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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA


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Cronica - Vita di Cola di Rienzo

Anonimo Romano

Cap. XXV

[Como le campane de Santo Pietro de Roma arzero e como perdìo lo papa la

signoria dello senato e como papa Chimento morìo. ]

[...]

Cap. XXVI

Como lo senatore fu allapidato da Romani e delli magnifichi fatti li quali fece missore Egidio Conchese de Spagna, legato cardinale, per recuperare lo Patrimonio, la Marca de Ancona e Romagna.

Muorto papa Chimento, fu creato papa Innocenzio, lo quale fu ditto cardinale de Chiaramonte, dello abito de santo Pietro, preite seculare. Como papa Innocenzio fu creato, Dio li mustrao granne vennetta de quelli che·lli avevano tuoito lo senato. Curreva anno Domini MCCCLIII, de quaraiesima, de sabato de frebaro. Levaose una voce subitamente per mercato in Roma: "Puopolo, puopolo!" Alla quale voce Romani curro de·llà e de cà como demonia, accesi de pessimo furore. Iettano prete allo palazzo; metto a roba, specialemente li cavalli dello senatore. Quanno lo conte Bertollo delli Orsini sentìo lo romore, penzao dello campare e de salvarese alla casa. Armaose de tutte arme, elmo relucente in testa, speroni in pede como barone. Descenneva per li gradi per montare a cavallo. Lo strillare e·llo furore se converte nello desventurato senatore. Più prete e sassi li fioccano de sopra como fronni che cascano delli arbori lo autunno. Chi li dao, chi li promette. Stordito lo senatore per li moiti colpi, non li vastava coperirese de sotto soie arme. Puro abbe potestate de ire in pede allo palazzo dove stao la maine de santa Maria. Là da priesso per lo moito fioccare de prete la virtute li venne meno. Allora lo puopolo senza misericordia e leie in quello luoco li compìo li dìi, allapidannolo como cane, iettanno sassi sopra lo capo como a santo Stefano. Là lo conte passao de questa vita scommunicato. Non fece motto alcuno. Muorto che fu, lassato, onne perzona torna a casa. Senator collega turpiter per funem demissus, deformis pileo per posticam palatii obvoluta facie transivit ad domum. La cascione de tanta severitate fu ca questi doi senatori vivevano como tiranni. Ià erano infamati, ché grano mannavano per mare fòra de Roma. Era lo grano carissimo. La canaglia non comportava la fame e·llo deiuno. Non sao temere lo puopolo affamato. Non aspetta che dichi: "Fa' questo". Questa connizione hao la carestia, che moiti potienti hao perterrata. Anco pòtera essere la cascione che Dio non consente che·lle cose della Chiesia siano violate. De ciò favellava Valerio Massimo. Dao lo esempio de Dionisio tiranno de Cecilia, lo quale tagliava li capelli e·lle varve de auro le quale avevano li suoi diei, e diceva ca·lli diei non deveano avere similitudine de becchi varvati. De questa onta la quale fece a suoi diei fu punito, ca in soa vita visse con paura e po' la morte soa sio figlio venne in tanta miseria, che viveva de insegnare li guarzoni lo alfabeto. Forza più non sapeva. Vedi maraviglia! Saputa che fu la morte dello senatore lapidato, la carestia de sùbito cessao per lo paiese intorno e fu convenevole derrata de grano. Questo papa Innocenzio la prima cosa che se puse in core fu che·lli tiranni restituissero l'altruio, li bieni della Chiesia li quali avevano usurpati e sforzati. A ciò esequire mannao sio legato in Italia missore Egidio Conchese de Spagna, cardinale. Questo don Gilio quanto fussi sufficiente guerrieri l'opere soie lo demustravano. Esso fu in prima cavalieri a speroni d'aoro. Puoi fu arcidiacono de Conche. E fu de tanta industria, che fu fatto confallonieri dello re de Castelle. Esso perzonalemente se trovao alla rotta de Taliffa in Spagna, como de sopra ditto ène. Desceso lo legato don Gilio in lo Patrimonio, venne a Montefiascone. Aitro non trovao se non Montefiascone. Acquapennente, Bolsena, tutte le aitre terre teneva occupate Ianni de Vico, profietto de Vitervo. Anco teneva Terani, Amelia, Nargne, Orvieto, Vitervo, Marta, Canino. Era magno. Bussava per corrompere Peroscia. Lo legato, trovanno sì poche terre, forte li parze. Nientedemeno voize parlamentare collo profietto. Mannao per esso e fuoro insiemmora. Avea lo profietto in sé una mala natura, che ciò che omo li adimannava de sùbito li ammetteva e diceva. "Fatto serrà. Ben ce piace". Alla fine non servava le promesse. Quanto più te prometteva, peio tenevi. Per la moita usanza questa connizione servao allo legato. Non se ne sappe astenere. Como fuoro insiemmori, lo legato disse: "Profietto, que vòi tu?" Lo profietto disse: "Ciò che piace a ti". Lo legato disse: "Voglio che rienni alla Chiesia lo sio e tienghiti lo tio". Lo profietto disse: "Vogliolo fare volentieri. So' contento". E in ciò puse lo sio seiello in la carta colli capitoli scritti. Deo la voita in reto a Vitervo. Delle promesse niente servava. Diceva: "Io non ne voglio fare cobelle". Aiogneva: "Lo legato hao cinquanta prieiti fra compagni e cappellani. Li miei regazzi bastano a contrastare alli prieiti suoi". Questa paravola non se potéo celare, che non pervenisse alle recchie dello legato. A ciò respuse lo legato e disse: "Bene se vederao che miei prieiti serraco più valorosi che·llo profietto con suoi regazzi". Puoi che lo legato conubbe l'animo dello profietto indurato, vidde la perverza mente ostinata, crociata non li bannìo sopra (no·lli pareva da tanto), ma abbe lo aiutorio della lega de Toscana, de Peroscia, de Fiorenza e Siena. Fece granne oste, in la quale fu esso perzonalmente. In quella oste fu Cola de Rienzi cavalieri, lo quale veniva assoluto de Avignone dallo papa, como s'è ditto. Poco curò lo profietto de oste de sollati. Allora iessìo fòra lo puopolo de Roma. Ianni conte de Vallemontone fu lo capitanio. Comenzao a fare lo guasto. Uno terzieri de Vitervo guastaro, vigne, oliveta e arbori. Onne cosa metto in ruvina. La iente sparlava dello profietto. Ranieri de Bussa lo molestava. Lo profietto, como tiranno dubitanno de suoi citatini, viddese male parato. Deliberato consilio saniori, mise lo capo in vraccio e in gremmio della Chiesia rennenno lo altruio. Rennéo Vitervo, Orvieto, Marta e Canino. Remaserolli soie castella nettamente. Remaseli anco Corneto, Civitavecchia e Respampano. Po' non moito tiempo Iordano delli Orsini li tolle Corneto in mieso dìe. Lamentaose lo profietto allo legato e disse ca era ingannato, perché era cacciato de Vitervo. Respuse lo legato e disse: "Profietto, tu non pati tuorto". Mustraoli la cetola colli patti seiellata. La cetola diceva: "Io voglio restituire lo altruio e tenere lo mio proprio". Ciò odito, lo profietto stette queto. In questo Vitervo lo legato fonnao uno bellissimo castiello casato, fornito con moiti torri, palazza e casamenta per fermamento e fortezza della Chiesia de Roma. Lo quale castiello stao e cresce fi' alli nuostri dìi. Iace alla porta che vao a Montefiascone. Acqua sufficiente e fosse piene d'acqua stao intorno. Espedita la opera dello Patrimonio, lo legato alquanto demorao in Orvieto. Reconciliao Orvieto e·llo paiese, lo quale moito era corrotto. Puoi abbe Nargne, puoi Amelia. Puoi ne vao a maiure cose fare, ad espedire li fatti della Marca, ad abassare l'arroganzia delli Malatesta. Era missore Malatesta uno delli più savii guerrieri de Romagna. Tiranno potente moite citate e castella signoriava. La maiure parte della Marca de Ancona teneva sì per amore sì per forza. Aveva sio frate, missore Galeotto. Sempre questo mannava alle frontaglie. Teneva Ancona, la nobile citate. Como missore Galeotto sentìo lo legato approssimare nella contrata, granne moititudine, più de tre milia cavalieri, adunao. Iessìo fòra de Ancona. Venne a Racanati incontra allo legato. Era con missore Galeotto Gentile da Mogliano da Fermo con moiti aitri caporali della Marca. Mannao allora dicenno allo legato che soa venuta non era utile, non poteva colli Malatesti balanciare o guadagnare. Lo legato a queste paravole respuse, scrisse in una carta sole queste paravole: "Da buoni guerrieri buoni pattieri, da buoni pattieri buoni guerrieri". Respuse missore