 15
Tre figliuoli ebbe (e nota la parola)
Italo, Dardano e Sicano poi,
de’ quali al mondo ancor gran fama vola.
Italo a Italia, dove siamo noi,
lo nome diede e tanto poi si spazia, 20
ch’ un luogo fece, dove è Roma ancoi.
Dardano, apresso, si trasse in Dalmazia
e quivi per un tempo seggio fece;
ma pur al fine del luogo si sazia.
Abbandonato quelle genti grece, 25
ne le parti di Frigia si ridusse,
lungo quel mar, fra genti grosse e biece.
Con que’ compagni, che seco condusse,
fermò una cittá, la qual Dardania
volse che detta dal suo nome fusse. 30
In quella parte, dov’è or Catania,
passò Sicano e del suo nome
l’isola poi si nominò Sicania.
Qui passo a dirti di quel monte, come
fu ricco di buon bagni e bei ricetti, 35
di gran condotti e d’uno e d’altro pome”.
Cosí parlando tra que’ bei tragetti,
giungemmo a la cittá che porta il fiore,
degna di ciò per li molti diletti.
Qui provai io com’è grande l’amore 40
de la patria, però che di vederla
saziar non ne potea gli occhi né il core.
A ragionar di questa cara perla
il principio, non è dubbio che Roma
l’abitò prima e le fe’ mura e merla.
E per alquanti allor prima si noma
piccola Roma; ma ’l nome non tenne,
ché a ciò non era ancor la gente doma.
Cesare, vinta Fiesole, lá venne
e del suo nome nominar la volse; 50
ma per li senator non si sostenne.
Poi per Fiorin, che la morte vi colse
da’ Fiesolani, li fu detto Fioria
e questo ancora, in parte, li si tolse.
Al fine gli abitanti, per memoria 55
ch’ ell’ era posta in un prato di fiori,
li denno il nome bello onde si gloria.
Grande era e degna giá di tutti onori,
quando Totila crudo, a tradimento,
tutta l’arse e disfè dentro e di fuori. 60
Apresso questo gran distruggimento,
per lo buon Carlo Magno fu rifatta
e tratto Marte d’Arno e posto al vento.
Vero è che sempre stette in gran baratta
in fin che Fiesol poteo batter polsi; 65
ma poscia crebbe, come fu disfatta.
E se del tutto allor si fossen spolsi,
e non raccolto l’un con l’altro sangue,
forse tal canterebbe, ch’ora dolsi:
ché non è modo a racchiudere un angue 70
e l’uomo insieme, ché son sí contrari,
ch’al fin convien che l’uno e l’altro langue.
Io vidi molti luoghi ricchi e cari;
ma sopra tutto mi piacque il Battista,
che d’intaglio di marmo non so il pari. 75
E se compiuto fosse a lista a lista
il campanil, come l’ordine è presa,
ogni altro vincerebbe la sua vista.
L’Arno, la Sieve, il Mugnone e la Pesa
fregiano il suo contado con piú fiumi, 80
che sono a la cittade gran difesa.
Di belle donne e con vaghi costumi,
d’uomini accorti a saper dire e fare
natura par che per tutto v’allumi.
L’acque ha chiare e purifica l’a’re, 85
odorifere piante e ’l ciel disposto
a viver sani e molto ingenerare.
E senza dubbio quel ch’io t’ho proposto
che Fiesol dificò, conobbe il loco
com’era per li cieli ben composto. 90
Istato lá piú dí, che a me fu poco,
noi ci partimmo e prendemmo il cammino,
che ci affrettava per neve e per foco.
Io andava col capo basso e chino,
con piccol passo e co’ pensier sospensi, 95
quando mi dimandò “Che hai?” Solino.
Allor l’acceso imaginare spensi
e dissi: “A la cittá, che dietro lasso,
avea il cuore con tutti i miei sensi”:
ché io piangea fra me e dicea: lasso!, 100
ritornerò giá mai a rivedere
questo caro piacer, che ora lasso?
