De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA


indietro.gif (1234 byte) avanti.gif (1244 byte)

Cronica - Vita di Cola di Rienzo

Anonimo Romano

Cap. VII

De papa Benedetto e dello tetto de Santo Pietro de Roma lo quale fu renovato.

Currevano anni Domini MCCCXXXIIII quanno fu creato papa Benedetto. Fu oitramontano, vascone e fu monaco bianco de l'ordine de Cistella de santo Bernardo. Avea nome lo cardinale bianco quanno fu eletto. La soa elezzione fu più divina che umana, perché li cardinali li diero la voce per lo quarto, sì che chi hao la voce per lo quarto ène nella più infima connizione. Ora tutti li cardinali se concordavano in esso per lo quarto, sì che tutti l'àbbero per desperato. Ma puoi che·lle voce fuoro tutte dello bianco, soa elezzione fu divina, ca la concordia de tutti fu che fussi papa; lo quale essere papa ciascheuno assemmotì: l'abbe per desperato. Questo abbe nome lo cardinale bianco e fu omo moito corpulento e grasso e gruosso, roscio. La soa figura de ponto stao in Santo Pietro, dentro alla chiesia, sopre la porta maiure della nave maiure. Questo papa fu omo santissimo e servao questa connizione, che non voize mai despenzare nelli matrimonii li quali se faco intra li parienti. Moito li despiaceva cutale parentezze. Mai non li voize consentire. Anche fu omo moito scarzo e retenente dello tesauro della Chiesia; non solamente dello tesauro, ma delle beneficia. Moito bene voleva vedere a chi le daieva e voleva vedere de que vita fussi e volevali forte esaminare. Moiti ne esaminao esso medesimo. Non voleva idiote. Quanno li veniva innanti alcuno prelato indegno overo idiota, de non convenevile fama, li tolleva parte delle prebenne e sì·lle presentava alli sufficienti e buoni. Moito iva cercanno li buoni chierichi sufficienti. Moito li onorava. E perché ne trovava pochi, destrenze le grazie a sì e non voleva provedere. Denanti a questo papa Benedetto venne uno monaco de Santo Pavolo de Roma - frate Manosella avea nome -, lo quale per la morte dello antecessore sio era elietto abbate. Questo era omo lo quale se delettava de ire per Roma la notte facenno le matinate, sonanno lo leguto, ca era bello sonatore e cantatore de ballate. E iva per le corte alle nozze e per le vigne alle calate. Così dico Romani. Quanto ne poteva essere tristo santo Benedetto, quanno lo sio monaco saitava e ballava! Quanno questo elietto fu denanti alla santitate de papa Benedetto, disse: "Santo patre, io so' lo elietto de Santo Pavolo de Roma". Ora lo papa sao tutte le connizioni de chi li veo denanti. Disse: "Sai cantare?" Respuse lo elietto: "Saccio". Lo papa: "Io dico la cantilena". Disse lo elietto: "Le canzoni saccio". Disse lo papa: "Sai sonare?" Disse lo eletto: "Saccio". Disse lo papa: "Io dico se tu sai toccare l'organi e·llo leguto". Respuse quello: "Troppo bene". Allora mutao favella lo papa e disse: "E conveose allo abbate dello venerabile monistero de Santo Pavolo essere buffone? Va' per li fatti tuoi!" Così tornao collo capo lavato. Questo papa Benedetto reconfermao tutto lo prociesso lo quale avea fatto lo antecessore sio contra lo Bavaro. Puoi fece fornire tutto lo tetto de Santo Ianni de Laterani, lo quale fi' alla mitate era descopierto. Puoi fece renovare tutto lo tetto de Santo Pietro Maiure de Roma de una bella opera nobile e pulita. Currevano anni Domini MCCC[...], dello mese [...], quanno quella opera fornita fu. Gustao LXXX milia fiorini d'aoro. Lo capomastro de tutta l'opera abbe nome mastro Ballo de Colonna, escellentissimo falename, lo quale fu de tanta escellenzia, che sappe 'nanti dicere lo dìe, l'ora, lo ponto nello quale quello tetto fu in tutto fornito. E per sio sapere posava li travi viecchi e tirava li nuovi suso aito, più prestamente che se fussi uno ciello. Uno omo stava cavalcato nell'uno capo, uno aitro nello aitro. Io non vòizera essere stato uno de quelli. Quanno lo tetto viecchio se posava, fonce trovato uno esmesuratissimo trave de mirabile grossezze. Io lo viddi. Dieci piedi era gruosso. Tutto era affasciato de funi per la moita antiquitate. Per la granne grossezza era tanto durato questo trave. Era de abeto como li aitri. E fonce trovato scritto de lettere cavate CON, quasi dica: "Questo ène de quelli travi li quali puse in questo tetto lo buono Constantino". Era antiquo quanto che l'aleluia. Questo trave ne fu posato e dentro de esso fuoro trovate caverne e cupaine, fatte sì per l'antiquitate sì per fere le quale avevano rosicato e fatta drento avitazione; ca ce fuoro trovati drento sorici esmesuratissimi a nidate e fuoronce trovate fi' alle martore e, che più ène, golpi colli loro nidi. Chi lo vidde non lo poteva credere. Questo nobile trave fu spezzato e de esso fuoro fatte tavole necessarie per la opera novella. E moiti ientili uomini de Roma ne àbbero tavole da manicare. Una maraviglia voglio contare. Per fare questo tetto fuoro adunati tutti li savii mastri li quali avere se potiero drento de Roma e fòra. Intra li quali fu uno delli buoni dello munno, lo quale abbe nome Nicola de Agniletto de Vetralla. Questo stava suso in uno arcotrave a lavorare. Lo trave era puosto su nello muro aito. Con uno secure in mano faceva questo mastro lavorieri lo quale bisognava. Lo mastro stava in pede. Forza lo trave non stava oguale, anche stava pennente. Lo peso era granne. Lo trave sbinchiao e nello sbinchiare aizaricao e nello aizaricare se mosse de luoco e revoltaose. Poco fu che lo mastro non cadde a terra. Deo uno adatto saito e remase puro in pede. Granne paura abbe lo mastro de cadere a terra esso collo trave. E·lla soa paura non potéo nasconnere, ca subitamente la mesa della varva li deventao canuta. Spesse voite da puoi se·lla radeva. Spesso diceva ca quella canutezza fu per paura che abbe che non venisse a balle esso e·llo trave aizaricato. Lo simigliante avenne a Corradino re. Da puoi che fu sconfitto alla vittoria e preso ad Astura, lo re Carlo li fece tagliare la testa. Suoi capelli erano tanto belli che, quanno crullava la testa, pareva che fili de aoro se movessino atorno ad una colonna d'ariento. In quella notte, la quale demorao in presone, li capelli d'aoro fuoro deventati canuti. La dimane, quanno fu decollato, moito pareva mutato de bionno in canuto. E questa mutazione fu in una notte. Alcuno me pòtera adimannare perché per la paura se fao la canutezze. In questo responne Avicenna e dice ca, quanno l'omo stao in luoco moito aito, tutta la virtute se reduce a confortare la virtute animale dello cerebro, che non [...] E imperciò le membra tremano, perché·sse denudano della virtute regitiva. Così, in simile caso, lo calore della cotica se parte dalla circonferenzia e vao allo spesso de mieso per salvarese, così la cotica se denuda de sio vigore in tale muodo che lo pelo non recipe la soa tentura. E segno de ciò ène che sente omo quella parte formicolare. E questo moito incontra a quelli li quali usano per mare. Anco adomannarao alcuno perché questo fu canuto più da uno lato che dall'aitro. Dirraio ca quello movimento fu subito in quella subitezza. Quella parte che fu più presso allo pericolo, quella recipéo la impressione; l'aitra fu più desposta a salute, perciò non fu canuta.

Cap. VIII

Della cometa la quale apparze nelle parte de Lommardia e della abassazione

de missore Mastino tiranno per li Veneziani.