Galeotto: "Di' allo legato: tanta iente non pericoli. Io voglio commattere collo legato in campo a solo a solo". Lo legato respuse: "Va' di': eccome proprio nello campo. Là la voglio proprio con esso, perzona a perzona. Non se parta". Respuse missore Galeotto: "Va' di' a monsignore lo legato ca io non la voglio da perzona a perzona con esso, ca, se io lo vencessi, ià io pèrdera; ché lui ène omo veterano, prelato, atto a sola paternitate". Trovaose allora collo legato uno gentilotto della Marca: Nicola da Buscareto aveva nome. Questo Nicola da Buscareto, essenno presente a queste ammasciate, disse: "Signore lo legato, e non conoscete la rottura delli Malatesta? Non te accuorii ca nelle paravole soie missore Galeotto è rotto e perduto? Non te pò contrastare. Noi avemo vento. Legato, infesta e non finare de turvare li Malatesta de Rimino; ché Galeotto ià ène convento, lo core li manca. Questo me demustra lo sio favellare". Per le paravole de Nicola da Buscareto lo legato fu acceso de persequitare li Malatesti. Avea con seco lo legato bona iente assai, moiti caporali, partisciani della Marca, missore Lomo da Esi, Iumentaro dalla Pira, lo signore de Cagli, missore Redolfo de Camerino, Esmeduccio de Santo Severino. Anco avea la nobile iente todesca che·lli donao lo imperatore. Era per quelli dìi in Roma Carlo imperatore, de cui se dicerao. Avea presa la corona. Tutta Toscana, Lommardia e Romagna, Alamagna li fece omaio. A questo imperatore lo legato domannao sussidio. Lo imperatore li mannao li cavalieri li quali mannati li aveva lo Communo de Peroscia e de Fiorenza. Anco baroni della Alamagna moito provati missore Carlo li mannao. Intanto lo legato con soa iente se era assemmiato in campo. Missore Galeotto Malatesta redutto se era in una forte terra, la quale se dice Paturno, fra Macerata e Ancona, quanno ecco sùbito che dereto li veniva la nobile iente imperiale, Todeschi e Toscani, conti della Alamagna, usati a guerra, moiti cimieri, loro cornamuse sonanno, loro naccari. De caminare non avevano posato. Como missore Galeotto sentìo lo aiutorio allo legato venire, perdìo la mente e·lla virtute. Non se poteva aiutare. Chiamaose vento, confessaose presone, domannao mercede allo legato. Lo legato lo abbe nelle soie mano presone con tutta iente soa. Missore Malatesta per recomparare lo frate fece obedienzia allo legato. Rennéoli liberamente la citate de Ancona e tutte le terre che teneva in la Marca. Rennéoli quelle che teneva in Romagna. Allora la Chiesia guadagnòe la nobile citate de Ancona, terra portuosa, collo mare, colle mercatantie, colli moiti provienti. Là fece doi bellissime rocche fi' in lo dìe de oie. Puoi fece uno sio nepote marchese e mannaolo a Macerata per correttore della Marca. Puoi connescese e descretamente provedéo alli Malatesti, che potessino vivere onorata e ientilemente de loro frutto. Lassaoli quattro bone e famose citate, Arimino, Fano, Pesaro e Fossambruno, quattro notabile e poterose terre. Puoi li fece capitanii della Chiesia contra alli rebelli. Po' queste cose movèose a maiuri fatti e movimenti fare. Era in Romagna un perfido cane patarino, rebello della santa Chiesia. Trenta anni stato era scommunicato, interditto sio paiese senza messa cantare. Moite terre teneva occupate della Chiesia, la citate de Forlì, la citate de Cesena, Forlimpuopolo, Castrocaro, Brettonoro, Imola e Giazolo. Tutte queste teneva e tiranniava, senza moite aitre castella e communanze le quale erano de paiesani. Era questo Francesco omo desperato. Avea odio insanabile a prelati, recordannose che ià fu male trattato dallo legato antico, missore Bettrannio dello Poietto, cardinale de Uostia, como de sopra ditto ène. Non voleva de cetero vivere a descrezione de prieiti. Staieva perfido, tiranno ostinato. Questo Francesco, quanno sentìo le campane sonare alla scommunicazione, de sùbito fece sonare le aitre campane e scommunicao lo papa e·lli cardinali. E che peio fu, fece ardere e papa e cardinali in piazza, li quali erano pieni de carta e de fieno. Staienno a rascionare colli ientili amici suoi diceva: "Ecco ca simo scommunicati. Non per tanto lo pane, la carne, lo vino che bevemo non ce sao buono, non ce fao prode". Delli prieiti e delli religiosi tenne questa via. Fatta la scommunicazione per lo vescovo, lo vescovo, receputa alcuna iniuria, vituperosamente se assentao. Allora lo capitanio costrenze la clericia a celebrare. Celebrano li moiti essenno interditti, quattordici chierici religiosi, sette seculari. Otto, li quali non voizero celebrare, recipero lo santo martirio. Sette ne fuoro appesi per la canna, sette ne fuoro scorticati. Era incarnato con Forlivesi, amato caramente. Demostrava muodi como de pietosa caritate. Maritava orfane, allocava poizelle, soveniva a povera iente de soa amistate. Vengo alla guerra. Don Gilio Conchese de Spagna fece sio fonnamento e residenzia in Ancona. E per avere più fortezza bannìo la crociata. Io la odìi predicare. Remissione de pena e colpa a chi prenneva la croce o chi faceva aiutorio. Ora ne veo lo legato sopra allo cane capitanio de Forlì, Francesco delli Ordelaffi. 'Nanti che lo campo fusse puosto, apparecchiaose tutte cose necessarie all'oste. Lo legato mannao vescovi e cavalieri e aitra iente bona, che predicassino lo capitanio che non volessi perseverare in tale errore. La predicazione quetamente odìo. La notte iessiva fòra de Forlì e predava terre della Chiesia. Menava preda e presoni. Aitra resposta non faceva. Lo legato, conoscenno lo animo indurato de Francesco delli Ordelaffi, puse lo campo sopra la citate de Cesena. Li Malatesti erano caporali e connuttori dell'oste. Dodici milia fuoro li crociati, trenta milia li sollati. Doi uosti fuoro, onneuno per sé. Fece l'oste granne guasto e dannaio. A suono de trommetta tre milia guastatori con banniere se ponevano e levavano dallo guasto. Res digna memoratu. Intanto lo santo patre mannao lettere espresse, che don Gilio tornassi in Provenza. La cascione fu che·llo conte de Savoia con granne compagnia, da tre milia varvute, iva guastanno tutta la Provenza. Prenneva terre, derobava e revennevase l'uomini. 'Nanti che don Gilio se partissi, venne un aitro legato, omo de Francia, abbate de Borgogna, prevennato de granne frutto, moito potente e sufficiente perzona. Aveva lo capitanio un sio figlio, nome missore Ianni. Avevane un aitro, nome missore Ludovico. Questo gito denanti a sio patre, umilemente lo pregava e disse: "Patre, per Dio, te piaccia de non volere contennere colla Chiesia e non volere contrastare a Dio. Facciamo le commannamenta, siamo obedienti. So' certo ca lo legato ène descreto. Como bene hao trattato li Malatesti, così bene trattarao noi. Tanto ce lassarao, che bene onoratamente poteremo vivere". Alle paravole umile lo supervo patre disse: "Tu fusti biscione overo me fusti scagnato alli fonti". Lo figlio, sentenno la subitezza dello patre, partivase denanti, dava la voita. Allora lo patre li iettao dereto un cortiello luongo, nudo, e ferìolo nelli reni; della quale feruta Ludovico sio figlio morìo 'nanti mesa notte. Mentre che lo legato abbate se assediava alla guerra, missore Egidio non lassava que fare. Forte guerria sopra Cesena. Lassao tre battifuolli, dieci miglia da longa ciascuno. Li legati tornaro ad Arimino. In Cesena staieva madonna Cia, la moglie dello capitanio de Forlì, con suoi nepoti e con granne forestaria drento dalla rocca. A questa madonna Cia lo capitanio scrisse una lettera. La lettera diceva così: "Cia, aiate bona e sollicita cura della citate de Cesena". Madonna Cia respuse in questa forma: "Signore mio, piacciave de avere bona cura de Forlì, ca io averaio bona cura de Cesena". Iterato lo capitanio scrisse un'aitra lettera. La sentenzia era questa: "Cia, de nuostro commannamento fa' che tagli la testa a quattro populari de Cesena, cioène Ianni Zaganella, Iacovo delli Vastardi, Palazzino e Vertonuccio, uomini guelfi delli quali avemo suspizione". La donna, receputa la lettera, non curze sùbito alla sentenzia, anco esquisitissima con diligenzia spiao della connizione de questi quattro citatini e trovao che erano bone e fidele