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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA


Il Dittamondo
di: Fazio degli Uberti 

LIBRO SECONDO 

Capitoli XXII - XXXI


CAPITOLO XXII 
Secondo il mio parlar ben puoi vedere 
che Carlo Magno in Francia fu il primo 
a cui dessi giá mai il mio podere. 
E puoi trovar, cercando in fine a imo, 
chi e quanti ne funno e come fatti 5 
imperador discesi del suo vimo. 
Or ti vo’ dire, a ciò che, se mai tratti 
di sí fatta materia, il tempo veggi 
che meco funno e ch’io li vidi sfatti, 
dire che ’n quante croniche tu leggi, 10 
truovi ch’esser potean da due cent’anni 
che governaro me e le mie greggi. 
E se qui vuoi che del ver non t’inganni, 
contenta assai ne fui, se vennon meno: 
sí poco giá curavan de’ miei danni. 15 
E poi che sciolto in man mi tornò il freno 
de lo ’mperio mio, cosí il porsi 
a Lodovico, che piú m’era in seno. 
Vero è che di cui fosse avresti in forsi 
trovato al mondo molti e molti popoli, 20 
tanto eran giá i fatti miei trascorsi: 
ché l’un lo si credea ’n Costantinopoli 
e l’altro ne la Magna, colá dove 
or la corona de la paglia copoli. 
Ma perché miri al segno e non altrove, 25 
sol Lodovico allor l’onor tenea 
che da me prese, in cui la grazia piove. 
Or odi di costui fortuna rea: 
che preso fu e poi cieco in Verona, 
quando disfare Berlinghier credea. 30 
Sei anni guidò il mio la sua persona; 
poi Berlinghieri Forlivese venne, 
al quale puosi in testa la corona. 
Quattro anni, poi, la governò e tenne; 
pro fu in arme e di alti ministeri; 35 
altrui fe’ guerra e molta ne sostenne. 
Seguio apresso un altro Berlinghieri, 
ma nato Veronese, e costui poco 
ne’ suoi nove anni ebbe di me pensieri. 
Lottaro, dopo lui, ritenne il loco 40 
sette anni e poi Berlinghieri il terzo, 
Piagentin, tre; e costui fu un foco. 
Tu vedi ben come mi sforzo e sferzo 
venire al fin di questa trista schiatta, 
che fun peggior che gli orsi in ogni scherzo. 45 
In questo tempo fu Genova sfatta 
per gli Africani, sí ch’ancor ne langue 
ogni suo cittadin de la baratta. 
In questo tempo una fontana sangue 
isparse per la terra, ch’a’ lor guai 50 
annuncio fu peggior che morso d’angue. 
In questo tempo fun discordie assai 
in Francia, ne la Magna e tra’ Latini, 
de le quai danno spesso mi trovai. 
In questo tempo ancora i Saracini 55 
passâr su la Cicilia e vinser tutta, 
ponendo ai liti miei le lor confini. 
In questo tempo fu rubata e strutta 
Italia sí per gli Ungari crudeli,
ch’ancor c’è, credo, chi ne piange e lutta.
In questo tempo si vide tra’ cieli 
sí rosso il sol, ch’a molti, per sospetto 
d’alcun giudicio, s’arricciaro i peli. 
In questo tempo fun con un sol petto 
due corpi uman, che, quando l’un dormia, 65 
e l’altro da la fame era costretto. 
In questo tempo fen vita sí ria 
Alberto e Berlinghier, ch’assai ne piansi 
e piansene Toscana e Lombardia. 
E come rimembranze talor fansi, 70 
costui mi fe’ ricordar di Nerone, 
cotanto duro m’era e tenea in transi. 
Tre papi funno allora in quistione 
e tutti e tre in un sol tempo vivi: 
Giovanni, Benedetto e Leone. 75 
E se giá mai di tal Giovanni scrivi, 
dir puoi, per ver, che fu pien di lussuria 
e d’altri vizi bestiali e cattivi. 
Senza fallo commesso o altra ingiuria, 
la maladetta schiatta impregionaro 80 
Alonda imperadrice con gran furia. 
Pur tanto i lor gran mal moltiplicaro, 
che ne la Magna ad Otto di Sansogna 
il popol mio e gli Italian mandaro. 
Or qui voglio che chiaro si ripogna 85 
ne lo ’ntelletto tuo ciò ch’a dir vegno, 
ché alquanto lungo parlar mi bisogna. 
Dico che come Carlo tolse il regno 
a Desiderio, a Berlinghier costui, 
prendendo lui, li tolse ogni sostegno. 90 
Poi tanto amata e riguardata fui, 
per lo suo gran valor, che la corona 
e me e ’l mio diedi tutto a lui. 
Assai mi piacque, quando dispregiona 
Alonda e piú ancor poi che la fece 95 
compagna e sposa de la sua persona. 
Da queste genti sí crudeli e biece 
l’aquila posso dir che fu tenuta 
tre anni e piú di cinque volte diece. 
Vero è ch’ell’era giá tal divenuta, 100 
per lo tristo governo, in questo tempo, 
qual se ’l Greco l’avesse posseduta. 
Qui puoi veder come di tempo in tempo 
la somma Provedenza alcun produce 
che, per sua gran vertú, poi lungo tempo 105 
fa che nel mondo la mia luce luce. 

CAPITOLO XXIII 
Del millesimo nostro eran giá corsi 
novecento anni e cinque con cinquanta, 
quando l’aquila e ’l mio a Otto porsi. 
Costui fu il primo che portò la pianta 
ne la Magna dell’albore, il cui frutto 5 
senza sette gran princi non si schianta. 
Cherici son li tre e fan ridutto 
l’uno in Maganza e l’altro in Cologna 
e ’l terzo Trieves governa del tutto. 
Dei laici è l’uno quello di Sansogna, 10 
quel di Baviera e quel di Brandiborgo 
e quello di Buemme, se bisogna. 
Li primi tre, che dinanzi ti porgo, 
sono del gran monarca cancellieri; 
ma come sian partiti non ti scorgo. 15 
De’ quattro, l’un lo serve del taglieri; 
l’altro li porta dinanzi la spada; 
pincerna è il terzo e ’l quarto camerieri. 