Currevano anni Domini MCCCXXXVII, dello mese de agosto, apparze nelle parte de Lommardia una cometa moito splennente e bella e durao dìe tre. In airo puoi desparze. Questa cometa pareva che fussi una stella lucentissima più delle aitre, e estenneva dereto a sé una coma destinta, pezzuta a muodo de una spada, e penneva la ponta sopra de Verona. Questa coma stava da uno delli lati. Non iva né su né io', ma ritta se stenneva como fossi una fiamma de fuoco. Moito commosse la iente ad ammirazione, que voleva dicere questa novitate. Dice Aristotile, nella Metaora, ca questa non è verace stella; anche ène una [...] fatta nella sovrana parte de l'airo, e faose de materia umida e calla, la quale salle su e accennese e dura tanto quanto la materia donne se fao. Anche dice ca questa mai non appare, che non significhi novitati granni, spezialmente sopra li principi della terra, e commozioni de reami e morte e caduta de potienti. In bona fe', ca così fu; ca, como questa desparze, così per Lommardia se destese la novella che Padova fu perduta. E sì·lla àbbero Veneziani e presero drento missore Alberto della Scala de Verona; e fu mannato in Venezia, in presone. Anco sequitao la destruzzione e·lla ruvina de missore Mastino della Scala, lo quale fu tanto potente e tiranno che se voize fare rege de corona. E puoi perdìo onne cosa e venne a convenevile stato. La quale novitate fu per questa via. Po' la morte de missore Cane della Scala remase un sio nepote: missore Mastino abbe nome. Questo missore Mastino della Scala fu delli maiuri tiranni de Lommardia: quello che più citate abbe, più potenzia, più castella, più communanze, più grannia. Abbe Verona, Vicenza, Trevisi, Padova, Civitale, Crema, Brescia, Reggio, Parma. In Toscana abbe Lucca, la Lunisciana. De XV grosse citate fu signore. Parma venze a forza de guerra. Mentre che soa oste se posava sopra alcuna citate, derizzavali sopre quaranta trabocchi. Mai non se partiva, finente che non era signore. Voleva essere signore sì per forza sì per amore. Puoi mise pede in Toscana. Abbe Lucca e ingannao Fiorentini, donne Fiorentini li ordinaro quella ruvina la quale li venne de sopra. Puoi menacciava de volere Ferrara e Bologna. Una cosa faceva alli nuobili li quali li davano le citate, che·lli teneva con seco e davali granne provisione. Moiti erano li baroni, moiti erano li sollati da pede e da cavallo, moiti li buffoni, moiti so' li falconi, palafreni, pontani, destrieri da iostra. Granne era lo armiare. Vedesi levare cappucci de capo, vedesi Todeschi inchinare, conviti esmesurati; tromme e cerammelle, cornamuse e naccare sonare. Vedese tributi venire, muli con some scaricare, iostre e tornii e bello armiare, cantare, danzare, saitare, onne bello e doice deletto fare. Drappi franceschi, tartareschi [...] velluti intagliare, panni lavorati, smaitati, 'naorati portare. Quanno questo signore cavalcava, tutta Verona crullava. Quanno menacciava, tutta Lommardia tremava. Infra le aitre magnificenzie soie se racconta che LXXX taglieri de credenza abbe una voita che voize pranzare in cammora. E onne tagliero abbe uno deschetto, onne deschetto abbe doi baroni. Iudici, miedici, letterati, virtuosi de onne connizione avea provisione in soa terra. La soa fama sonava in corte de Roma. Non hao simile in Italia. Ora se mannifica missore Mastino. E considerannose essere tanto potente, gloriavase, non conosce la frailitate umana. Quanno se vidde in tanta aitezza, fece fare palazza esmesurate in Verona. E per fare le fonnamenta guastao una chiesia: Santo Salvato' abbe nome. Mai bene non li prese da puoi. Puoi comenzao a desprezzare li tiranni de Lommardia. Non curava de ire a parlamento con essi. Puoi fece fare una corona [...] tutta adornata de perne, zaffini, balasci, robini e smaralli, valore de fiorini XX milia. Questa corona fece fare, perché abbe intenzione de farse incoronare re de Lommardia, e de fierro la fece de fatto, per industria e per sagacitate de sio pietto, a dare a intennere che per fierro de arme avea guadagnato sio reame. Quanno questo abbe fatto, l'animi delli tiranni de Lommardia furono forte turvati: bene penzano via de non essere subietti a loro paro. Questo missore Mastino fu cavaliero dello Bavaro, e fu omo assai savio de testa e iusto signore. Per tutto sio renno ivi securo con aoro in mano. Granne iustizia faceva. Fu un omo bruno, peloso, varvuto, con uno grannissimo ventre. Mastro de guerra. Cinquanta palafreni avea da soa cossa. Onne dìe mutava robba. Doi milia cavalieri cavalcavano con esso, quanno cavalcava. Doi milia fanti da pede armati, elietti, colle spade in mano ivano intorno a soa perzona. Mentre che sequitao la vertute, crebbe. Puoi che insuperbìo, comenzao a deluviare, anche comenzao a corromperese de lussuria. Forte deventao lussurioso. Che avesse detoperate cinquanta poizelle in una quaraiesima se avantao. Questi vizii lo fecero cadere de sio onorato stato. Puoi manicava la carne lo venerdìe e·llo sabato e·lla quaraiesima. Non curava de scommunicazione. Lo muodo che cadde de soa aitezza fu questo. Avea un sio frate, lo quale avea nome missore Alberto della Scala. Questo missore Alberto fu mannato a reiere Padova, ché·llo mannao a muodo reale. Conti, baroni, sollati e aitra moita iente abbe con seco. Bellissima fu soa compagnia. Questo missore Alberto teneva questa via. Entrava nelle monistera delle donne religiose. Demoravance tre o quattro dìe. Puoi visitava l'aitro. Donqua era alcuna bella monaca detuperava. Puoi usava paravole laide sempre e detoperose. Missore Marsilio da Carrara e missore Ubertiello da Carrara erano li maiuri de Padova, quelli li quali li aveano data la signoria, e suoi parienti erano. Questo missore Ubertiello avea una soa bella donna. Per tutta dìe, per tutte ore non finava missore Alberto de spaziare e dicere: "O missore Ubertiello, mannuca bene, ca te aio fatto doi voite revaglio questa notte". Mai non finava. Ad onne tratto questo diceva. Missore Ubertiello rideva. Collo riso passava. Lo ridere non descegneva. Missore Alberto avea con seco una compagnia desordinata, iente valorda e sboccata. Ciarloni non guardavano que·sse facessino e dicessino. Li simiglianti costumi conveniva che avessi lo signore. Ora continua missore Alberto lo desordinato favellare e non se ne sao remanere. Tuttavia dice: "O missore Ubertiello, tre voite t'aio fatto cocozzo in questa notte". Questa villania dicere non lassava né per soa ientilezza né per soa onoranza dello consorte né per parentezze né per bene volere né per onestate né per alcuna via Missore Ubertiello de ciò crepava. Più non poteva sostenere [...] Marsilio fu un savio cavalieri e moito scaitrito e secreto. De colpo cavalcao a Verona e parlao con missore Mastino. E deoli ad intennere che poteva essere lo più granne omo che fussi mai nella contrada e che poteva domare lo regoglio e·lla grannezze de Veneziani. E deoli lo muodo e l'ordine per questa via: "Missore Mastino, tu hai nello tio terreno de Padova una villa la quale se dice Bovolenta. Questa Bovolenta se destenne nelli paludi canto la marina. Antiquamente ce stavano fila e facevacese lo sale. Tu, omo granne, se fai lo sale in tio terreno, nullo te porrao vetare de usare toa rascione. Quanno Veneziani vederanno che tu farrai lo sale, overo te farraco tributo de moita moneta overo lo loro sale non tanto valerao. E quella moneta, la quale hao la Cammora de Venezia per lo sale, l'averai, donne serrai maiure allo doppio e·lli puorci veneziani verraco alla vostra mercede. Anche in toa scusa manna là una ambasciata, dicenno che questo non aiano Veneziani per iniuria: con ciò sia cosa che voi usete vostra rascione nettamente, non volete perdire le rascioni dello padovano. Non esforzete alcuno. Nello luoco usato volete fare lo sale in vostro terreno per avere la dovana e·lla granne pecunia per le spese le quale occurreno per li sollati e aitre grannezze fare". Questo uosso mise in canna missore Marsilio a missore Mastino. Crese lo tiranno alli fallaci ditti, credennose volare più aito che Dio non consentiva. Allora incontinente commannao che nella villa de Bovolenta, canto la marina, alli staini fosse fatto uno bello castiello de lename, lo quale dilientemente fosse guardiato per guardia delli salinari. E fé fare le fila e mise li operari. E liberamente fu comenzato a fare lo sale bello e assai buono dello munno. Deh, como l'opera preziosa veniva! Li fatti ivano de ponto. Intanto, como ordinato era, ionze a Venezia missore Marsilio, informato dello fatto, e gìo per ambasciatore, como aveva demannato. Fu denanti allo duce e alli maiurienti, e disse quella ambasciata in quelle paravole; ma li mutao li ponti, ché·lli fece sonare de aitro suono e deoli aitra sentenzia, e disse: "Signori veneziani, missore Mastino intenne de fare lo sale nello sio terreno per avere quella pecunia la quale voi avete e tollereve de mano per signoriarve e per abassare vostre saline. Se queste perdite, non site cobelle. Lo frutto della Cammora de Venezia è lo sale. Moito bene operate l'uocchi in li vostri fatti". Più non disse. Assai abbe fatto e ditto, che abbe acceso lo fuoco tra Veneziani e missore Mastino. Allora Veneziani fecero una ambasciata preziosa, moito adorna. Dodici maiurienti de Venezia fuoro, grannissimi mercatanti e ricchissime perzone, savii e descreti, tutti vestuti de una robba, panni devisati de scarlatti e de velluti verdi, e aitri lavorieri forrati de vari, moito assettati. La gonnella era longa fi' alli piedi, la guarnaccia corta fi' a mesa gamma [...] corto fi' allo inuocchio, le cappuccia con piccoli pizzi in capo, la capella della seta de sotto, appistigliati de pistiglioni de ariento 'naorati, correie smaitate in centa. Ben pargo adornati de straniera devisanza. Con donzielli assai e aitra famiglia passano lo mare, e in terra ferma montano in loro piccoli palafrenotti e vengone a Verona. Venivano trottanno l'uno dereto a l'aitro como fussino miedici. Moita iente loro trasse a vedere. Granne maraviglia se fao omo de così nova devisanza. Parevate vedere lo ioco de Testaccia de Roma. Quanno li ambasciatori fuoro entrati in Verona, tutta Verona curre a vederli. Così li guardava omo fitto como fussino lopi. E questo perché l'abito loro era moito devisato dallo abito delli cortisciani; imperciò che portavano cotte de nuobili panni, strette alla catalana, forrate de frigolane endisine de sopra, cappe alamanne forrate de vari, cappucci alle gote con fresi de aoro intorno alle spalle, correie in centa con spranche d'ariento 'naorato, in piedi de caize. Moito vaco destri per la sala. Moito cavalcano adatti per la citate. Puoi se ne iro li dodici ambasciatori denanti a missore Mastino. Naturalmente la favella de Veneziani è regogliosa, e così regoglioso, senza umanitate, parlaro a missore Mastino e dissero: "Missore Mastino, lo Communo de Venezia te prega che non te vogli perdere Venezia per lo sale e non vogli fare quello che tuoi antecessori non fecero e quello che non è stato fatto in nostri dìe. Lo sale ène de Veneziani, non ène de Padovani. De fare cutale sale te conveo remanere, se non vòi turbare li uomini de Venezia e se vòi remanere nuostro amico". A questa ammasciata respuse lo Mastino e disse: "Verrete crai a pranzare in mea corte con meco e là averete la resposta". Lo sequente dìe lo convito fu apparecchiato grannissimo. In quella sala fu apparecchiato per più de ottociento perzone. Alla prima tavola aitre scudelle non ce fuoro, se non de buono ariento, né aitre vascella. A questo convito Veneziani vennero, li quali tutti a dodici fuoro puosti ad una tavola in pede della sala, in veduta de tutta la corte per là venuta. Lavate che àbbero le mano, non se despogliaro loro larghi tabarretti, anche con essi se misero a tavola. Granne era lo ridere che omo faceva de essi. Così stavano assemmoti como fussino Patarini overo scommunicati. Tutta la iente li resguardava como alocchi. Stava missore Mastino in capo della sala, più aito che tutta l'aitra baronia, servuto a tavola como re. Tutta soa nobilitate de corte vedeva. A soa veduta cosa nulla era celata. Ora vedesi vivanne venire. Cavalieri a speroni de aoro servivano denanti. Leguti, viole, cornamuse, ribeche e aitri instrumenti moito facevano doice sonare. Bene pareva in paradiso demorare. Po' le vivanne viengo buffoni riccamente vestuti. Tal cantava, tal ballava, tal mottiava. Onneuno se sforza [...] Non se lassano dallo muro cacciare. Mustrano de avere core. Non curano de valestra né de menacce. Lo romore era granne. Lance e saiette volavano. Deh, quanto ène cosa orribile! Allora missore Pietro Roscio con soie belle masnate se tenne secreto e queto de fòra ad una porta la quale se dice porta de ponte Cuorvo. E là stette, mentre che la vattaglia era alla porta de Santa Croce. Questa porta de ponte Cuorvo avea in guardia missore Marsilio da Carrara. Su nella mesa terza lo fattore de missore Marsilio operze la porta e abassao li ponti, e mise drento missore Pietro Roscio senza colpo de spada. Ora ne veo per la strada alla piazza lo capitanio de Veneziani con moita grossa pedonaglia e cavallaria. Ià l'ora de terza era. In esso ponto missore Alberto se era levato da dormire. Cavalcava uno bello palafreno, vestuto con solo un guarnello, accompagnato con solo missore Marsilio. Una vastoncella in mano teneva. Per la terra iva trastullanno. Omnis armatorum eius multitudo pugnans resistebat ad portam. Como missore Alberto accapitao in capo della strada, vidde che nella piazza iogneva granne stuolo, granne masnate de iente. Odìo tromme e ceramelle. Vidde lo grannissimo confallone de Santo Marco de Venezia. Maravigliaose forte e disse a missore Marsilio: "Que iente ène questa?" A ciò respuse missore Marsilio e disse: "Questo ène missore Pietro Roscio, lo quale hao auta gola de vederte". Disse missore Alberto: "Moreraio io?" Disse missore Marsilio: "No. Torna in reto. Va' in la mea cammora". Così fu fatto. Tornao missore Alberto e misese nella cammora de missore Marsilio, e là fu enzerrato con una chiave. Veneziani la piazza presero e toizero l'arme e·lli cavalli a tutta la forestaria de missore Alberto. E presero esso con soa baronia e sì·llo mannaro in presone a Venezia. E là stette fi' che la guerra fu finita. Allora apparze quella cometa della quale de sopra ditto ène. E presero Veneziani guardia delle porte de Padova. Sine mora iescono fòra e faco terribile guerra a quello della Scala. Vao missore Pietro Roscio ardenno e consumanno le terre. Prese per forza Monsilice, e là fu occiso. Non per tanto lassano Veneziani de fare la dura guerra. Allora perdìo la citate de Brescia. Onne perzona se·lli rebella. Nulla resistenzia fao. Missore Mastino consideranno la soa desaventura, desperato, con soie mano occise lo vescovo de Verona, lo quale era de soa iente, e occiselo su sopra le scale dello vescovato. Albuino, vastardo de missore Cane, lo scannao. Sotto lo capitale dello lietto de questo vescovo fu trovato uno spiecchio de acciaro con moite divise carattere. Nello manico era una figura. La lettera diceva: "Questo ène Fiorone". Puoi li fu trovato un livricciuolo, nello quale stava pento un nimico de Dio, lo quale abracciava uno omo, e un aitro demonio li dava una cortellata in pietto, in quello luoco nello quale esso relevata avea la feruta. Questo fece missore Mastino avenno paura che·llo vescovo non li togliessi la signoria. La guerra durao bene anni doi. Uitimamente missore Mastino era stanco né poteva più. Venne a pace con Veneziani e a patti. Li patti fuoro questi: lo primo, che esso fece refutanza della moneta la quale avea in Verona, la quale avevano despesa Veneziani; lo secunno, che mannao le robbe dello Communo de Venezia, le quale buttaro XXIIII migliara de fiorini, per onne robba fiorini doi milia; lo terzo, che Veneziani voizero Trevisi, sì che convenne che per la fatica de Veneziani missore Mastino li donassi Trevisi. Verona e Vicenza li lassaro per l'amore de Dio e per misericordia. Le aitre terre, como Padova e Civitale, remasero a puopolo. Allora Veneziani li remannaro missore Alberto, lo frate, con quelli nuobili li quali tenevano presoni. A tutta questa guerra Fiorentini tennero mano e fecero con loro denari quello aiutorio che bastao. Ora è tornato lo Mastino della Scala de granne aitezze ad umile stato. Non perciò in tanta umilitate, che in soa veteranezza non morisse granne signore de Verona e de Vicenza. Omo de guerra fece fare in soa vita uno monimento de marmo, dove fu sepellito, in casa de frati minori, là dove posano le donne. In quello monimento non ce stao inscritto né Dio né santi, anche ce stao inscuite cacciascioni, cavalli, cani, astori e aitre paganie. L'opera de Veneziani con questo tiranno fu como l'opera de Romani, li quali mannaro la ambasciata a Benevento. Beneventani sparzero aduosso alli ambasciatori la orina. Per la quale cosa Romani fuoro turbati, e per essi fu destrutta la provincia de Sannio e fu suiugata allo Communo de Roma, como Tito Livio dice.

Cap. IX

Della aspera e crudele fame e della vattaglia de Parabianco in

Lommardia e delli novielli delle vestimenta muodi.