“Ad altro ti convien lo core avere,
rispuose a me, però che ’l tempo è breve,
a cercar tanto quanto vuoi vedere”. 105
Cosí parlando, passammo la Greve;
e io, per la parola un poco acerba,
vinsi il pensiero e fecimi piú leve.
E cosí fan talor buone proverba.
CAPITOLO VIII
Quel tenero pensier, che nel cuor nacque
partendo dal piacer, ch’ognor disio,
s’ascose, come a la mia guida piacque.
Poi, per non perder tempo ed ello e io,
andando il dimandai se Italia mai
per altro nome nominar s’udio.
Ed ello a me: “Se cerchi, troverai,
occupata da’ Greci, la gran Grecia
esser nomata ne’ tempi primai.
Saturno ancora, dopo molte screcia
fatte con Giove, fuggendo s’ascose
di qua, dove ’l suo senno assai si precia.
Costui, essendo re, fra l’altre cose,
Saturnia la nomò”. In questa guisa
Solino a la dimanda mi rispose.
Poi sopragiunse: “Figliuol, qui t’avisa
ch’a pena so provincia, a cui non sia
cambiato nome, cresciuta o divisa.
E questo è quel che l’animo disvia,
quando nuove scritture di ciò leggi
da quelle de gli antichi e da la mia.
Or perché chiaro in questa parte veggi,
sí come le province qui d’Italia
le piú hanno mutato nome e leggi,
dico che Scozia si scrisse, giá balia
di Giano, e, da’ suoi monti, è Rezia prima
e la seconda s’intendea con Galia.
E come l’Eridan giú al mar dilima,
Emilia e Liguria bagna sempre:
l’una di lá, l’altra di qua si stima.
Lungo ’l mare Adrian par che s’assempre
Flaminea, dico, e Picena ancora
e che ’l giogo Apennin quell’aire tempre.
E fu Toscana, dove noi siam ora,
Umbria giá detta, non tutta, ma parte, 35
per gran diluvio che quivi dimora.
Quella contrada, dove con sue arte,
morto il figliuolo, Medea stette e visse,
Valeria o Marsia è scritta in molte carte.
Messapia o Peucezia si disse 40
l’altra, ch’è lungo il mare, ove si crede
che Silla in mostro giá si convertisse.
E non solo in Italia si vede
i nomi rimutati a le province,
ma sí in piú parti del mondo procede. 45
Or tu, che dèi notare quindi e quince
li nomi de’ paesi, tienti a quelli
c’hanno piú fama per diverse schince:
dico co’ vecchi e quando co’ novelli”.
E cosí la mia scorta ragionando, 50
passammo molti borghi e piú castelli.
Noi eravamo sopra l’Era, quando
mi fu mostrata un’acqua e per alcuno
contato, a cui di novitá domando:
“Usanza è qui tra noi che ciascheduno 55
che fa cerchi da vegge, ivi gl’immolla
e che sempre, di diece, ne perde uno.
E niuno può veder chi questo tolla:
l’un pensa ch’ è ’l dimonio che l’afferra,
l’altro ch’ è il lago, che da sé l’ingolla”. 60
Apresso questo, trovammo Volterra
sopra un gran monte, ch’ è forte e antica
quanto in Toscana alcun’altra terra.
Si disse Antonia e, per quel che si dica,
indi fu Buovo, che per Drusiana 65
di lá dal mar durò molta fatica.
Per quella strada, che v’era piú piana,
noi ci traemmo a la cittá di Siena,
la quale è posta in parte forte e sana.
Di leggiadria, di bei costumi è piena, 70
di vaghe donne e d’uomini cortesi,
e l’aire è dolce, lucida e serena.
Questa cittade per alcuno intesi
che, lasciando ivi molti vecchi Brenno,
quando i Roman per lui fun morti e presi,
si abitò prima; e altri è d’altro senno,
che dice, quando il buon Carlo Martello
passò di qua, che i vecchi suoi la fenno.