Quest’ordine, che tanto ben digrada, 
fu proveduto a ciò che fosse sempre 20 
sí per elezione e in lor contrada. 
Due anni e diece vissi a le sue tempre 
e voglio ben, se di lui scrivi mai, 
che secondo al buon Carlo tu l’assempre. 
Apresso di costui, ch’io tanto amai, 
Otto secondo la corona prese, 
che somigliò lo suo buon padre assai. 
Incontro a Pietro prefetto difese 
il Papa mio, il quale era per certo 
morto, se pigro stato fosse un mese. 30 
E come per ben far s’aspetta merto, 
similemente, operando il contraro, 
dee l’uom pensar di rimaner deserto. 
Dico che molti a costui rubellaro, 
violando la pace ch’avea fatta, 35 
li quai distrusse con tormento amaro. 
Qui non ti conto la mortal baratta 
che fe’ coi Saracin, né la paura 
ch’egli ebbe in mar, dopo la lunga tratta. 
Cinque anni e diece visse in quell’altura 40 
e, poi che morte il suo corpo saetta, 
Otto il terzo prese di me cura. 
Costui de la sua sposa maladetta 
provato il vero con la vedovella, 
col fuoco fece iusticia e vendetta. 45 
Io non ti posso dire ogni novella 
di questi miei signor, ma quella arrivo 
che mi par di ciascuno a dir piú bella. 
E se in quel tempo fossi stato vivo, 
Ugo marchese averesti in Fiorenza 50 
veduto, un gran baron possente e divo. 
E se di lui vuoi piena sperienza, 
di quella avision fa che dimandi 
de la qual fe’ sí buona coscienza. 
E spiane ancora quel da’ Gangalandi, 55 
quello de’ Pulci, Giandonati e Nerli,
e molti, che per lui fun poi piú grandi. 
Or perché in te ogni mio dir s’imperli, 
qui t’ammaestro che non pigli briga 
con uom ch’abbia piú alto di te i merli. 60 
Io dico che Crescenzio s’affatiga 
contro a lo ’mperio di far novo papa, 
onde Otto poi l’uno e l’altro gastiga. 
E voglio che ne l’animo ti capa 
che allora Ugo Ciapetta si fe’ vespa 65 
e, per prendere il mele, uccise l’apa. 
Qui puoi vedere che cosí s’incespa 
qua giú la gente, come in pianta fronda: 
surge la nova e cade la piú crespa. 
In questo tempo mi vedea gioconda 70 
e Italia mia tanto contenta, 
quanto colei che d’ogni bene abonda. 
Per questi tre signori vid’io spenta 
la tirannia di qua, sí che non c’era 
chi spaventasse com’or si spaventa. 75 
Qui non si ponea dazio a la statera 
del pan, del vin, del mulino o del sale, 
che disperasse altrui com’or dispera; 
ma solo il censo al modo imperiale 
ciascun pagava e questo era sí poco, 80 
che a niuno non dolea né facea male. 
Qui si potea d’uno in altro loco 
passar per le cittá a una a una, 
senza costar bullette un gran di moco; 
qui non temea la gente comuna 85 
trovarsi nel tambur né esser preso 
per lo bargello, senza colpa alcuna; 
qui non temea che fosse difeso 
il mal fattor né tratto di pregione, 
né l’aver del comune essere speso 90 
per un uom sol, senza mostrar ragione. 

CAPITOLO XXIV 
Era vivuto un anno men di venti 
questo nobil signor con la mia insegna, 
quando la morte il morse coi suoi denti. 
Arrigo primo apresso di lui regna 
(il primo, dico, che me prima tenne) 
con la sua Cunegonda santa e degna. 
Mille e tre anni correan, quando venne 
di Baviera a me questo mio Arrigo 
per la corona e per le sacre penne. 
Poi fece tanto costui ch’io ti dico, 
che Stefan, ch’era re in Ungaria, 
credette in Cristo e dispregiò il nimico. 
E vidi allor tra la mia chericia 
la discordia tal, che funno eletti 
piú papi, di che nacque gran resia. 
E perché il mio dir piú ti diletti, 
dico che allora Fiorenza disfece 
Fiesole tutta di mura e di tetti. 
Questo signor, del qual parlar mi lece, 
in Buemme, in Sansogna e ne la Magna 
molte battaglie con vittoria fece. 
Al fin colei, che niuno non sparagna, 
dopo li dodici anni e alcun mese 
prese e chiuse costui ne la sua ragna. 
Currado primo, poi, a me discese, 
lo qual non per ricchezza ad Aquisgrani, 
ma per valore la corona prese. 
Costui, trovando i Melanesi strani, 
orgogliosi e superbi, gli assalio 
guastando la cittá e i suoi bei piani. 
Odi miracol che di questo uscio: 
che lá, dov’era, incoronato Augusto, 
folgor cadere e forti tuon s’udio. 
E fu veduto col volto robusto 
Santo Ambruogio in contro a lui venire 35 
e minacciarlo col capo e col busto. 
Con gran podere e con molto ardire 
passâr su la Calavra i Saracini, 
quando per forza li fece fuggire. 
Costui vidi da’ suoi e da’ Latini 40 
essere amato e temuto sí forte 
e io per lui ne le mie confini. 
Due volte diece tenne la mia corte 
e dèi saper che molto trista fui, 
quando detto mi fu de la sua morte. 45 
Arrigo il secondo apresso lui 
seguio; e se sapessi, quando nacque, 
perché Currado il diede in mano altrui, 
e poi udissi dir sí come ei giacque, 
mandato per morir, con la sua sposa, 50 
ben potresti veder quanto a Dio piacque. 
Non è qui da tacere un’altra cosa, 
che si vide nel tempo ch’io favello, 
ch’assai parve fra noi miracolosa: 
che fu trovato intero in uno avello 55 
un gigante di sí fatta statura, 
che ne vidi segnare questo e quello. 
E non solo al gigante ponean cura, 
ma perché ne la tomba ardeva un lume, 
che parea incantamento e non natura. 60 
Per gran franchezza e per nobil costume 
e per larghezza ti dico che degno 
è da notare in ciascun bel volume. 