Po' questa cometa, della quale de sopra ditto ène, fu uno anno moito umido, moito piovoso. Abunnaro moite reume, moiti catarri nelle iente. E per tre vernate durao tanta neve, che esmesuratamente coperiva le citate. Moite case, moiti tetti in Bologna caddero per lo granne peso che·lla neve faceva. Anche le estate erano umide, sì che omo non poteva essire fòra de casa a fare sio mestieri e procaccio. Li campi non fuoro lavorati. Li grani e onne legume che fuoro seminati fuoro perduti, perché se affocavano per la soperchia umiditate, non se potevano procurare. Donne sequitao sterilitate e mala recoita. E per quella mala recoita sequitao la fame sì orribile che forte cosa pare a contare, a credere. Questa fame fu per tutto lo munno generale. Lo grano fu vennuto in Roma XXI libre de provesini lo ruio. Currevano anni Domini MCCCXXXVIII. Scrive Tito Livio che nello tiempo fu una fame nella contrada de Roma sì terribile che moita iente, presure perzone, 'nanti volevano perdire la vita, che vivere in fame. Donne abolveano lo cappuccio innanti delli occhi per non vedere loro morte e sì se iettavano nello fiume de Tevere e là affocati perivano, e collo perire remediavano la fame. In bona fe', questo non viddi avenire in quello tiempo. Ma infinite femine fuoro le quale iettaro loro onore per avere dello pane. Moita iente vennéo soa franchia per lo pane. Fuoro vennute palazza, possessioni de campi e vigne, e dati per poca cosa, per avere dello pane. Granne era la pecunia che se numerava per poca de annona avere. Moita iente manicava li cavoli cuotti senza pane. La povera iente manicava li cardi cuotti collo sale e l'erve porcine. Tagliavano la gramiccia e·lle radicine delli cardi marini e cocevanolle colla mentella e manicavanolle. Anche ivano per li campi mennicanno le rape e manicavanolle. Anche fu tale patre che onne dimane a ciascheduno delli figli una rapa per manicare in semmiante de pane daieva. Anche manicavano la carne, chi ne aveva, senza pane. De vino fu bona derrata. Incresceme de contare tante tristezze. Le donne pusero ioso delle alegrezze e·lle cegnimenta e·lle adornamenta, vedenno la fame la quale sì terribilmente bussava. Chi abbe grano abbe tutte le adornamenta delle donne. In quello tiempo io me retrovai in Bologna e vedeva che quelli delle ville venivano in citate a comparare dello pane della gabella. Deh, como tornavano tristi, quanno non ne portavano! Manicava la iente pera secche e tritate, misticate colla farina, capora e vientri, anche lo sangue delli animali. E moite perzone fuoro trovate morte de fame. Moite perzone ivano gridanno de notte: "Pane, pane". De notte ivano, consideranno che erano perzone de alcuno lenaio; per la vergogna non volevano apparere; de dìe non volevano essere conosciute. Nella citate de Roma, se non fusse stata una nave de grano la quale succurze - per mare da Pisa venne -, tutta Roma periva. Doi miracoli granni incontraro in tiempo de così fatta carestia. Innella citate de Piacenza, in Lommardia, fu uno nobile omo de casa delli Visconti de Castiello Nuovo lo quale se trovava da vinti milia corve de grano. Era lo tiempo de maio, che la fava dao suso. Lo lunedìe fue che tutta Piacenza curze a soa casa, domannanno dello grano. Respuse lo nobile: "Sei livre voglio della corva". Lo martedìe venne la iente con sei livre. Quello li remannao senza grano e disse: "Sette livre ne voglio". Lo mercordìe tornao la iente per grano con sette livre. Quello disse: "Otto livre ne voglio". Lo iovedìe la iente veniva con otto livre. Quello ne domannava nove. Lo venardìe quelli ne vennero con nove livre de bolognini. Lo iniquo omo favellao e disse così: "Tornete a casa, iente molestiosa. Questo mio grano mai non venno, se de esso non aio dieci livre". Con granne tristezze fé tornare lo puopolo e·lla carovana a casa a sostenere fame. Ma lo buono e cortese Dio non voize così, ché·llo sabato ionze uno cavalieri, citatino de Piacenza - missore Manfredo de Lando avea nome -, con una nave de grano. Lo grano valeva livre cinque. La fava comenzava ad ingranare. L'aitro dìe lo grano fu a livre quattro. Lo terzo dìe fu a livre tre. Quanno lo nobile delli Visconti vidde questo, forte fu turvato. E incontinente tornao a casa e entrao in quello luoco dove sio grano era. E considerao la moita moneta la quale de quello grano àbbera auta, se avessi allargata la mano alli necessitosi. Puro favellao e disse: "Ahi grano mio, io so' destrutto". E avenno la mente più a l'avarizia che alla pietate, iettao nello trave de mieso dello tetto, sopra lo sio grano, uno capestro e là, in mieso dello sio grano, se appese per la canna. Nella contrada de Roma, in uno castiello lo quale se dice Castiglione delli Alberteschi, incontrao un aitro miracolo, como io intesi da perzone fidedegne. Essenno questa terribile carestia, tutta la poveraglia de Roma, femine e uomini e zitielli, ne fuiro per le castella. Là se ne sparzero. In questo Castiglione fu uno che abbe nome Ianni Macellaro. E fu lo primo che a Santo Spirito de Roma donasse massaria de vestiame. Questo fu ricco massaro. Figlioli non avea, ricchezze moita: fanti, fantesche assai, pecora, vuovi, iumente, campi seminati, pozzi pieni de grano. Tutte queste cose Dio li consentìo. Quanno venne lo tiempo che la fava era verde in erva, onne massaro mannava uno vanno, che nulla perzona montassi in soa fava. Questo Ianni per contrario mannao lo vanno, che onne chivielli isse a sio campo de fava, aitro non sparagnassi che li fusti delle fave, manicassino allo piacere. Ora vedesi traiere de iente affamata. Corvinam servant pauperes famelici. L'oste pusero in quello campitiello. Per tutto dìe là demoravano a manicare. Lo patrone a cavallo in soa iumenta bene li visitava onne dìe e sì·lli salutava. Puoi li diceva che manicassino bene e portassino della fava a casa a loro piacere. Puoi dava uno panetto per omo. Allora tornava. In quello muodo consolava li bisognosi. Ora passao la carestia e venne lo tiempo della leta fertilitate. Li poveri a Roma tornaro. La fava de questo castiello fu carpita. Puoi fu vattuta. Li fusti della fava de questo buono omo fuoro puosti nella ara, nelli quali cosa nulla de frutto era. Mentre che li fusti se battevano, Dio immise la soa granne abunnanzia e frutto in quelli fusti. Ora vedesi fava abunnare. Tanta fu la fava, la quale da quelle gamme fu coita, che parze veracemente che la fava delli aitri castellani se partisse delle proprie are e venisse nella ara dove li fusti se vattevano. Così Dio liberamente mustrao che bene li piace la elemosina de buono core nello bisuogno e che esso cortesia fao a chi soveo alle necessitati aitrui e che per uno ne renne ciento, como nello Vagnelio dice. In questo tiempo, currevano anni Domini MCCCXXXVIII[I], dello mese de frebaro, la prima domenica de quaraiesima, quanno fu la orribile sconfitta in Lommardia, fra Como e Milano, nelli campi de Parabianco. La quale novitate fu per questa via. Puoi che Veneziani àbbero ottenuta la vittoria sopra missore Mastino della Scala de Verona e àbbero Trevisi e sì cassaro tutti li sollati da pede e da cavallo, questi sollati, partennose e non avenno suollo, fecero la granne compagnia. Loro capo e connuttore era uno famoso Todesco - Malerva avea nome -, prode de perzona, saputo de guerra. Cavalieri a speroni de aoro ce erano assai. Erance lo conte Olando e lo conte Guarnieri, li quali da puoi fuoro capora de compagnia. Erano da tre milia cavalieri e da quattro milia pedoni, fanti, masnadieri, senza aitra innumerabile iente la quale sequitava. Uno cacciato da Milano - missore Lodrisi Visconte avea nome - penzao de tornare in Milano, avenno questa compagnia e aitro sio esfuorzo. Così fece. Fece granne promissioni allo Malerva e quetamente mosse soie masnate. Ordinatamente passa per lo padovano, canto lo veronese, per mesa Lommardia. Nullo contradicente, ne vennero fra Milano e Brescia, puoi a Bergamo. E passaro ad uno luoco lo quale hao nome la Colomma de Chiaravalle. Lo luoco ène granne e ricco, luoco de frati bianchi de santo Bennardo. Là se posaro. Là li trassero per succurzo suoi amici, suoi benvoglienti. Là, de fòra alli maiuri campi, stenne paviglioni. Currevano anni Domini MCCCXXXVIII[I], dello mese de frebaro. Mentre questa granne moititudine per la contrada passava, forte tremavano le citati. Granne era la guardia la quale dìe e notte se faceva. Puoi che là, alla Colomma, fu ionta questa brigata, allora dechiarato fu che missore Lodrisi voleva tornare in casa per forza. Allora missore Azo Visconte era signore de Milano e della casa delli Visconti. Questo missore Azo subitamente sollicitao tutte le citati de Lommardia le quale stavano suiette a Milano. Puoi sollicitao tutti li suoi parienti. Puoi sollicitao tutti suoi amici. Non fina de mannare lettere e ambasciatori. Puoi sollicita lo puopolo de Milano. Puoi trasse fòra sio granne esfuorzo de cavalieri e de pedoni e puseli in campo. Là erano Bresciani, Trentini, Bergamaschi, Comani, Lodesani. Granne era la turba. La maiure parte erano villani. In campo iaccio doi uosti, quella de missore Lodrisi e quella de missore Azo Visconte. In mieso de questi doi uosti staco li campi de una villa la quale se dice Parabianco. Lo tiempo era de vierno e era quella neve granne con quella umiditate della quale ditto ène de sopra. E era sì esmesuratamente granne la neve, che non lassava fare vattaglia ordinata. Fi' allo inuocchio omo se affonnava nella neve. Granne era lo infango. Le arme e le soprainsegne stavano imbrattate. Spesse voite se battevano questi uosti insiemmora. Puoi tornano a loro paviglioni. Tre dìe duraro questi tumuiti. La banniera dell'una parte e dell'aitra era lo campo bianco e·llo serpente nero, lo quale aveva in canna uno omo nudo. Una notte fu tanta la stanchezze delli uomini dell'oste de missore Azo, che più de setteciento ne fuoro scannati dormenno. Allora la dimane non fu demoranza nulla. L'una parte e l'aitra se acconcia. Vedese tromme sonare, vedese guarnire de capitanii. Ora se fiero insiemmora. Tutto lo campo de Parabianco stao pieno de commattenti. Tutto dìe durao la vattaglia. Vedese ferire de lance, spade e mazze. Mortale ène quella vattaglia. Granne suono fao. In quella vattaglia fu sconfitto missore Lucchino, zio de missore Azo, capo della iente, e preso per la perzona e fu vincitore missore Lodrisi con sio capitanio, lo Malerva. Quarantaquattro centinara de uomini fuoro occisi, senza li affocati in fiume e nelli gorgi della neve: Comasini, Trentini, Bergamaschi, iente de villa, da pede la maiure parte, li quali per lo impedimento della neve non potevano la voita dare. Trentasei centinara de cavalli fuoro