LIBRO PRIMO
Capitoli
I - XIII

CAPITOLO I
Non per trattar gli affanni, ch’io soffersi
nel mio lungo cammin, né le paure,
di rima in rima tesso questi versi;
ma per voler contar le cose oscure
ch’io vidi e ch’io udio, che son sí nove, 5
ch’a crederle parranno forti e dure.
E se non che di ciò son vere prove
per piú e piú autori, i quai serano
per li miei versi nominati altrove,
non presterei a la penna la mano, 10
per notar ciò ch’io vidi, per temenza
che poi da altrui non fosse casso e vano.
Ma la lor chiara e vera esperienza
m’assecura nel dir, come persone
degne di fede a ogni gran sentenza. 15
Di nostra etá giá sentia la stagione
che a l’anno si pon, poi che ’l sol passa
in fronte a Virgo e che lascia il Leone,
quando m’accorsi ch’ogni vita è cassa
salvo che quella che contempla in Dio 20
o ch’alcun pregio dopo morte lassa.
E questo fu onde accese il disio
di volermi affannare in alcun bene,
che fosse frutto dopo il tempo mio.
Poi, pensando nel qual, fermai la spene 25
d’andar cercando e di voler vedere
lo mondo tutto e la gente ch’el tene,
e di volere udire e di sapere
il dove e ’l come e chi funno coloro,
che per virtú cercâr di piú valere. 30
E imaginato il mio grave lavoro,
drizzai i pie’ come avea il pensiero
e cercai del cammin senza dimoro.
Io era dentro ancor dal mal sentiero
per lo qual disviato era ito adesso
con gli occhi chiusi e l’animo leggiero,
onde al partir sí mi pungeano spesso
gli antichi pruni, che come uomo stanco
m’assettai tra piú fior, che m’eran presso.
Bassava il sol, che s’accendea nel fianco 40
del Montone, onde io, per piú riposo,
tutto mi stesi sopra il lato manco.
Poscia m’addormentai cosí pensoso
ed apparvonmi cose, nel dormire,
per che a la mia impresa fui piú oso: 45
ché una donna vedea vèr me venire
con l’ali aperte, sí degna ed onesta,
che per asempro a pena il saprei dire.
Bianca, qual neve pare, avea la vesta
e vidi scritto, in forma aperta e piana, 50
sopra una coronetta, ch’avea in testa:
“Io son Virtú, per che la gente umana
vince ogni altro animale; i’ son quel lume,
ch’onora il corpo e che l’anima sana”.
Molte donne, aleggiando in varie piume, 55
si vedean tranquillar ne’ suoi splendori,
come pesce, di state, in chiaro fiume.
E giunta sopra me tra que’ bei fiori,
parea dir: “Non giacer, tosto sta suso
e ’l tempo, c’hai perduto, si ristori. 60
Non pur istare in questo bosco chiuso;
non pur cercar di su la mala spina
coglier la rosa, sí come se’ uso.
Pensa che qual piú lá, qui, pellegrina,
che poi ch’è giunto a l’ultimo di suo, 65
il tutto li par men d’una mattina.
E farme, sete e sonno al corpo tuo
soffrir convien, se onore e pro disii,
e seguir me, che qui teco m’induo.
E guarda ben che piú non ti disvii; 70
pensa sí come i compagni d’Ulisse
fun con Circes, onde a pena i partii.
E pensa ancor come perduto visse
con la sua Cleopatra oltra a due anni
colui, a cui il Roman prima ‘voi’ disse. 75
Onor s’acquista per soffrire affanni,
pur che l’affanno sia in cosa degna;
in darsi a l’ozio è vergogna con danni.
Ancora fa che sempre ti sovvegna
aver di sofferenza buone spalle, 80
sí come Iob e Iacobo c’insegna.
Per che, se vuoi veder di valle in valle
il mondo tutto, senza lei non puoi
cercar del mille il ventesimo calle.
Qui non spiar, per tema, i fati tuoi, 85
se non come Catone in Libia volse
chieder responso, pregato da’ suoi.
Tutti non son Papiro”. Indi si tolse
e spirò nel mio petto e non si mosse;
onde ’l mio sonno a punto si disciolse, 90
come per sua vertú nel cor percosse.
CAPITOLO II
Dal sonno sciolto e sviluppato m’era,
quand’io udii sonar tra’ verdi rami
la dolce melodia di primavera.
Al vago canto subito volta’mi,
rimembrando il piacere e ’l gran valore, 5
per lo qual giá soffersi seti e fami.
Qui provai io il ver: che, poi ch’amore
s’è barbato nel cor, a che fatica
si può schiantar, che non germogli il fiore.
Ma pur non punse sí la dolce ortica, 10
ch’io non tornassi a quel disio proposto,
del quale in me giá granava la spica.
E come meco fui, altresí tosto
tolsi l’udir da quel soave canto,
tolsi l’imaginar, ch’io v’avea posto, 15
e levai gli occhi e vidi che giá tanto
era alto il sol, che sopra l’orizzonte
parea salito il Toro tutto quanto.
Poi ritornai vèr la terra la fronte,
per rimembrare il sogno e le parole 20
di questa donna, sí come l’ho conte.
E qual se ciò mi piacque intender vole,
pensi quanto fu lieto allor Ioseppo
che ’l sogno fe’ de la luna e del sole.
Io mi levai diritto sopra un ceppo, 25
per divisar qual fosse il mio cammino:
e d’ogni parte m’era il bosco e ’l greppo.
E come avièn talora al pellegrino,
che ha perduta la strada e che non vede
cui dimandare, né per sé è indivino, 30
che ricorre a quel Ben, ch’egli ama e crede,
e, con pura e devota intenzione,
e consiglio e soccorso li richiede,
cosí mi puosi allora in ginocchione,
le mani aggiunte, e, con fermo disio, 35
incominciai cotale orazione:
“O somma, o prima luce, o vero Dio,
che ’n Ararat salvasti e conducesti
l’arca e Noè, quando ogni altro perio,
e ’l popol tuo del mare a pie’ traesti 40
nutricandol di manna, in fin ch’apresso
ne la terra promessa il conducesti,
e che a Tobia Rafael per messo
e per guida mandasti, onde pervenne
a piú che ’l padre non li avea commesso, 45
e che Abraam salvasti, quando tenne,
per campar Loto, dietro da gli Assiri
con la gran fede e con le poche penne,
fa’ che per grazia tanta luce spiri
da gli occhi tuoi ne’ miei, che senza velo 50
del mondo scorga tutti quanti i giri.
Te, padre, invoco, Te, fattor del cielo,
come solean gli antichi a simil peso
chiamar Appollo, Iuppiter e Belo”.
E com’io stava al prego sí sospeso, 55
a gli occhi un lume subito m’apparve
qual par balen, che vien per l’aire acceso.
E giunto, altresí tosto via disparve:
vero è che, esso apparendo in mia presenza,
una boce che disse udir mi parve: 60
“Paura, vanitá e negligenza
fa che tu sdegni e in cui preghi spera,
se vuoi di quel che brami esperienza”.
Cosí la grazia de la somma spera
m’aperse lo ’ntelletto oscuro e bruno, 65
confortando la donna, che quivi era.
E dove pria parea pur bosco e pruno,
vidi sí sciolta e aperta la strada,
ch’io rendeo grazia a Quel ch’è tre e uno.