Costui Campagna, Puglia e tutto il Regno 
per forza vinse e prese Pandolfo, 65 
che ne la Magna tenne poi per pegno. 
Costui, veggendo tra’ cherici il zolfo 
acceso per tre papi, ne fe’ uno, 
cacciando quei tre via per ogni golfo. 
Cinque con cinque e sette anni aduno 70 
che questo imperadore visse meco 
e che la morte il punse col suo pruno. 
Arrigo terzo a la mente ti reco, 
figliuol del primo Arrigo, col qual poi 
mi vidi assai contenta viver seco. 
Al tempo suo si racquistò per noi 
la Terra santa, dove tal cristiano 
fu Gottifré, che ’l par non so ancoi. 
Fedele a Dio, pietoso, umile e piano 
e in arme tal, che fece spessamente 80 
con Corboran lacrimare il Soldano. 
Sopra costui, pregando molta gente 
Iddio d’un re, una colomba scese 
dal ciel, che vista fu visibilmente. 
Per lo miracol grande allor si prese 85 
una corona d’or per farlo re, 
la qual del tutto di portar contese, 
dicendo lor: – Non si convene a me 
portar corona d’oro, dove Cristo 
d’aguti spin la portò sopra sé –. 90 
Ancora in questo tempo avresti visto 
Ruberto Guiscardo, che d’argento 
ferrò i cavai per fare il bel conquisto. 
E come fu sottil ne l’argomento, 
cosí veduto l’avresti pietoso 95 
e pien contro a’ nimici d’ardimento. 
E se sapessi sí come il lebbroso 
si puose in groppa e poi in su la sella 
e nel suo letto per darli riposo, 
molto ti piacerebbe la novella. 100 
Similemente Matelda contessa 
vivea, di cui tanto si favella. 
La madre fu, per quel che si confessa, 
figliuola d’uno imperador di Grezia, 
ch’al suo piacer prese marito in pressa. 105 
E se ben vuoi saper quanto si prezia 
Matelda per valore e intelletto, 
e perché col marito prese screzia, 
iscritto il truovi ov’è San Benedetto 
in Mantovana e quivi il corpo giace”. 110 
Allor diss’io fra me: Il ver m’ha detto, 
ché il vidi giá; ma ’l come qui si tace. 

CAPITOLO XXV 
“Mille anni con cinquanta cinque apresso 
si scrivea, quando il terzo Arrigo venne 
per la corona, com’io dissi adesso. 
Ventinove con venti poi la tenne; 
onde al suo tempo imaginar ben dèi 5 
che di piú novitá esser convenne. 
Qui funno lagrimosi gli occhi miei 
e per Italia le genti sí grame, 
ch’a pena il gran dolor dir ti saprei. 
L’uno piangea per la misera fame, 10 
l’altro la gran mortalitade e trista, 
che sparta s’era per le nostre lame. 
E fu nel cerchio de la luna vista 
la pianeta di Venus tanto chiara, 
ch’io ne vidi segnare il piú salmista. 15 
La vita di Giovanni santa e cara 
fiorio, a cui il Crocifisso inchina, 
quando col perdonato a lui ripara. 
Vidi allora la cisma e la ruina 
in fra due papi sí crudele e tale, 20 
che niuno vi trovava medicina. 
Or questo imperador fu il primo, il quale 
fosse scomunicato per la Chiesa, 
ben ch’a dir taccia la cagion del male. 
Finito lui con ogni sua impresa, 25 
Arrigo quarto, ch’alcun dice il quinto, 
tenne l’onor senz’alcuna contesa. 
Costui, poi ch’ebbe Pontremolo vinto, 
col fiero stuolo fe’ piangere Arezzo 
e mutar sito dov’è or dipinto. 
In ogni suo costume e ciascun vezzo 
seguio il padre: cosí il papa prese 
con piú de’ suoi, i quai nomar non prezzo. 
Costui col padre a guerreggiare intese 
e a la fine lo chiuse in un castello, 35 
dove il suo tempo sospirando spese. 
Costui un papa fe’, Bordin, novello, 
lo quale nel papato poco stette, 
ché a ritroso fu posto in sul camello. 
Un anno dico e piú due volte sette 40 
questo signor del mio si vide reda; 
pro fu e vago di far guerre e sette. 
Portarono i Pisan con altra preda 
di Maiolica le colonne e porte, 
di che Fiorenza poi e sé correda. 45 
Dopo questo signore, a la mia corte 
per la corona seguitò Lottaro, 
lo quale a tale onor mi piacque forte. 
Nel mondo fu, al tempo suo, gran caro 
e vennon l’acque in Francia cosí meno, 50 
che laghi e fiumi e fonti si seccaro. 
E vidi surger guerre nel mio seno 
per cagion d’un figliuol di Pier Leone, 
che fu senza misura e senza freno. 
E tanto, lassa!, fu la quistione, 55 
che di Sansogna Lottaro tornato 
Innocenzo rimise in sua ragione. 
Molto fu questo imperadore amato, 
divoto a Dio e con la gente umile, 
e visse un anno e diece in questo stato. 60 
E se deggio seguire il dritto stile, 
or mi conviene nominar Currado, 
largo, franco e di animo gentile. 
Questo signor, del qual parlando vado, 
non portò mai la mia corona in testa: 65 
di che mi dolse, tanto m’era a grado. 
La croce prese a priego ed a richiesta 
del re di Francia e passò oltra mare, 
ben ch’a l’andar sofferse gran tempesta. 
Assai del suo valore udio contare; 70 
a la fine Loisi si ridusse 
in Francia ed ello ne la Magna a stare. 
Un poco pria che tutto questo fusse, 
per gran servigi che Genova e Pisa 
fenno a la Chiesa, il papa si condusse 75 
d’accrescer loro onore e qui t’avisa 
che ciascheduno arcivescovo avesse 
i vescovadi sotto lor divisa. 
Cinque e diece anni mi par che vivesse 
questo Currado, il quale chiamo re, 80 
chè ’mperador non è, s’io nol facesse. 