stempanati, senza li moiti feruti. Ora vedi como succurze la ventura a missore Lucchino! Stava drento da Milano missore Azo armato con tutto lo puopolo. Per via nulla voleva essire. Stava reservato alli bisuogni dereto un sio parente, missore Ianni dello Fiesco de Genova, sio quinato, con cinqueciento Borgognoni de bona taglia in soa compagnia. Como la novella ionze della sconfitta, così essìo fòra de Milano con cinqueciento Borgognoni e con CCCC Todeschi e ionze alli campi de Parabianco. La prima cosa, raccoize tutti quelli li quali fuiti erano dello stormo. Così li aionze ad uno, quelli che potéo. La secunna cosa, provise como stava l'oste e vidde che la iente della compagnia non stava ordinata, anche stava sparza per lo campo, chi de qua, chi de là, sopra la guadagna dello spogliare. La terza cosa, compusese con Malerva e ordinao che non commattessi, e in precio li donao dieci fiaschi pieni de ducati, in semmiante de presentarli buono vino de Malvascia. Granne capestro ène la moneta. Allora prestamente sonao soie tromme e deose sopra ad essi. Poca resistenzia abbe. E deo per terra lo confallone de missore Lodrisi e de Malerva e prese missore Lodrisi per la perzona. In quella resistenzia fu occiso missore Ianni dello Fiesco de Genova. Puoi che fu fatto presone missore Lodrisi e fu rotta soa schiera, tutto lo campo fu vento senza aitra contradizzione. Tornao in Milano con triomfo e granne danno; ca, como ditto de sopra ène, quarantaquattro centinara de perzone moriero, senza li aitri pericolati delle ferute. Vedesi caricare che·sse faceva. Avevano le carra piene de queste corpora morte e sì·lle traievano dello campo e sì·lle portavano a loro sepoiture. Missore Lodrisi la vita non perdìo, ma fu renchiuso in perpetuo carcere in un castiello lo quale se dice Santo Columbano. Là dato li fu onne diletto lo quale demannava: de sonare, cantare, magnare, de femine; salvo che essire non poteva de presone. Quelli sollati della compagnia fuoro tutti derobati. Perdiero arme e cavalli. Io ne viddi venire de questi bene da doiciento cinquanta a pede. Tale avea speroni alla correia, tale una targetta, tale uno cimiero e alcuno menava ronzino, secunno le connizione. Alli Borgognoni fu data paca doppia e granni doni. Malerva fu lassato. Pochi dìe stette che missore Azo Visconte, signore de Milano, morìo e succedéo innella signoria missore Lucchino, sio zio. Ora comenza a signoriare missore Lucchino Visconte, lo quale abbe la maiure parte de Lommardia: Parma, Piacenza, Lode, Bergamo, Brescia, Milano, Crema e Civitale. E visse in signoria anni [...] in tanta pace e iustizia, che non se trovava in terreno chi se crullasse. Coll'aoro in mano iva l'omo franco. Fu omo severo senza alcuna pietate. Mai non perdonava. Secunno lo peccato, secunno la fallenza puniva. Questo fu de tanta crudelitate che fece manicare alli suoi cani uno guarzone todesco lo quale li aveva presentate cerase, perché aveva feruto un sio cane lo quale li aveva abaiato. E non abbe remissione né per puerizia né per caritate dello patre, lo quale era conestavile, sio amico, né per moneta. Questo missore Lucchino, benché guardie avessi de uomini da pede e da cavallo a muodo regale, nientedemeno abbe una speziale e nova guardia con seco. La guardia soa erano doi cani alani granni e terribili, gruossi como lioni, lanuti como pecora. L'uocchi avevano rosci e terribili. Questi doi cani alani sempre lo sequitavano per la corte, l'uno dalla parte ritta, l'aitro dalla parte manca. In mieso dello palazzo avea una forte torre. dentro dalla torre era una spaziosa cammora. Quanno missore Lucchino se posava in quella cammora, li cani staievano descioiti. Sempre circondavano la torre. Nulla perzona a l'uscio se poteva accostare. Denanti alla torre stava la granne sala. Alla porta stava la guardia. L'aitra guardia stava alla porta generale della corte nello terrio. L'aitra guardia staieva nella piazza. Quanno missore Lucchino manicava solo, staieva a tavola, li cani tuttavia con esso, granni quarti de carne dao ora a l'uno, ora a l'aitro. Quanno missore Lucchino staieva in pede, la moita baronia li faceva intorno piazza con silenzio per temenza delli cani. Nullo se crulla, nullo parla; ca se per ventura lo signore un poco guardasse alcuno con malo esguardo, sùbito li cani li forano sopra in canna, derannolo per terra. De tale guardia canina nullo se maravigli, ca questa cosa nova non ène. Scrive Valerio Massimo che Massinissa fu rege de Numidia e fu moito amico e fidele serviziale dello puopolo de Roma. Questo re Massinissa sempre avea in guardia de soa perzona doi granni cani, granni mastini, e non se renneva securo senza essi, benché avessi guardie de pedoni e de cavalieri, avesse lo potente e ricco reame de Numidia, sopra tutto questo avesse la bona amicizia de Romani, per li quali era signore, era salvo, securo e temuto. Alcuna voita fu demannato questo perché faceva. Respuse e disse: "L'omo, che vole essere libero naturalmente, non sao mantenere fidelitate. Lo cane, lo quale non conosce libertate, è fidele a sio patrone". Anche questo missore Lucchino fu omo moito iusto. Né per aoro né per ariento lassava de fare iustizia, sì che soa terra era franca. Abbe uno sio figlio vastardo: missore Bruzo avea nome. A questo missore Bruzo donao la signoria de Lodi. A quella citatella lo mannao a regnare. Accadde che uno ientile omo occise un aitro. Fu preso e devease decollare. Li parienti de questo malefattore parlaro con missore Bruzo e dissero così: "Missore Bruzo, a ti bisognano denari. Non perda la perzona lo presonieri vuostro. Ecco quinnici milia fiorini apparecchiati". Questo odenno missore Bruzo de colpo fu mollato. Cavalcao da Lode a Milano. Fu denanti allo patre, sì se inninocchiao e domannao grazia, perché esso era povero cavalieri. Poteva guadagnare quinnici milia fiorini, se allo malefattore salvava la vita. Questo odenno lo patre, missore Lucchino, deo de cenno a un sio donziello, che li portassi dalla cammora un sio elmo. L'elmo era moito forbito e relucente. De sopre era uno bello cimiero, de velluto vermiglio copierto. Eranonce scritte lettere de aoro. Quanno l'elmo fu venuto, disse: "Bruzo, lieii queste lettere". Le lettere fuoro lesse. Dicevano: "Iustizia". Disse: "Dunqua noi in apparenzia la iustizia portemo, in effetto no? Che vòi che quinnici milia fiorini pesino più che·llo elmo mio, lo quale pesa più che·lla mea signoria? Va' e torna a Lode e fa' la iustizia. E se questa non fai, io la farraio de ti". Moito voleva che issi omo netto in sio terreno. Moito amao lo puopolo menuto. Resse anni [...] e in soa signoria morìo e rassenao la bacchetta megliore e maiure che non la prese. In questo tiempo comenzao la iente esmesuratamente a mutare abito, sì de vestimenta sì della perzona. Comenzaro a fare li pizzi delli cappucci luonghi [...] comenzaro a portare panni stretti alla catalana e collati, portare scarzelle alle correie e in capo portare capelletti sopre lo cappuccio. Puoi portavano varve granne e foite, como bene iannetti e Spagnuoli voco sequitare. Denanti a questo tiempo queste cose non erano, anche se radevano le perzone la varva e portavano vestimenta larghe e oneste. E se alcuna perzona avessi portata varva, fora stato auto in sospietto de essere omo de pessima rascione, salvo non fusse Spagnuolo overo omo de penitenza. Ora ène mutata connizione, che a deletto portano capelletto in capo per granne autoritate, varva foita a muodo de eremitano, scarzella a muodo de pellegrino. Vedi nova devisanza! E che più ène, chi non portassi capelletto in capo, varva foita, scarzella in centa, non ène tenuto cobelle, overo poco, overo cosa nulla. Granne capitagna ène la varva. Chi porta varva ène temuto. Qui me voglio un poco stennere. In uno paiese fu uno rege lo quale moito onorava li filosofi e l'uomini li quali soco savii e dico bone paravole. Questo re moito cercava de avere compagnia de uomini virtuosi. In soa corte accadde un granne filosofo. Moito fu alegro lo re della presenzia de questo buono omo e tanto maiuremente quanto questo filosofo aveva buono aspietto e pienamente responneva ad onne questione che ad esso se faceva. Ora vole lo re onorare la bontate, la scienzia, la vertute, la quale in questo filosofo se trovava. Invitaolo ad uno solenne convito de diverzi civi delicati e buoni, allo quale convito fu tutta soa baronia. La sala, dove lo magnare se faceva, fu granne e larga. Le tavole messe atorno atorno. Tutto lo palmento della sala era copierto de tappiti, li quali tappiti erano de pura e netta seta. Le mura intorno erano ammantate de celoni riccamente lavorati a babuini messi a seta ed aoro filato. Lo cielo de sopra era de cortina, fatto a stelle d'aoro. Moiti panni tartareschi là sparzi erano. Voleva lo re che quello convito solenne fussi. In capo della sala stava una tavola piccola. A questa tavola sedevano lo re e lo filosofo soli. Viengo li serviziali, delicato portano manicare. Mentre che·sse manicava, lo re non perdeva tiempo, anche dilientemente domannava lo filosofo che li rennessi rascione de certi dubii. Lo filosofo, como prudente perzona, sufficientemente responneva. Soie resposte fortemente cadevano nello animo dello re, ca·sse accostavano allo vero. Donne lo re spesse fiate diceva: "Bene dicesti. Piaceme". Infra tanto allo filosofo venne voluntate de sputare. Teneva in vocca una granne spurgata una ora grossa. Più tenere non lo poteva. Fore conveniva che uscissi. Guardava lo filosofo intorno allo muro e per terra, cercava lo luoco dove potessi sputare. Non vede luoco da ciò; ca, como ditto ène, onne cosa era coperta de nuobili tappiti. Allora voize lo filosofo lo capo e abbe veduta la faccia dello re. Lo re aveva una varva moito nera, granne e larga; la longhezza fi' a mieso lo pietto, le banne fi' nelle ionte delle spalle. Pareva uno varvassore. Considerao lo filosofo che quella varva fussi lo più brutto luoco de quella sala e più atto a recipere lo sio sputo. Fermaose lo savio filosofo e sputao in mieso della varva dello re. Quanno lo re se sentìo ciò, fortemente stette turbato e regoglioso e disse: "Questo perché hai fatto?" Respuse lo filosofo e disse: "De sotto, da lato, de sopre, da onne canto me staco panni messi ad aoro. Non ce ène luoco alcuno laido da sputare potere, salvo questa toa varva: è lo più laido luoco che nce sia. Perciò ce aio sputato, ca omo deo sputare nello più laido luoco". A queste paravole lo re non responneva, ma stava muto. Allora lo filosofo lo toccava in la spalla e disse: "Di' ca bene dico. Di' ca te piace". Ora se questi, li quali portano la varva, staiessino a lato a questo filosofo, recìperano quello che recipéo lo re.