O vivo amore, come cieco bada 70
qual fugge Te e pon la sua speranza
nei ben mondan, che son men che rugiada!
Lettor, pensa per te quanta baldanza
a seguir la mia impresa presi allora,
ch’io non tel saprei dir per somiglianza. 75
Su mi levai, che piú non fei dimora,
e trovai me a seguitar la voglia
tanto legger, che me ne segno ancora.
Né spino a’ piedi, né a gli occhi foglia
mi facean noia, ond’io seguiva il passo 80
senza fatica alcuna e senza doglia.
Dinanzi a una croce, a’ piè d’un sasso,
un romito trovai, che ne l’aspetto
per lunga etá era pallido e lasso.
La bianca barba gli listava il petto
e i cigli tanto li cadeano in gioso,
che gli erano a la vista un gran difetto.
“O padre, che vi state sí nascoso
in questo bosco, in tanta penitenza,
solo per acquistar l’alto riposo, 90
da poi che Dio ne la vostra presenza
condotto m’ha di loco assai lontano,
piacciavi darmi di voi conoscenza”.
Cosí ’l pregai; ond’ello con la mano
lo palpir prese e la vista scoperse; 95
poi mi guardò con volto onesto e piano.
Apresso disse: “Di parti diverse
son qui venuto, com piace a Colui
che per noi morte a la croce sofferse.
Polo è ’l mio nome e onde e chi giá fui 100
qui piú non dico. Ma tu come vai
sí sol per questi boschi oscuri e bui?”
La vita e la mia mossa li narrai
a parte a parte; ond’ello a me ne venne
e, con dolci parole e care assai, 105
la notte seco ad albergar mi tenne.
CAPITOLO III
Entrati nel suo povero abitacolo,
sarebbe lungo a dir le cose strane
che mi contò d’uno e d’altro miracolo.
La cena nostra fu solo acqua e pane
e, letto, d’orso una pelle pilosa; 5
e cosí stemmo in fine a la dimane.
Era la mente mia grave e pensosa,
volendo ricordar ciascun peccato,
che fatto avea ne la vita noiosa,
quando quel padre, ch’era giá levato 10
per dir sue ore, mi disse: “Che hai,
che sí sospiri e mostri tribulato?”
“Ho, rispuos’io, che ho peccati assai
dubbiosi e gravi”. E poi mi tacqui apresso
e nel tacer languendo lagrimai. 15
“In questo tuo cammin se’ tu confesso?”
Rispuosi: “No; e trovandomi vosco
questo era quel di ch’io piangea adesso”.
“Figliuol mio, disse, il mondo è come un bosco
pien di serpenti e di fieri animali 20
e ciascun porta isvariato tosco.
E noi siam tutti mobili e mortali:
onde vegliar convene e stare attenti,
per saperne guardar da li lor mali.
Se il primo nostro e de’ nostri parenti 25
padre avesse proveduto a questo,
noi viveremmo liberi e contenti.
Ma di’, ch’ al tuo piacer son fermo e presto”.
Per ch’io ai piedi suoi tutto devoto
ciascun peccato li fei manifesto. 30
E poi che di me fu, ben chiaro e noto,
diemmi la penitenza cosí dura,
quanto volea a lavar tanto loto.
Giá venia il sol per alcuna fessura
del romitoro, quando a camminare 35
m’apparecchiava e davami rancura.
Onde mi disse: “Di’ che vuoi tu fare”.
E io rispuosi: “Alleviar quel carco,
che scarcar mi conven sol con l’andare”.
“Tu credi, disse, forse quinci un varco 40
securo come se fossi in Vinegia
e dovessi ir da Rialto a San Marco.
Giá fu cosí; ma tal piú non si pregia,
ché per tutto le strade ci son tronche,
coperte d’erba e di prun che le fregia.
Nel monte Gif non ha tante spilonche,
quante si truovan per questo cammino,
né tanto oscure né profonde conche.
E non dire: – Io son pover pellegrino –,
ché i bacarozzi non guardano a quello, 50
pur che possan far male a lor dimino.
Per tutto posso dir ch’è baccanello;
e però la tua voglia qui sia stretta
tanto, ch’attempi il sol, che vien novello:
ché molte volte l’uom, per troppa fretta, 55
volendo far, disfá; e dico ancora
colui sa guadagnar, che tempo aspetta”.
“O caro lume mio, rispuosi allora,
poco sapria chi dal vostro consiglio
si dilungasse il minuto d’un’ora”. 60
E cosí, per fuggir morte o periglio,
credetti io a lui, come creder de’
ammaestrato da buon padre il figlio.
Dolce diletto e caro ancora m’è,
quando rimembro le sante parole, 65
che allor mi disse de la nostra Fè.
Giá era al cerchio di merigge il sole,
quando parlai con grande reverenza:
“L’andar mi sprona e il partir mi dole”.
Il padre, pien di tutta conoscenza, 70
m’intese e disse con soave boce:
“Tempo è bene, omai, per mia credenza”.
Indi mi trasse al sasso de la croce
e gli occhi sporticando, il cammin mio
mi divisò di una in altra foce. 75
Divotamente il comandai a Dio;
ed ello: “Or va, ché come salvò Elia
nel carro, sí te salvi al tuo disio”.
Misimi allor per la mostrata via,
avendo sempre attento l’occhio e ’l viso, 80
se cosa alcuna innanzi m’apparia.
E, mentre ch’io guardava tanto fiso,
una femina iscorsi assai di lunge
sí sconcia, ch’io ne fui quasi conquiso.
E come avièn che la paura punge 85
l’uom talor sí, che tragge il sangue al core
e l’altre vene per lo corpo munge,
e che, da poi c’ha stretto sí ’l valore,
in fra se stesso di sé si rimembra,
onde racquista il perduto colore, 90
sí perdei io il sangue per le membra
subitamente e poi cosí raccolsi
in me virtute e colore insembra.
E quanto i passi miei piú vèr lei volsi
ed ella i suoi vèr me, e via piú brutta 95
a membro a membro la sembianza colsi:
pensa qual parve a figurarla tutta!
CAPITOLO IV
Sí come presso fui a quella strega,
vidi la faccia sua livida e smorta
qual preso pare, a cui le man si lega.
Vecchia mostrava e ’n su le gambe storta;
arricciava la carne e ciascun pelo, 5
come porco per tema talor porta.
Tutta tremava e ne le labbra un gelo
mostrava tal, che non copriva i denti
ed era scapigliata e senza velo.
Gli occhi smarriti e in qua e lá moventi 10
avea la trista e cosí sbalordita
borbottando parlò: “Perché consenti,
perché consenti a perder la tua vita?
Certo tu ne morrai, se non t’avvedi
di lassar questa impresa tanto ardita”. 15
“Non per morir, ma per campar mi diedi
a seguir tanto ardire e da piú senni
confortato ne son, che tu non credi.
Ben so ch’al mondo per tal patto venni
ch’io dovessi morire e bene istimo
che contro ciò tutti i pensieri son menni.
E so ancora ch’io non sarò il primo
né ’l deretan, che dee far questa via,
ché tutti ne convien tornare al limo.
E bestial cosa sarebbe e follia 25
di temer quel, che non si può fuggire”:
questa cotal fu la risposta mia.
“Bene t’ho inteso; ma tu non de’ ire
ispermentando sí la tua ventura
in istrani paesi, per morire”. 30
“Oh, rispuos’io, giá non è piú dura
di fuor la morte, che ’n casa si senta”.