In questo tempo il Fiorentin disfé 
la forte rocca di Fiesole antica 
per guisa che poi mai non si rifé. 
Qui non bisogna che ’l modo ti dica, 85 
ch’assai ne son che ’l sanno in questo mondo: 
bon fu lo ’ngegno e poca la fatica. 
Da notare è, e però nol nascondo: 
in questo tempo venne men Giovanni, 
lo quale era vivuto in questo mondo, 90 
secondo il dir, trenta sei croci d’anni. 

CAPITOLO XXVI 
Un .M. un .C. due .I. con uno .L. 
si dicea, quando il primo Federico 
eletto fu e ch’io n’ebbi novelle. 
Il Barbarossa è questo ch’io ti dico, 
che fece arar la piazza di Cremona 
e seminar di miglio e di panico. 
Costui è quel che disfece Tortona 
e che Spoleti mise tutto al piano, 
come per lo Ducato si ragiona. 
Costui è quel che distrusse Melano, 
da poi che li fu dato Ugo Visconte, 
con ogni suo seguace preso, in mano. 
I magi tolse e mandolli oltra monte: 
lo pianto che ne fu per me si tace, 
se non ch’assai vi fen de gli occhi fonte. 
La fine sua a ragionar mi piace: 
dico, per acquistar la Santa terra 
di lá passò e fe’ col papa pace. 
E se la mia memoria qui non erra, 
il buono Saladino era allor vivo, 
che contro a’ cristian facea gran guerra. 
Or questo mio signor sí alto e divo 
bagnandosi nel Ferro poco stette, 
ché freddo venne e de l’anima privo. 
E come per alcuno autor si mette, 
al tempo suo nel cielo in una croce 
tre lune fun vedute schiette e nette; 
similemente, per scrittura e boce, 
che fun tre soli per quel propio modo 
veduti e l’un quanto l’altro ir veloce. 
Morto questo signor, del qual mi lodo, 
Arrigo, il suo figliuol, mi tenne apresso, 
del cui valor, parlando, ancora godo. 
Costui, da poi ch’ad acquistar fu messo, 
passò in Puglia col suo forte stuolo, 
la qual conquise per valore espresso. 
La donna di Tancredi col figliuolo 
Guglielmo prese e le sorelle ancora, 
che poi portâr ne la pregion gran duolo. 
Veduto fu un tale eclisso allora, 
che l’aire venne scura come notte 
di mezzo giorno e stette piú d’un’ora. 
Quegli uccelli, che volavano, a frotte 
sentito avresti cadere tra’ piedi, 
senza vedere albori né grotte. 45 
Questo signor, del qual parlar mi vedi, 
regnar si vide otto anni imperadore, 
movendo contro al papa spesso i piedi. 
Non guardò vel né tempo al suo migliore 
Costanza sposa, a la qual succedea 50 
di Puglia e di Cicilia l’onore. 
Ma poi che morte li fu cruda e rea, 
Otto ad Aquisgrani fu eletto, 
lo quale venne a me com’el dovea. 
Qui non ti conto se per suo difetto 55 
fosse scomunicato, ma tal visse 
ricevendo e facendo altrui dispetto. 
Qui piacque a Dio che nel mondo apparisse 
a predicar Domenico e Francesco, 
onde la Fé rinnovando fiorisse. 60 
Ancora in questo tempo ch’io riesco, 
Gog e Magog, ch’Alessandro racchiuse 
col suon, che poi piú tempo stette fresco, 
uscîr de’ monti con diverse muse 
e col fabbro Cuscan, lo qual fu tale 65 
che piú paesi conquise e confuse. 
In questo tempo, per lo molto male 
che facea de’ Latin la gente Grecia, 
una compagna s’ordinò, la quale 
Costantinopol, che tanto si precia, 70 
vinse per forza e ’l conte di Fiandra 
fu fatto imperador senza piú screcia. 
In questo tempo raunò gran mandra 
Otto di gente e, in Francia combattendo, 
coniglio venne e Filippo calandra. 75 
Apresso quel che tutto qui comprendo, 155 
quest’Otto, ch’io ti dico, passò il mare 
con ricco stuolo e di ciò lo commendo: 
ché, per volere il fallo ristorare, 
lo quale fatto avea contro a la Chiesa, 
passò di lá, ma tardi fu il tornare, 
ché, dopo lunga guerra e molta spesa, 
di morte natural costui morio, 
prima che Damiata fosse presa. 
Diece anni governò e tenne il mio 85 
e al suo tempo in Fiorenza le parti 
s’incominciaro, secondo ch’io udio. 
Qui fu al ponte suo, con l’arme, Marti; 
qui Venus, col parlar falso e pietoso, 
col vago volto e coi capelli sparti; 90 
qui fu Saturno giusto e disdegnoso, 
per cui influenza mosse la parola, 
onde piú tempo fu senza riposo 
la mia gentile e nobile figliola.

CAPITOLO XXVII 
Trenta volte quaranta e venti piue 
d’anni correa, allora che ’l secondo 
buon Federigo incoronato fue. 
Costui si vide grazioso al mondo, 
largo, con bei costumi e d’alto core 5 
e ne la scienza sottile e profondo. 
E piú mostrato avrebbe il suo valore, 
non fosse stato Onorio e Gregoro, 
che mal seguiro in lui lo primo amore. 
Quel ch’io dico ora nota, e non sie soro, 10 
per dare asempro a molte lingue adre, 
che dàn crudei biastemie a’ figliuol loro. 
Nicola, biastemiato da la madre 
che non potesse mai del mare uscire,
convenne abbandonar parenti e padre; 15 
e poi, volendo il precetto ubbidire 
di Federigo, nel profondo mare 
senza tornar mai su si mise a ire. 
In questo tempo, che m’odi contare, 
Michele Scotto fu, che, per sua arte, 20 
sapeva Simon mago contraffare. 
E se tu leggerai ne le sue carte 
le profezie ch’el fece, troverai 
vere venire dove sono sparte. 
In questo tempo udii novelle assai 25 
de’ Tartari, di ch’io presi gran dubio, 
e gli Ungar ne sentîr tormento e guai. 