Io vidi il Campo suo, ch’è molto bello,
e vidi fonte Branda e Camollia 80
e l’ospedal, del quale ancor novello.
Vidi la chiesa di Santa Maria
con gl’intagli del marmo e, ciò veduto,
in verso Arezzo fu la nostra via.
Non è da trapassare e farsi muto 85
de l’Elsa, che da Colle a Spugna corre,
ché, senza prova, non l’avrei creduto:
io dico che vi feci un legno porre
lungo e sottile; e, in men che fosse un mese,
grosso era e pietra, quando il venni a tôrre: 90
colonne assai ne fanno nel paese.
CAPITOLO IX
Di lá da l’Ambra, Aurelia ci aspetta:
Aurelia dico a la cittá d’Arezzo,
perch’era anticamente cosí detta.
Ver è che questa mutò nome e vezzo,
quando la prese Totila, che poi 5
arar la fece tutta a pezzo a pezzo.
Le genti, che lá sono, al dí d’ancoi,
pur ch’abbian di lor vita alcun sostegno,
non curan di venir dal tu al voi.
E sí son, per natura, d’uno ingegno 10
tanto sottil, che in ciò ch’ a far si dánno
passan de gli altri le piú volte il segno.
Per biada e per vin buon terreno hanno;
l’Arno, la Chiassa, le Chiane e ’l Cerfone
piú presso d’altri fiumi a essa vanno. 15
Donato dal gran drago è lor campione;
godon di vagheggiarsi mura e fossi,
come de la sua coda fa il pavone.
Solino in prima e io apresso mossi,
cercando com la gente si governa, 20
tra quelle strette valli e alti dossi.
Noi fummo sopra il sasso de la Verna,
al faggio ove Francesco fu fedito
dal Serafin, quel dí che piú s’interna.
Molto è quel monte divoto e romito 25
ed è sí alto, che ’l piú di Toscana
mi disegnò un frate col suo dito.
“Guarda, mi disse, al mare, e vedi piana
con alti colli la Maremma tutta:
dilettevole è molto e poco sana. 30
Lá è Massa, Grosseto e la distrutta
Civita veglia ed èvi Populonia
ch’ appena pare, tanto è mal condutta.
Lá è ancor dove fu Lansedonia;
lá è la Cava, dove andare a torma 35
si crede il tristo overo le demonia.
E questo il manifesta, perché l’orma
d’ogni animale lá entro si trova
in su la rena e d’uomini la forma.
Io dico piú: che qual fa questa prova, 40
che quelle spenga e pulisca la rena,
se l’altro dí vi torna, ancor le trova.
Lo suo signore, nel tempo che Elena
fu per Paris rubata, si ragiona
che con i Greci a Troia gente mena. 45
La è Soana e vedesi Mascona
ed èvi Castro povero e men dico
ch’a Bolsena si va da terza a nona.
Queste cittadi e altre ch’ io non dico
funno per la Maremma, in verso Roma,
famose e grandi per lo tempo antico.
De’ fiumi, che di lá piú vi si noma,
sono l’Ombrone, la Paglia, la Nera
e Cecina, che a la marina toma.
Ma leva gli occhi da questa rivera 55
e guarda per le ripe d’Apennino,
se vuoi veder piú la Toscana intera.
Vedi il Mugello e vedi il Casentino
a man sinistra, e vedi onde l’Arno esce
e come va da Arezzo al Fiorentino. 60
Poi mira in vèr la destra come cresce
Tever passando da Massa Trabara,
per l’acque molte che dentro vi mesce.
E guarda come porta la sua ghiara
dal Borgo San Sepolcro in vèr Castello, 65
dove il Pibico entra e la Soara.
E guarda come è grosso e fatto bello
presso a Perugia e come a Todi china,
dove Acqua fredda e il Chiascio va con ello.
E guarda come per terra Sabina 70
* poi passa
per Roma e vanne, a Ostia, a la marina.