Ed ella: “Tu non avrai sepultura”.
“Questo che fa? Ché ’l corpo non tormenta
né truova cosa che li faccia guerra, 35
poi che la luce sua del tutto è spenta.
E se non fia coperto da la terra,
il cielo il coprirá, né con piú degno
coperchio nessun corpo mai si serra.
Non fu trovato di tombe lo ’ngegno 40
a ciò che i morti n’avesson dolcezza,
ma per li vivi, ch’è d’onore un segno”.
Dissemi ancor: “Tu morrai in giovinezza”.
Per ch’io rispuosi: “Questo fia men doglia
che l’aspettar di languire in vecchiezza; 45
ch’allor fa buon morir, quando s’ha voglia
di vivere e quel viver tegno reo
dove l’uom senso a senso si dispoglia.
Di ciò s’avvide il forte Maccabeo,
di ciò s’avvide il Greco ardito, il Magno, 50
e ’l buon Troian, che tanto d’arme feo. 10
Il ben morire è nel mondo un guadagno
e ’l viver male è peggio che la morte:
faccia uom che de’ e non si dia piú lagno”.
E quella a me: “E tu puoi, per tal sorte, 55
cadere in povertá, infermo e frale,
e non sará chi t’aiuti e conforte”.
“Di questo, rispuos’io, poco mi cale;
ché de le due converrá esser l’una:
o il mal vincerá me o io il male. 60
La povertá e i ben de la fortuna
per tutto truovo e veggio l’un dí grande
tal, che poi l’altro con fame digiuna.
Giá fu chi visse di frondi e di ghiande;
nostra natura, quando si contenta, 65
poco cura di veste o di vivande.
Piú son le cose onde l’uomo spaventa,
che poi non fanno mal, che quelle assai
che con danno e percosse si tormenta”.
Ed ella a me: “Or pensa, se tu vai 70
in luogo strano, acerbo e sconosciuto,
e non sappi la lingua, che farai?”
“Le mani e i piè natura per aiuto
m’ha dato, dissi, e l’argomento tutto,
per ch’io sarò piú lá, che qui, un muto”. 75
Ed ella: “Or vuoi un buon consiglio asciutto?
Pensa di viver qui e stare in pace
e di quel c’hai prender diletto e frutto”.
“Lo tuo parlar, rispuosi, non mi piace,
però ch’egli è consiglio da cattivo, 80
che mangia e bee e ’n su la piuma giace:
ché l’uom non de’ pur dire i’ pappo e vivo
come nel prato fan le pecorelle,
ma cercar farsi, dopo morte, divo.
Omai va via, ché de le tue novelle 85
ammaestrato fui e poi m’annoia
c’hai le fazion che non somiglian belle”. 11
Per ch’ella si partí dolente e croia
e io rimasi qual riman colui,
che fa tra sé di sua vittoria gioia. 90
E poi che sviluppato da lei fui
lettor, e vidi me disciolto e libro,
presi il cammin tanto dubbioso altrui,
quanto udirai dal terzo al sesto libro.
CAPITOLO V
Come il nocchier, ch’è stato in gran tempesta,
che, se vede da lunge piaggia o porto,
affretta i remi e fa letizia e festa,
cosí, avendo di lontano scorto
uno in cui io sperava alcun consiglio, 5
accrebbi i passi con lieto conforto.
Appena era ito un terzo di miglio,
che li fui presso e vidil tanto degno,
ch’io lo ’nchinai, con la man sopra il ciglio.
Poco del corpo, lettor, tel disegno; 10
bianco era e biondo e la sua faccia onesta,
con piccioletta bocca e d’alto ingegno.
Qual vuol Mercurio, tal parea la vesta
un libro avea ne la sinistra mano
e, ne la dritta, tenea una sesta. 15
E giunto a me costui, piú che umano
rispuose al cenno e disse: “In cui ti fidi,
che vai sí sol per luogo tanto strano?
Senno non fai, se non hai chi ti guidi:
però che tanto è diverso il cammino, 20
che piú a pena alcun giá mai ne vidi”.
“Per cercar mi son mosso pellegrino
del mondo quel che ne concede il sole
e piú, se ’l poter fosse al mio dimino;
ma qual non puote in tutto ciò che vole, 25
far li convien secondo che ha la possa”:
cotal risposta fen le mie parole.
E sopragiunsi poi: “Questa mia mossa
non crediate sí lieve, ché per fermo,
udendo il ver, non vi parrá sí grossa: 30
ché per fuggir la morte, ov’era infermo,
l’ardire impresi, che follia tenete,
e per consiglio l’ebbi d’altrui sermo”.
“Io non avea d’udirti sí gran sete,
quando qui ti scontrai, qual mi sento ora 35
che m’hai preso il pensier con altra rete:
e però non t’incresca dirmi ancora
piú chiaramente, a ciò che me’ comprenda,
dove tu vai e un poco dimora.
E se tu stai, non creder che si spenda 40
indarno il tempo: forse è tua ventura
d’avermi qui trovato e ch’io t’intenda:
ch’io so del mondo il modo e la misura
io so de’ cieli; io so sotto qual clima
andar si può e dove è gran paura”. 45
“O caro padre, il tempo non si stima,
diss’io, per me, com’è vostra credenza,
e quanto piace a voi fia la mia rima”.
Allor li feci in tutto conoscenza
del lungo tempo mio senza fren corso 50
e senza lume e senza provedenza
e come, me veggendo tanto scorso,
vergogna e ira punse lo ’ntelletto
e fui del fallo mio gramo e rimorso;
e che, per ristorar tanto difetto 55
e non morir nel mondo come belva,
presi ’l cammin cotal, qual io v’ho detto;
poi come dentro da la trista selva
una donna gentil m’era apparita
e destò il cuore, il quale ancor s’inselva. 60
Tutta li dissi a punto la mia vita;
ond’ello a me: “Figliuol, questa tua impresa
assai mi par da essere gradita.
Ma guarda che tu sie di tanta spesa
fornito, quanto a tal cammin bisogna,
sí che ’l troppo voler non torni offesa:
ché spesso avièn ch’ uom riceve rampogna
di folle impresa, onde sarebbe meglio
lasciarla star, che portarne vergogna”.
E io a lui: “Pur mo a ciò mi sveglio, 70
come v’ho detto, e figuro nel core
la pecchia per asempro e per ispeglio,
che va cogliendo d’uno in altro fiore
la dolce manna per luoghi diversi,
di che poi vive e onde acquista onore. 75
Cosí pens’io per piú paesi spersi
raunare con pena e con fatica
quel mel, ch’a me sia dolce e ai miei versi”.
“Quando ne l’uomo un buon voler s’abbica
e mancagli il poder, rispuose adesso, 80
atar si dee come la cosa amica.
E però a la impresa, in che se’ messo,
giovar ti voglio d’alcuna moneta,
sí che t’aiuti a’ tempi per te stesso.
D’alpi, di mari e di fiumi s’inreta 85
la terra, per che l’uomo alcuna volta
ci è preso, come vermo che s’inseta.
Onde, se non t’annoia, ora m’ascolta,
sí che, se truovi manco ad alcun passo,
veggi da te perché la via t’è tolta”. 90
Per ch’io, come a lui piacque, fermai il passo.