E certa sono, e qui nol pongo in dubio, 
che ’l danno m’era piú che la paura, 
non fosse stato il fiume del Danubio. 30 
Ben vo’ che ponghi a quel ch’or dico cura: 
solo per un cagnuol, ch’è una beffe, 
si mosse sdegno e guerra ch’ancor dura 
(se ’l sai non so) dica dal .P. all’Effe, 
tra i quai di Falterona un serpe corre, 35 
che par che ’l corpo di ciascuno acceffe. 
Oh quanto è saggio l’uomo, che sa porre 
freno a la lingua e a la mano ancora 
e che, per fallo altrui, sé non trascorre! 
In questo tempo appunto, ch’io dico ora, 40 
funno tremoti con sí gran fracasso, 
ch’assai Borgogna pianse e Brescia allora. 
E fu trovato nel centro d’un sasso, 
ch’era senza rottura intero tutto, 
un libro grande, d’assai bel compasso, 45 
dentro dal quale era, in breve costrutto, 
da Adamo fino al tempo d’Anticristo 
ciascuna profezia che porta frutto. 
E ne la terza parte ancor fu visto 
ebraico, greco e latino scritto: 50 
– De la vergin Maria nascerá Cristo.
E io, che sono in questo sasso fitto, 
sarò trovato al tempo che Ferrante 
re di Castella sie nomato e ditto –. 
Qui torno al mio signore, ch’un diamante 
d’animo fu, ch’oltra mar fe’ il passaggio, 
vincendo molto de le terre sante. 
E piú avrebbe fatto nel viaggio, 
se ribellato non li fosse stato 
il regno tutto, ch’era suo retaggio. 60 
Volsesi a dietro e, poi che tu tornato, 
tal lavor fe’ de’ molti che ’l tradiro, 
che non parve giustizia, ma peccato. 
E cosí venne di leone un tiro: 
morse la Vipera e la Capra e poi 65 
fece a Flaminea portar gran martiro. 
Fieri e forti funno i fatti suoi 
e videsi montare in tanta gloria, 
che ciascuno il temé di qua fra noi. 
E se non fosse ch’el fu a Vittoria 70 
per lo suo falconare in fuga volto, 
ancor farei maggior la sua memoria. 
Ma prima che da me fosse disciolto 
per colei che disfá ciò che s’ingenera, 
veduto avea trent’anni il suo bel volto. 75 
E perché veggi e pensi quant’è tenera 
questa rota, che l’uom monta e discende, 
e che ogni suo ben tosto s’incenera, 
qui vo’ che ponghi il cuore e che m’intende: 
sei figliuoli ebbe e ciascun grande e re: 80 
li tre di sposa e gli altri d’altre bende. 
E tutta questa schiatta si disfé 
e venne men con ogni signoria 
forse in venti anni, come udrai per me. 
Arrigo e Enzo n’andâr per una via; 85 
Currado, dopo il padre, visse forse 
due anni in Puglia con gran maggioria; 
Giordano e Federigo ciascun corse 
nuovo cammino; poi a Manfredi Carlo 
lo regno tolse e la morte li porse. 90 
Io so bene che quel che qui ti parlo 
è tanto scuro e breve, che fia grave 
d’intendere a ciascun senza chiosarlo. 
Al fine Corradino di Soave 
si mosse e andò in Puglia e fu sconfitto; 95 
poi fu tradito, preso e messo in nave. 
Dinanzi un poco a questo ch’io t’ho ditto, 
Fiorenza prese Pistoia e Volterra 
e poi fece al Pisan danno e dispitto. 
E tanto andò cosí di guerra in guerra, 100 
che fu la gran battaglia a Monte Aperti, 
ch’arricchio Siena d’arnese e di ferra. 
A ciò fu Farinata de gli Uberti 
col gran valore e col sottile ingegno, 
Giordan, Gerardo e molti in arme sperti; 105 
a ciò fu il Bocca del mal voler pregno 
e Razzante bugiardo e lo Spedito 
prosuntuoso, ingrato e pien di sdegno, 
e ’l Tegghiaio nel consiglio male udito.

CAPITOLO XXVIII 
Quando intesi de l’ordine che tenne 
nel ritornar Farinata in Fiorenza, 
del buon Camillo antico mi sovenne: 
ché laddove io l’avea per sentenza 
sbandito, con vittoria a me discese, 5 
di pace pieno e d’ogni provedenza. 
E quando udio che ’l partito si prese 
per ciascun di gittarla tutta al piano, 
e come a volto aperto la difese, 
qui mi sovenne del mio Africano, 10 
che nel consiglio mi difese el solo 
col bel parlare e con la spada in mano. 
Ma ben mi maraviglio e parmi un duolo 
che i cittadini stati son sí crudi 
in quarto grado a’ figliuoi del figliuolo. 15 
Nel tempo quasi, che or qui conchiudi, 
fu la battaglia, ove quel di Buemme 
a gli Ungar tolse archi, saette e scudi. 
E non fan sí gran numero trenta emme, 
quanti di quei vi funno morti e presi, 20 
vincendo terra piú che sei Maremme. 
In questo tempo ragionare intesi 
d’un miracolo bel che fu in Parigi, 
lo qual vo’ noti sí com’io l’appresi. 
Dico, dov’era presso il re Luigi, 25 
ch’un prete levando il corpo di Cristo 
tra gente assai di giovani e di grigi, 
che tra le mani un fanciul li fu visto, 
lo quale era sí bel dal capo al piede, 
che detto avresti: – sempre quivi mi sto –. 30 
Ma nota ben d’un re verace fede: 
che i suoi ’l chiamâr che l’andasse a vedere; 
rispuose: – Quel ci vada che nol crede –. 
Piú per ingegno, che per gran podere, 
prese in quel tempo l’Aretin Cortona 35 
e quella sfece e fenne al suo piacere. 
Per acquistar la Spagna e l’Aragona, 
quel di Morocco e di Bellamarina, 
di Tunisi, di Bugea e di Ippona, 
con altra gente tutta Saracina 40 
e con tanti navili il mar passaro, 
ch’a vederli parea una ruina. 