Cap. X

Della morte dello re Ruberto e della venuta che fece la reina de Ongaria a Roma.

Anni Domini currevano MCCCXLII[I] quanno finìo li suoi dìe lo inclito e glorioso omo Ruberto rege de Cecilia e de Ierusalem. E fu sotterrato onorabilemente nella citate de Napoli, in Santa Chiara. Iace nello luoco dove duormo suoi antecessori. Per la cui morte lo renno de Puglia fu desolato, como ioso se dicerao. Questo re Ruberto fu omo moito savio, e tanto savio che per sio sapere acquistao la corona, ca non dovea essere re. Esso anche ordinao che Carlo sio frate consobrino, a chi spettava la corona, fussi chiamato re de Ongaria; e così fu, donne puoi fu coronato esso. Questo re Ruberto fu omo che mantenne sio reame in tanta pace, che per tutta Puglia, tutta Terra de Lavoro, tutta Calavria e Abruzzo la iente delle ville arme non portava, né conoscevano arme. Anche portavano in mano una mazza de leno per defennerse dalli cani. Anche questa tale usanza in parte se serva. Questo re, quanno li iogneva la novella che diceva: "Cinqueciento dell'oste toa soco perduti nella vattaglia", responneva e diceva: "Cinqueciento carlini so' perduti". Questo re fu tanto industrioso che forza de imperio in soa vita non se potéo accostare a sio renno. Doi imperatori consumao drento le mura de Roma: como fu Errigo conte de Luzoinborgo e Lodovico duce de Baviera, como de sopra ditto ène. Anche questo re fu conte de Provenza e fu omo granne litterato, e spezialmente fu espierto nella arte della medicina. Granne fisico fone e filosofo fone. Alcuna cosa avaro voleva vedere como soa moneta despenneva. E che più, le pene perzonale convertiva in pecuniarie. Abbe questo re un sio figlio lo quale fu duca de Calavria. Fu omo moito iustiziale e diceva: "Lo re Carlo, nuostro visavo, acquistao e mantenne questo reame per prodezze, mio avo per larghezze, mio patre per sapienzia. Dunqua io lo voglio mantenere per iustizia". Forte se studiava lo duca de servare somma iustizia. Accadde che uno barone dello renno occise uno cavalieri. Fu citato a corte dello re in Napoli. Là fu tenuto in presone e fu connannato alla testa. Puoi lo re commutao la sentenzia in pecunia de perzonale, ché lo connannao in quinnici milia once. La moneta pacata fu. L'omo tratto dallo dubioso luoco e fu messo in un aitro libero e largo. Quanno lo duca questo sentìo, incontinente entrao quella presone donne questo era stato essito. Li fierri se fece mettere alle gamme. Miserabilemente stava como volessi perdere la perzona. De là non vole iessire. Quanno lo patre sentìo questo, conoscenno la voluntate dello figlio, condescese alla iustizia contra soa voluntate. L'omicidiario la testa perdìo. Da puoi se fece venire denanti lo duca sio figlio, allo quale disse queste paravole: "Duca, noi simo condescesi a toa voluntate a bona fede; ché·lla troppo granne iustizia, dove non se trova remissione, ène pessima crudelitate". Questo re sempre teneva galea apparecchiata per fuire in Provenza, se faceva mestieri; la quale galea se chiamava la galea roscia. Questo re, como abbe receputa la corona, voize reacquistare la Cecilia, la quale sio patre per lussuria perduta avea. Granne esfuorzo de iente fece. Ciento milia perzone abbe. Armao sio navilio per passare a recuperare la Cecilia. 'Nanti che issi, iettao suoi arti, la sorte della geomanzia. Fuolli respuosto che dovea prennere la Cecilia. Ora ne vao lo navilio, e·llo stuolo se calao a Trapani. Là a Trapani, facennose alcuna curreria, fu subitamente presa una donna la quale ne iva a marito. Fu demannata como avessi nome. Respuse: "Io so' la triste Cecilia". Questo odenno lo re fu forte turvato. Disse ca era ingannato dalli suoi arti. La promessa adempita era. Sio stare non era utile. Procacciava dello tornare; ma tornare non poteva, né avere fodero poteva, perché lo mare era turvato. Granne bussa, granne tempestate faceva. La fortuna no·lli lassava partire, non li lassava portare foraggio. In terra de nemici li conveniva morire de fame. Vedi crudelitate che li convenne usare per scampare con soa oste. Lo pane aveano poco. Davase a mesura. Penzao de mancare iente, perché·lli bastasse più lo pane che avea. Eadem actio prava fuit et studiosa, como Aristotile dice. Era drento, fra mare, una isoletta con selve, forza da longa dall'oste miglia dieci. Abbe galee e mise in esse forza da sei milia perzone, e deoli ferramenta da tagliare lena, accette e ronche, e mannaoli a quella isola sotto spezie de lena fare. Puoi che li sei milia fuoro portati là, fuoro lassati. Li legni tornaro. Là li lassaro senza pane. Là moriero de pura fame. Vedi crudelitate! Per passare tiempo sei milia perzone moriero de fame. Nullo li visitao, nullo li confortao. A questi fora stato de bisuogno la cappa de santo Alberto, la quale se li faceva tavola, per tornare a casa. Mancata che abbe lo re questa soa oste de queste perzone, esso cercava de tornare. Como le navi fuoro descioite, subitamente la tempestate desiettao lo navilio là e cà. Tutta notte viddero li pericoli de mare. Dodici legni, dove lo re stava, per violenzia de fortuna vennero in puorto de Messina. Era l'aurora, lo dìe se faceva. Lo romore delli marinari era granne. Don Federico, cunato de re Ruberto, excitato per tale romore, lo quale non mustrava opera de mercatanti, se levao da lietto e fecese alli balconi e guardanno vidde insegne regale. Conubbe ca re Ruberto, sio cunato, era iettato per la fortuna, lo quale venne per la Cecilia recuperare. La reina sequitao lo re e, ciò conoscenno, disse: "Ahi re, que farrete a mio frate?" Lo re abbe misericordia e non curao ca quelle dodici galee erano perdute. De soie mano non potevano campare. In quello stante, in su la mesa terza, acquetao la fortuna. Lo re con soie galee se trasse alquanto a reto, puoi tanto più che tornao a Napoli. In sio palazzo entrao. Mai non gìo più in armata, né per mare né per terra. Avea un sio ogliardino allato dello palazzo e là sempre stava a valestrare. Mentre che valestrava, penzava li fatti de sio reame. Mentre che iva de segnale a segnale, dava le resposte e·lle odienzie alle iente, commetteva li fatti e·lle cose le quali devea. In questo tiempo, currevano anni Domini MCCCXLIII, venne a Roma a visitare le corpora delli santi e·lle basiliche sante la reina de Ongaria, matre de Lodovico re de Ongaria e de Antrea re de Puglia, sio frate. Stette dìe tre in Roma e visitao tutte le santuarie e fece granni doni a tutte le chiesie. Frate Acuto, uno fraticiello de Ascisci lo quale fece lo spidale della Croce a Santa Maria Rotonna, fu lo primo che·lli domannassi elemosina per acconciare ponte Muolli, lo quale era per terra. La reina li donao tanta moneta, che lo ponte se refaceva con alcuno aiuto. Donne fuoro fatte le cosse nove e·lla torre e forano fatte le arcora, se non avessi auto impedimento. Puoi incomenzao a muitiplicare la poveraglia de Roma e tanto era lo petire, che non bastava lo sio dare. Per la importunitate delli petitori se abivacciao la reina e convenneli partire. Nam pauperes habent mores corvinos. Rustici montani mores habent lupinos. Moito la onoraro le donne de Roma. Moito ammirava l'abito de Romane. Partìose e gìo a Napoli a visitare sio figlio re Antrea, e visitaolo e là recipéo per la reina Iuvanna e per li conti dello renno quelle onoranze le quale diceraio là dove se tocca della morte de re Antrea. Questa reina veniva sopra una carretta. Quattro palafreni tiravano quella. Otto contesse sedevano con essa. Tutte guardavano ad essa. Nella aitra carretta venivano aitre damiscelle con veli ongareschi e con coronette d'aoro puro in capo. Cinquanta cavalieri a speroni d'aoro intorno, e aitri serviziali. Questa donna avea mozze quattro deta della soa mano ritta. E mozzaolille uno barone de Ongaria: Feliciano abbe nome. La novella fu così. Feliciano abbe una figlia, nome Elisabetta, la quale per compagnia della reina usava in corte regale. Lo cunato dello re carnaliter illam mediante regina cognovit. Venne lo tiempo che·llo patre la retrasse dallo servizio della reina e disse ca·lla voleva maritare. Disse Elisabetta: "Non se conveo che marito aia quella a chi sotto ombra de re è tuoito sio onore". Questo odenno Feliciano fu turbato. Più non disse. Anche ne gìo con un sio iovinetto figlio, cavalieri, a parlare collo re. Lo re era in una oste. Entra Feliciano l'oste e passa onne iente. Passa lo steccato intorno allo re e ionze allo paviglione regale. Là, 'nanti la porta dello paviglione, trovao uno frate, lo quale era confessore dello re, piecaose in terra e sì se confessao e disse: "Io dego condescennere ad uno caso collo megliore cavalieri dello munno, donne è pericolo de morte de doi perzone. Pregote che me assolvi". Lo frate no·llo intese. Imbrattao la porta, fece soa croce, sio miserere, e abbe assoluto de quello che non intenneva. Intra tanto le guardie nunziaro allo re che Feliciano era venuto. Lo re stava a tavola e pranzava esso e·lla reina e sio figlio Lodovico, mode re, lo quale era in etate de infanzia. Deo licenzia lo re che Feliciano entrasse. Feliciano, auto commiato, disse allo figlio: "Sta' qui. Non entrare. Se odissi romore, cavalca e vattene. Lo cavallo bene te portarao". Entra Feliciano. Quanno lo re lo vidde, aizao la voce e disse: "Ahi pazzo, haime trovata drento la Boemia quella bona spada la quale me promettesti?" Respuse Feliciano e disse: "No. Io la trovaraio. Volete che aia tale fierro, tale tagliare, quale hao questa mea cortellessa?" E ditto questo, aizao la cortellessa sopra lo capo dello re più de doi piedi.