CAPITOLO VI
“Compreso ho ben, figliuol, sí come tue
se’ ito seguitando l’appetito,
portando come bestia il capo in giue,
e che novellamente se’ partito
del bosco tenebroso e tratto a luce,
come nuovo uccellin del nido uscito.
Onde, pensando che in te si riduce
disio creato da quella vertute
che l’uom per dritta via guida e conduce,
aprir ti vo’ de le cose vedute
per me e per molti altri, che saranno
in parte lume de la tua salute.
Ché a l’uom val poco penter dopo il danno;
e pregiato è il nocchier, che ’n suo’ peleggi
conosce i tempi e sa fuggir l’affanno.
E però quel ch’io dico nota e leggi,
a ciò che sappi sí guidar lo remo,
che la tua barca non rompa né scheggi.
Partito è il ciel, ch’è tondo e senza scemo,
in trecento sessanta gradi a punto
e tondo è il centro suo, dove noi semo.
E ciascun grado occupa e tien congiunto
miglia cinquanta sei sopra la terra,
con due terzi che d’uno ancor v’è giunto.
Or se questa ragion, ch’io fo, non erra,
veder ben puoi che ’n tutto gira e piglia,
col mar che ’l veste e che d’intorno il serra,
venti milia con quattrocento miglia:
del quale il mezzo è manifesto a noi,
e ’l dove e ’l come l’uom ci s’infamiglia.
L’altra metá, che ci è di sotto, poi,
nota non è, né qual v’abita gente;
ma pure il ciel vi gira i raggi soi.
E cosí dal levante a l’occidente
diece milia dugento dir si puote
di miglia: e ciò per lungo si consente.
Poi, per traverso, perché il sol percuote
in una parte piú e in altra meno,
secondo che i cavai guidan le ruote,
tanto gli è stretto a l’abitato il freno,
che cinque milia cento miglia fassi;
il piú bel tien settentrione in seno.
Onde, se ben figuri e ’l ver compassi,
tu truovi lungo e stretto l’abitato,
ritratto quasi, qual mandorla fassi. 45
E truovil piú giacere in su l’un lato,
il qual secondo il ciel si può dir dritto,
che n’è piú ricco e meglio storiato.
Or fu partito il tutto, ch’io t’ho ditto,
dai tre primi figliuoi ch’ebbe Noè, 50
come per molti puoi trovare scritto.
E questo fu quando Dio volse che
fosse ’l diluvio, per strugger coloro
che non aveano in Lui né amor né fè.
Sem ebbe nome il primo e ’l suo dimoro 55
in Asia fu e quella parte tenne
ch’è grande per le due e ricca d’oro.
Cam, il secondo, in Africa venne
e s’ebbe terra men che gli altri due:
a ricche pietre e buon terren s’avenne. 60
Iafet, il terzo, in Europa fue,
la qual per gran valor d’uomini è degna
e degne e care fun l’opere sue.
Similemente ancora si disegna
lo mondo tutto e parte in cinque zona: 65
le tre perdute e ne le due si regna.
Per l’acceso calor, che il sol vi sprona,
arde e combure sí quella di mezzo,
ch’abitar suso non vi può persona.
Le due da lato stan tra ’l sole e ’l rezzo. 70
abitabili sono e temperate;
l’altre, mortal dal ghiaccio e dal caprezzo.
Or, quando vai, è buono che a ciò guate:
perché v’è parte che ’l sole è sí poco,
ch’un’ora dura a l’entrar de la state; 75
e un’altra, come dico, che par foco:
e cosí troverai pien di paura
la terra e il mare, d’uno in altro loco.
Poi si convien guardare e poner cura
in qual tempo è men reo l’andar per mare, 80
perché i venti vi son senza misura.
La nave il buon nocchier de’ ispiare,
la usanza de’ paesi e quella vita,
che si convien tener secondo l’a’re.
E ben che l’arte mia sia mal sentita 85
per poco studio, in ogni tuo viaggio
cerca prender buon punto a la partita:
ché quelle cose, che non fanno oltraggio
e che posson giovare, da usar sono,
come l’altre fuggir, che fan dannaggio, 90
sempre sperando in Quel ch’è sommo bono,
perché da Lui, come luce dal sole,
discende in noi ciascuna grazia e dono.
La voglia stringi e lascia dir chi vole,
se tu giungi a la stretta di Sibilia: 95
ché qual giú passa spesso se ne dole.
Anche il Faro da Calavra in Cicilia
guarda come traversi, e come raspi
dove annegan le Sirte ogni ratilia.
Rado per l’India a le porte de’ Caspi 100
o per l’Etiopia e tra gli Schiavi
vi passa l’uom, che tristo non v’innaspi”.
Piú e piú luoghi alpestri, oscuri e cavi,
poi mi mostrò, formando col suo sesto,
ch’al mondo son pericolosi e gravi. 105
Cosí quel padre e lume d’Almagesto
“Tutto t’ho detto, mi disse, secondo
la mia promessa e che tu m’hai richiesto”.
E io rispuosi: “E de’ cieli e del mondo
m’avete sí contento il gran disio, 110
ch’i’ veggio chiaro u’ m’era piú profondo”.
“Omai, diss’ello, qui ti lascio, addio”.
CAPITOLO VII
Poi ch’io mi vidi rimaso sí solo,
presi a pensar, sopra i dubbiosi carmi,
del gran cammin da l’uno a l’altro polo.
E ricordando, non sapea che farmi,
i molti rischi e la lunga via, 5
o de l’andare innanzi over di starmi,
quando la donna, che mi destò pria
nel tristo bosco, mi disse: “Che pensi?
Fa quel che dèi e poi ciò che vuol sia.
Sempre il cattivo da vili e milensi 10
pensieri è vinto e tal costui è detto
quale una bestia ch’abbia cinque sensi”.
E cosí questa cacciò del mio petto
ogni paura, come da Boezio
Filosofia le triste e dal suo letto. 15
Ispento ogni pensier, che movea screzio
e dubbio al mio andar, subito presi
consiglio tal, del quale ancor mi prezio:
dico, col core e con gli occhi sospesi
chiamai, a giunte mani, in verso il cielo, 20
Colui, che mai non ebbe dí né mesi:
“O sempre uno e tre, a cui non celo
il gran bisogno e l’acceso disire,
però che tutto il vedi senza velo,
soccorri me, che solo non so ire”. 25
Appena giá finito avea il prego,
ch’io mi vidi uno dinanzi apparire.
Qui con piú fretta i piedi a terra frego
in verso lui e, poi che mi fu chiaro,
con reverenza tutto a lui mi piego. 30
Con un vago latino, onesto e caro,
“Dimmi chi se’, mi disse, e dove vai”;
e gli occhi suoi un poco s’abbassaro.
Come si tacque, cosí incominciai:
“Io mi son un novellamente desto”: 35
e ’l dove e ’l quando tutto li narrai.
Apresso ancor li feci manifesto
di quel romito, a cui la barba lista,
ch’era a veder sí vecchio e tanto onesto;
poi de la scapigliata magra e trista, 40
la qual, per dare storpio a la mia ’mpresa,
m’era apparita con orribil vista;
e sí com’io, dopo lunga contesa,
l’avea cacciata e trovato colui,
che del mondo gli dubbi mi palesa; 45
e che, poi che da lui partito fui,
la ’mpresa mia si facea vile e scema
e ’l conforto che presi e sí da cui.
“Ciascun d’entrar ne le battaglie ha tema,
se non è matto; ma quei è piú pregiato 50
che, poi che v’è, pur vede e che men trema.