La croce si bandio a quel riparo; 
poi, come piacque a Dio, funno sconfitti 
per modo tal, che pochi ne scamparo. 45 
Qui bassa gli occhi e tienli vèr me dritti,
che non turbin l’udir, ché l’uom che guata 
in qua o lá mal nota gli altrui ditti. 
Io dico che nel regno di Granata 
s’adora Macometto e ch’ello è tutto 50 
di qua fra noi e l’Africa guata. 
Qui fa suo guarnimento e suo ridutto 
il Saracino e ’l paese poi corre 
e ’n questo modo l’ha piú volte strutto. 
Per cacciar questi e quel reame tôrre, 55 
Chimento e Carlo non darebbe un grosso, 
se n’avesse ciascun piena una torre. 
Dei re e de’ signor che dir ti posso 
e de’ cherci, se non ch’egli hanno il volto 
dove gli antichi buon teneano il dosso? 60 
Propio nel tempo, ch’io ho qui raccolto, 
fu per Fiorenza veduto un leone 
bramo e fiero andar correndo sciolto 
e prender questo un picciolin garzone 
e tenerlo abbracciato tra le branche, 65 
com fa col cucciolin ne la pregione; 
e scapigliata e battendosi l’anche 
giunger la madre trista e vedovella 
e senza danno trargliel de le zanche. 
In questo tempo apparve la stella 70 
che l’uom chiama cometa, con tal coda 
di fuoco, che parea una facella. 
Tra Asolo e Bascian, da quella proda 
un monte sta vedovo e orfanino, 
che del peccato altrui poco si loda. 75 
Di lassú scese in quel tempo Azzolino, 
che fe’ de’ Padovan tal sacrifizio, 
qual sa in Campagnola ogni fantino. 
Partirsi ancor, nel tempo ch’io t’indizio, 
il re di Francia e quello d’Inghilterra, 80 
di Navarra e di Puglia da l’ospizio. 
E vinto avrebbe Tunisi e la terra 
d’Africa il grande stuol, se non che ’l morbo 
fece lor peggio troppo che la guerra. 
E, ben che ’l male fosse grave e torbo, 
pur si vinceva, se Carlo non fosse, 
ch’ogni compagno suo quivi fece orbo. 
Io non so bene onde Romeo si mosse, 
quando in Provenza venne al buon Ramondo 
col mulo, col bordone e scarpe grosse. 90 
Ma questo ti so dir: de’ ben del mondo 
tanto avanzar gli fece per suo senno, 
che fu per lui un Gioseppo secondo. 
Al fin gl’invidiosi tanto fenno, 
che Ramondo li domandò ragione; 95 
e qual di Scipio, tal di lui t’impenno: 
che sol sen gio col mulo e col bordone.

CAPITOLO XXIX 
Mille dugento sessantotto appunto 
si carteggiava, quando Curradino 
tradito fu e per Carlo defunto. 
Sol non si vide a sí crudel destino, 
ché il conte Calvagno e Gualferano 5 
seguitâr lui a l’ultimo cammino. 
Similemente a quel tormento strano 
si vide lagrimar Bartolomeo 
con due figliuoli e Gherardo pisano. 
Ancora al gran dolore acerbo e reo 10 
li fece compagnia quel di Sterlicchi, 
che senza reda il ducato perdeo. 
E perché l’occhio dentro al mio dir ficchi, 
* Rodolfo né Albertonon funno mai d’animo sí ricchi, 15 
che ’n contro a Carlo o in contro a Ruberto 
movesson pie’ a far l’alta vendetta, 
ai quali appartenea per doppio merto. 
Ma qui di ricordarti mi diletta 
di Fiandra il conte, che ’l giudice uccise, 20 
come per lui fu la sentenza letta, 
dicendo: – Questo ghiottoncel si mise 
a giudicar sí nobil sangue e degno, 
sappiendo ben che ’l fallo non commise –. 
Non mostrò Carlo di questo disdegno, 25 
come che i suoi pensier fosson acerbi, 
sí piacer vide il colpo a quei del Regno. 
Ben vo’ che quello che or ti dico serbi, 
ché tale asempro è buono a ricordarlo 
quando i signor nel ben si fan superbi. 30 
Tu hai udito come questo Carlo 
quanto piú si vedea in grande altura, 
piú venia aspro e fiero a riguardarlo. 
Onde Colui, ch’a tutto pone cura, 
dov’era in maggior pompe sí ’l percosse, 35 
ch’assai con danno li fece paura: 
ché mai trattato non credo che fosse 
sí lungo e piú secreto, che quel fue 
che Gian di Procita contro a lui mosse. 
Lo Paglialoco il seppe e qui fun due, 40 
Gregorio papa e Piero d’Aragona, 
e ne l’isola tre e poi non piue. 
Miracol parve a ogni persona 
ch’a una boce tutta la Cicilia 
si ribellò da l’una a l’altra nona, 45 
gridando: – Mora, mora la familia 
di Carlo; moran, moran li Franceschi –. 
E cosí ne tagliâr ben otto milia. 
Oh, quanto i forestier, che giungon freschi 
ne l’altrui terra, denno esser cortesi, 50 
fuggir lussuria e non esser maneschi! 
Qui piú non dico; ma, per quel ch’io intesi, 
Carlo ben la Cicilia racquistava, 
fosse stato pietoso a’ Messinesi. 
Un poco prima, dove piú si stava 
sicuro Arrigo, il conte di Monforte 
l’alma del cuor con un coltel li cava. 
Non molto poi vid’io ch’a Nuova corte 
morto e sconfitto fu quel de la Torre, 
lasciando di Melan palagi e porte. 60 
Pensa che ’l tempo al mio parlar sen corre 
e ch’io non posso, come si digrada 
di novella in novella, l’anno porre. 
Colui che seppe tanto de la spada 
e sí trovare in guerra ogni ricovero, 65 
che ’ndarno d’un migliore allor si bada, 
fe’ de’ Franceschi mucchi senza novero, 
per sua franchezza e per sua maestria, 
per Forlí, dico, e di sotto dal rovero. 