perzone. Specialemente la donna abbe consiglio de doi fidelissimi amici dello marito, cioène Scaraglino, nobile omo, e Iuorio delli Tumberti. A questi mustra la lettera. La resposta de questi fu questa: "Madonna, noi non vedemo cascione per la quale questi deano perdere la vita. Non sentimo che aitra novitate movano. Se questi perdissino la vita, fora pericolo che lo puopolo se desdegnassi. Passa dunque per mo' de questo iudicio fare. Noi intanto starremo attenterosi e porremo cura alli atti e muodi loro. Quanno vedessamo alcuno male semmiante, li 'nanti farremo, comprenneremoli e con manifesto iudicio loro torremo la perzona". La donna assentìo allo consiglio delli doi nuobili fideli de sio marito. Soprastettese de novitate fare. Questo trattato fu de secreto e de secreto fu revelato a questi quattro. Allora questi quattro tiengo nuovo trattato, penzano de revoitare la citate sottosopra. Ianni Zaganella deo l'ordine intra li amici suoi. Con un sio ronzinetto cavalcava per la terra, questo e quello sollicitava. Una dimane, como la cosa era recente, Iacovo delli Vastardi curre colla vicinanza alla porta, la quale se dice porta della Troia, e sì·lla prese. Vertonuccio e Palazzino fecero puopolo e sbarraro la citate. Puoi mannaro doi iumentari alli Ongari che staievano a Savignano nello vattifolle. Celeriter illi vadunt. Quanno madonna Cia odìo lo romore, sappe che se levava puopolo, sùbito fece armare soa forestaria, sollati da cavallo e da pede. Commannao che curressino la citate. Ma ciò fare non se poteva, che·lla terra staieva sbarrata, lo puopolo armato, la porta della terra presa, li torri rencastellati. E che peio fu, li cavalieri venivano in succurzo allo puopolo. Là, nella calata dello sole, ottociento arcieri de Ongaria, li quali staievano in Savignano in lo vattifolle, venivano volanno, iente veloce, attesi a guerra. Non entraro in Cesena, ma ivano intorno alla citate, ora innanti, ora in reto, per dare core alli citatini. Ciò vedenno madonna Cia se retrasse a reto soa forestaria e renchiusese nello cassaro, e là se sostenne. Quello cassaro parte della citate ène e forte murato intorno. Hao drento la piazza dello Communo, lo palazzo e·lla torre, hao drento granne avitazio de parziali. È luoco alquanto aito, soprastao alla citate che iace piana. Irata madonna Cia de questa perdenza convertìo la sia ira in li doi consiglieri amicissimi dello marito, Iuorio delli Tumberti e Scaraglino, feceli decollare. Quodfactum maritus improbavit. Postera die, luce orta, ecco li Malatesti venire collo granne succurzo, colla moita potenzia. Datali la porta della Troia, entrano in Cesena. Ora stao assediata madonna Cia in la rocca. Allora fu rennuto lo castiello Fiumone. Li Malatesti faco aspero vattagliare alla rocca. Faco badalucchi, iettano drento fuoco, levano trabocchi, iettano prete e sassi assai. Non faco utilitate alcuna. Era drento l'acqua. Era drento la mastra torre sopra la porta dello cassaro. Commannao lo legato la cavata, opera faticosa de moita spesa e longa. Fatta la cavata sotto la cisterna, la cisterna fu rotta, l'acqua fu perduta. Puoi ionze la cavata sotto la mastra torre della piazza. Messo fuoco alli pontielli, la torre con granne romore e ruvina cadde. Ora se fao la cavata alla torre sopra la porta donne era la entrata in lo cassaro. Madonna Cia irata de ciò non sapeva que·sse fare. Prese delli citatini che·lli parze drento dello cassaro, de quali più dubitava, e miseli in quella torre sopra la porta e disse: "Se la torre cade, cada sopre de voi". La torre staieva in pontielli, tremava. Lo legato, don Gilio, passava per la contrada con granne compagnia, veniva per vedere la connizione de Cesena, l'opera della cavata e·llo appuosto dello assedio. Allora da cinqueciento donne de Cesena iessiro fòra scapigliate, sfesse dallo pietto. Piagnenno, lamentanno facevano granne romore. Inninocchiate 'nanti allo legato demannavano mercede. Inscius legatus della cascione de sì amaro pianto domannao perché questo facevano. Respusero le donne: "Legato, in la torre sopra la porta soco renchiusi nuostri mariti, fratelli e parienti. La cavata è fornita. Se la torre cade, l'uomini so' perduti. Donne per Dio te pregamo che tardi de mettere fuoco in li pontielli". Lo legato sùbito conubbe che madonna Cia dubitava de si, ca era rotta nello animo. Abbe trattato e a soie mano abbe li Cesenati messi nella torre. Messo fuoco nella torre, la torre cadde con parte dello girone. Allora lo guado fu libero per entrare. Non per ciò che alcuno entrassi con furore, ma de piano consenzo. Lo legato abbe alle soie mano madonna Cia con un sio figlio e doi suoi nepoti. Recusao madonna Cia essere liberata, temenno la subitezza de sio marito, anco con instanzia pregao che·lla Chiesia la servassi. Tre milia fiorini gostava lo dìe li mastri delle cavate e delli trabocchi e delli aitri artificii. Dodici milia fiorini gostao lo dìe li sollati. Lo legato entrao in Cesena e mantenne la terra per la Chiesia. Questo è lo muodo che la citate de Cesena in Romagna fu guadagnata. Ora se para, lo legato sopra la citate de Forlì. Primo ordinao l'oste granne e copiosa. Intanto saputo che fu della presonia de madonna Cia, la quale era mannata in Ancona in guardia, una soa figliola, donna nobile, maritata ad uno granne marchisciano, venne denanti allo patre lacrimanno, colle vraccia piecate. Inninocchiata parlao e disse: "Patre e signore mio, piacciate che così fatta donna, madonna matrema, non stea in mano altruie como presoniera. Pregote, fa' la voluntate della santa Chiesia". A queste paravole lo capitanio aitra resposta non deo, se non che prese questa soa figlia per le trecce e con un cortiello li partìo la testa dallo vusto. Po' la presa de Cesena lo legato mannao allo capitanio, dicenno così: "Capitanio, rienni quello che tio non è. Io te renno toa donna, figlioto e nepoteti". A queste paravole lo capitanio deo questa resposta: "Dicete allo legato ca io credeva che fussi savio omo. Oramai lo tengo per una vestia pazza. Dicete che se io avessi auto in presone esso, tre dìi passati so' che io l'àbbera appeso per la canna, como esso ave auto le cose mie". Indurato lo animo de sì perverzo eretico patarino, don Gilio, lo legato antico, se partìo e gìone in Provenza. Como la compagnia sentìo approssimare don Gilio alle finaite, così se delequao como fao la poca neve a fervente sole. Remase lo legato noviello, missore [...] abbate de Borgogna. Questo legato fece l'oste pentolosa sopra de Forlì. Per moiti anni vannìo la crociata, e fu predicata la croce per tutta Italia. Mozzava lo grano e tagliava le vigne, arbori e oliveta. Bussava ad onne ponto, ad onne ora. Per questa fervente guerra lo capitanio perdìo Favenza e·lli Manfredi, suoi consuorti, iurati con esso. Anco perdìo Bertonoro. Allora se restrenze drento a Forlì, nello forte. In questo assedio sopra Forlì fuoro presi assai voite delli crociati, li quali per meritare erano iti a commattere contra de quelli scismatici. Li crociati presi erano menati denanti a Francesco, lo quale diceva queste paravole: "Voi portete la croce. La croce ène de panno. Lo panno se infracida. Io voglio che portate croce che non se infracidi". Allora era apparecchiato un fierro cannente in forma de croce. Questo fierro li poneva sotto alla pianta delli piedi e così li lassava derobati ire. Moiti aitri crociati prese, alli quali disse queste paravole: "Site venuti per guadagnare l'anima. Se ve lasso, forza tornarete alli primi vuostri peccati. Meglio ène che in questa tenerezza, mentre site contriti, morate. Dio ve reciperao nella soa citate". Ciò ditto, li faceva scorticare, appennere, decapitare e aghiadiare, tenagliare, de diverzi martirii morire. La guerra durao anni moiti. Per questa guerra mantenere fu predicata la crociata moite fiate. Mode novamente che curre anno Domini MCCCLVII[I], de iennaro, nella citate de Tivoli fu predicata. His ferme diebus Iohannes rex Francie captus est a filio regis Anglie bello magis tumultuario quam militari apud villam que dicitur [...] ductusque in Angliam sub custodia annis ferme duobus. Tandem cum magno sui detrimento et regni evasit.