Ma non dubbiar, da poi che m’hai trovato,
ch’io non ti guidi per tutto il cammino,
pur che dal Sommo il tempo ti sia dato”.
Cosí mi disse. E io: “O pellegrino, 55
dimmi chi se’”. Ed el rispuose adesso:
“Anticamente m’è detto Solino”.
“Solin, diss’io, se’ tu quel propio desso,
che divisi il principio, il fine, il mezzo
del mondo, l’abitato e ciò ch’è in esso?” 60
“Colui son io”. Onde allora un riprezzo
tal mi prese, qual fa talora il verno
a chi sta fermo e mal vestito al rezzo.
Per maraviglia, al Padre sempiterno
mi trassi e dissi: “Indarno onor procaccia 65
qual Te non prega e vuol per suo governo”.
Poscia rivolsi al mio Solin la faccia
e dissi: “O caro, o buon soccorso mio,
del tutto qui mi do ne le tue braccia”.
Senza piú dire, allora si partio
e io apresso, sempre dando il loco,
acceso caldamente d’un disio.
Ond’ello accorto: “Per sfogare il foco,
mi disse, fa che svampi fuor la fiamma,
ché l’andar senza il dir farebbe poco”. 75
Allor, come il figliolo a la sua mamma
con reverenza parla, dissi: “O sole,
in cui non manca di mia voglia dramma,
quel che da te prima l’anima vole
si è d’aver partito per rubrica 80
il mondo”. Queste fun le mie parole.
Ed ello a me: “Ne l’etá mia antica
tutto il notai, ben ch’ora mal s’incappa
l’uom per quei nomi a ’ntender quel ch’i’ dica.
E però formerò teco una mappa 85
tal, che la ’ntenderanno non che tue,
color ch’a pena sanno ancor dir pappa,
a ciò ch’ andando insieme poi noi due,
e trovandoci ai porti e a le rive,
sappi quando saremo giú e sue. 90
E tu com’io tel conto tal lo scrive”.
CAPITOLO VIII
“È questo mondo in tre parti partito:
Asia, dico, Africa ed Europa,
come da molti puoi avere udito.
Ma perché l’Asia piú terreno scopa,
prima ti numerrò le sue province 5
e come l’una con l’altra s’indopa.
Dal Nilo è bello che qui mi comince,
che vien dal mezzodí per molte lingue
e per istrade disviate e schince:
l’Asia questo da l’Africa distingue; 10
cade nel nostro mar cercando Egitto,
di cui le biade fa granate e pingue.
Egitto ha Siria da levante dritto;
ab austro, l’Etiopo; e si divide
da quel di Libia, ove ’l Ponente è ditto. 15
Seguita Siria e qui Giordan ricide
dal Libano al Mar Morto per Giudea,
dove il Battista aperto il ciel giá vide.
In Siria è Palestina e Galilea,
Saracinia, Commagena e Fenizia, 20
Samaria, Nabatea e Cananea.
Col mar di Cipri a ponente s’inizia;
Eufrates da levante e l’Ermin tocca
da quella parte ch’aquilone ospizia;
dal mezzodí con Arabia s’abbocca. 25
Or di qui movo in vèr levante i passi,
dritto com’arco stral, ch’al segno scocca.
Mesopotamia truovo in quei compassi,
tra Eufrates e Tigris, e la gran torre
ch’è vivo essemplo a qual superbo fassi. 30
Eufrates da Erminia verso austro corre
per lunga via e Caldea, quand’è grosso,
come fa il Nilo Egitto, lá soccorre.
Tigris va da levante nel mar Rosso,
onde in India può ire a cui aggrada, 35
ché ’l cammin v’è da la cittá di Cosso.
E perché lieve avisi questa strada,
imagina che in verso il mezzodí
Arabia lasso, ch’è una gran contrada
sopra ’l mar Rosso e sotto Sinaí 40
e dov’è il monte Cassio alto e sospeso,
Persia, Saba, Idumea e Susaí.
Or torno a Cosso, ch’io dissi testeso,
e passo in India, e tal cammin mi piace
però che piú, al tempo d’ora, è preso.
India è grande, ricca e ’l piú in pace;
dal mezzodí e suso in oriente
sopra il mare Oceano tutta giace.
Indus la chiude e serra da ponente,
monte Caucaso di vèr settentrione: 50
queste son le confine drittamente.
Ed ivi d’animali e di persone
tante son novitá, che spesso piange
quale va solo per quella regione.
Idaspen, Sigoton, Ipano e Gange 55
bagnan la terra e con grossa radice
Maleo vi par, che ’n su molto alto tange.
Sotto scilocco, da quella pendice,
la isola si trova Taprobana,
che quasi un altro mondo la si dice. 60
Non han quei marinar la tramontana,
non sanno che sia Castor né Polluce,
non san che stella sia Vergiliana.
Canopos v’è, che molto chiara luce;
la guida lor per mar si son gli uccelli, 65
che, giú e su volando, li conduce.
Gli uomini, per grandezza, avanzan quelli
di Frisia, ma in ciascheduna cosa
son piú bestiali e di color men belli.
Crisa, Argira, Telos, Cosan e Osa 70
e piú isole truovi per quel mare,
di cui la fama fra noi è nascosa.
Or qui passo Caucaso, per trovare
Seres, Ottogores e Pande e Batria,
che Oxus bagna e u’ Dosinges pare, 75
Sizia, di sopra, e una e altra patria:
tante vi son, che, quando v’anderemo,
solo a vedere ti parrá una smatria.
Le confine di questo luogo stremo
son l’Oceano, il mar Caspio e Caucaso, 80
Gog e Magog, che sono nel piú scemo.
La provincia, c’ha il Caspio piú nel naso,
Ircania è, c’ha il capo a la marina
e coi piè giunge Iberia a l’occaso.
Partia con questa ad aquilon confina; 85
poi fra Indus e Tigris si distende,
sí che in verso austro il mar Rosso vicina.
In Partia piú paesi si comprende:
Persida, Media, Assiria ed Aracusa,
e, da ponente, l’altra Media prende. 90
Poi questa Media, da levante, è chiusa
da’ Caspii monti e prende l’Erminia
di vèr settentrione ne la musa.
L’Ermin mi chiama e io fo quella via:
tra Cappadocia, il Caspio mare e ’l monte 95
Toro e Cerauno chiusa par che sia.
Di Cerauno Tigris surge d’un fonte;
l’arca Noè sopra Ararat si mira;
Eufrates l’aggira per la fronte.
L’Asia minore ora a sé mi tira, 100
cui Cappadocia da levante serra;
poi, da tre parti, intorno il mar la gira:
Galazia, Bettania, Cilicia afferra,
Pamfilia, Frigia, dove Troia fue,
e d’Erminia minor tocca la terra. 105
Qui passo in Cappadocia, un poco in sue,
cui l’Erminia, da levante, cinge
e Toro, ad austro, con le branche sue.
Iberia lungo questa si dipinge
tra l’Erminia minore e ’l mar di Ponto; 110
poi Albania al Caspio mar si stringe.
