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Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Inferiorità

ITALO SVEVO

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SCENA QUARTA

GIOVANNI e DETTI

 

GIOVANNI         (apporta su di un vassoio una bottiglia e due bicchierini). Eccoli serviti.

SQUATTI             (riempiendo subito un bicchierino). Oh! vediamo! (Sorseggiando il liquore.) Non c'è mica male! Chi l'ha pagato non ci bada alla spesa! (Si versa un secondo bicchierino.) Vivifica le piú intime fibre. (Con invidia ingenua.) Canaglia di Alfredo! Ed io che credevo non sapesse vivere.

GIOVANNI         (sorridendo con compiacenza e versando ad Alberighi). Squisito eh? Io vengo dal paese dove si distilla piú che in tutta Italia, ma una cosa cosí… cosí profumata… lievemente… non gustai giammai.

ALBERIGHI.       E il bicchierino per te?

GIOVANNI.        No! Io non posso prendere di questo liquore che quando il mio padrone me l'offre.

ALBERIGHI.       E allora berrai del mio.

GIOVANNI         (esita, poi accetta). Non credo di poter rifiutare. Alla loro salute! (Beve.)

ALBERIGHI        (vuole versargliene ancora). Quello era il mio bicchierino! Eccoti il tuo!

GIOVANNI         (deciso). No! Grazie! La prego di voler dispensarmene.

ALBERIGHI        (lo guarda dubbioso, poi s'adatta). Sta bene! (Ripone la bottiglia.) Mi pare sia meglio che il contratto che ho da proporti sia fatto a mente serena. Ho scommesso col tuo padrone… Gli vuoi molto bene tu al tuo padrone?

GIOVANNI         (un istante indeciso). Bene? Sí… gli sono affezionato. Immagini! Ero quasi un ragazzo… sí… un giovanotto quando venni a servirlo; ed ecco che ora sono con lui da otto anni.

ALBERIGHI.       Insomma gli vuoi tanto bene che non t'importerebbe affatto se egli dovesse perdere una scommessa?

GIOVANNI         (alzando le spalle). No! Non m'importerebbe affatto! Ha tanti denari che in fondo non gliene importerebbe niente neppure a lui.

ALBERIGHI.       E allora andremo facilmente d’accordo. Si tratta di cosa che ci darà argomento a ridere per degli anni.

GIOVANNI         (già ridendo). Se si tratta di ridere io sono pronto. (Un po' melenso.) Io ho già fatto ridere anche al mio paese. Ho collaborato ad una burla bellissima. (Ridendo fortemente al ricordo.) Oh! Bellissima! C'era il vecchio Mari che aveva una casa. Lui era un avaraccio famigerato e tutti sapevano che la casa non era stata assicurata. Per burla, una sera, d'accordo con altri, andai ad avvisarlo che la sua casa ardeva. Egli si trovava su un podere, lontano parecchi chilometri, ove sorvegliava la mietitura. Vederlo correre! (Soffocando dal ridere.) Lui che era abituato a non muoversi che nella sua carrettina! Non me la perdonò piú! Aveva ragione. Avrei fatto lo stesso anch'io. Tanto piú che alcuni giorni piú tardi la casa pigliò fuoco per davvero! (Sorpresa di Alberighi mentre Giovanni continua a ridere.) In fondo i burlati eravamo stati noi perché chi poteva immaginare che, svegliato dalla nostra burla, il fuoco avrebbe fatto sul serio! (Facendosi serio.) Si figuri che poi io ebbi delle seccature perché il vecchio Mari m'accusò senz'altro di aver io accesa la casa. La mia innocenza fu subito riconosciuta ma ancora adesso in paese si sospetta di certo Burrini che aveva organizzata la burla con me. Io non lo credo, sa, ma pure il contegno di questo Burrini fu molto sospetto. Ci fu un'inchiesta dalla quale egli uscí netto proprio perché si capí che non c'era stato per lui alcun movente di fare una cosa simile. Né io lo credo, sa.

ALBERIGHI.       Dicesti invece che lo credevi!