Costui sconfisse la cavalleria 70 
a San Procolo e il popol di Bologna, 
che con tanta superbia fuora uscia. 
Qui fu lá dove disse, per rampogna, 
quel da Panago: – Sozzo popol marcio, 
or leggi lo Statuto, ché bisogna –. 75 
Cosí come tu odi, e non par ciò, 
i grandi mal contenti, quand’han possa, 
volentier fanno del popolo squarcio. 
La nobiltá di Pisa e la gran possa 
si cadde in questi tempi a la Melora, 80 
che convenne rifar di gente grossa. 
Pur seguitando questo tempo ancora, 
la sconfitta fu fatta a Campaldino, 
che ’l ghibellin per mezzo il core accora. 
In questo tempo il conte Ugolino 85 
morir si vide coi figliuol di fame, 
che fu sí grande e nobil cittadino. 
E cominciâr le parti tristi e grame 
in Fiorenza e in Pistoia, Bianchi e Neri, 
e venne Carlo ad acquistar reame; 90 
ma trovossi ingannato del pensieri.

CAPITOLO XXX 
Vacò l’imperio mio da Federigo 
secondo in fin al tempo che poi venne 
di Luzinborgo il magnanimo Arrigo. 
Di spazio due e sessanta anni tenne. 
Or puoi pensar sí come lunga etate 5 
la parte sua e io pianger convenne. 
Tanto fu pien costui d’ogni bontate, 
che d’un piccolo conte fu eletto, 
senza quistione, a la mia dignitate. 
Oh di Bruciati, oh nato maladetto, 10 
quanto facesti mal far contro a lui, 
benché la morte tua puní il difetto! 
Che se non fossi, montava costui, 
per lo suo gran valore, in tale stato, 
che fatto avria di sé segnare altrui. 15 
Contro gli Orsini e contro l’ordinato 
poder del re Ruberto e la potenza 
de’ Guelfi fu per forza incoronato. 
Apresso, l’oste sua pose a Fiorenza; 
ma giovò poco e ritornossi a Pisa 20 
e contro a’ suoi rubelli diè sentenza. 
Poi in vèr Puglia il suo cammin divisa 
e, giunto a Buonconvento questo Augusto, 
li fu per morte la strada ricisa. 
Qui dèi pensare e riducerti al gusto 25 
che ’l ghibellino e io rimasi come 
mozza la testa poi rimane il busto. 
Di questo dolce e grazioso pome 
surgeron piante, per le quali ancora 
di qua l’aquila vive in pregio e in nome. 30 
E quella, che altamente e piú l’onora, 
si è la Vipera: e certo ciò è degno, 
ché la rimise nel suo nido allora. 
Contro a Filippo e contro al suo gran regno 
e contro a quel di Puglia e di Caorsa, 
di sua grandezza è stata poi sostegno. 
Similemente si trovò soccorsa 
dal Cane e dal Mastin, contra ogni avverso, 
or con la spada e quando con la borsa. 
E l’oro e ’l nero listato a traverso, 40 
che portan quelli a cui le piagge bagna 
Benaco, sempre li sono iti al verso. 
Il gran marchese, nato de la Magna, 
ch’alluma la balzana per le piaggi, 
rosso e bianco, per lei non si sparagna. 45 
Di verso Massa di piú alti faggi 
un gigante appario, nel qual Marti 
grazia infuse co’ suoi forti raggi. 
Con la lepre marina e le sue arti, 
lungo il Serchio l’annida e la sostenne 50 
in su la Nievol, dico, e in altre parti. 
E quella pietra, che piú tempo tenne 
il caval senza fren, giusto sua possa 
non le lasciò mancare al volar penne. 
Cosí dal veltro si vide riscossa, 55 
che partorito fu da la pantera, 
quando ’l Guelfo a Gallena lasciò l’ossa. 
E la colonna con la fede intera 
sí ben co’ suoi seguaci l’ha difesa, 
che col mio leofante e meco impera. 60 
E quel da Montefeltro, a cui la spesa 
il piú del tempo al gran volere manca, 
quanto può guarda che non sia offesa. 
E la cittá, che tiene in man la branca 
verde, la qual poco si vede in pace, 65 
per lei guardar mai non si vide stanca. 
Morio il mio signor tanto verace 
nel mille con trecento tredici anni 
e men di due fu meco e in Pisa giace. 
Poi, dopo tanto lunghi e gravi affanni, 70 
di Baviera Lodovico seguio 
che mal guardar si seppe da gl’inganni. 
Con pace venne dentro al grembo mio 
nel mille trecent’otto e apresso venti 
e venti visse poi, per quel ch’i’ udio. 75 
Io non so ben perché con gravi stenti 
prese il Visconte e cacciò di Melano, 
ma presso fu ch’allor non funno spenti. 
Io non so la cagion perché il Pisano 
le porte chiuse e negogli l’onore, 80 
benché in men di due mesi l’ebbe in mano. 
Un pastor fece questo mio signore, 
lo qual guardasse il luogo di San Pietro, 
dove quel di Vignon poco avea il core. 
E se state non fossono di vetro 85 
l’altrui promesse, ito sarebbe innanzi, 
dove ingannato si ritrasse a dietro. 
Ma tal si crede far di ricchi avanzi 
per ingannare altrui, che matto e stolto 
si truova, pria che ’l pensier vada innanzi. 90 
Al tempo suo, senza titolo tolto, 
passò quel di Buemme in Lombardia, 
dove da piú cittá fu ben raccolto. 
E, senza fallo, in gran poder venía, 
se non fosse ito a torneare in Francia, 95 
quando fermar dovea la signoria. 
Non de’ il signor tener le ’mprese a ciancia, 
ma seguitarle in sino a la radice 
col senno, con la borsa e con la lancia: 
ché tu sai bene che ’l proverbio dice 100 
che chi due lievri caccia, perde l’una 
e l’altra lassa e rimane infelice. 
Così a questo re fe’ la fortuna: 
per seguire altra traccia e lasciar noi, 
di qua non gli rimase cosa alcuna. 
Carlo, il figliuolo, incoronai da poi 
in nel mille trecento cinquantuno 
e cinque piú; e questo vive ancoi. 