E nota: quanto da levante lassa
si è fuori di Toscana, onde il Ducato
in tutto, come vedi, se ne cassa. 75
Io so bene che quanto t’ho mostrato
che la vista nol cerne apertamente
per lo spazio ch’è lungo, dov’io guato.
Ma quando l’uom, che bene ascolta e sente,
ode parlar di cosa che non vede, 80
imagina con gli occhi de la mente”.
E io a lui: “Tanto ben procede
lo vostro dir, che a me è cosí chiaro
com’io v’avessi giá su posto il piede.
Ma ditemi ancora, o frate mio caro, 85
se di Francesco ci è alcuna cosa
da notar degna, per questo riparo”.
Menonne allora in una parte ascosa
del sasso e disse: “Qui orava il Santo
e vedi l’orme ove i ginocchi posa. 90
Altro non c’è; ma se brami cotanto
veder de le sue cose, a Monte Aguto
vedrai la cappa sua”. E tacque a tanto.
E io: “La cappa e ’l cappuccio ho veduto,
che spense giá, girandola in sul foco 95
ch’ardea il castel, senza alcun altro aiuto.
E vidi lá, che non mi parve gioco,
di notte accesi infiniti doppieri,
senza uomo alcun cercar tutto quel loco.
Questo mise i signori in gran pensieri 100
di quel castel, ché, per uso, la morte
sempre un ne vuol, quando appaion que’ ceri”.
E ’l frate a me: “Di cosí grave sorte
in alcun luogo giá parlare udio;
ma il creder m’era dubitoso e forte”. 105
Cercato il monte ognor Solino e io
e veduto la chiesa e gli abituri,
raccomandammo que’ buon frati a Dio.
Cosí scendendo que’ valloni oscuri,
mille anni ci parea d’essere al piano, 110
sí poco lá ci tenevam sicuri.
Chiusi, Farneta vidi e Chitignano
e passammo in piú parti la Rassina,
un fiumicello assai noioso e strano
e dubitoso a qual suol si trassina. 115
CAPITOLO X
Cosí passammo in fine a l’altro giorno,
cercando la contrada e dimandando
s’alcuna novitá v’era d’intorno.
Noi eravamo sotto un poggio, quando
Solin mi prese e disse: “Qui t’arresta”.
E io fermai i piedi al suo comando.
Poi sopragiunse: “Leva su la testa
e nota ciò ch’io ti disegno e dico,
perché da molti autor si manifesta.
Tu dèi saper che in fine al tempo antico
quella cittá, che vedi in su la costa,
fu fatta un poco poi che fosse Pico.
Apresso Turno, a cui caro costa
Lavina e di Pallante la cintura,
la tenne e governò tutta a sua posta.
Costui l’accrebbe di cerchio e di mura
e del suo nome Turnia la chiama,
che poi il nome piú tempo li dura”.
Cosí parlando, la mia cara brama
mi disse: “Vienne”; e trassemi in vèr Chiusi,
come andava la via di lama in lama.
Quivi son volti pallidi e confusi,
perché l’aire e le Chiane li nemica,
sí che li fa idropichi e rinfusi.
Questa cittade, per quel che si dica,
fu molto bella e di ricchezza piena;
in fin che venne Gian si crede antica.
Qui governava il suo regno Porsena,
quando cacciato fu Tarquin Superbo,
che con lui seco a oste a Roma mena.
Di qui mosse colui, che, col suo verbo
e poi con l’argomento del buon vino,
Brenno a Roma guidò fiero e acerbo.
Molto è ben conosciuto quel cammino,
bontá del vertudioso e santo anello 35
ch’ a conservar la vista è tanto fino.
Carcar passammo e Rodo, un fiumicello,
attraversammo per veder Perugia
che, com’è in monte, ha il sito buono e bello.
Persus, che quivi sbandito s’indugia 40
per li Romani dopo molta guerra,
la nominò, s’alcun autor non bugia.
Lo suo contado un ricco lago serra,
lo quale è sí fornito di buon pesce,
ch’assai ne manda fuor de la sua terra. 45
Per fiume alcuno che v’entri non cresce;
l’acqua v’è chiara come di fontana,
e non si vede ancora donde ella esce.