GIOVANNI         (cauto). Son cose che non bisogna dire. (Con forza.) Io non lo credo. Ma è strano che dinanzi alla casa incendiata udii io stesso, con queste mie proprie orecchie, mormorare il Burrini: "Che bella burla!".

ALBERIGHI        (ridendo). Io non voglio di queste burle. Si tratta di meno, di molto meno.

GIOVANNI.        E allora mi dica quello che ho da fare.

SQUATTI             (versandosi ancora da bere). Si tratta di prendere il proprietario di questo buon liquore per il collo… e strangolarlo. (Beve mentre Giovanni lo guarda non comprendendo.)

ALBERIGHI.       Non dargli bada. (Con gesto espressivo.)

SQUATTI.           Io scherzo. Si tratta bensí di prenderlo per il collo, ma con una certa delicatezza, badando di non stringere troppo. (Alberighi guarda fiso Giovanni per indovinare la sua impressione.)

GIOVANNI.        Prendere per il collo il mio padrone? Io, prendere per il collo il mio padrone?

SQUATTI.           Hai paura?

GIOVANNI         (alza le spalle). Paura? Vorrei vedere chi avrebbe il coraggio di prendere per il collo il mio padrone in mia presenza. (Agitato e iracondo.) Mi meraviglia… (Poi si doma.) Oh, ma loro scherzano.

ALBERIGHI.       Si tratta infatti di uno scherzo. (Giovanni respira.) Ed è per organizzare questo scherzo che siamo qui da te. Senti! Questa sera a cena si scoperse che nel portafogli del tuo padrone c'erano ventimila lire.

GIOVANNI         (ammirato). Ventimila lire?

SQUATTI.           Belle da vedersi. Una confusione! Pezzi da cinque e da dieci lire in mezzo a banconote da mille.

GIOVANNI         (c.s.) Oh! lui è molto ricco! Solo mi pare una grande imprudenza di portare attorno con sé tanto denaro.

ALBERIGHI.       È quello che gli dissi anch'io.

GIOVANNI.        Curioso abbia fatto vedere quel denaro, lui tanto prudente.

SQUATTI.           Gli trassi dalla tasca il portafogli senza ch'egli se ne avvedesse ed ebbi tutto l'agio di contare il denaro.

ALBERIGHI.       Eravamo in compagnia di gentiluomini…

GIOVANNI.        Gentiluomini… sí… ma ventimila lire!

ALBERIGHI.       Lasciamo stare! Insomma di parola in parola arrivai a dirgli che un uomo come il tuo padrone, notoriamente poco coraggioso, non avrebbe dovuto portare con sé tanto denaro. Egli, che aveva bevuto parecchio vino e lo chiamava coraggio, diceva che avrebbe saputo difendere il suo denaro quanto io il mio. Cosí si giunse alla scommessa.

GIOVANNI         (ridendo). Lei scommise insomma di portargli via il portafogli?

ALBERIGHI.       Sí! Entro questa notte. Ed ho contato su te…

GIOVANNI         (protesta). Mi dispiace. Ma io non mi metterei mai in un simile affare. Delle burle, sí, ma non di quelle che finiscono al cellulare.

SQUATTI.           Cellulare? Zotico che sei! Come vuoi finire al cellulare avendo da fare con noi?

ALBERIGHI.       Sta zitto, tu! Senti, Giovanni! È vero che tu aspetti di raggranellare cinquemila franchi per lasciare il tuo padrone ed aprire un'osteria al tuo paese natio?

GIOVANNI.        Come lo sa lei?

ALBERIGHI.       Me l'ha raccontato il tuo padrone. E so anche che finora hai tremilacinquecento franchi e che il saldo si fa aspettare.

GIOVANNI.        Sí! Tremilacinquecento! Un po' di piú, anzi.

ALBERIGHI        (con un sorriso). Lasciamo stare le frazioni. So anche che il tuo padrone era una volta piú generoso con te. Sapendo che aspetti di avere quel gruzzoletto per abbandonarlo e sposare quella tua cugina Maria, egli ritarda come può il momento di perderti.