Cap. XXVII

Como missore Nicola de Rienzi tornao in Roma e reassonse lo dominio con moite alegrezze e como fu occiso per lo puopolo de Roma crudamente.

Currevano anni Domini MCCCLIII[I], lo primo dìe de agosto, quanno Cola de Rienzi tornao a Roma e fu receputo solennissimamente. Alla fine a voce de puopolo fu occiso. La novella fu per questa via. Puoi che Cola de Rienzi cadde dallo sio dominio, deliverao de partirese e ire denanti allo papa. 'Nanti la soa partita fece pegnere nello muro de Santa Maria Matalena, in piazza de Castiello, uno agnilo armato coll'arme de Roma, lo quale teneva in mano una croce. Su la croce staieva una palommella. Li piedi teneva questo agnilo sopra lo aspido e lo vasalischio, sopra lo lione e sopra lo dragone. Pento che fu, li valordi de Roma li iettaro sopra lo loto per destrazio. Una sera venne Cola de Rienzi secretamente desconosciuto per vedere la figura 'nanti soa partenza. Viddela e conubbe che poco l'avevano onorata li valordi. Allora ordinao che una lampana li ardessi denanti uno anno. De notte se partìo e gìo luongo tiempo venale. Anni fuoro sette. Iva forte devisato per paura delli potienti de Roma. Gìo como fraticiello iacenno per le montagne de Maiella con romiti e perzone de penitenza. Alla fine se abiao in Boemia allo imperatore Carlo, della cui venuta se dicerao, e trovaolo in una citate la quale se appella Praga. Là, denanti alla maiestate imperiale, inninocchiato parlao prontamente. Queste fuoro soie paravole e sio loculento sermone denanti a Carlo re de Boemia, nepote de Enrico imperatore, novellamente elietto imperatore per lo papa: "Serenissimo principe, allo quale è conceduta la gloria de tutto lo munno, io so' quello Cola allo quale Dio deo grazia de potere governare in pace, iustizia, libertate Roma e·llo destretto. Abbi la obedienzia della Toscana, Campagna e Maretima. Refrenai le arroganzie delli potienti e purgai moite cose inique. Verme so', omo fraile, pianta como l'aitri. Portava in mano lo vastone de fierro, lo quale per mea umilitate convertiei in vastone de leno, imperciò Dio me hao voluto castigare. Li potienti me persequitano, cercano l'anima mea. Per la invidia, per la supervia me haco cacciato de mio dominio. Non voco essere puniti. De vostro lenaio so', figlio vastardo de Enrico imperatore lo prode. A voi confugo. Alle ale vostre recurro, sotto alla cui ombra e scudo omo deo essere salvo. Credome essere salvato. Credo che me defennerete. Non me lassarete perire in mano de tiranni, non me lassarete affocare nello laco della iniustizia. E ciò è verisimile, ca imperatore site. Vostra spada deo limare li tiranni. Vedi la profezia de frate Agnilo de Mente de Cielo nelle montagne de Maiella. Disse che l'aquila occiderao li cornacchioni". Puoi che abbe parlato, Carlo destese la mano e recipéolo graziosamente, disse che non dubitassi de alcuno. Quanno ionze in Praga fu lo primo dìe de agosto. Demorao per lo spazio de tiempo alcuno. Desputava con mastri in teologia. Diceva assai. Favellava cose maravigliose. Lengua deserta faceva stordire quelli Todeschi, quelli Boemi e Schiavoni. Abafava onne perzona. In presone non stette, ma con compagnia assai onorata sotto qualche guardia. Assai vino, assai vivanna li era data. Po' alcuno tiempo domannao in grazia allo imperatore de ire in Avignone e comparere denanti allo papa e mostrare como non era eretico né patarino. Moito li contrastao lo imperatore che non isse. Alla fine condescese alla voluntate soa. Diceva Cola de Rienzi: "Serenissimo principe, io voluntario vaio denanti allo santo patre. Dunque, se voi non me mannete per forza, site innocente dello sacramento". Nello ire che faceva per tutte le terre se levavano puopoli e, fatto grege con romore, li venivano denanti. Prennevanollo, dicevano ca lo volevano salvare de mano dello papa. Non volevano che issi. A tutti responneva, diceva: "Io voluntario vaio, non costretto". Rengraziavali e così passava de citate in citate. Per tutta la via li fuoro fatti solienni onori. Quanno li puopoli vedevano esso, maraviglianno l'accompagnavano. E per tale via ionze in Avignone lo primo dìe de agosto. Ionto in Avignone parla denanti allo papa. Scusavase ca non era patarino, né incurreva la sentenzia dello cardinale don Bruno. Voleva stare alla esaminazione. A queste paravole lo papa stette queto. Fu renchiuso in una torre grossa e larga. Una iusta catena teneva in gamma. La catena era legata su alla voita della torre. Là staieva Cola vestuto de panni mezzani. Aveva livri assai, sio Tito Livio, soie storie de Roma, Abibia e aitri livri assai. Non finava de studiare. Vita assai sufficiente della scudella dello papa, che per Dio se daieva. Fuoro esaminati suoi fatti e fu trovato fidele cristiano. Allora fu revocato lo prociesso e·lla sentenzia de don Bruno e dello cardinale de Ceccano, e fu assoluto. E venne in grazia dello papa e fu scapulato. Quanno iessìo de presone fu lo primo dìe de agosto. Deveva venire in Italia uno legato, don Gilio Conchese, cardinale de Spagna. Apparecchiavase e scriveva sia famiglia. Cola de Rienzi con questo legato iessìo de Avignone purgato, benedetto e assoluto. E collo legato passao la Provenza e venne a Montefiascone per recuperare lo Patrimonio, como ditto ène. Delle prime terre che se renniero alla Chiesia fu Toscanella, e·llo cassaro fu vennuto per moneta. Cola de Rienzi se retrovao a prennere la terra per la Chiesia. Puoi se retrovao nello assedio de Vitervo, e retrovaose a tutti quelli fatti de arme da cavalieri. Avea vestimenta assai iuste e oneste, buono cavallo. Non solamente in l'oste, anco in Montefiascone aveva tamanta rechiesa de Romani, che stupore era a dicere. Onne Romano ad esso fao capo. Forte ène visitato. Granne coda de populari se strascinava dereto. Onne iente faceva maravigliare, persi' lo legato, tanto l'appresciava la rechiesa delli citatini de Roma. Per maraviglia lo vedevano. Forte li pareva che campata avessi la vita infra tanti potienti. Alla sopraditta depopulazione de Vitervo, como sopra narrato ène, fuoro Romani. Tornata l'oste, granne partita de Romani trasse a vedere Cola de Rienzi: uomini populari, granne lengue e core; maiure proferte, poche attese. Dicevano: "Torna alla toa Roma. Curala de tanta infirmitate. Sinne signore. Noa te darremo sobalimento, favore e forza. Non dubitare. Mai non fusti tanto demannato né amato quanto allo presente". Queste vessiche li populari de Roma li daievano: non li daievano denaro uno. Per queste paravole mosso Cola de Rienzi, anco per la gloria, la quale naturalemente affettava, penzava de fare alcuno fonnamento donne potessi avere iente e sussidio per Roma entrare. Dissene collo legato. Non li deo denaro uno. Aveva tame ordinato che dallo Communo de Peroscia avessi alcuna provisione, donne poteva iustamente vivere con onore. Questa soa provisione non li vastava a fare sollati. Allora cavalcao e venne a Peroscia, e per presure voite fu nello Consiglio. Bene parlava, bene diceva, meglio prometteva. Assai avevano quelli consiglieri le recchie attente ad odire per la doicezza delle paravole che se lassavano ascoitare. Così se facevano leccare como lo mele. Ma perché li consiglieri staco a scinnicato, convenne fare bona custodia delle cose de sio Communo. Da Communo de Peroscia non potéo ottenere uno cortonese. Retrovarose allora in Peroscia doi iovini provenzali, missore Arimbaldo, dottore de leie, e missore Bettrone, cavalieri de Narba in Provenza, frati carnali. Questi erano frati carnali dello prodo fra Monreale. Fra Monreale fu a fare la guerra dello re de Ongaria. Puoi fu capo della Granne Compagnia. Guastao moite terre in Puglia, arze e refocao moite, assai communanze mise a roba e portaone le femine. In Toscana revennéo Siena, Fiorenza, Arezzo e moite terre. La pecunia partiva fra suoi compagni. Puoi ne passao nella Marca e consumao li Malatesti. Prese per forza Montefilaterano e Filino, dove moriero più de setteciento villani. Arze le terre e derobaole. Revennéo li uomini e portaone le donne, quelle che apparenza avevano. Era feriero de Santo Ianni, omo sollicito e prodo, della cui prodezza se dicerao. Questo avea acquistata de moita pecunia per le robbarie, per le prede. Avea tanta moneta, che poteva sufficientemente vivere ad onore senza ire più sollato. Connusse questi doi suoi fratelli in Peroscia e feceli dare provisione dallo Communo. La soa moneta deo alli mercatanti e commannao alli frati che avessino fra loro pace, non fecessino contenzione; ché, puoi che·lli aveva allocati, intenneva de servire allo abito sio. Gìo fra Monreale aitrove per aitri suoi mestieri fare. Puoi che Cola de Rienzi sentìo demorare in Peroscia missore Arimbaldo de Narba, omo iovine, perzona letterata, abiaose allo sio ostieri e voize con esso pranzare. Sumpto cibo, mette mano Cola de Rienzi a favellare della potenzia de Romani. Mistica soie storie de Tito Livio. Dice soie cose de Bibia. Opere la fonte de sio sapere. Deh, como bene parlava! Tutta soa virtute opere in lo rascionare. E sì de ponto dice, che onne omo abafa soa bella diceria, leva de piedi onne omo. Teo la mano alla gota e ascoita con silenzio Missore Arimbaldo. Maravigliaose dello bello parlare. Ammira la magnitudine delli virtuosi Romani. Incalescente vino, monta lo animo in aitezze. Lo fantastico piace allo fantastico. Missore Arimbaldo senza Cola de Rienzi non sao demorare: con esso stao, con esso vao. Uno civo prienno, in uno lietto posano. Penzano de fare cose magne, derizzare Roma e farla tornare in pristino sio. A ciò fare bisognava moneta. Senza sollati non se pò fare. A tre milia fiorini sallìo la mastice. Fecese promettere tre milia fiorini, e esso promise de rennerelli, e per merito promise farlo citatino de Roma e granne capitanio onorato, a despietto dello frate, missore Bettrone. Anco dello mercatante toize dello puosto quattro milia fiorini e deoli a Cola de Rienzi. 