La cittá d’Orbivieto è alta e strana;
questa da’ Roman vecchi il nome prese, 50
ch’ andavan lá perché l’aire v’è sana.
E poi che di lassú per noi si scese,
vedemmo Toscanella, ch’ è antica
quanto alcun’altra di questo paese.
Seguita or che di Viterbo dica, 55
che nel principio Vegezia fu detta
e fu in fin ch’ a Roma fu nemica.
Ma, vinta, poi a li Roman diletta
tanto per le buone acque e dolce sito,
che ’n Vita Erbo lo nome tragetta. 60
Io nol credea, perch’io l’avessi udito,
senza provar, che ’l Bulicame fosse
acceso d’un bollor tanto infinito.
Ma gittato un monton dentro, si cosse
in men che l’uomo andasse un quarto miglio, 65
ch’altro non ne vedea che propio l’osse.
Un bagno v’ha, che passa ogni consiglio,
contra ’l mal de la pietra, però ch’esso
la rompe e trita come gran di miglio.
Dal tus a Tuscia fu il nome messo, 70
perché con quel gli antichi, al tempo casso,
sacrificio facean divoto e spesso.
Qui lascio la Toscana e ’l Tever passo
per trovare il Ducato di Spoleti
con la mia guida, che da me non lasso.
Vidi Todi, Foligno, Ascesi e Rieti,
Narni e Terni, e il lago cader bello,
che tien la Leonessa co’ suoi geti.
E vidi a Norcia ancora un fiumicello:
questo sette anni sotto terra giace 80
e sette va di sopra grosso e bello.
Il ponte di Spoleti ancor mi piace.
Qui mi disse Solino: “Omai ben puoi
a le confin d’Italia poner pace”.
E io a lui: “De’ termini suoi 85
e del giro e del mezzo e la lunghezza
udir vorrei, com’era ne’ dí tuoi,
e chi la tenne in prima giovinezza
e s’altra novitá a dir vi sai,
ch’io ne tocchi, e di ogni sua bellezza”. 90
Ed ello a me: “Tu m’hai parlato assai;
ma, perché men ti noi la lunga via,
dirò sí come giá la terminai”.
E ’n questo modo incominciò via via.
CAPITOLO XI
“Italia è tratta in forma d’una fronda
di quercia, lunga e stretta, e da tre parte
la chiude il mare e percuote con l’onda.
La sua lunghezza è, quando l’uom si parte
da Pretoria Augusta in fine a Reggio, 5
che in venti e mille miglia si comparte.
E se ’l mezzo del tutto trovar deggio,
propio ne’ campi di Rieti si prende:
cosí si scrive e io da me lo veggio.
Monte Apennino per mezzo la fende; 10
piú fiumi e piú real da lui si spanda
da quella parte che Toscana pende.
Poi, come ’l poggio tien da l’altra banda,
per le sue ripe molti ne disegna,
che nel mare Adrian diritto manda. 15
Maraviglia non par, se giá fu degna
tanto, che ’l mondo governava tutto:
sí ben par ch’abbia ciò che si convegna.
Qui son le fonti chiare per condutto;
qui son gran laghi e ricchi fiumi assai, 20
che rendono in piú parti molto frutto.
Datteri, cedri, aranci dentro v’hai
e campi tanto buoni e sí fruttevoli,
quant’ io trovassi in altra parte mai.
Qui sono i collicei dolci e piacevoli, 25
aombrati e coperti di bei fiori
e d’erbe sane a tutti i membri fievoli;
qui gigli e rose con soavi odori,
boschetti d’arcipresso e d’alti pini,
con violette ognor di piú colori. 30
Qui sono i bagni sani e tanto fini
a tutte infermitá che tu li vuoli,
che spesso passan l’altre medicini.
Qui selve e boschi son, che paion bruoli,
se vuoi cacciare, ove natura tragge 35
cervi, orsi, porci, daini e cavriuoli.