GIOVANNI         (lascia trapelare amor proprio lusingato e rimpianto). Sí! Egli ci tiene molto ai miei servigi ed io ho avuto torto di fargli conoscere le mie intenzioni. Non si è mai abbastanza attenti alla propria lingua. Tuttavia guadagno ancora abbastanza bene. Una volta, quando mi obbligava di dormir vestito nel suo stanzino da bagno per avermi pronto e vicino, mi dava dieci lire. Ora invece me ne dà cinque soltanto.

ALBERIGHI        (ridendo). Son questi i tuoi proventi straordinari?

GIOVANNI.        Eh! Non bisogna riderne! Egli dice che soffre di nervi! Io, appena venuto ne ridevo e pensavo si trattasse di paura, quella vera, quella grande paura degli uomini e degli spiriti, di tutto insomma. Ma qualche sera egli arriva in casa assolutamente privo di paura. Gliel'assicuro! Io che dormirei volentieri ogni notte in quel camerino, cerco di spaventarlo. Minaccia un temporale! La notte è oscura come una cantina! No! Mi tocca andare a letto senza i cinque franchi. Altre volte, invece, fa una bella notte lunare e devo non soltanto dormire vestito nel camerino ma chiudere porte e imposte sotto la sua sorveglianza.

ALBERIGHI.       E quanti denari ti occorrono per lasciare questo servizio tanto bene retribuito? Per sposarti, cioè, e mettere su l'osteria?

GIOVANNI.        Cinquemilacinquecento franchi almeno. Spero di averne anche di piú, perché verrà il momento - quando il gruzzoletto sarà abbastanza forte - in cui potrò imporre la mia volontà al signor Alfredo e dirgli: “O mi dà dieci franchi o non dormo nel camerino… e vestito.”

ALBERIGHI.       Insomma, a conti fatti, a te occorrerebbero altri duemila franchi e sei libero. Ebbene! Io te li do se tu, entro questa notte, mi consegni il portafogli del tuo padrone. Domani tu ritorni al tuo paese e sposi tua cugina.

GIOVANNI         (a bocca aperta). Ella scherza.

ALBERIGHI.       Ecco qui il mio impegno in iscritto. Matita, ti basta?

GIOVANNI.        Se Ella vuole, c'è anche la penna. Per me basta la matita, anzi mi basta la sua parola… (Guarda con intensa attenzione quello che Alberighi scrive.)

ALBERIGHI.       Ecco qui. (Legge.) Buono per franchi duemila da pagarsi verso consegna del portafogli del signor Alfredo Picchi contenente ventimila franchi.

GIOVANNI         (guardando estatico il foglietto di carta). A me pare d'impazzire! (Legge e rilegge.) E se il signor Picchi ha speso nel frattempo il suo denaro?

ALBERIGHI.       Un avaraccio simile vuoi che spenda tanto percorrendo di notte la via dal club a casa? Se mancherà una piccola parte…

GIOVANNI.        Ma se fosse stato derubato nel frattempo dell'intero portafogli?

SQUATTI             (tenendosi la pancia dal ridere). Neppure di questo v'è pericolo.

ALBERIGHI.       Abbiamo saputo che subito dopo fatta la scommessa il tuo padrone aveva trovata la via al telefono e s'era procurata la protezione di un questurino per farsi accompagnare a casa. Ero là là per disdire la scommessa, quando mi venne l'idea di farmi aiutare da te. Non farà mica dormire con lui il questurino.

GIOVANNI         (esitante). Ma io non posso sapere quanto denaro ci sia nel portafogli del mio padrone. Non posso mica garantire che vi sieno ventimila franchi.

ALBERIGHI.       Io non pretendo neppure un tanto.

GIOVANNI         (c.s.) E allora perché scriverlo qui?

ALBERIGHI        Hai ragione! Cancelliamo! (Prende il biglietto di Giovanni, cancella e glielo restituisce.)

GIOVANNI         (guarda attentamente il biglietto e lo ripone; dopo un tempo). E quei ventimila franchi che io ho da consegnarle, cioè i diciottomila, perché duemila ne ricevo io…

ALBERIGHI.       Quel denaro va tutto restituito al suo legittimo proprietario. Che diavolo! Altrimenti sí che si potrebbe finire al cellulare.