Questo ultimo paese, ch’io ti conto,
tanto si chiude in vèr settentrione,
ch’a le palú Meotide l’affronto,
lá dove Europa i suoi termini pone”. 115
CAPITOLO IX
“Se ’l mio parlar per te ben si conchiude,
conoscer puoi ch’i’ son dal mezzogiorno
passato a le Meotide palude,
e come l’Ocean gira Asia intorno
da le tre parti e a cui il mar Perso, 5
l’Indio, il Rosso e ’l Caspio dán del corno,
e dove il Nil la parte per traverso
col mar Mediterran, col Tanaí,
che ’n Rifeo nasce e ne la Tana è perso.
Qui lascio Europa, Sizia e Danaí, 10
e ’n vèr l’Africa dirizzo lo stilo,
dove segnai Egitto e Sinaí.
Libia truovo, c’ha da levante il Nilo,
e tanto è lunga e larga, ch’a cercarla
non vi pur basta come a Teseo il filo. 15
Lá son le serpi di che Lucan parla;
con l’Etiopia al mezzodí s’aggiunge:
ben lo vedrai, se verremo a trovarla.
Il Libico mar verso noi la punge
e tanto si dichina in vèr ponente, 20
che con le maggior Sirti si congiunge.
Etiopia di sopra, in oriente,
con le selve d’Egitto s’accompagna
e, di verso aquilone, il Nilo sente.
Dal mezzogiorno l’Ocean la bagna
e ’n vèr zeffiro tanto si distende,
che porge ad Atalante le calcagna.
Segue Tripolitana, la qual prende
Trogoditi a levante e le gran Sirti
e con Bisanzo a ponente s’intende. 30
E se le sue confin deggio ben dirti,
Garama tocca e sente l’Etiopo
dal mezzodí, con altri acerbi spirti.
Poi, come piú a l’occidente scopo,
trovo Bisanzo e trovo Numidia, 35
Cartago e Getulia com li van dopo.
E questa gente da parte meridia
tien l’Etiopo; in vèr settentrione
coi Sardi s’hanno alcuna volta invidia.
Di vèr zeffiro, una gran regione 40
giunge, la quale Mauritana è ditta:
e qui son volti neri com carbone.
La Mauritana da ponente è fitta
sopra la Malva e, nel meridiano,
in verso monte Astrix le branche gitta; 45
in fra Maiolica e ’l mar Ciciliano
distende e rallarga la sua piaggia
e indi sente il vento tramontano.
Poi, dove il sole al vespro par che caggia,
è Tingitana e questa con la coda 50
perde la terra e l’Oceano assaggia.
Gaditan vede da la nostra proda
e, di verso austro, volger si diletta
a Gaulea e con quella s’annoda.
E cosí giunto son fino a la stretta 55
di Calpes e Galbine; or qui puoi, dunque,
l’Africa imaginar ch’è lunga e schietta.
E pensa l’Etiopia, con qualunque
provincia nomo, ch’io la truovo sempre
dal mezzogiorno: e questo non falla unque. 60
Poi dietro a l’Etiopia par che stempre
tanto il calore la giacente rena,
che natura vi perde le sue tempre.
Qui sono i gran deserti e la Carena
e, dietro a tutto, l’Oceano è poi, 65
che da levante a ponente incatena.
Di vèr settentrion, dove siam noi,
d’Africa il nostro mar le piaggia immolla
con quanto tien di Libia i liti suoi.
Or, perché veggi in fino a la merolla, 70
le Sirti, ch’io nomai, son acqua e terra
che sempre tira e ciò che prende ingolla.
Qui mi potresti dir: – Dimmi s’egli erra
qual l’Africa crede il terzo del mondo
o pur che ’l vero ne la mente serra –.
Erra certo, ché, sestando il suo tondo,
non giungerebbe a tanto d’assai
e propio l’abitato è di men pondo.
L’Africa lascio, ché n’è tempo omai,
e torno, per volerti divisare 80
Europa, dove il Tanai lassai.
Ma tanto veggio te nel cuore stare
sopra pensiero e non parer contento,
che l’ombra del perché dentro al mio pare”.
“Tutto ciò che m’hai detto intendo e sento; 85
ma com’è ciò, che sí poche province
mi nomi in cosí gran comprendimento?”
“Qui dèi imaginar ch’un regno ha prince,
duchi, marchesi, conti, e piú paesi:
poi sopra tutti il nome del re vince. 90
E l’anno ha settimane e dí e mesi
ed in un corpo sol son molte membra:
per ch’io, parlando d’uno, di piú intesi.
Ma perché, ragionando, mi rimembra
l’isole Fortunate, le ricordo: 95
ben le vedrai, quando v’andremo insembra,
se di tanto cercar sarai ingordo”.
CAPITOLO X
“Se noti ben come le corde tocco,
tu vedi ch’io son giunto nel ponente,
a le fin d’Atalante e del Morocco.
E però che piú lá non truovo gente,
ritornar voglio in vèr settentrione, 5
dove lassai Europa in oriente.
Due Sizie son: l’una in Asia si pone
sopra ’l mar Caspio, e l’altra si racchiude
in Europa, ove stanno le Amazone,
dico da le Meotide palude, 10
dal Tanai; poi, di verso merigge,
bagna il Danubio le sue ripe crude.
Da l’altra parte, che Boreas affligge,
par l’Oceano coi gioghi Rifei,
dietro da’ quai mal fa chi vi s’affigge. 15
Alania, Gozia, Dazia, Iperborei,
Teroforoni e Arimaspi abbranca,
Calibi e Dachi. che son crudi e rei.
Ne l’Oceano, ove la terra manca,
pare il mar Cronio e quello di Tabí, 20
isole e genti in cui natura stanca.
Non è da toso che legga l’a bi
voler passar per la profonda Sizia,
ma quale piú fra noi si fa rabí.
Quivi Propanno e Ipano s’indizia 25
con altri fiumi e, dove il nome lassa
di vèr zeffiro, Germania ospizia.
Due son le Germanie, l’alta e la bassa:
l’alta il Danubio da levante lega,
poi dal suo nido in vèr la Trazia passa; 30
dal mezzodí, la bassa bagna e frega
il Reno e questo mai non l’abbandona,
in fin che giunge al mar, in che s’annega.
Di vèr settentrione la incorona
e da ponente il grande Oceano, 35
ch’a tutto il mondo, come vedi, è zona.
Monte Acuo è qui, che signoreggia il piano,
non minor di Rifeo, senza alcun fallo,
benché quel mostri piú solingo e strano.
Lá è Gangavia, ove nasce il cristallo, 40
Suezia, Alamania e Graconia:
assai v’è gente, ma freddo è lo stallo.
Buemia, Ottoringia e Appollonia,
Osterich, Soapia, Bavaria e Ulanda,
Sansogna, Frisia, Utrech e Colonia.
L’isola è poi d’Inghilterra e d’Irlanda,
Ibernia, Scozia e, ne l’ultimo, è Tile,
ché piú gente non so da quella banda.
Seguita Francia, secondo il mio stile,
che di verso aquilon la chiude il Reno 50
e Apennin da levante fa il simile.
Poi, di verso austro, è monte Pireno
e, da ponente, il mare di Bretagna;
Aquitania e Fiandra tien nel seno.
Rodano, Senna e l’Escalt la bagna 55
con altri fiumi e gran province serra;
ricca è molto. E di qui passo in Ispagna.
Galizia truovo al fine de la terra;
truovo la stretta, dove Ercules segna
che qual passa piú lá il cammin erra. 60
Questa provincia è bella, grande e degna,
e piú parrebbe, se quel di Granata
fosse cristiano, che tra questi regna.