Lo re levao l'uocchi per guardare alla accia de questo fierro. Allora Feliciano abassava la mano e lassao cadere de fortuna. Ìo lo colpo per partire la testa dello re in doi parte. Lo re, temenno e tremanno, sùbito se mise sotto la tavola. La reina parao la mano. Lo fierro coize quattro deta, le quale sùbito caddero in terra. La cosa era nova. Lo romore granne. Li donzielli, li quali servivano, colle cortella da servire occisero Feliciano. Puoi curzero sopra lo figlio e sì·llo occisero. Patre e figlio morìo in uno ponto per la lengua de Elisabetta. La reina ne perdìo mesa mano.

Cap. XI

Della sconfitta de Spagna e della toita della Zinzera e dello assedio de Iubaltare.

MCCC[...] anni Domini currevano, de mese de [...], quanno fu fatta la granne e orribile vattaglia infra Cristiani e Saracini. Duce Deo Cristiani fuoro vincitori. Saracini fuoro sconfitti in Spagna in uno campo lo quale se dice Cornacervina, nello terreno della citate de Sibilia, dove moriero sessanta milia Mori. La quale novitate fu per questa via. Uno nobile e glorioso re fu in Spagna. A nostri dìi megliore non fu. Abbe nome donno Alfonzo, figlio dello re Duranno re de Castelle. Questo re Alfonzo fu moito vittorioso. Continuamente resse la frontiera contra delli Saracini. In una rotta sconfisse uno grannissimo duca de Saracini, lo quale avea nome Picazzo, e sì·llo prese per la perzona. Questo Picazzo avea uno uocchio. Non più consideranno lo re Alfonso la nobilitate e·lla potenzia de Picazzo, deliverao de perdonarli la vita, se voleva recipere lo battesimo e prennere soa figlia per moglie. Le cose fuoro promesse e venivano ad effetto. Quanno Picazzo venne alla fonte dello battesimo, fu pentuto. Desprezzanno lo battesimo e lo cristianesimo sputao orribilmente nella conca. Questo vedenno lo buono re Alfonzo fu turvato. Niente tarda. Impuina mano a soa spada e senza misericordia li partìo la testa dallo vusto. Quello cuorpo fu iettato fra li cani. Questo iovine Picazzo avea una sia matre reina: la Ricciaferra avea nome. La Ricciaferra avea un re per marito, lo quale avea nome Salim re de Bellamarina, nato de una citate che se dice Trebesten. Questa Ricciaferra, sentenno occiso lo bello sio figlio Picazzo per la mano dello re Alfonzo, penzao de fare la vennetta sopre li Cristiani e sopra lo re Alfonzo. E perché ciò fare non se poteva senza granne esfuorzo, penzao de fare lo passaio sopre la Cristianitate, e così fece. Abbe ordinato collo loro papa, lo quale in quello tiempo avea nome Galiffa de Baldali, soldano de Babillonia, che fecessi uno commannamento generale e indulgenzia per tutta Saracinia - Partia, Media, Turchia - a fare lo passaio e·lla granne armata per prennere terre de Cristiani e occupare e destruiere le chiesie de Cristo e relevare tiempi a Macometto. Così fu fatto. Per tutta Saracinia vanno predicanno li alfaquecqui, cioène prieiti, e portano lettere espresse da parte de Galiffa loro papa che·sse faccia lo passo sopra Cristiani. La iente fu adunata grannissima da pede e da cavallo. Fuoro da quattrociento milia perzone da vattaglia. Fuoro tutte con mazze in mano e fionne: Perziani, Arabi, Saracini neri, Parti, Dulciani. Queste fuoro le ienerazioni commosse a questa adunanza per lo passo fare de cà da mare. Quattro fuoro li regi de corona li quali questa iente guidavano. Lo primo fu lo re dello Garbo, lo re de Marocco, lo re de Bellamarina, in aitro nome de Trebesten, e lo re de Granata. Questi fuoro li regi de Saracinia. Vero ène che·llo re de Granata non venne con questi, ché sio reame ène drento della Spagna; ma quanno sentìo la forza passata de Saracini, sì se rebellao e mosse, guerra drento nella Spagna. Questi quattro regi con tanta iente muossero e passaro lo mare e liberamente se posaro in terra ferma. Sei iornate de terreno occuparo de Cristiani con cavalli, asini, muli, camielli, femine infinite, siervi, arme, fodero de pane e aitro arnese da guerra. Francamente passano e pono l'oste sopra una citate de Spagna la quale se dice Taliffa, e dicono che quella ène cammora loro. Nelli lati e spaziosi campi destienno li paviglioni e iaccio in campo. Per fermo assedio fare portano ignegni e trabocchetta. Grossa era la iente. Non dubitano. Alquanto magnano, bevo. Loro tammuri sonano. Deh, como granne romore faco! Haco ignegni da aizare scale, da iettare macine. Loro campo, dove posaro, avea nome Cornacervina, campo spazioso, abunnevole de acqua, lena e erva, anche forte, ca·llo fortificava uno fiume lo quale se dice Rigo Salato. Questo fiume desparte Taliffa da Sibilia. Da vero che in questo campo non forano venuti né potuti venire per la stretta valle la quale passaro canto la costa, se non fussi che nella entrata dello paiese se pattiaro con un granne e potente barone dello reame: don Ianni Manuelle avea nome. Questo don Ianni Manuelle era delle più potente colonne de Spagna. La montagna era in sia balìa. Era questo don Ianni in errore collo re Alfonzo, ché no·lli favellava e derobare faceva, perché reprenneva lo re, lo quale con soa reina stare non voleva, anche stava con una badascia - madonna Leonora avea nome -, como io' diceremo. A questo don Ianni Manuello donaro li Saracini granne quantitate de doppie de aoro, perché·lli concedessi lo passo; e così fu. De licenzia dello re Alfonzo don Ianni Manuello concedéo lo passo a Saracini, e vennero nelli campi de Cornacervina, como ditto ène, e là stavano ad oste a fermo assedio. Derizzaro trabocchi e fecero ignegni da ponere scale, con rote e funi. L'oste stette ben mesi tre. Taliffa se perdeva in tutto, se non se succurreva. Non se poteva recuperare. Quanno lo buono re Alfonzo se sentìo sopre l'oste e·llo esfuorzo granne, non dottao, anche se puse alla frontiera in Sibilia, la citate reale. Dicese che madonna santa Maria fussi nata in questa citate. Ora non dorme lo re Alfonzo. Manna per succurzo allo papa. Manna alli regi li quali staco intorno ad esso, cioène a sio zio, don Dionisi de Lisvona canto mare, re de Puortogallo, allo re de Navarra, allo re de Aragona. Manna commannamenta espresse a tutti suoi baroni che sequitinolo. A don Ianni Manuello fao commannamento tanto che non se parta, anche stea e chiuda la essuta e fera dereto, quanno lo stormo oderao. Ben se sollicita lo re. Ben chiama tutta la Spagna. Questi regi non fecero resposta, ma cavalcaro de sùbito con loro espediti cavalieri e pedoni. Mustrano lo loro buono volere e forza. Lo primo aiutorio fu quello de papa Benedetto: setteciento uomini d'arme de buono apparecchio, Todeschi e Franceschi, cavalli gruossi, bene armati, vennero crociati, assoluti de pena e de colpa. Lo secunno aiutorio fu lo re de Navarra con quelli de Pampalona, con cinque milia cavalieri adorni, buono capiello de acciaro in testa, bona targia in vraccio, tagliente guisarina da lato, lucente zagaglia in mano. Anche venne con pedoni vinti milia. Lo terzo aiutorio fu lo re de Aragona con cinque milia cavalieri fra Provenzani e Franceschi. Con esso fuoro quelli de Tolosa. Anche menao pedoni vinti milia. Anche ce fu don Dionisi sio zio con quelli della citate de Lisvona. Lo quarto aiutorio fu lo re de Puortogallo con quinnici milia cavalieri spagnuoli, currienti cavalli e dardi in mano. Lo quinto fu esso re Alfonzo, re de Castiello, con trenta milia cavalieri buoni, adorni, con cavalli spagnuoli de quelli de Castiglia, li quali se contano li più nuobili destrieri che siano, pedoni senza fine. Mentre che lo assedio era sopra Taliffa, lo re Alfonzo era in Sibilia con soa baronia. La fame e·llo caro era granne in Sibilia. La iente, la quale era venuta a servire, non poteva tanto demorare. La moneta non bastava. Forte se mormorava la iente de tanta tardanza. Allora lo re Alfonzo, represo da suoi baroni, deliverao iessire fòra alla vattaglia e cercare soa ventura. Spene abbe in Dio, lo quale non li fallìo. Esse fòra vigorosamente. In questa forma soa iente conestavilìo. Trenta milia cavalieri abbe de buono guarnimento, non più, ciento milia de pedoni. Era in mieso, fra soa iente e l'oste de Saracini, lo fiume lo quale se dice Salato. De·llà da Salato stao Cornacervina, dove staco trabacche e paviglioni, alfaniche e confalloni, iente assai, como ditto ène, con moiti tammuri. Da lo lato ritto de l'oste stavano le montagne de Ilerda, la veglia terra. Dallo lato manco stavano le pianure spaziose. Dereto li stava una stretta valle, la quale avevano passata per forza de moneta, como ditto ène. De sopre dalla valle staievano le montagne le quale teneva don Ianni Manuello. Denanti aveano lo fiume e·lli nimici. Lo passo dello fiume curatamente se guardava. Lo re Alfonzo tenne questa via. Imprimamente mannao li setteciento cavalieri papali crociati a passare lo fiume. Treciento rompessino lo passo e commattessino colle guardie. Doiciento se ponessino dallo lato della currente dell'acqua a sostenere la forza dello fiume, che·lla pedonaglia potessi passare; li doiciento remanessino a guardare lo passo, aitro non facessino. Non era piccolo pericolo passare lo fiume, lo guado rompere. Tutti fuoro destrieri eletti. A questa iente aitro confallone dato non fu, se non uno confallone collo campo bianco e·lla croce vermiglia. Su la croce era lo crucifisso. Po' li setteciento crociati sequitao esso re Alfonzo a cavallo in uno cavallo ferrante liardo. Dicese che fussi lo più bello e megliore dello munno. In soa compagnia abbe cavalieri dieci milia, che, rotto lo passo, fossi lo primo lo re con soa iente alla vattaglia. Po' lo re Alfonzo sequitao lo re de Aragona con cinque milia cavalieri e pedoni vinti milia. Questo ìo dallo lato della montagna a ponere li impedimenti e occupare li passi e·lle selle, le entrate e·lle descese, perché Saracini per la montagna non avessino valore né redutto né fuga. Dallo lato manco, innella pianura, fu mannato lo re de Navarra con dieci milia cavalieri, con cinque milia pedoni, perché lo Saracino non potessi dare la fuga né destennersi per li campi. Po' queste iente sequitao lo re de Puortogallo con quaranta milia pedoni e tutto l'aitro esfuorzo a sostenere le spalle. Questa fu la schiera grossa. Dallo aitro lato dereto don Ianni Manuelle devea ferire colli montanari. Questa fu loro bella conestavilia. Così ne venne la lettera a Roma a missore Stefano della Colonna berbentana, a gran pena intesa. Dato l'ordine e·llo nome, li setteciento cavalieri ionzero allo fiume. Rompo l'acqua e passano. Non vaize reparo. Tre cavalieri, li quali erano sopranamente a cavallo, fuoro li primi che l'acqua passaro: uno arcivescovo e doi cavalieri a speroni de aoro, donzielli dello re Alfonzo, uomini li quali sapevano la contrada, usati dello passo. Questi fuoro li primi 'nanti all'aitra iente. Là nello passare fuoro presi dalli perfidi Saracini e prestamente loro teste dallo vusto fuoro troncate. Là in quello passo fuoro martiri gloriosi de Cristo. Ora iogne la cavallaria. Passa uno, passa l'aitro. Poco vale lo reparo. A una forza tutto lo stuolo de Cristiani fu puosto de·llà dallo fiume. Nullo ce pericolao nello passo, se non l'arcivescovo e li doi cavalieri, li quali lo glorioso martirio recipiero. Passato lo stuolo, Saracini, la perfida iente, non dottava per la granne loro moititudine. Anche stavano canto l'acqua e manicavano e godevano, loro cembali sonavano, granne stormo facevano. Alla fine se levano su. Prienno loro arme, arcora, mazze e fionne, e resisto forte e pienamente. L'ora era su la terza. Ora vedesi tromme e instrumenti sonare. Odese romore da parte in parte. Tamanto è lo strillare, che voce umana nulla se intenneva. Su in quelle coste rembombava lo crudele romore. Dieci miglia da longa fu odito. Odi pianto, odi gridare. A cuorpo a cuorpo se affrontano. Alle mano soco. Chi dao, chi tolle."Dae, dae, dae" odivi; aitro no, per granne ferire su nelle teste armate. Vedese iettare de lance, aizare de spade, saiette volare. Le prete, vrecce de fiume, de piena mano fioccavano como neve. Là erano la maiure parte Turchi, li quali aitro non aveano se non fionne e prete. Moita iente pericolaro. Io ademannai uno pellegrino spagnuolo se de questa rotta alcuna cosa sapeva. Quello disse ca nce fu, e trassese sio capiello de capo e scoperze la fronte e mustrao una sanice rotonna in mieso della fronte, e disse ca quello fu colpo de preta. Un aitro, lo quale similemente adimannai, scoperze lo capo de sio cappuccio e mustraome tre sanici de colpo de spada e una nella fronte de preta. Puoi bene sapere ca se maniavano Saracini, ca·sse aiutavano. Vedese travoccare da cavallo, teste fennere, saiette e sbiedi pietti passare. Passano li cavalli sopra le corpora. Granne ène lo pianto e·llo guamentare. Così curre lo sangue como rigo de acqua. Là se pare chi ène figlio de bona mamma. Ora vedesi lo bello commattere e·llo delettevole armiare che·lli iannetti facevano. Currevano per lo campo commattenno, ferenno e lancianno. Non era chi li potessi adetare, tanta era la loro velocitate e leierezze. Una targetta in vraccio portavano longa doi piedi, lata uno, coperta de lino, so·lla quale da capo a pede se coperivano, staffe corte [...] vestimento de lino incerato, in capo scuffia de fierro. In mano portavano dardi. Questi dardi lanciavano. Chi ne leva uno piùne non ne vole. Quanno li dardi mancavano, lo iannetto currenno con sio curzieri se piecava fino a terra. Coglie sio dardo e destramente lo lancia denanti, dereto, abasso, in aito secunno soa voluntate. Granne ène loro leierezze. Questo ène lo iocare della iannettia. Questi iannetti soco li scoperitori regali. Durao la vattaglia fi' alla nona, più no, perché la iente saracina sentìo don Ianni Manuello, lo quale della montagna descenneva per ferire dereto e per lo passo parare. Quanno fu questo sentuto e conubbero la fumiera, lo splennore delle lance e delle insegne, subitamente li venne meno lo core e·lla vertute. Tutti fuoro rotti. Non puoco resistere. Ora se voitano, dacose alla fuga. Terribile cosa è loro fuire. Fugo senza alcuna remissione. Non è speranza se non nelle gamme. Ora vedesi occidere, ora vedesi maciello fare. Granne tagliare se fao de quella canaglia della iente saracina. Questa sì ène la nobile sconfitta de Spagna, infra moite poche memorabile. LX milia corpora de Saracini fuoro morte, XL milia li presoni. A queste cose lo re non fu, né·lle sentìo, per lo poco dubio lo quale avea nella soa forte schiera. Commattéo puoi che la novitate pervenne alla forte schiera e·llo dubio fu palesato. Stava in guardia della porta dello regale paviglione uno omo - Serafin avea nome - più granne che li aitri tre piedi, macro, tutto nervoso, longhe le gamme, nero lo voito, vestuto de uno perponto de iuba de seta. In mano teo una mazza de fierro 'naorata. Questo Serafin, a cui era fidata la perzona dello re, dubitao de nunziare la mala novella. Puro la manifestao alla reina. Mossese la reina: Ricciaferra avea nome. Passa denanti allo re. Delli suoi uocchi fontana de lacrime descenneva. E disse: "Su re, ca·lla ventura ène de donno Alfonzo". Lo re iocava a scacchi. Questo odenno fu turbato. Più non disse, più non odìo. Bastaro doi paravole. Vestuto de una [...] de aoro longa fi' alli piedi, barretta de aoro in capo con prete preziose, bacchetta d'aoro in mano, salle a cavallo, prenne lo camino de casa soa. Era intorno affasciato da sette milia Turchi con vastoni de fierro inaorati in mano, vestuti de iube de sannato sopre ponte de ballacchino, armati alla imperiale. Anche ivano aitri cavalieri con lance, con fierri lati, lucienti. Denanti a questi ivano assai cembali sonanti e