SQUATTI.           Non rubiamo mica noi.

ALBERIGHI.       Trattengo, come stabilito, l'importo della scommessa e domattina gli restituisco il saldo.

GIOVANNI         (curioso e esitante). Quanto?

ALBERIGHI.       L'importo della scommessa è di duemila franchi.

GIOVANNI         (sorridendo e fingendo dispiacere). Cosí che tutto finisce in tasca mia?

ALBERIGHI.       Capirai che per me non è quistione di danaro.

GIOVANNI.        Eh! lo so! Eppoi son io che faccio tutto. Neppur io ci baderei al denaro se non ci fosse la mia sposa.

SQUATTI             (a mezza voce). E l'osteria.

GIOVANNI         (interdetto). L'osteria? Ma quella, anche quella, vien messa su per poter vivere. Non mi sposo mica per andare poi per il mondo a fare il servitore.

ALBERIGHI        (a Squatti). Vuoi star zitto tu. Non dargli bada. Non capisce niente.

GIOVANNI         (verso Squatti). Per ora, certo, il denaro rappresenta per me tutto. Quando ne avrò anch'io, allora sarà un'altra cosa. (Ad Alberighi, deciso.) Io non posso rifiutare la sua proposta. Io l'accetto. Sí! In verità, l'accetto. E di qui a pochi giorni lascio il mio padrone e me ne vado (cantando) al mio paese. Oh! scusino.

ALBERIGHI.       Accomodati! Mi fa piacere di vederti tanto lieto. Adesso bisogna mettersi d'accordo sul modo di procedere.

GIOVANNI.        È semplice! Quando il mio padrone si sarà addormentato - e lo saprò, perché russa che la casa ne trema -…

ALBERIGHI.       Aspetta perché la scommessa prevede tutt'altra cosa: Il portafogli non dev'essere né strappato con la violenza né sottratto con l'astuzia. Egli deve consegnarlo per paura. Tu devi prendere il tuo padrone per il collo e con la minaccia di violenze maggiori devi costringerlo a consegnarti il portafogli.

GIOVANNI         (allibito). Questo volete da me? Finora non lo diceste.

ALBERIGHI.       Era questo il momento di dirtelo.

GIOVANNI.        Ma io questo non faccio. Non posso farlo. (Avvilito.)

ALBERIGHI        (spazientito). E allora sia come non detto. Quanto fiato sprecato! (Si leva.)

GIOVANNI.        Non si adiri, signor conte! Io non posso fare una cosa simile. Lo comprende anche lei! Mi dispiace tanto… oh! tanto! Quel denaro ch'Ella m'offriva era per me la ricchezza, la felicità… (Quasi piangendo.) Già, io non ho mai avuto fortuna!

SQUATTI.           Hai paura?

GIOVANNI.        Non credo si chiami paura questa. Io farei quello ch'Ella mi propone con qualunque… (ripete guardando Squatti) con qualunque ma non col mio padrone. Sono da otto anni con lui…

ALBERIGHI.       Senti, Giovanni. Ti pare troppo piccolo il premio?

GIOVANNI         (quasi spaventato). No! No! Non si tratta di questo.

ALBERIGHI.       Dammi il mio bigliettino.

GIOVANNI         (eseguisce in fretta). Eccolo! Eccolo!

ALBERIGHI.       Ecco! Anziché duemila mettiamo duemilacinquecento. (Scrive.) Ti va meglio cosí?

GIOVANNI.        Duemilacinquecento… (Riluttante.) Ma prendere il padrone per il…

ALBERIGHI.       Ebbene! Lasciamo via quel gesto che ti offende. Ti propongo di fare la cosa piú semplicemente. (Leva dalla tasca un revolver.) Basta questo, ne son sicuro. Alzi il revolver, gridando: “Il portafogli o sparo!”. Hai pratica di tali armi?