'Nanti tame che missore Arimbaldo assenassi questa moneta a Cola de Rienzi, voizene avere licenzia de sio maiure frate, frate Monreale. Mannaoli una lettera. La sentenzia era questa: "Onorato fratello, più aio guadagnato io in uno dìe che voi in tutto tiempo de vostra vita. Io aio acquistato la signoria de Roma, la quale me promette missore Nicola de Rienzi cavalieri, tribuno, visitato da Romani, chiamato dallo puopolo. Credo che lo penzieri non verrao fallato. Vego ca collo aiutorio dello ignegno vuostro lo mio stato non serrao rotto. Bisogna in ciò moneta per incomenzare. Quanno piacerao alla vostra fraternitate, io tollo quattro milia fiorini dello puosto e con potenzia armata me camino a Roma". Fra Monreale, lessa la lettera de sio frate, rescrisse. Lo tenore de soa scrittura era questo: "Granne ora me aio penzato sopra la opera la quale intienni. Granne e importavile peso ène quello che vòi fornire. Nello animo mio bene non cape che te venga fatto. La mente non ce vao. La rascione me·llo contradice. Nientemeno fate voi e facciate bene. Imprimamente hai guardia che·lli quattro milia fiorini non se perdano. Se ve scontrasse alcuna cosa sinistra, scrivateme. Verraio con succurzo, con milli, doi milia perzone, quante bisognaraco, e farraio le cose magnifiche. Non dubitete. Tu e tio frate ameteve e onoreteve, non fate romore". Missore Arimbaldo, receputa la lettera, fu lieto assai. Mise in ordine collo tribuno dello caminare. Puoi che Cola de Rienzi abbe li quattro milia fiorini, vestìose riccamente de più robbe, adobaose a senno dello savio sio ornatamente: gonnella, guarnaccia e cappa de scarlatto forrata de varo, infresata de aoro fino, pistiglioni de aoro, spada ornata in centa, cavallo ornato, speroni de aoro, famiglia vestuta nova. Così adorno ne tornao a Montefiascone denanti allo legato. Menava per compagnia missore Bettrone e missore Arimbaldo de Narba fratelli, con famiglie e cose. Quanno fu denanti allo legato, faceva dell'altiero. Mustravase gruosso con sio cappuccio in canna de scarlatto, con cappa de scarlatto, forrati de panze de vari. Stava supervo. Capezziava. Menava lo capo 'nanti e reto, como dicessi: "Chi so' io? Io chi so'?" Puoi se rizzava nelle ponte delli piedi; ora se aizava, ora se abassava. Maravigliase lo legato e deo alquanto fede alle soie paravole. Puro non li deo denaro uno. Allora parlao Cola e disse: "Legato, famme senatore de Roma. Io vaio e parote la via". Lo legato lo fece senatore e mannaolo via. A potere venire a Roma bisognava iente. De noviello missore Malatesta de Arimino aveva cassati li sollati suoi, da sedici banniere, bona iente, doiciento cinquanta varvute. Demoravano in Peroscia per trovare suollo. Per questa iente avere mannao Cola de Rienzi sio messaio. Lo messaio trovao li conestavili e disse così: "Prennete suollo per doi mesi. Recepate per uno la paca. Averete suollo in perpetuo. Connucerete missore Nicola de Rienzi a Roma, senatore per lo papa". A queste paravole li conestavili fuoro in consiglio. La sentenzia delli Todeschi fu de non ire. Assenavano tre cascioni. La prima: "Romani soco mala iente, supervi, arroganti, non haco paro". La secunna: "Questo ène omo popularo, povero, de vile connizione. Non averao da pacare. Dunqua a chi serviremo noa?" La terza: "Li potienti de Roma non voco lo stato de questo omo. Tutti ne serraco nimici, ca·lli despiace mo'. Dunqua questo suollo non prennamo. La annata a Roma non fao per noa". Da vero questa fu la resposta delli Todeschi, e fu vera. Soco Todeschi como descengo dalla Alamagna semplici, puri, senza fraude. Como se allocano fra Italiani deventano mastri coduti, viziosi, che siento onne malizia. Alli Todeschi respuse uno conestavile borgognone e disse: "Prennamo questi denari novielli sollacciati per uno mese. Tornaremo lo buono omo in soa casa. Scorgamolo in Roma. Guadagnaremo la perdonanza. Chi vorrao tornare tornarao, chi vorrao remanere remanerao". Questa sentenzia venze. Le sedici banniere presero suollo da Cola de Rienzi. Questa iente da cavallo abbe. Abbe anco alquanti Peroscini, figli de buoni uomini. Abbe anco da ciento fanti toscani masnadieri con corazzine da suollo, nobile e bella brigata. Con questa iente descenne per Toscana, passa valli e monti e locora pericolose. Senza reparo ionze ad Orte. Allora la soa venuta fu sentuta a Roma. Romani se apparecchiavano a receperelo con letizia. Li potienti staievano alla guattata. Da Orte se mosse e ionze a Roma, anno Domini MCCCLIII[I]. La cavallaria de Roma li iessìo denanti fi' a Monte Malo colle frasche delle olive in mano in segno de vettoria e pace. Iessìoli lo puopolo con granne letizia, como fussi Scipione Africano. Fuoro fatti archi triomfali. Entrao la porta de Castiello. Per tutta piazza de Castiello, per lo ponte, per la strada fuoro fatte arcora de drappi de donne, de ornamento de aoro e de ariento. Pareva che per la letizia tutta Roma se operissi. Granne ène la alegrezza e·llo favore dello puopolo. Con questo onore fu menato fi' allo palazzo de Campituoglio. Là fece sio bello e luculento parlare e disse ca sette anni era ito spierzo fòra de soa casa, como gìo Nabuccodonosor, ma per la potenzia dello virtuoso Dio era tornato in soa sede senatore per la vocca de papa. Non che esso fussi sufficiente; la soa vocca lo poteva sufficiente fare. Aionze che intenneva rettificare e relevare lo stato de Roma. Allora fece capitanii de guerra missore Bettrone e missore Arimbaldo de Narba e donaoli lo confallone de Roma. Fece cavalieri uno Cecco de Peroscia sio consigliero e vestìolo de aoro. Granne festa li Romani li fecero, como fecero li Iudiei a Cristo, quanno entrao in Ierusalem a cavallo nella asina. Quelli lo onoraro destennennoli 'nanti panni e frasche de oliva, cantanno"Benedictus qui venis!" Alla fine tornaro a casa e lassarolo solo colli discipuli nella piazza. Non fu chi li proferissi uno povero magnare. Lo sequente dìe Cola de Rienzi abbe alcuno ammasciatore delle vicinanze intorno. Deh, como bene responneva! Dava resposte e promissioni. Apparecchiavase de ferventemente guidare. Li baroni staievano alla guattata, a que reiessiva. Lo stormo dello triomfo era granne. Moite banniere. Mai non [fu] tanta pompa. Fanti con duridaine de·llà e de cà. Per bene pare che voglia per tirannia guidare. Delle soie cose che perdìo le moite li fuoro rassenate. Mannao commannamenti e lettere per le terre e·llo destretto de soa felice tornata. Vole che ciascuno se apparecchi a buono stato. Era questo omo fortemente mutato dalli primi suoi muodi. Soleva essere sobrio, temperato, astinente. Ora deventato destemperatissimo vevitore, summamente usava lo vino. Ad onne ora confettava e veveva. Non ce servava ordine né tiempo. Temperava lo grieco collo fiaiano, la malvascia colla rebola. Ad onne ora era dello vevere più fiesco. Orribile cosa era potere patere de vederlo. Troppo veveva. Diceva che nella presone era stato accalmato. Anco era deventato gruosso sterminatamente. Aveva una ventresca tonna, triomfale a muodo de uno abbate asiano. Tutto era pieno de carni lucienti como pagone, roscio, varva longa. Sùbito se mutava nella faccia, sùbito suoi uocchi se·lli infiammavano. Mutavase de opinione. Così se mutava sio intellietto como fuoco. Aveva li uocchi bianchi: tratto tratto se·lli arrosciavano como sangue. Stato che fu nello palazzo de Campituoglio, lo più aito, dìi quattro, mannao per la obedienzia a tutti li baroni. Fra li aitri rechiese Stefano della Colonna in Pellestrina. Questo Stefanello remase piccolo guarzone po' la morte dello patre Stefano e de Ianni Colonna sio frate, como ditto ène. Redutto s'è ora in Pellestrina allo forte. A questo Stefanello mannao doi citatini de Roma, Buccio de Iubileo e Ianni Cafariello, per ammasciatori, che devessi obedire li commannamenti dello santo senato, sotto pena de soa ira. Questi ammasciatori Stefanello retenne e alcuni de essi mise in oscuritate. Anco li trasse uno dente e connannaoli in quattrociento fiorini. Lo sequente dìe curze li campi de Roma con suoi arcieri e briganti. Tutto lo vestiame ne menava. Lo romore se levao per Roma. La mormoranza ne venne allo tribuno della preda de Romani che se ne iva. Allora lo tribuno cavalcao con suoi pochi famigli. Solo iessìo la porta. Li sollati lo sequitaro, tale armato, tale no, secunno