aitri strumenti senza fine. Regale pareva la forza e lo suono. Più denanti vaco dieci milia iannetti currenno e sparienno da onne lato dardi, como fao la spinosa alli cani. Nulla perzona ad essi se accosta, sì granne ène lo fioccare delli dardi. E moita aitra iente da pede e da cavallo con granne fortezze, con sole armature lo sequita. A questo muodo ne vao fuienno dello stormo Salim, lo re de Bellamarina. Rompe e passa onne para per forza della nobilitate de soa cavallaria. Lassao Ricciaferra, la soa donna, la reina. Lassao onne cosa desperata. Sei dìe durao la fuga. Sei dìe durao la incaiza. Così iace seminata la iente morta como le pecora. Po' la partenza dello re la reina fece destennere panni bianchi de seta in terra. Là fece ponere tutta la moneta e·lle gioie regale. Là essa sedeva con cinquanta soie soffragane concubine dello sio re. Uno cavalieri spagnuolo - Arcilasso avea nome -, armato e bene a cavallo con una lancia in mano curreva per lo campo. In sio furore entrao lo Alfanic, cioène lo paviglione dello re. Occurzeli la reina. Quanno questo Spagnuolo vidde la reina sedere in figura de tristizia (puro la soa vista dignitate mustrava), lassase e deoli de una lancia. Da oitra in parte la passao. De colpo l'abbe morta. Torna in reto e per lo campo fao granne male. Una maraviglia fu, che·llo ferrante dello re Alfonzo, della cui bellezza alcuna cosa ditto ène, da puoi che fune in quello campo, mai non posao, mai non fu potuto tenere. Contra voluntate delli circustanti allo freno portao lo re nello paviglione dello re de Bellamarina e là restette de furiare. Così fece como avessi auto senno umano. Quanno lo re Alfonzo allo paviglione regale fu ionto, trovao la reina, la quale morta iaceva e in mieso de soie soffragane stava, le quale piagnevano e guardavano quello cuorpo. Erance una la quale era cristiana - avea nome Maria -, nata de una villa la quale hao nome Obeda. Questa Maria fu schiava, e per soa bellezza e suoi costumi era concubina de re. Parlao e disse allo re che avessi mercede; Arcilasso la donna avea esmattata. Quanno lo re intese che·lla reina era morta per le mano de Arcilasso, fu forte dolente e disse: "Ahi Arcilasso, como non te temperasti a tio furore? La mea vittoria era doppia". Puoi fece atti de tristezze sopre la donna. Era la donna grassa e grossa. Credere non se pò. Nelle gamme, nelle vraccia e in canna avea cierchi de aoro purissimo smaitati, ornati de prete preziose. Questa donna de commannamento dello re fu operta. Puoi fu inzalata e messa in una cassa piena de aloè e fu posta per dignitate in una aita torre. Puoi lo cuorpo de questa donna revennéo allo marito infinita quantitate de moneta. Po' questo lo re Alfonzo fece tollere lo tesauro dello re fuito, lo quale fu doppie [...], che milli muli ne fuoro fatigati a portare arme e aitro arnese, como se dicerao. Maria de Obeda, guardiana della reina, fu liberata. Disse ca quelle doppie non erano la quarta parte, le tre parte ne erano furate per la iente. Ora tornemo alla incaiza de Saracini. La incaiza durao dìe sei. Non era muodo allo macellare. Lo sesto dìe trovaro una citate canto mare che·lli recipéo: Ziziria hao nome. Quella Ziziria fisse lo Cristiano. Intanto daose la iente alla guadagna dello robare. LX milia fuoro le corpora delli Saracini morte. Quelle loro ossa fuoro adunate in uno campo e de esse fatta fu una grannissima montagna. Fine allo dìe de oie dura. Anche più, ché oie in questi dìe vao lo aratore e ara lo campo, e aranno trova teste, gamme, vraccia e ossa assai. No·lle poco capare. Anche più, che durao alcuno spazio de dìe che·lli viannanti sequitavano per loro mestieri, per le selve trovavano a pede delli arbori ossa iacere in forma de omo lo quale dormissi. Questo era che·lli feruti essivano dallo stormo e posavanose a pede delli arbori per accogliere lena, ca stanchi erano, e, como se posavano, lo spirito e·lla vita in un tiempo li abannonava. Così remanevano quelle ossa senza carne. Infra le gote vedeva omo resplennere aoro. Questo era ché Mori se metto le monete e loro doppie d'aoro in vocca. Queste doppie lucevano como aoro. Allora chi questo trovava percoteva la zucca dello capo con preta e bastoni, sì che spartiva le ganghe, e·lla coccia volava in terra. Lo viannante alegro la moneta prenneva. Granne fu lo guadagno de questo stormo. XL milia corpora de Saracini fuoro presi, maschi e femine, li quali fine nello dìe de oie staco siervi de Spagnuoli. Zappano, arano, filano, tiesso, cucinano e aitri mestieri secunno le connizioni. Onne artificio faco. Infiniti ne fuoro vennuti como se venno le crape. Per tutta Spagna fuoro vennuti colla corona in capo. Anche ce soco de quelli siervi. Onne servizio faco a Spagnuoli loro signori. Hortos et vineas colunt dominorum precepto solo victu contenti. Anco ce fu guadagnata la moita robba: denari, arnesi, arme, vestimenta, vascella de metallo de rame, cavalli, muli, somari, camielli, paviglioni, trabacche, tanto forag[g]io, tanto arnese. Estima quanta fu la iente! Lo re Alfonzo abbe lo paviglione regale con tutto quello drento. Lo paviglione avea nome Alfanic. Treciento cammore avea. Era de panno de lino attorniato de corame roscio con corde de seta invernicate d'aoro. Mai non vedesti più mirabile né più bella cosa. Nello fastigio de sopre, dalla parte de fòra, tutto stava puosto a lune, drento de diverzi colori. Non se pote quello lavoriero contare. Drento dallo Alfanic fu trovata la Ricciaferra, la reina morta per Arcilasso, como ditto ène, la quale fu vennuta a sio marito moito aoro inzalata in una cassa. Puoi ce fuoro trovati li tesauri regali, la quarta parte; le tre furate erano. Milli e doiciento muli portaro quelle, e fuoro doppie. Disseme chi le vidde, chi le despese che quelle doppie erano d'aoro e erano in forma de piattielli de ariento, poca cosa meno che·lle patelle dello calice dello aitare. Anche fra quello tesauro fu trovata la lettera della indulgenzia, la quale li avea conceduta lo loro granne papa - Galiffa de Baldali aveva nome -, nella quale prometteva a chi moriva in questo passo la resurezzione a terzo dìe. Puoi prometteva sette mogliere vergine nello santo paradiso. Puoi li prometteva de farli stare abbracciati con santo Macometto e con santo Elinason. Puoi li prometteva de satollareli de latte e de caso e lagane e vuturo e mele. Queste erano le promissioni dello soldano Galiffa de Baldali in soa lettera. Puoi li commannava che tutta Cristianitate sterminassino e occupassino lo munno. Anche ce fu trovato in quello Alfanic arme assai, guarnimenti regali de panni tartareschi e ballacchini ornati con aoro e prete preziose. De questo tesauro lo buono re Alfonzo mannao in Avignone a papa Benedetto, lo quale era vivo allora, la decima parte de queste doppie d'aoro. Vaize da ciento sessanta milia fiorini. Anche li mannao lo confallone reale collo quale abbe la vittoria, lo quale portao nello stormo. Anche li mannao lo bello cavallo ferrante lo quale lo re cavalcao nella vattaglia, lo quale ferrante papa Chimento, sio successore, lo donao e mannao a Filippo de Valosi re de Francia per lo moito bene che li voize. Anche li mannao vinti de quelli Saracini presonieri con quelle arme, con quello abito, con quelli cavalli colli quali fuoro presi. Così ionzero in Avignone questi vinti Mori. Per la mutazione dello paiese e per la perduta licenzia tutti moriero, salvo uno solo, lo quale se fece devoto cristiano, donziello dello papa. Fi' alli dìe nuostri vive. Anche li mannao vinti confalloni presi nella rotta de Turchi e Medi, li quali confalloni una collo granne confallone sio regale fuoro appesi nella cappella de papa Benedetto dello palazzo papale de Avignone. Allo dìe de mo' non ce staco. Fatta che fu questa sconfitta, lo re de Granata per tema de sio reame deventao tributario a re de Castelle. Io pozzo dicere in bona fede con veritate, ché delle arme de questi io viddi per questa via. Nella citate de Tivoli venne Carlo imperatore, anno Domini MCCC [...], como se dicerao. La iente era moita. Io stava in una pontica, là dove venne uno a comparare cannele de cera e confietti e spezie. Questo teneva una spada sotto vraccio. Lo pomo era tutto inaorato e lavorato a igli e fiori. Dissi io: "Vòi tu vennere questa spada?", e trassila fòra dello fodero. Era la spada como le nostre soco, in forma de mieso stuocco, mesa spada. Non era troppo granne né troppo lata, ma, como le nostre, bene convenevile, fatta allo muodo genovese. Lo pomo era luongo como uno prungo piano, l'ilzo como mesa luna, e era la maiure parte 'naorato lo fierro, l'ilzo e·llo pomo tutto. La vaina era curata con tenere de fierro bene lavorato e·llo caspiello con correie moito adorne. Parevame che·lla spada non era sempia como le nostre. Respuse lo buono omo e disse: "Io non la voglio vennere, né la dera per cinquanta fiorini". E ciò fermao con sacramento. La iente che intorno stava disse: "Perché?" Respuse e disse: "Questa spada fu guadagnata nella rotta de Spagna, nello granne stormo quanno fu sconfitto lo re de Bellamarina dallo re de Castiglia. Io me nce retrovai. Dunque, benché assai bona sia, aiola cara troppo. Non la dera per moneta alcuna". Fatta questa sconfitta e raccuoito lo campo e licenziati li regi e li aitri aiutorii, lo re Alfonzo non posa. Anche fece iente de sio reame e de crociata e sequitao la iniqua iente perfida. Moito li molesta. De loro terreno vole. Intanto morìo papa Benedetto, lo bianco, e fu creato papa Chimento, lo monaco nero. Era una nobile citate canto mare, nelli confini de Saracinia, la quale avea nome la Ginzera. Lo paese hao nome Gigizia. Questa era delle megliori e delle più nobile e più ricche de speziaria, seta e panni de Tuniso che in Saracinia fussi. Questa citate assediao lo buono re Alfonzo per mare e per terra. Lo assedio fu durissimo. Ciento trentacinque galee abbe per mare e per terra iente infinita da pede e da cavallo. Durao lo assedio mesi diciotto e fu auta per fame. In quella citate entrao lo re Alfonzo e soa iente. Prese chi voize, occise chi·lli parze e cacciaone tutta la perfida iente. Toize tutto loro arnese, lo quale fu tanto che ène inestimabile. Quella citate empìo de Cristiani. E fuoronce edificate chiesie, locora de religiosi e fonne fatte doi vescovata. Quella citate fi' allo dìe de oie serve a Cristo glorioso e benedetto. Ora poni cura alla novella. Puoi che·llo re abbe venta la Ginzera, non abbe bisuogno de tanta moititudine de iente. Licenziao li sollati. Granne spesa avea fatta. Fra li aitri licenziati fuoro trenta cuorpi de galee de Genovesi, le quale li aveano bene servuto. Queste galee tornaro a Genova. Quanno fuoro nello entrare dello puorto, como usanza ène, sonaro tromme e naccari e ceramelle. Troppo imperiale faco suono e alegrezze. Puoi entraro lo puorto e puserose ad ordine. Moito letamente dao in terra tutto lo stuolo, bene vestuti, bene adobati e riccamente. Forte aveano guadagnato. Fra le aitre cose per novitate pusero nello puorto, su lo passo dello puorto, sei de quelli Mori, li quali erano male vestuti. De gialle schiavine loro cuorpo era ammantato. Fierri tenevano in gamma. Mustravano ca erano presonieri. Tutta Genova curre e descegne allo puorto a vedere le galee venute. La moita iente se foice. La moita iente fao intorno rota a questi mori. Desidera omo vedere la iente della strania fede. Staievano li sei Mori miserabilemente timorosi fra tanta iente. Moito moito favellavano e po' lo favellare voitavano loro capora, aizavano la faccia e resguardavano, como ammaravigliassino, le belle edificia e palazza aitissime le quale staco intorno allo puorto de Genova. No·lli intenneva la iente. Era là uno siervo de Genovesi lo quale fu saracino. Era cristiano e nutricato in Genova. Latina lengua sapeva. Diceva la iente: "Que dico questi?" Responneva: "Questi dico così:"Non è maraviglia se noi Saracini simo sconfitti e perdienti, ca nce ène stata sopre tutta Cristianitate e Genova"". Quanno aiognevano Genova, allora volveano le facce maravigliannose a quelle palazza dello puorto de Genova. Credevano che Genova fussi tutta la fortezze e bellezze de Cristiani, non se ne trovassi simile. In questo potemo conoscere che loro avitazioni non soco così delicati como li nuostri. Anche ne venne della Gizera lo vescovo de Peroscia, lo quale fu delli crociati, e menao con seco otto de quelli Turchi. Fuoro da cavallo, fuoro uomini bianchi e belli como noi; calzamenta como noi, ronzini como noi. In capo portavano uno capiello fi' alle recchie como mitra de papa. Vero è che in mieso avea uno pizzo ritto, luongo, sottile como fussi cuollo de gruva, copierto de panno de lino bianco. Aduosso portavano uno farsetto de panno de lino bianco como noi. Vero è che·lle maniche erano longhe fi' alle deta della mano. Sopre lo farsetto portavano uno manto de panno de lino como piviale da preite. La ponta dello lato ritto se iettava dalla spalla manca e quella della manca se iettava dalla spalla ritta. Po' questo donno Alfonzo non posa. Anco fao iente de sio paiese, e abbe assediato lo bello e nobile castiello, uitima fortezze de Saracini. Iubaltare lo castiello hao nome. Lo paiese hao nome Alcacuc. In questo castiello Macometto scrisse la soa leie e deola a Saracini e fece lo livro lo quale se dice Alcorano. Sopre de questo castiello puse l'oste lo re e iurao per la maiestate de sio reame e per l'aitezza de soa corona mai da quello assedio non partire finente che quello castiello non avea. Ficcao sio stennardo in terra. Serrato era allo torno. Lì puse l'oste e guardie credennosello prennere per fame. Ène lo castiello bellissimo e fortissimo. Hao nome Iubaltare. Stao in una penna de preta viva aitissima. Su in quella preta l'aquile faco lo nido. Puoi l'aitezza veo abassanno alla piana. Là, canto la pianura, ène menato uno muro fortissimo con spessi torricielli. Picazzo, de chi ditto ène, lo fece fare su lo vivo sasso. Drento dallo muro hao una fontana de moita abunnanzia. Nella destesa della pianura hao la meschita. Haoce arbori de onne rascione. Mai non fu veduta sì piacevole fortezza. Cristiani per loro negligenzia la perdiero. Questa fortezze se crese recuperare donno Alfonzo per assedio; ma non li venne fatto, ca sopravenne la granne e orribile mortalitate, della quale se dicerao, e ferìolo con una iannuglia nella inguinaglia. Donne li convenne, levato campo, morire nello tiempo della granne mortalitate in Sibilia, la citate regale. Questo re donno Alfonzo fu lo più nobile, lo più glorioso, più iusto, più pietoso re che mai fusse in Spagna. Sempre mai Spagnuoli lo piagneraco. Onne vertute abbe. Non abbe defetto alcuno. Una sola cosa abbe reprensibile, ca esso non amava la soa reina, né con essa voleva stare, benché uno figlio ne abbe. Anche teneva una soa badascia - donna Leonora aveva nome - la quale amava sopra tutte cose, la quale era sio confuorto, della quale avea figlioli e figlie. Senza essa non poteva stare. Per moite voite lo papa sì·llo ammonìo e sì·llo scommunicao. Voleva che questa soa badascia, donna Leonora, iettasse via. E·llo re per la epistola li respuse doicemente, anche per una ambasciata, e disse: "Santo patre, se piace a voi che io mora e non viva più, io lasso stare; tutta fiata che io staiessi senza essa io non pòtera vivere". Così lo santo patre non lo molestava. Non voleva che soa vita fine breve avessi. Io demorava nella citate de Bologna allo Studio e imprenneva lo quarto della fisica, quanno odìo questa novella contare nella stazzone dello rettore de medicina da uno delli bidielli.