GIOVANNI         (guardando il revolver con piacere). Altro che pratica! Sono stato di cavalleria, io. Questa è una Browning! Finissima! (Fa scattare la molla di sicurezza.)

SQUATTI.           Lascia la molla al suo posto.

GIOVANNI.        In mano mia non c'è pericolo. (Rimette la molla a posto) Ebbene! (Passa il revolver da una mano all'altra quasi pesandolo.) Mi pare tuttavia che con questo qui la cosa sarebbe piú facile.

ALBERIGHI.       Allora l'affare è conchiuso. Eccoti qui l'equivalente di duemilacinquecento franchi. Lascio duemilacinquecento ad onta ch'eseguito cosí, l'atto non può costarti tanta fatica. O vuoi regalarmi quei cinquecento franchi?

GIOVANNI         (ridendo di cuore e intascando con un po' di fretta il bigliettino). Quando il povero regala al ricco, il diavolo ride. Farò cosí! Ammettiamo che il padrone sia là accanto alla porta. Io alzerò il revolver (eseguisce) e dirò: “Signor padrone! Mi dia il suo portafogli!”.

ALBERIGHI.       Ma che padrone e che signore! Quasi t'inchini! Sarebbe il vero modo di farti prendere a calci. Intanto devi dargli del tu. Ecco: “Dammi il portafogli! Fuori il portafogli, canaglia, o sparo!”.

GIOVANNI         (riluttante). Canaglia? Occorre dire cosí?

ALBERIGHI.       Sei libero nella scelta: Canaglia, manigoldo, vigliacco od altra espressione equivalente.

GIOVANNI         (imita). Dammi il portafogli, canaglia, (con sforzo) fuori il portafogli, canaglia (c.s.) O sparo!

ALBERIGHI.       Non va bene ancora! Protenditi di piú in avanti come se stessi per saltargli addosso. Cosí! Il revolver deve essere puntato sui suoi occhi perché sappia e veda che se il colpo parte egli ne sarà colpito. Cosí! Adesso parti di nuovo dalla posizione di attenti e tenta di cogliere subito l'atteggiamento voluto di grande minaccia.

GIOVANNI         (riprova un po' meglio). Dammi il portafogli, fuori il portafogli o sparo!

ALBERIGHI        (non molto contento). Bisognerà contentarsi. Forse per Alfredo basterà. Se minacci me a questo modo, ti salto addosso.

GIOVANNI         (Punto). Oh, non creda, signor conte. Quando faccio sul serio riesco meglio. A me riesce difficile di simulare.

ALBERIGHI.       Ma qui non avrai da fare sul serio, avrai sempre da simulare e bisognerà simulare - come dire - sul serio.

GIOVANNI.        Ma se ad onta di tutto ciò il padrone resiste?

ALBERIGHI.       Allora non c'è rimedio; devi prenderlo per il collo.

GIOVANNI         (pensieroso). Questo mi sarà molto difficile.

ALBERIGHI.       E dunque fa che la minaccia col revolver sia efficace. Deve bastare. (Con improvvisa ispirazione.) Guarda! (Prende il revolver e minaccia Squatti.) Fuori il portafogli, imbecille che non sei altro!

SQUATTI             (spaventatissimo si mette una mano davanti agli occhi). Alberighi! Via! Non scherzare!

ALBERIGHI        (gli va quasi addosso minacciosissimo ed urla). Di quali scherzi parli? Sono stanco di vederti! Fuori il portafogli! Subito! Tiro, sai!

GIOVANNI         (spaventato). Stia attento! Credo di non aver rimesso a posto la molla.

SQUATTI.           Sei pazzo, tu. Ecco il portafogli! Via quel revolver, ora.

ALBERIGHI        (subito calmissimo). Ecco il tuo portafogli! Non ho mica scommesso di portarlo via a tutti gli amici. (A Giovanni.) Vedi? Sono riuscito nel mio intento ad onta che lo Squatti non potesse dubitare delle mie intenzioni a suo riguardo.

SQUATTI             (rimettendosi). Se son scherzi cotesti! (Adiratissimo che gli manca la parola.) Tu sei un pazzo pericoloso. Me ne vado, io. (S'avvia.)