Di verso l’aquilon Piren la guata;
poi da tre parti per lo mare è chiusa; 65
in due si parte, tanto è lunga e lata.
Li maggior fiumi, che il paese accusa,
sono Tagus ed Iberus e Biti,
benché forse or tai nomi in lor non s’usa.
Lusitan vede di Castella i liti 70
e Maiolica, che nel mare è fitta;
Portogallo e Ragona par che additi.
Segue Nerbona per la via diritta
lungo il Mar nostro, su, verso oriente,
fin che a Italia Nizza la man gitta. 75
Italia, con le Alpi, nel ponente,
de la Magna e di Gallia confina,
sí che ’l bel petto il lor gran freddo sente.
E l’un de’ bracci suoi distende e china
verso Aquilea, nel settentrione, 80
lá dove Istria e Dalmazia vicina.
L’altro del corpo, cosce e piedi, pone
in fra due mari e giunge in fine a Reggio,
dico tra l’Adriatico e il Leone.
Dal mar Leone la Cicilia veggio, 85
il Sardo, il Corso e altre isole molte,
le qua’ vedrai, se farem quel peleggio.
Il Po la bagna con le larghe volte,
Tevere e Arno e piú fiumi reali,
ch’Apennin versa per le ripe sciolte. 90
Da quella, dove il braccio par che cali,
vede Pannonia, ch’a levante stende
tanto, che a Galazia dá de l’ali.
Dal mezzogiorno la Grecia prende
e dal settentrion la chiude e cinge 95
la Germania e con quella s’intende.
Mesia il piú di quel paese stringe
col nome suo, ben ch’ora l’Ungaria
con maggior fama quivi si dipinge.
Grecia mi chiama e io fo quella via: 100
sette province tien, le cinque in terra
e due dentro al suo mare par che sia.
Istria, Mesia e l’Egeo mar la serra
da le tre parti e Tracia vo’ che copoli
che su, vèr subsolano, un poco afferra. 105
In Tracia son molti diversi popoli:
questa con Istro ad aquilon confina
e da levante con Costantinopoli.
Cumani truovo in su la gran marina,
dove il Danubio, over Istro, par ch’entre 110
per via diserta, lunga e pellegrina.
Ora, se noti le parole, in mentre
ch’io ragiono, veder puoi che son giunto
al mar, che ’l Tanai riceve in ventre,
e dove l’Asia si divide appunto”.
CAPITOLO XI
“In breve assai t’ho chiaro discoperto
del mondo l’abitato e come giace,
benché ’l veder te ne fará piú sperto”:
cosí mi disse. E io: “Forte mi piace
il tuo parlar; ma qui d’un punto bramo 5
che l’intelletto mio riposi in pace.
Dimmi: quel luogo, onde cacciato Adamo
con Eva fu, dov’è, ché tu nol poni
in su la terra né mostri alcun ramo?”
Ed ello a me: “Diverse opinioni 10
state ne son; ma suso in oriente
per la piú parte par che si ragioni.
È questo un monte ignoto a questa gente,
alto, che giunge in fine al primo cielo,
onde ’l puro aire il suo bel grembo sente. 15
Quivi non è giá mai caldo né gelo.
quivi non per fortuna onor si spera;
quivi non pioggia né di nuvol velo,
Quivi è l’arbor di vita e primavera
sempre con gigli, con rose e con fiori; 20
adorno e pien d’una e d’altra rivera.
Quivi tanti piacer di vaghi odori
vi sono e tanto dolce melodia,
che par che ciò che v’è vi s’innamori.
Vecchiezza e ’nfermità non sa che sia 25
colui giá mai che dentro vi giunge:
e questo pruova Enoc ed Elia.
Ma muovi i passi omai, ch’altro mi punge”.
E io: “Va pur, ché dietro a le tue spalle
non mi vedrai piú d’un passo di lunge”. 30
E cosí mi guidò di calle in calle
tanto, che noi giungemmo sopra un fiume,
che si spandea per una bella valle,
sopra la quale, per lo chiaro lume
del sol, ch’era alto, una donna scorsi 35
vecchia in vista e trista per costume.
Gli occhi da lei, andando, mai non torsi;
ma poi che presso li fui giunto tanto
ch’io l’avisava senza niun forsi,
vidi il suo volto ch’era pien di pianto, 40
vidi la vesta sua rotta e disfatta
e raso e guasto il suo vedovo manto.
E, con tutto che fosse cosí fatta,
pur ne l’abito suo, onesto e degno,
mostrava uscita di gentile schiatta. 45
Tanto era grande e di nobil contegno,
ch’i’ dicea fra me: “Ben fu costei
e pare ancor da posseder bel regno”.
Maravigliando, piú mi trassi a lei
e dissi: “O donna, per Dio non vi noi 50
di soddisfare alquanto ai disir mei,
ch’io riguardo da l’una parte voi,
che ne gli atti mostrate sí gentile,
ch’io dico: – il ciel qui porse i radii suoi –;
e poi da l’altra parete sí vile, 55
sí dispregiata e con pover vestire,
ch’io rivolgo il pensiero ad altro stile”.
Qual piange sí che vuole e non può dire,
cosí costei al pianto si disciolse,
bagnandosi con l’acqua del martire. 60
Ma poi che il cuore alquanto lena colse
e che sfogata fu la molta voglia,
sí rispondendo in verso me si volse:
“Non ti maravigliar, se io ho doglia;
non ti maravigliar, se trista piango, 65
né se mi vedi in sí misera spoglia.
Ma fatti maraviglia ch’io rimango
e non divento qual divenne Ecuba,
quando gittava altrui le pietre e ’l fango:
ché minor suon non fe’ giá la mia tuba,
né minor fui di sposo e di figliuoli,
né meno ho sostenuto danno e ruba.
Onde, quando mi truovo in tanti duolie ricordo lo
stato in che giá fui,
che governava il mondo co’ miei stuoli, 75
piango fra me, ché qui non è con cui.
Or t’ho risposto a quel che mi chiedesti,
forse con versi troppo chiusi e bui”.
“Se Quel che tutto regge ancor vi presti
tanto di grazia, per la sua pietate, 80
che de gli onori antichi vi rivesti,
fatemi ancora tanto di bontate,
ch’io oda come in vostra giovinezza
foste accresciuta in tanta dignitate,
e ’n fino a cui salio vostra grandezza, 85
e la cagion perché da tanto onore
caduta siete in cotanta bassezza”.
Questo prego li fei con tanto amore,
ch’ella rispuose: “Al tuo piacer son presta;
ma non fia il ricordar senza dolore”. 90
Poi cominciò e la forma fu questa.
CAPITOLO XII
“Nel tempo che nel mondo la mia spera
apparve in prima qui, dove noi siamo,
dopo il diluvio ancor poca gente era.
Noè, che si può dire un altro Adamo,
navicando per mar giunse al mio lito, 5
come piacque a Colui, cui credo e amo.
E tanto li fu dolce questo sito,
che per riposo a la sua fine il prese,
con darmi piú del suo, ch’io non t’addito.
Giano apresso a donnearmi intese 10
e costui m’adornò d’una corona,
insieme con Iafet e con Camese.
Italus, poi, un’altra me ne dona;
sí fe’ Saturno, che di Grecia venne,
lo qual molto onorò la mia persona. 15
Ercules, quel che ne le braccia tenne
Palantea, per lo suo valor, non meno
che gli altri, fece ciò che si convenne.