che lo tiempo pateva. Curzero da porta Maiure, via de Pellestrina, per avia, per locora salvatiche, deserte. La tratta fu vana, inutile. Non trovaro né omo né vestia né arcieri. Li arcieri e·lli fanti de Pellestrina dotti de guerra per moite fiate descretamente avevano connutta la preda e nascostala in una selva, la quale se chiama Pantano, che iace fra Tivoli e Pellestrina. Là se tennero queti. La notte saviamente quella preda trassero da Pantano e salvarola in Pellestrina. Cercato che abbe moito la iente dello tribuno, non trovanno cosa alcuna, perché la notte era, venne alla citate de Tivoli. Là posao. Fatta la dimane, la novella ionze che le vestie de Romani erano tratte da Pantano e connutte in Pellestrina. Allora lo tribuno irato disse: "Que iova de ire de là e de cà per locora senza vie? Non voglio più scelmire cosa della Colonna. Alle mano voglio essere". Quattro dìi in Tivoli stette. Mannao suoi editti. Espeditamente fece venire da Roma la romana cavallaria, tutti li sollati da cavallo e·lli fanti masnadieri. Era vivace de scrivere. Staieva sio stennardo in Tivoli con soa arme de azule a sole de aoro e stelle de ariento e coll'arma de Roma. Forte cosa! Quello stennardo non era lucente como era prima; staieva miserabile, fiacco, non daieva le code allo viento regoglioso. Venuto lo stuolo de suoi sollati, le moite banniere, cornamuse e trommette assai, venuti missore Bettrone e missore Arimbaldo, li quali li aveva fatti capitanii de guerra generali, li sollati se mormoravano, ca volevano la paca. Li conestavili todeschi demannavano moneta, ché loro arme staievano in pegno. Moite scuse trovao. Non valeva più la fuga. Vedi bella lerciaria che fece alli suoi capitanii. Abbe missore Bettrone e missore Arimbaldo e disseli: "Trovo scritto nelle storie romane che non era moneta in Communo de Roma per sollati. Lo consolo adunao li baroni de Roma, disse:"Noa che avemo li offizii e·lle dignitate siamo li primi a dunare quello che ciascheuno pò de bona voluntate". Per quello duno fu adunata tanta moneta, che iustamente la milizia fu pacata. Così voi doi comenzete a dunare. La bona iente de Roma vederao che voi forestieri dunate. Serrao pronta a dunare. Averemo denari a furore". Li capitanii allora li dunaro milli fiorini, cinqueciento per uno, in doi vorze. Quella pecunia lo tribuno compartio alli sollati. Alla fantaria deo mesa paca de moneta de tevertini. Puoi adunao puopolo nella piazza de Santo Lorienzo de Tivoli e fece soa bella diceria. Disse como era ito venale anni sette, como fu in grazia de Carlo imperatore, lo cui aiutorio de prossimo aspettava. Disse como fu in grazia dello papa a despietto de Colonnesi suoi nemici. Mo' era per lo papa senatore de Roma, non lassato guidare per la tirannia de Colonnesi, per Stefanello serpente venenoso, ionco vallico. Dunque intenneva de desertare casa della Colonna e farli peio che quello che prima li fece aitra voita. Casa maladetta, ché per la loro supervia terra de Roma vive in povertate. Le aitre contrade vivo in ricchezza. Puoi aionze e disse: "Voglio fare l'oste sopra Pellestrina e farli lo guasto generale. Dunqua prego voi Tevertini che de buono core ce accompagnete, in tanta necessitate ce sovengate, non ce abannonete". Questa diceria fu fatta nello parapietto delli Palloni. Fatta questa diceria, lo sequente dìe mosse la fantaria forestiera, mosse tutta soa cavallaria e·llo puopolo de Tivoli con grascia e con arnese ad oste, e gìone a Castiglione de Santa Perzeta. Là posao dìi doi. Là se adunao la iente tutta. Puoi se mosse lo sequente dìe e fu sopra Pellestrina con tutto sio sfuorzo, anno Domini MCCCLIII[I], de mese [...], dìe [...] Assediao Pellestrina e allocao lo tribuno l'oste a Santa Maria della Villa, doi miglia da longa dalla citate. Là fuoro milli cavalieri fra Romani e sollati, fu lo puopolo de Tivoli e de Velletri, e·lle masnate delle communanze intorno e della badia de Farfa, e de Campagna e della Montagna. Puosto lo assedio, ciasche perzona cobelle faceva. Solo esso Cola de Rienzi de continuo aveva l'uocchi sopra Pellestrina. Aizava la testa e resguardava lo aito colle, lo forte castiello, e considerava per quale muodo potessi confonnere e derovinare quelle edificia. Non levava lo sguardo de·llà. Diceva: "Questo è quello monte lo quale me conveo appianare". Spesso anco, continuo guardanno e non movenno lo penzieri sio da Pellestrina, vedeva che per la parte de sopra vestiame veniva da pascere e entrava la porta de sopra per abbeverare, puoi tornava alli pascoli. Anco vedeva da l'aitra porta de sopra entrare uomini con salmarie, con some. Vedeva la traccia longa delli vetturali che venivano con fodere in Pellestrina. Allora domannava quelli li quali staievano seco e diceva: "Quelli somarieri que voco dicere?" Responnevano quelli che con esso staievano: "Senatore, quello vestiame veo da pascere e torna in Pellestrina a l'acqua per vevere. Quelli uomini portano farina e grascia per infoderare la terra che non affamassi". Allora responneva e diceva: "Diceteme, non se pòterano pigliare li passi, che questo vestiame sì liberamente non issi a pastura e quelli non portassino fodere?" Responnevano li meno liali Romani e dicevano: "Tanta è la fortura delli monti de Pellestrina, che quelle entrate de sopra e quelle iessite non se·lli puoco vetare. Tanta è la salvatichezza de questo luoco, che nulla oste là pòtera demorare". Ma non era così. Anco era la cruditate delli baroni de Roma, li quali staievano a vedere que ne iessiva, non ce volevano operare. Allora lo tribuno disse queste paravole: "Mai non te lento fi' che non te consumo, Pellestrina. E se io po' la sconfitta de Colonnesi a porta de Santo Lorienzo avessi cavalcato collo puopolo de Roma, in questa terra liberamente entrava senza contradizzione. Ià fora deruvinata. Io non sostènnera allo presente questo affanno. Lo puopolo de Roma vìssera in pace reposato". Allo secunno dìe che l'oste posta fu, fu comenzato lo guasto e fu depopulato tutto lo ogliardino de Pellestrina, tutto lo piano fi' alla citate. Non remase aitro che la parte de sopra, meno che·llo terzo. Quello poco non fu depopulato, perché alli dìi otto l'oste se partìo. E questa partenza fu per doi cascioni. La prima, che Velletrani erano odiosi con Tevertini. Subitamente se mettevano dentro in Pellestrina. Per tale via fuoro auti sospietti che·lla baratta non se levassi nell'oste. La secunna cascione fu che·lla fante de missore [...] [...] "Sostenga qui uno o doi de noi, lassi ire mi. Io li farraio venire dieci milia, vinti milia fiorini e moneta e iente quanta li piace. Deh, faccialo per Dio!" A queste paravole non trovava tutore alcuno. Fatta la notte, preso da primo suonno fra Monreale fu menato allo tormento. Quanno vidde la corda, desdegnato con mormorazione disse: "Ià ve aio bene ditto che voi rustichi villani site. Voleteme ponere allo tormento. Non vedete che io so' cavalieri? Como è in voi tanta villania?" Puro un poco fu aizato. Allora disse: "Io so' stato capo della Gran Compagnia. E perché so' cavalieri, so' voluto vivere ad onore. Aio revennute le citati de Toscana, messali la taglia, derupate terre e presa la iente". Allora fu tornato nello luoco delli suoi fratelli, intro li ceppi, redutto in restretto fra suoi fratelli. Conubbe che morire li conveniva. Domannao penitenza, e per tutta notte abbe con seco uno frate lo quale lo confessava. E così ordinao tutti suoi fatti. Odenno lo mormuorito de suoi fratelli, ad ora se voitava ad essi, parlava. Queste paravole diceva: "Doici frati, non dubitete. Voi site zitielli iovini, non avete provate le onne della ventura. Voi non morerete. Io moro e de mea morte non dubito. La vita mea sempre fu con trivulazioni. Fastidio me era lo vivere. De morire non dubitava. So' contento, ca moro in quella terra dove morìo lo biato santo Pietro e santo Pavolo, benché nostra desaventura sia per toa colpa, missore Arimbaldo, che me hai connutto qui in questo laberinto. Non perciò questo lasso. Non ve mormorete, non ve dogliate de me, ché io moro volentieri. Omo so', como ciello fui ingannato, como l'aitri uomini so' traduto. Dio me averao misericordia. Fui buono allo munno, serraio buono denanti a Dio, e specialemente non dubito perché venni con intenzione de bene fare. Voi iovini site: temete, ca non avete conosciuto que ène la fortuna. Pregove che ve amete e siate valorosi allo munno, como fui io che me feci fare obedienzia alla Puglia, Toscana e alla Marca". Spesse voite così dicenno, lo dìe se fece. La matina voize odire la messa, e odìola staienno scaizo a nude gamme. All'ora de mesa terza fu sonata la campana e fu adunato lo puopolo. Connutto fra Monreale nelle scale allo lione, staieva inninocchiato denanti a madonna santa Maria. Alle gote teneva uno cappuccio de scuro con uno freso de aoro. Aduosso teneva uno iuppariello de velluto bruno, cosito de fila de auro. Descento era senza alcuno cegnimento. Le caize in gamma de scuro. Le mano legate larghe. Teneva la croce in mano. Tre fraticielli con esso staievano. Mentre che odiva la sentenzia, parlava e diceva: "Ahi Romani, como