Qui son sicuri porti e belle piagge;
qui son le belle lande e gran pianure
piene d’augelli e di bestie selvagge;
qui vigne, ulivi e larghe pasture; 40
qui nobili cittadi e bei castelli
adorni di palagi e d’alte mure;
volti di donne dilicati e belli,
uomini accorti e tratti a gentilezza,
maestri in arme, in cacce e in uccelli. 45
L’aere temperata e con chiarezza
soavi e dolci venti vi disserra;
piena d’amor, d’onore e di ricchezza.
Lo maggior serpe ch’abbia questa terra
Eridano è, che nasce su in Veloso, 50
che con trenta figliuoi nel mar s’inserra.
Entra come coniglio e va nascoso
nel suo cammino, e, quando fuor riesce,
torbido corre in fine al suo riposo.
Nel Gemini e nel Cancro sempre cresce; 55
adorna il suo bel letto alquanto d’oro,
benché ad averne spesso a l’uomo incresce.
Lupi ci sono ancora e fan dimoro,
che, per natura, coprono col piede
la pietra nata de l’orina loro, 60
e altri che, se alcun uomo li vede,
subitamente la voce gli annoda,
sí che di fuor, benché voglia, non riede.
Italia tien forcelluta la coda:
l’una parte riguarda i Ciciliani 65
l’altra dirizza a Durazzo la proda.
Abitata fu prima da villani;
lo nome suo da Italus prese,
che di qua venne co’ Siracusani.
Saturno fu da cui il popolo apprese 70
a vivere come uomo e da Latino
la lingua, poi, latina si discese.
Piace ad alcun che a quel tempo vicino
lettera in prima ci desse Carmente,
penso spirata dal voler divino. 75
Confina con Provenza nel ponente,
con Francia, con la Magna e ’l mar Leone;
dal mezzodí, con l’Africa, pon mente;
da l’altra parte, in vèr settentrione,
lungo il mare Adrian, lo Schiavo vede, 80
dove Durazzo e Dalmezzo si pone.
Dodici e cinque province si crede
tutta partita, e certo non fallo,
con l’isole che ’l mar bagna da piede.
Lo mar liguro ingenera corallo 85
nel fondo suo, a modo d’albuscello,
pallido, di color tra chiaro e giallo.
Spezzasi come vetro il ramicello
quando si pesca, e come piú è grosso
e con piú rami, tanto par piú bello. 90
Sí come il ciel lo vede, divien rosso;
e non pur si trasforma di colore,
ma fassi forte e duro, che pare osso.
Conforta, a riguardar, la vista e ’l core
averne seco quando folgor cade; 95
pietra non so piú util né migliore.
In Terra di lavoro son contrade,
dove la pietra sirtite si trova
di color giallo; ma molto son rade.
La pietra veientana non è nova 100
a’ Veientan, la quale in parte è bruna
con bianche verghe e questa par che piova.
Similemente ci si truova alcuna
la qual linguria nomo, ch’a le reni,
qual v’ha dolor, miglior non so niuna. 105
Italia truova, a chi gira i suoi seni,
venti volte quaranta nove miglia:
e qui fo punto a tutti i suoi terreni,
ché buon sará, s’altro cammin si piglia”.
CAPITOLO XII
Cosí andando e ragionando sempre,
giungemmo al mar, nel quale a chi non l’usa
pare che, quando v’entra, il cuor si stempre.
Sopra una nave grande, ferma e chiusa,
entrò Solino e con benigna voce
mi disse: “Vien, ché qui non vuole scusa”.
Allor mi feci il segno de la croce;
indi la vela aperta vento prese,
che fuor tosto ne trasse de la foce.
Lo primo porto e ’l primo paese
fatato a noi fu l’isola de’ Corsi,
dove Solino, e io apresso, scese.
Questa può esser per lo lungo forsi
venti e sessanta miglia e gli abitanti
acerbi e fieri son, che paion orsi.