Ma vedi il cielo ch’è stellato e bruno 
e vedi me, c’ho finito il mio dire, 110 
e vedi l’erba fresca e senza pruno”. 
Per ch’io l’intesi e puosimi a dormire. 

CAPITOLO XXXI 
Giá sentivamo su per gli albuscelli 
gli usignoli cantare intorno intorno 
con dolci versi e i piú altri uccelli, 
e l’oriente lucea tutto adorno 
dai raggi bei de l’amorosa stella, 5 
ch’annunzia in primavera sempre il giorno, 
quando con chiara e polita favella 
ella mi disse: “Or su che ’l dí è giunto, 
che comprender potrai quanto fui bella”. 
Ond’io, che dal disio era sí punto 10 
che mi parean mill’anni essere mosso, 
leva’mi in piedi, ch’io non stetti punto. 
E, per quello ch’ancor ricordar posso, 
noi ce n’andammo senz’altro sermone 
in fin ch’io vidi come fosse un fosso. 15 
“Ecco la fibbia ch’è senz’ardiglione, 
ecco la ricca e bella mia cintura, 
che per gli antichi sí cara si pone. 
E perché sappi il ver di sua misura 
e notilo a la gente pellegrina, 20 
venti due miglia certamente dura. 
Un’altra n’ebbi in cittá Leonina 
e ’n Trastever la terza: entrambe tali 
qual’è quest’una, ch’è tra noi vicina. 
Omai vien oltre e potrai veder quali 25 
funno li miei castelli e l’alte torri 
e i gran palagi e gli archi triunfali. 
E dico ben che, se tu non trascorri, 
maraviglia sará se, riguardando, 
la mente in tante cose non abborri”. 30 
Io la seguio secondo il suo dimando, 
tanto che giunti fummo al pie’ d’un monte, 
dove salí e io per suo comando. 
“Le cose quinci ne saran piú conte”, 
mi disse e additommi un gran palagio, 35 
ch’era dinanzi da la nostra fronte. 
E sopragiunse: “Pensa s’io abbragio: 
dentro a quel vidi re e piú baroni 
tutti albergare e bene stare ad agio. 
E vidil pien de le mie legioni, 40 
posto per segno in me di monarchia, 
in quella parte ove ’l bellico poni. 
E guarda dove per gran profezia 
poner giá fece una statua d’oro 
colui che mi nomò e sposò pria. 45 
E guarda lá, ché lí fece dimoro 
in colle Quirinal, coi suoi, Pompilio, 
benché, per lunga etá, manchi il lavoro. 
E guarda in Velia, perché lá Ostilio 
dificò l’altro e poi riguarda ancora 50 
in Esquilin, ché lá visse Servilio. 
E guarda l’arco onde Decio s’onora, 
quel di Camillo, di Fabio e di Scipio 
e dove Paulo e Pompeo dimora. 
Vedi il luogo de’ Sergii, ch’al principio 55 
ch’Enea passò di qua, venne con lui 
l’antico lor, giá stratto d’alto incipio. 
Lá si noma lo ’nferno e lí giá fui 
per Marco Curcio dal fuoco difesa, 
come t’ho detto e puoi saper d’altrui. 60 
E benché a ricordarlo ancor mi pesa, 
d’essi scese colui, per cui disfatta 
Fiesole fu e io sovente offesa. 
Da me sbandita, udii poi che sua schiatta 
ad abitar si mise sopra l’Arno, 65 
in nel piú alto ove Fiorenza è fatta”. 
Solin non prese le parole indarno, 
ma, rivolto in vèr me, mi fece un riso 
tale, che l’atto ancor nel cuore accarno. 
“Vedi lá il pome, ove ’l cener fu miso 70 
di colui che fe’ giá tremare il mondo 
piú ch’altro mai, secondo il mio aviso. 
Vedi come un castel, ch’è quasi tondo: 
coperto fu di rame, ad alti seggi 
dentro, a guardar chi combattea nel fondo. 75 
E perché piú ciò ch’io dico vagheggi, 
vedi i cavai del marmo e vedi i due 
nudi che ’ndivinâr, come tu leggi. 
E vedi l’altro lá, dove sta sue 
quel gran ricciuto presso a Laterano, 80 
ch’uom dice Costantin, ma quel non fue. 
Vedi lá dove parve a Ottaviano 
veder lo cielo aperto e un bel figlio 
una Vergin tener ne la sua mano. 
Vedi lá dove a l’olio die’ di piglio 85 
in Trastever qualunque aver ne volse, 
quel dí che nacque de la Rosa il Giglio. 
Vedi l’arco di Prisco, onde giá tolse 
Costantino i cavalli, allora ch’ello, 
lasciando me, a Bisanzo si volse. 90 
Vedi Termi Dioclezian sí bello 
e guarda in Albeston e Settesoglio, 
li quai fun tali, ch’ancor ne favello. 
Vedi l’antico e ricco Campidoglio: 
quello era il capo mio e dir potrei 95 
del mondo tutto l’altezza e l’orgoglio”. 
Qui si taceo e io, posto a’ suoi piei, 
dissi: “Madonna, quanto son contento 
del vostro ragionar dir non saprei. 
Omai, quando a voi fosse in piacimento, 100 
volentieri ritroverei la via 
per la qual viver, morendo, argomento”. 
Ed ella a me, con voce onesta e pia: 
“Non ti dispiaccia far lo mio cor sazio 
del nome tuo e dove vai in pria”. 105 
“Madonna, rispuos’io, l’antico Fazio, 
conte di Pisa e nato di Gherardo, 
del qual voi dite che Carlo fe’ strazio, 
mi die’ il suo nome e, benché ’l tempo è tardo, 
mosso mi son per veder pellegrino 110 
del mondo quanto il sol n’ha al suo riguardo. 
L’antico mio fu vostro cittadino, 
Uberto Sergio”. Ed ella: “Or va con Dio, 
ché lui conobbi e giá ’l vidi orfanino”. 
E cosí, lagrimando, mi partio. 115 


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Ultimo Aggiornamento:
14/07/2005 23.38