consentite mea morte? Mai non ve feci offesa, ma la vostra povertate e·lle mee ricchezze me faco morire". Puoi diceva: "Dove so' io cuoito? Per bona fe' diece tanta iente me aio veduta denanti e più che questa non è". Puoi diceva: "So' alegro de morire là dove morìo Pietro e Pavolo. La mea vita senza trivolazione non è stata". Puoi diceva: "Tristo questo male traditore po' la mea morte!" Nella sentenzia fuoro mentovate le forche. Allora stordìo forte e levaose sùbito in piedi como perzona smarrita. Allora quelli che stavano intorno lo confortaro che non dubitassi. Fecero fede che connannato era alla testa. De ciò fu contento, stette queto. Abiato allo piano, per tutta la strada non finava volverse de là e de cà. Parlava e diceva: "Romani, iniustamente moro. Moro per la vostra povertate e per le mie ricchezze. Questa citate intenneva de relevare". Moite cose diceva. A peta a peta la croce basava. Forte se maniava de quello che poteva. Omo operativo, triomfatore, sottile guerrieri. Da Cesari in cà mai non fu alcuno megliore. Questo ène quello lo quale, con fortuna arrivato, ruppe in piaia romana, como ditto ène de sopra della galea sorrenata. Puoi che fu nello piano, là dove fuoro le fonnamenta della torre, fatta la rota intorno, inninocchiase in terra. Puoi se levao e disse: "Io non staio bene". Voitaose invierzo oriente e raccommannaose a Dio. Puoi se inninocchiao in terra, basao lo ceppo e disse: "Dio te salvi, santa iustizia". Fece colla mano una croce sopra lo ceppo e basaola. Trasse lo cappuccio e iettaolo. Posta che li fu la mannara in cuollo, favellao e disse: "Non stao bene". Allora era seco moita bona iente, fra quali era lo sio miedico de piaghe. Questo li trovao la ionta. Puosto lo fierro, allo primo colpo stoizao in là. Pochi peli della varva remasero nello ceppo. Frati minori tuoizero sio cuorpo in una cassa, ionto lo capo collo vusto. Pareva che atorno allo cuollo avessi una zaganella de seta roscia. Fu tumulato in Santa Maria de l'Arucielo lo escellente omo fra Monreale, la cui fama sonao per tutta Italia de virtute e de gloria. In la citate de Tivoli staieva uno domestico sio de sio lenaio, lo quale, odita la morte de sio signore, lo sequente dìe de dolore morìo senza remedio. Muorto questo valente omo, li Romani ne staievano forte afferrati. Allora lo tribuno adunao lo puopolo, favellao e disse: "Signori, non staiate turbati della morte de questo omo, ché ène stato lo peiore omo dello munno. Hao derobato citate e castella, muorti e presi uomini e donne, doi milia femine manna cattive. Allo presente era venuto per turbare nuostro stato e non relevarelo. Cercava de essere libero signore. Esso voleva le grazie fare. Voleva depopulare Campagna e terra de Roma, lo residuo de Italia. Nostra briga bene connuceremo a buono fine colla grazia de Dio. Ma allo presente farremo como fao lo trescatore dello grano: la spulla e·lle scorze voite manna allo viento, le vaca nette se serva per si. Così noi avemo dannato questo faizo omo. La moneta soa, li cavalli, le arme terremo per fare nostra briga". Per queste paravole Romani fuoro alquanto acquetati. Fra tanto una espressa lettera e commannamento venne dallo legato che missore Arimbaldo li fussi mannato sano e salvo. Così fu fatto. Remase sio frate, missore Bettrone, in le catene. Della moneta de fra Monreale abbe lo tribuno gran parte; tutta no, perché missore Ianni de Castiello ne abbe la maiure parte. Allora li nuobili de Roma se guardavano da esso como da traditore, perché non servava fede a sio amico. Allora Cola de Rienzi pacao li sollati espeditamente, da pede e da cavallo, quelli che remanere voizero. L'aitri liberamente lassao tornare. Recoize arcieri in granne quantitate. Da treciento uomini da cavallo aveva. Fece capitanio dello puopolo lo savio e saputo guerrieri Liccardo Imprennente delli Aniballi, signore de Monte delli Compatri. Mise le masnate intorno alle terre de Pellestrina. In Frascati teneva masnata de fanti e de arcieri. In la Colonna teneva masnata de fanti e de arcieri. In Castiglione de Santa Perzeta mise masnata de fanti. In Tivoli teneva lo menescalco. Se reservao in Roma, in Campituoglio, per provedere, per vedere que era da fare. Granne penzieri aveva de procacciare moneta per sollati. Restretto se era a povera spesa; onne denaro voleva per pache. Mai non fu veduto tale omo. Solo esso portava lo penzieri de Romani. Più vedeva esso stanno in Campituoglio che suoi officiali nelle locora puosti. Sempre bussava, sempre scriveva alli officiali. Daieva lo muodo, l'ordine da fare cose e·lli fatti prestamente, de chiudere li passi donne se facevano le offese, de prennere uomini e spie. Mai non finava. Mai suoi officiali staievano lienti, freddi; non facevano cosa notabile, salvo lo prode guerrieri Liccardo, lo quale non se infegneva. Notte e dìe faceva predare Colonnesi, per tutta Campagna li persequitava. Non li lassava cogliere cielo. Consumava Stefanello e Colonnesi e Pellestrinesi. La guerra menava a buono fine, omo mastro che sapeva li passi e·lle locora, conosceva li tiempi. Sapevase fare amare da sollati. Era obedito de voglia. Dicevano l'Ongari: "Mai non fu veduto tale capitanio sì valoroso". Desarmato voitava la mano, dicenno: "Quello vestiame venga cà". Como lo diceva così veniva. A buono fine la guerra veniva. Ora voglio contare la morte dello tribuno. Aveva lo tribuno fatta una gabella de vino e de aitre cose. Puseli nome"sussidio". Coize sei denari per soma de vino. Coglievase la moita moneta. Romani se·llo comportavano per avere stato. Anco stregneva lo sale per più moneta avere. Anco stregneva soa vita e soa famiglia in le spese. Onne cosa penza per sollati. Repente prese uno citatino de Roma nobile assai, perzona sufficiente, saputa: nome avea Pannalfuccio de Guido. Omo virtuoso, assai desiderava la signoria dello puopolo. E sì·lli troncao la testa senza misericordia e cascione alcuna. Della cui morte tutta Roma fu turbata. Staievano Romani como pecorella. Queti non osavano favellare. Così temevano questo tribuno como demonio. In loco consilii obtinebat omnem suam voluntatem, nullo consiliatore contradicente. Ipso instanti ridens plangebat et emittens lacrimas et suspiria ridebat, tanta inerata ei varietas et mobilitas voluntatis. Ora lacrimava, ora sgavazzava. Puoi se deo a prennere la iente. Prenneva questo e quello, revennevali. Lo mormuorito quetamente per Roma sonava. Perciò a fortezza de si sollao cinquanta pedoni romani per ciasche rione, priesti ad onne stormo. Le pache non li dava. Prometteva onne dìe. Tenevali in spene. Promettevali abunnanzia de grano e cose assai. Novissime cassao Liccardo della capitania e fece aitri capitanii. Questa fu la soa sconfittura. Allora lassao Liccardo lo predare e·llo sollicito guerriare, mormorannose debitamente de sì ingrato omo. Era dello mese de settiembro, a dìi otto. Staieva Cola de Rienzi la dimane in sio lietto. Avease lavata la faccia de grieco. Subitamente veo voce gridanno: "Viva lo puopolo, viva lo puopolo". A questa voce la iente traie per le strade de·llà e de cà. La voce ingrossava, la iente cresceva. Nelle capocroce de mercato accapitao iente armata che veniva da Santo Agnilo e da Ripa e iente che veniva da Colonna e da Treio. Como se ionzero insiemmori, così mutata voce dissero: "Mora lo traditore Cola de Rienzi, mora!" Ora se fionga la ioventute senza rascione, quelli proprio che scritti aveva in sio sussidio. Non fuoro tutti li rioni, salvo quelli li quali ditti soco. Curzero allo palazzo de Campituoglio. Allora se aionze lo moito puopolo, uomini e femine e zitielli. Iettavano prete; faco strepito e romore; intorniano lo palazzo da onne lato, dereto e denanti, dicenno: "Mora lo traditore che hao fatta la gabella, mora!" Terribile ène loro furore. A queste cose lo tribuno reparo non fece. Non sonao la campana, non se guarnìo de iente. Anco da prima diceva: "Essi dico:"Viva lo puopolo", e anco noi lo dicemo. Noi per aizare lo puopolo qui simo. Miei scritti sollati so'. La lettera dello papa della mea confirmazione venuta ène. Non resta se non piubicarla in Consiglio". Quanno a l'uitimo vidde che·lla voce terminava a male, dubitao forte; specialemente ché esso fu abannonato da onne perzona vivente che in Campituoglio staieva. Iudici, notari, fanti e onne perzona aveva procacciato de campare la pelle. Solo esso con tre perzone remase, fra li quali fu Locciolo Pellicciaro, sio parente. Quanno vidde lo tribuno puro lo tumuito dello puopolo crescere, viddese abannonato e non proveduto, forte se dubitava. Demannava alli tre que era da fare. Volenno remediare, fecese voglia e disse: "Non irao così, per la fede mea". Allora se armao guarnitamente de tutte arme a muodo de cavalieri, la varvuta in testa, corazza e falle e gammiere. Prese lo confallone dello puopolo e solo se affece alli balconi della sala de sopra maiure. Destenneva la mano, faceva semmiante che tacessino, ca voleva favellare. Sine dubio che se lo avessino scoitato li àbbera rotti e mutati de opinione, l'opera era svaragliata. Ma Romani non lo volevano odire. Facevano como li puorci. Iettavano