Vini v’ha buoni e sonvi ronzin tanti,
che gran mercato n’è; ma chi su monta
vie piú che i Sardi par che ’l cuor gli schianti.
E secondo che per alcun si conta,
Corso, che ab antiquo fu lor duca,
del nome suo quell’isola impronta.
E altri vuol che questo nome luca
da una donna, che Corsa si disse,
cui trasse il toro fuor de la sua buca.
E per Vergilio Cirnea si scrisse,
ché Cirnes, navicando per quel mare,
quivi arrivato, giá signor ne visse.
Sol la pietra catochite mi pare,
tra quante novitá di lá si trova,
che sia piú degna da dover notare.
Veduto Capo Corso e dove cova
Laiazzo, cosí fui del loco sazio,
ché stare indarno a chi dee far non giova.
E poi che giunti fummo a Bonifazio,
fu il nostro passo diritto in Sardigna;
tosto vi fummo, ché v’è poco spazio.
Molto sarebbe l’isola benigna
piú che non è, se, per alcun mal vento
che soffia, l’aire non fosse maligna.
Lá son le vene con molto ariento;
lá si vede gran quantitá di sale,
lá sono i bagni sani come unguento.
Non la vidi, ma ben l’udio da tale
a cui do fé, che v’era una fontana
ch’a ritrovare i furti molto vale. 45
Un’erba v’é spiacevole e villana:
questa, gustata, senza fallo uccide;
e s’ella è rea, ancora è molto strana,
ché in forma propia d’uomo quando ride
li cambia il volto e scuopre un poco i denti: 50
sí fatto morto giá mai non si vide.
Sicuri son da lupi e da serpenti.
La sua lunghezza par da cento miglia
e tanto piú quanto son venti e venti.
Io vidi, che mi parve maraviglia, 55
una gente che niuno non la intende
né essi sanno quel ch’altri pispiglia.
Ver è, s’alcun de le lor cose prende,
per cenni cambio in questo modo fanno:
ch’una ne tolle e un’altra ne rende. 60
Quel che sia cresma o battesmo non sanno;
la Barbagia è detta in lor paese;
in sicure montagne e forti stanno.
Quest’isola da Sardo il nome prese,
lo qual per sé fu nominato assai, 65
ma piú per lo buon padre onde discese.
Un piccolo animal quivi trovai:
gli abitator lo chiaman solifughi,
perché ’l sol fugge quanto può piú mai.
E pognam che fra lor serpe non brughi: 70
pur nondimeno a la natura piace
che chi lá vive alcun vermo li frughi.
Sassari, Bosa, Callari e Stampace,
Arestan, Villanova e l’Alighiera,
che le sei parti e piú dentro al mar giace. 75
Quest’isola, secondo che s’avera,
Genova e Pisa al Saracin la tolse,
la qual sortiro con l’aver che v’era:
lo mobil tutto al Genovese colse
e la terra a’ Pisani e funno quivi
in fin che ’l Ragonese ne li spolse.
Invidiosi, infedeli e cattivi
i piú vi sono e però chi v’è donno
guardar convien da que’ ch’egli ha piú privi.
Crudei non son, se non quando non ponno; 85
lanciano i dardi di nascosto altrui
e uccidono talor, s’el giunge al sonno.
In Arestan, dov’è la tomba fui
di Lupo mio e feci dir l’offizio
con que’ bei don, che si convenne a lui. 90
Compiuto il caro e santo sacrifizio,
pensoso stava, onde Solin mi disse:
“Figliuol, lo ’ndugio spesso prende vizio”.
Indi partio, ché piú non s’affisse,
e io apresso lui, cercando ognora 95
se nova cosa alcuna ci apparisse.
Parlare udimmo e ragionare allora
che v’è un bagno, che, qual vi ripara,
ogni osso rotto salda in poco d’ora.
Cosí cercando la mia guida cara, 100
che non guardava festa né vigilia,
trovammo una galea a Carbonara,
dove salimmo per trovar Cicilia.

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