Evandro, con gli Arcadi, ricco e pieno,
una ne fabbricò nel monte mio, 20
maggiore assai che gli altri non mi feno.
Roma, Aventino e Glauco non oblio,
li quai me ne fen tre, tal che ciascuna
per sua beltá in gran pregio salio.
E sí m’era allor dolce la fortuna, 25
che d’Oriente a me venne il re Tibri,
al qual piacendo, ancor me ne fe’ una.
Ma perché d’ogni dubbio ti delibri
e sappil ragionar, se mai t’affronti
con gente a cui diletti legger libri, 30
piacemi ch’ancor piú chiaro ti conti:
sappi, queste corone, ch’io ti dico,
mi fun donate dentro a sette monti.
Ma qui ritorno a Giano, il mio antico,
del qual t’ho detto che, dopo Noè, 35
li piacque il luogo dov’io mi nutrico.
De’ Latin fu costui il primo re,
pien di scienza con tanta vertute,
che di molte gran cose al mondo fe’.
Costui truovò le genti sí perdute 40
d’ogni argomento, che di fredde vivande
vivean, come bestie matte e mute.
Chiare fontane ed erbe crude e ghiande
eran lor cibo e stavano sparti
a libito ne’ boschi e per le lande. 45
Esso le raunò da tutte parti
e dirizzolle nel vivere alquanto,
mostrando loro e digrossando l’arti.
De la sua morte si fece gran pianto;
sette e venti anni regna e tra lor era 50
tenuto com’è or fra noi un santo.
E se deggio seguir ben mia matera
e del caldo disio, del quale asseti,
trarti la brama, come l’hai, intera,
dir mi convene sí come di Creti 55
Saturno si fuggio e venne a Giano,
perché il figliuol nol prendesse a le reti.
Crudele, impronto, al mal tratto e villano,
avaro sí, che sempre il pugno serra,
costui dipingo e con la falce in mano. 60
Tre figliuoli ebbe, iddii nomati in terra:
Nettunno l’un, che si disse marino,
dal mar sorbito ne la trista guerra;
l’altro fu Pluto, del quale il destino
fu tal, che, avendo un paese in governo 65
salvatico, boscoso e pellegrino,
lo padre suo per gola, s’io dicerno,
del regno, il fe’ morire a tradimento
e nominato fu dio de lo ’nferno.
Giove regnava, secondo ch’io sento, 70
di sotto Olimpo, che pria prova il gelo
che ’l sol del tutto a Virgo scaldi il mento.
Costui, perch’ebbe ognor diletto e zelo
ne l’alto monte e intese a vertute,
si disse, dopo morte, iddio del cielo. 75
Ora, veggendo le mortai ferute
de’ suo’ fratelli, il padre cacciò via
sí per vendetta e sí per sua salute.
Di qua fuggio, come t’ho detto; in pria
nascoso stava e, quando Gian morio, 80
rimase solo a lui la signoria.
E, benché fosse tanto avaro e rio,
nondimeno era scaltro e intendente
e sottil molto a ogni maestrio.
Costui mostrò di far nave a la gente, 85
scudi, moneta e di terra lavoro,
ché prima ne sapean poco o niente.
Questa etá si disse etá de l’oro,
perché la gente viveano a comuno,
sobria, casta e libera fra loro, 90
semplice, pura e senza vizio alcuno.
CAPITOLO XIII
Dopo Saturno, Pico il regno tenne,
cui Circes per amore in odio colse
tanto, che ’l trasformò di pelo in penne.
Costui, per buono agurio, il pico volse
portare in arme e, vinto il suo nemico, 5
Vienza combattendo prese e tolse.
In questo tempo appunto, ch’io ti dico,
vennon di Grecia e fra noi si piantaro,
con altre piante, la mandorla e ’l fico.
Un anno e trenta appunto terminaro, 10
quando costui perdeo la mortal gloria
e che i suoi membri a la madre tornaro.
Seguita mo di Fauno far memoria,
ch’apresso lui il paese costrinse
e tenne con grandezza e con vittoria. 15
Pro fu né mai a’ suoi servir s’infinse:
sí li piacque la cittá di Sabina,
ch’assai l’accrebbe e d’un bel mur la cinse.
Fatua fu sua sposa e fu indovina,
da la quale poi il nome si divelve 20
che fatua è qual pronuncia le destina.
Costui, cacciando al bosco tra le belve, 35
d’una saetta fu ferito e morto
e nominato Pan, dio de le selve.
Tant’era il tempo ancor da Noè corto
in fine a questo che or ti disegno,
che ’l viver bel non era ancora scorto.
Facean le genti di scorze di legno
i libri lor, ché di fogli o di carte
non era assottigliato ancor lo ’ngegno. 30
Assai seppe costui di ciascun’arte;
venti nove anni visse e quando in pace
guardò il suo regno e quando con Marte.
Seguita qui Latin, del qual mi piace
ragionare, però che seppe molto 35
d’ogni scienza e fu grande e aldace.
Da lui deriva e da lui è tolto
onde ogni Italian latino è ditto;
molto fu franco, largo e bel del volto.
In questo tempo, per lo mare afflitto 40
Enea e i suoi, come Virgilio dice,
a piaggia venne in questa parte dritto
e, smontando presso a le mie pendice,
e ’l pan mancando, del loco s’accorse
dove piantar dovea la sua radice. 45
E via men fu del suo fatato in forse,
allor che vide Evandro e Pallante
e che ’l bel segno de l’aguglia scorse.
Chi dir potrebbe per ordine quante
novitá fun, poi che l’animo ficca 50
di starsi qui e piú non ire avante?
Contro a Camilla bella, franca e ricca,
e contro a Turno e i suoi Rutoli ancora,
Lavina vinse, onde Amata s’impicca.
La città di Penestre fece allora 55
e per Lavina dificò Lavino
e re tre anni e sei mesi dimora.
Cotale fu, figliuolo, il suo destino:
che Mezenzo per vendetta l’uccise
e qui finio il suo lungo cammino. 60
Similemente Evandro a morte mise;
i lor due regni allora uno si fenno:
Ascanio il tenne, nipote d’Anchise.
Di larghezza, di prodezza e di senno
somigliò il padre e, per quel ch’i’ udio, 65
del corpo ancora: e io cotal lo ’mpenno.
Di qui discese il buon Cesare mio
con altri molti innanzi a lui e poi,
li quai fun sempre fermi al mio disio.
Ordine dato a tutti i fatti suoi, 70
a la vendetta dei due re intese,
come per molti avere udito poi.
Mezenzo uccise e la sua gente prese
e tanto era d’angoscia e d’ira pieno,
ch’arse e distrusse tutto quel paese. 75
Poi a piú province volse il freno:
per gran vertú e con l’ardita spada
le vinse e sottomise al bel terreno.
Ma prima ch’io qui piú innanzi vada,
vo’ che sappi che di Lavina nacque 80
Silvio Postumo, che molto alto bada.
Silvio fu detto, ché la madre il tacque
e tenne in una selva ascoso e forse
ch’era per tale a cui sua vita piacque.
Postumo li seguí, ché, poi che morse 85
la morte il padre, uscio de le veste
che nel suo corpo la madre li porse.
In questo tempo colui per Oreste
a Delfos morto fu dentro dal tempio,
ch’al mal di Pulisena ebbe sí preste 90
le mani e fe’ de l’Amazona scempio.

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