Cap. XII

Como fu cacciato de Fiorenza lo duca de Atena, e como morìo

papa Benedetto e fu creato papa Chimento.

Anni Domini MCCCXLII, uno fulguro nello campanile de Santo Pietro Maiure de Roma deo e arze tutto lo cucurullo. Fu nell'ora de vespero, quanno li calonici in coro cantavano lo offizio. Currevano anni Domini MCCCXLII quanno papa Benedetto lo bianco morìo e fu elietto papa Chimento sesto. Questo papa Chimento fu monaco nero e fu perzona de tanta sufficienzia che non avea paro. Era grannissimo teologo e fu bellissimo sermocinatore. Quanno esso teneva catreda per sermocinare overo desputare, tutto Parisci concurreva a vedere esso. Deh, como bello fu sermocinatore! Omo gallico moito largifluo, da si' che in Studio fu era tanta soa larghezza, che allo despennere no·lli iognevano soie prevenne. Questo abbe tutti li gradi de dignitate. In prima fu monaco nero de santo Benedetto, conventuale, sottopriore; puoi fu decano; puoi fu priore; puoi fu fatto abbate; puoi fu fatto vescovo; puoi arcivescovo de Ruen; puoi cardinale de titolo de santo Nereo e Achilleo; puoi, uitimo, fu creato papa. Que abbe a dicere? Ca se grado se trovasse alcuno maiure, anche l'àbbera desiderato. Como questo papa creato fu, così lo cucurullo dello campanile de Santo Pietro Maiure fu abrusciato, como ditto ène. A questo papa venne l'ambasciata de Roma moito onorabile, dodici perzone: sei secolari, sei clerici. Capo loro fu Stefano della Colonna e·llo commannatore de Santo Spirito. Questi dodici ambasciatori lo pregaro, da parte de Dio e dello puopolo de Roma, che·lli piacessi de venire a visitare la sede dello sio vescovato de Roma. Anche lo pregaro che·lli concedessi la indulgenzia generale dello iubileo, che tornassi ciento anni a numero de cinquanta; perché la etate ène breve, pochi ne viengo a numero de ciento. A questi ambasciatori a po' dìe lo papa respuse. E imprimamente provao che·lla petizione loro era iusta, e provao per dodici rascioni che esso era tenuto de venire a visitare lo sio vescovato, la citate romana. Quanto allo secunno, concedéo lo quinquagesimo iubileo in Roma, generale remissione de peccati, pena e colpa alli pentuti e confiessi; delle connizioni dello quale iubileo infra se dicerao. In tiempo de questo papa, anni Domini MCCCXLII[I], in dìe de santa Anna, fu cacciato de Fiorenza missore Gottifredo, conte de Brenna, duca de Atena, signore perpetuale de Fiorenza; e folli fatta moita onta e moito despiacere e detuperio e danno; e fuoro muorti uomini e loro carne fu manicata. La quale novitate fu per questa via. Fiorentini compararo Lucca da missore Mastino della Scala e entraro in possessione. Pisani, turbati de questo mercato, fecero intorno a Lucca uno esmesurato e memorabile assedio; iente da cavallo numero [...], iente da pede numero [...] Intorno all'oste fecero fossati e steccata, torri de lename spessi. Anche carvoniaro e stecconiaro la strada la quale vao da Pisa a Lucca; dura miglia dieci. E questo fecero perché liberamente omo isse a l'oste con fodero e con arnese, senza impedimento. Durao lo assedio mesi [...] Allora, per mantenere lo assedio, fecero la gabella che se chiama Seca. In breve sconfissero Fiorentini e levaroli de campo, e non lassaro succurrere missore Malatesta, capitanio de Fiorentini, con grascia. Anche fecero una cosa notabile; ché missore Malatesta ionze la sera con fodero e con granne iente ad uno fiume, lo quale se dice Serchio, appresso a Lucca. De notte Pisani fecero uno fossato esmesuratamente luongo e largo fra lo Serchio e·lla citate de Lucca, longhezze [...], latezze [...] Tutto questo lavoriero fu espedito in notte una. Quanno la matina missore Malatesta, paratis omnibus copiis tam ad pugnam quam etiam ad grasciam, transivit aquam diluculo, non potens transire ex impedimento valli, miratus stupefactusque retrocessit meavitque, per ripam fluminis ascendens, deditque circuitum miliaribus decem ferme, ibique improvise pisanum exercitum invasit. Tum vero, facta resistenzia factoque ingenti Florentinorum impetu, fessi Florentini terga dederunt. Multi cadunt, multi capiuntur. Vix Malatesta cum aliquibus evasit. Omnis eorum copia militibus preda fuit. Alla fine Pisani venzero Lucca per forza de fame. Fi' allo dìe presente la tiengo. Fiorentini, vedennosi così confusi, chiamaro per capitanio de guerra e signore missore Gottifredo, conte de Brenna, duca de Atena; imperciò che era omo savio e potente, della casa de Francia. Quanno missore Gottifredo abbe recepute lettere, forte fu alegro. Sallìo a cavallo con soa iente, da cinqueciento cavalieri, con salmaria e granne arnese. Ritto per lo camino ne veo. Entra nella citate de Fiorenza e a pacifico [...] senza tumuito, de concordia dello Consiglio, recipéo la signoria perpetuale. Ora comenza a reiere lo duca. Fortemente guida. La prima cosa che fecessi fu che esso trasse de presone missore Pietro Zaccone delli Tarlati, signore de Arezzo, e sì·llo liberao de cattivitate, là dove era perpetualmente deputato. Ora vedesi le granne e ricche ambasciate che li venivano per tutta Toscana. In Arezzo mise la signoria. Abbe Pistoia, San Miniato, Vulterra e Prato. Apparecchiavase tutta Toscana avere, duca essere voleva de Toscana. Con Pisani stette queto, sì che molesta de·llà non se sentiva. Resse assai aspero e bona spene a Fiorentini daieva. Puoi che abbe receputa la signoria, liberamente significao in diverzi paesi la soa gloria. Fra li quali mannao uno vescovo de Francia a Filippo re in Parisci, sio parente. Lo vescovo disse como lo duca avea la signoria de Fiorenza. A ciò respuse lo re Filippo e disse: "Piaceme assai". Puoi domannao e disse: "Hao fatta novitate alcuna Gottifredo lo duca?" Respuse lo vescovo e disse: "Hao mutate le porte, ca hao serrate le porte vecchie e fatte le nove, e sopre le novelle porte hao fatte belle torre e aite". Disse lo re: "Di' a Gottifredo conte de Brenna che Filippo de Valosi lo prega che esso se studii de essere signore delle coraiora delle iente e non delli torri". L'aitra ambasciata fece uno cavalieri, lo quale gìo allo re Ruberto in Napoli, de chi ditto ène de sopre. Anche non era de questa vita passato. Annunziao lo cavalieri allo re la nobile signoria de sio parente, lo duca Gottifredo. Respuse lo re e disse: "Noi bene vorramo che Gottifredo da tanto fussi". Puoi domannao: "Dove posa lo duca? Posa in Santa Croce?" Respuse lo cavalieri e disse: "No. Anche posa nello bello palazzo delli Anziani". Lo re scrullao la testa e disse: "Non fao bene. Va' e dilli che repona li priori de Fiorenza in sio palazzo e in soa nobilitate. Renna la onoranza allo puopolo". Questo duca fu signore mesi dieci, puoi fu de Fiorenza detoperosamente cacciato. Le cascioni perché fu cacciato fuoro queste. In prima usava grannissima crudelitate. Senza remedio occideva la iente. Avea con seco uno officiale, lo quale se diceva conservatore, missore Guiglielmo de Ascisci. Cavalieri e iudice era. Questo missore Guiglielmo era uno roscio venenoso. Quanno manicava, faceva denanzi a sé senza misericordia martoriare le perzone e facevale smembrare e morire dello martorio. Avea uno sio figlio cavalieri, iovine de dodici anni, moito agnelica creatura, ma semplice. Quanno l'omo era posato dello martorio, questo sio figlio lo faceva sostenere e diceva: "Deh, dalli un aitro crullo per mio amore! Aizalo su!" A moiti questo fece, donne moiti ne moriero. Peio era lo patre che Dionisi tiranno de Cecilia. Ora procede lo crudele conservatore e taglia teste, appenne, occide senza misericordia. E che più, li buoni populari de Fiorenza vestuti con vari e con panni onorati appiccava denanti alle loro case. Appiccao Nardo de Cenne vascellaro, lo quale fu delli più avanzarani populari de Fiorenza per soa ricchezza; ad onne tratto prestava allo Communo ciento milia fiorini. Moiti fuoro li aitri. Puoi questo signore usava moita avarizia. Onne moneta de iente struieva e consumava onne perzona. Tutta la moneta traieva de mano alli mercatanti. Aveva con seco uno pessimo e crudele omo, fiorentino de nativitate; ma era stato anticamente cacciato perpetuale per le soie faizitate e inganni. Questo fu ià sio compagnone in arme, in viaii. Avealo redutto in stato, in grazia soa e de Fiorentini. Sere Errigo Fegi avea nome. Questo sere Errigo Fegi era sopre la gabella e era tanto sottile spirito in trovare moneta, che là donne esso traieva lo fiorino aitri non poteva traiere lo vaco dello miglio. Tutta dìe devisava gabelle. Mai non vedesti sì diabolico spirito. Più era questo sottile nella gabella che non fu Aristotile nella filosofia. Per la cui introduzzione onne guadagno, onne capitagna entrava in Communo. Per questo li mercatanti se reputavano deserti. Puoi questo duca usava moita lentezza in fatti de Fiorentini. Sopre Pisa non faceva cosa nulla de novitate. Lassao perdere Lucca e l'onore de Fiorenza non recuperava. Li staii, li quali teneva missore Mastino per la compara de Lucca, non recoglieva, anche li lassava stare senza menzione. Suoi sollati facevano li moiti deviti per Fiorenza, non pacavano. Esso ne mannava tutta la moneta in sio paiese. Treciento milia fiorini ne fuoro tratti, li quali fuoro per mare derobati a Monaco, lo forte castiello fra Genova e Marzilia. Puoi se apparecchiava a fare uno nobile castiello. Forte faceva murare drento dalla citate. Lo palazzo delli priori voleva comprennere. Queste connizioni consideranno li citatini de Fiorenza forte se duoglio della signoria. Secretamente cercano via de darela per terra. Male se pò per la granne forestaria la quale avea. Lo primo che questa coniurazione fece sentire fu uno corazzaro, lo quale gìo allo duca, como cenava, e disse: "Voi devete essere muorto". Lo duca: "Da chi?" "Dallo puopolo". "Quanno?" "Lo dìe de santo Iacovo". "In que muodo?" "Quanno cavalcarete per la terra, verrao uno currieri contrafatto e porierao a voi lettere. Mentre che le leierete, verrao uno e stennerao sio arco turchesco e percoteraote de una frezza. Dallo lato starrao uno con uno spontone. Dallo aitro verrao uno con uno stuocco. Puoi se gridarao:"Puopolo, puopolo!"". Disse lo duca: "Questo da chi sai?" Disse lo corazzaro: "Da mea mogliera". La moglie lo sapeva da una femina de preite. La femina dello preite venne e·llo preite e stette presente lo corazzaro. No·llillo sappe provare. Lo corazzaro fu tenagliato per Fiorenza con tenaglie refocate. Puoi, po' esso, veniva lo preite a cavallo in una mula con chierica rasa, con corona de oliva in capo, con guanti de camoscio in mano. Vaco sonanno tromme e trommette. Lo corazzaro fu per la canna appeso. Onne iente temeva de tale ioco. La prima festa che venne, armao tutta soa forestaria e in mieso de doi suoi nepoti a bello galoppo tutta Fiorenza curze. Denanti a sé menava li nuobili de Fiorenza desarmati. Ora cresce l'opera dello castiello. Uno sabato, da vespero, currevano anni Domini MCCCXLII[I], appresso dello palazzo de priori fu fatta una meschia. Subitamente voce veo: "A l'arme, a l'arme! Puopolo, puopolo!" Tutto lo puopolo de Fiorenza fu armato. Fuoro alle mano lo puopolo colli sollati. Li sollati fuoro perdienti. Lassano li cavalli nello piazzale dello palazzo delli priori e per le valestra tutti ne entraro lo palazzo. Quattordici centinara de perzone se renchiusero in quello bello palazzo. Allo torno le strade fuoro sbancate de banche de macellari. La notte lo primo che·nne escìo de palazzo fu uno iudice sommoniaco - missore Simone de Norcia avea nome - solo, armato de tutte arme. Sentuto che fu dalle guardie, non li vaize sio defennere, fu occiso. Doiciento fiorini avea seco. Fu partuto in quattro parte. Ad onne Anziano ne fu presentata una parte. Erano fatti quattro Anziani populari, li quali fussino sopre tutte cose. Fatto dìe, lo puopolo commatte lo palazzo. Iettano fuoco alla porta. Non vaize loro reparo, né con acqua né con aitro argumento. Tutta la porta fiariava e fu consumata. Alquanti dìe se tenne lo duca renchiuso con soa iente in quello palazzo. Alla fine lo fetore dello sterco e della orina granne era. Meglio veniva de morire che morire de fetore. Non potevano campare. Granne mormorazione faco li sollati allo duca. In questo se tratta patti. Lo puopolo stao fore allo palazzo, armato; crudamente grida. Puoi chiamano che volevano lo conservatore in mano, lo crudele missore Guiglielmo de Ascisci. Ciò vedenno lo duca, che per aitra via non poteva campare, commannao che missore Guiglielmo essissi fòra. Poni cura que fece lo crudele patre per volere campare. Voize che sio figlio issi denanzi da esso per mitigare, muorto lo figlio, la ira dello puopolo sopre de si. Quanno lo iovinetto figlio patris precepto vao denanti, appriesso della porta, como l'aino allo maciello, bene conosce soa morte, bene conosce la poca pietate dello patre. Volve la testa e dice: "Ahi patre, dove me manni?" Dice lo patre: "Va' securamente". Como fu alla porta, fu receputo dallo irato puopolo nelle ponte delle spade. Uno preite fu lo primo che·lli smembrao lo vraccio colla spalla e disse: "Ecco la mea parte. Io non voglio più messa cantare". Sacci ca questo iovinetto despiacere allo preite fece. Tal taglia, tal mozza. Milli vocconi ne fuoro fatti. Po' lo figlio veo lo patre moito onoratamente vestuto con vari. Uno calice d'ariento avea 'naorato in mano colla ostia. Male volentieri veniva; ma quelli de drento lo premevano, quelli de fòra lo tiravano. Così lo tagliano como foglia menutelle. La carne soa e dello figlio fu portata per Fiorenza e fu vennuta a peso e fu arrostita; e fu chi ne manicao. Sacci ca forte aveano patiti questi, quanno recipeano cutale mesure. Allo duca non fu fatto male nella perzona, ca·llo conte Simone de Casentino collo Communo de Siena trattao li patti e sì·llo trasse, salva la perzona, de sio palazzo de notte con da cinquanta perzone. Questo fu lo dìe de santa Anna. Puoi lo menao in sio contado e sì·lli fece renunzare la signoria de Fiorenza. Allora cavalcao lo duca e venne a Bologna poveramente, tutto derobato. Da Bologna se partìo e gìone in sio paiese. Granne detoperio abbe, granne abbe danno. Più de CCCC perzone de suoi sollati ce fuoro morte e derobate. Missore Ianni de Braio e missore Caucassaso, doi suoi granni baroni e parienti, fuoro a fierro muorti. Missore Ceretieri delli Visdomini, sio consiglieri, fugìo e aizao la più corta. Sere Errigo Fegi, lo sottile gabellieri, fu preso in abito de frate bianco umiliato e sì fu spogliato nudo. Era grasso e gruosso più che uno terribile puorco. Fu sparato e fu appeso per li piedi. Granne destrazio li zitielli facevano de lui, iettavanolli prete e loto e percoteanollo con bastoni. Fiorenza fu retornata a puopolo, lo stato pacifico e communo. Lo duca ne gìo in Francia, in sio paiese. Alla fine morìo nella vattaglia la quale fu fatta fra lo re de Francia e·llo re de Egnilterra; nello quale stormo Iuvanni re de Francia fu presone, como se dicerao. Currevano anni Domini MCCC[...] Questo duca de Atena fu occiso in quella vattaglia. Tal fine abbe lo duca de Atena signore de Fiorenza.

 


indietro.gif (1234 byte) avanti.gif (1244 byte)

 Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 14/07/05 23:24