prete, valestravano. Curro con fuoco per ardere la porta. Tante fuoro le valestrate e·lli verruti, che alli balconi non potéo durare. Uno verruto li coize la mano. Allora prese questo confallone e stenneva lo sannato da ambedoi le mano. Mostrava le lettere dello auro, l'arme delli citatini de Roma, quasi venissi a dicere: "Parlare non me lassate. Ecco che io so' citatino e popularo como voi. Amo voi, e se occidete me, occidete voi che romani site". Non vaize questi muodi tenere. Peio fao la iente senza intellietto. "Mora lo traditore!" chiama. Non potenno più sostenere, penzao per aitra via campare. Dubitavase de remanere su nella sala de sopra, perché anco stava presone missore Bettrone de Narba, a chi fatta aveva tanta iniuria. Dubitava che non lo occidessi con soie mano. Conosceva e vedeva che responneva allo puopolo. Penzao partirse dalla sala de sopra e delongarese da missore Bettrone per cascione de più securitate. Allora abbe tovaglie de tavola e legaose in centa e fecese despozzare ioso nello scopierto denanti alla presone. Nella presone erano li presonieri; vedevano tutto. Tolle li chiavi e tenneli a sé. Delli presonieri dubitava. De sopra nella sala remase Locciolo Pellicciaro, lo quale a quanno a quanno se affaceva alli balconi e faceva atti con mano, con vocca allo puopolo e diceva: "Essolo che vene ioso dereto", e issino dereto allo palazzo, ca dereto veniva. Puoi se volvea allo tribuno, confortavalo e diceva che non dubitassi. Puoi tornava allo puopolo facenno li simili cenni: "Essolo dereto, essolo ioso dereto". Davali la via e l'ordine. Locciolo lo occise. Locciolo Pellicciaro confuse la libertate dello puopolo, lo quale mai non trovao capo. Solo per quello omo poteva trovare libertate. Solo Locciolo se·llo avessi confortato, de fermo non moriva; ché fu arza la sala, lo ponte della scala cadde a poca d'ora. Ad esso non poteva alcuno venire. Lo dìe cresceva. Li rioni della Regola e li aitri forano venuti, lo puopolo cresciuto, le voluntate mutate per la diverzitate. Onne omo fora tornato a casa, overo granne vattaglia stata fora. Ma Locciolo li tolle la speranza. Lo tribuno desperato se mise a pericolo della fortuna. Staienno allo scopierto lo tribuno denanti alla cancellaria, ora se traieva la varvuta, ora se·lla metteva. Questo era che abbe da vero doi opinioni. La prima opinione soa, de volere morire ad onore armato colle arme, colla spada in mano fra lo puopolo a muodo de perzona magnifica e de imperio. E ciò demostrava quanno se metteva la varvuta e tenevase armato. La secunna opinione fu de volere campare la perzona e non morire. E questo demostrava quanno se cavava la varvuta. Queste doi voluntate commattevano nella mente soa. Venze la voluntate de volere campare e vivere. Omo era como tutti li aitri, temeva dello morire. Puoi che deliverao per meglio de volere vivere per qualunche via potéo, cercao e trovao lo muodo e·lla via, muodo vituperoso e de poco animo. Ià li Romani aveano iettato fuoco nella prima porta, lena, uoglio e pece. La porta ardeva. Lo solaro della loia fiariava. La secunna porta ardeva e cadeva lo solaro e·llo lename a piezzo a piezzo. Orribile era lo strillare. Penzao lo tribuno devisato passare per quello fuoco, misticarese colli aitri e campare. Questa fu l'uitima soa opinione. Aitra via non trovava. Dunque se spogliao le insegne della baronia, l'arme puse io' in tutto. Dolore ène de recordare. Forficaose la varva e tenzese la faccia de tenta nera. Era là da priesso una caselluccia dove dormiva lo portanaro. Entrato là, tolle uno tabarro de vile panno, fatto allo muodo pastorale campanino. Quello vile tabarro vestìo. Puoi se mise in capo una coitra de lietto e così devisato ne veo ioso. Passa la porta la quale fiariava, passa le scale e·llo terrore dello solaro che cascava, passa l'uitima porta liberamente. Fuoco non lo toccao. Misticaose colli aitri. Desformato desformava la favella. Favellava campanino e diceva: "Suso, suso a gliu tradetore!" Se le uitime scale passava era campato. La iente aveva l'animo suso allo palazzo. Passava la uitima porta, uno se·lli affece denanti e sì·llo reaffigurao, deoli de mano e disse: "Non ire. Dove vai tu?" Levaoli quello piumaccio de capo, e massimamente che se pareva allo splennore che daieva li vraccialetti che teneva. Erano 'naorati: non pareva opera de riballo. Allora, como fu scopierto, parzese lo tribuno manifestamente: mostrao ca esso era. Non poteva dare più la voita. Nullo remedio era se non de stare alla misericordia, allo volere altruio. Preso per le vraccia, liberamente fu addutto per tutte le scale senza offesa fi' allo luoco dello lione, dove li aitri la sentenzia vodo, dove esso sentenziato aitri aveva. Là addutto, fu fatto uno silenzio. Nullo omo era ardito toccarelo. Là stette per meno de ora, la varva tonnita, lo voito nero como fornaro, in iuppariello de seta verde, scento, colli musacchini inaorati, colle caize de biada a muodo de barone. Le vraccia teneva piecate. In esso silenzio mosse la faccia, guardao de·llà e de cà. Allora Cecco dello Viecchio impuinao mano a uno stuocco e deoli nello ventre. Questo fu lo primo. Immediate puo' esso secunnao lo ventre de Treio notaro e deoli la spada in capo. Allora l'uno, l'aitro e li aitri lo percuoto. Chi li dao, chi li promette. Nullo motto faceva. Alla prima morìo, pena non sentìo. Venne uno con una fune e annodaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra, strascinavanollo, scortellavanollo. Così lo passavano como fussi criviello. Onneuno ne·sse iocava. Alla perdonanza li pareva de stare. Per questa via fu strascinato fi' a Santo Marciello. Là fu appeso per li piedi a uno mignaniello. Capo non aveva. Erano remase le cocce per la via donne era strascinato. Tante ferute aveva, pareva criviello. Non era luoco senza feruta. Le mazza de fòra grasse. Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello. Là pennéo dìi doi, notte una. Li zitielli li iettavano le prete. Lo terzo dìe de commannamento de Iugurta e de Sciarretta della Colonna fu strascinato allo campo dell'Austa. Là se adunaro tutti Iudiei in granne moititudine: non ne remase uno. Là fu fatto uno fuoco de cardi secchi. In quello fuoco delli cardi fu messo. Era grasso. Per la moita grassezza da sé ardeva volentieri. Staievano là li Iudiei forte affaccennati, afforosi, affociti. Attizzavano li cardi perché ardessi. Così quello cuorpo fu arzo e fu redutto in polve: non ne remase cica. Questa fine abbe Cola de Rienzi, lo quale se fece tribuno augusto de Roma, lo quale voize essere campione de Romani. In cammora soa fu trovato uno spiecchio de acciaro moito polito con carattere e figure assai. In quello spiecchio costregneva lo spirito de Fiorone. Anco li fuoro trovati pugillari dove aveva scritti Romani, la coita che voleva mettere. Lo primo ordine, ciento perzone da cinqueciento fiorini; lo secunno ordine, ciento perzone da quattrociento fiorini; lo terzo, da ciento fiorini; lo quarto, da cinquanta fiorini; lo quinto, da dieci fiorini. Quanno questo omo fu occiso currevano anni Domini MCCCLIII[I], alli otto dìi de settiembro in ora della terza. Non solamente questo fu muorto in furore de puopolo, ma tutta soa forestaria fu derobata de tutto arnese. Perdiero cavalli e arme. Fuoro lassati nudi sì quelli che se trovaro a Roma, sì quelli che staievano de fore per le fortezze a guerriare. Vogliome stennere sopra questa materia. Franceschi entraro in Roma e assediaro Tarpeia, lo monte de Campituoglio. Per la paura Romani se erano redutti là. Puoi che viddero che in Tarpeia non era sufficienzia de fodero, deliveraro de mannare fòra li veterani, como perzone inutile, per avere più fodero, per salvare la ioventute. Così fu. Li veterani, 'nanti che issiro fòra de Tarpeia, fuoro in consiglio. Dissero così: "Noi gimo alle case nostre. Fra li Franceschi per carnario muorti serremo senza dubio. Meglio ène che moramo in abito de virtute che de miseria. Onneuno se vesta le ornamenta soie". Così fu. Li veterani ne iro alle case. Ciascheuno se adobao con quelli ornamenti li quali avevano auti nelle onoranze delli offizii. Tale se vestìo a muodo de pontefice, tale a muodo de senatore, chi de consolo. Allocarose nelli facistuori adornati, colle bacchette in mano, adorni de prete preziose e de aoro. Fra li aitri uno aveva nome Papirio. Forte adorno staieva denanti la soa casa, cum pretexta, cum trabea indutus. La matina li Franceschi se maravigliaro de tale novitate, curzero a vedere como cosa nova. Uno Francesco prese la varva a questo Papirio e disse: "Ahi vegliardo, vegliardo!" Allora Papirio se desdegnao, perché lo Francesco non li favellava con reverenzia, como l'abito sio mustrava. Destese la bacchetta e ferìo lo Francesco nello capo, e non teméo de morire per salvare la onoranza della maiestate soa. Lo buono Romano dunqua non voize morire colla coitra in capo como Cola de Rienzi morìo.

Cap.XXVIII

[Della venuta de Carlo imperatore a Roma e della soa coronazione

e della soa partenza alla Alamagna. ]

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Ultimo Aggiornamento: 14/07/05 23:20