ALBERIGHI.       Ma Squatti! Non capisci ch'era necessario dare un esempio a Giovanni?

SQUATTI.           Potevi almeno avvertirmi… Col revolver che può scattare.

ALBERIGHI.       La lezione avrebbe perduto ogni efficacia. Via! Resta!

GIOVANNI         (dapprima ammira). Bravissimo! (Poi pensieroso.) Io, intanto, ho capito che se faccio una cosa tale, il mio padrone non potrà piú perdonarmi. Persino il suo amico non sa smettere il broncio.

ALBERIGHI        (a Squatti). Vedi quello che fai?

SQUATTI.           Sí! Ma c'è la differenza che io non ho scommesso. Infatti! Ho io scommesso con qualcuno? Or dunque! (Ritorna al tavolo e si versa un bicchierino.)

ALBERIGHI.       Sei una bestia! Le scommesse e gli scherzi sono stati sempre scusati tra gentiluomini. Eppoi che te ne importa a te, Giovanni? Una volta che hai i tuoi denari il tuo padrone non è piú il tuo padrone e te ne vai!

GIOVANNI.        Sí ma il mio padrone ha in consegna anche tutti i miei risparmi.

ALBERIGHI.       Quelli ti appartengono. Oppure facciamo una cosa: Quando tu m'hai consegnato il portafogli, io vado da Alfredo e ottengo da lui il permesso di trattenere l'importo che ti spetta.

GIOVANNI.        Ma lo darà poi questo permesso?

ALBERIGHI.       Vuoi dubitare ch'egli rifiuti di sopportare tutte le conseguenze della scommessa? Che rispetto è questo per il tuo padrone?

GIOVANNI.        Il mio padrone è persona rispettabile, ma quando se la prende con qualcuno…

ALBERIGHI.       Insomma, assumo io la responsabilità di tutto. Non avrò io il suo denaro col suo portafogli? (Stacca un altro foglietto e scrive; lo consegna poi a Giovanni.) Eccoti un altro biglietto.

GIOVANNI         (legge). M'impegno anche di trattenere dal denaro del signor Alfredo Picchi quello da lui dovuto a Giovanni. (Dopo un istante di esitazione.) Non vorrebbe indicare anche l'importo? Tremilaseicentocinquantadue lire.

ALBERIGHI        (spazientito). Oh! In quanto all'importo credo che veramente sia superfluo. Temi di essere truffato da me?

GIOVANNI         (dopo una lieve esitazione guarda timoroso verso Alberighi e si rassegna). E sia! (Intasca il biglietto e nell'occasione rilegge l'altro.)

ALBERIGHI.       L'importante è che tu sappia fare la tua parte. Vuoi che la ripetiamo ancora una volta? Se lo desideri, io ti faccio vedere come riesco a farmi consegnare anche una seconda volta il portafogli da questo mio buon amico.

SQUATTI             (protesta). No! Te ne prego.

GIOVANNI         Non occorre! Io so perfettamente il fatto mio. Non è mica tanto difficile fare una faccia da mascalzone. Se non si trattasse che di questo!… E, scusi, perché ha avuto bisogno di me? Perché non ha fatto la cosa da solo, giacché sa farla tanto bene?

ALBERIGHI        (esitante). Ma nel furore di scommettere io esclusi me da tale ufficio.

SQUATTI.           Anzi, se ci penso bene, il tuo padrone potrebbe indovinare che sei tu delegato a togliergli il portafogli.

GIOVANNI.        Se lo sapesse tutto sarebbe piú semplice, perché il difficile precisamente è d'avvisarlo che io voglio il suo portafogli. Il resto è facile.

ALBERIGHI.       Eh! Tanto non può indovinare! Certo che vedendosi assalito, penserà: "Guarda, guarda! Hanno incaricato Giovanni!". Noi ci appostiamo là nella tua camera e quando hai il portafogli in mano spari un colpo di revolver e noi accorriamo.

GIOVANNI         Un colpo di revolver? Che il padrone non abbia a morirne dalla paura!

ALBERIGHI.       Non ne morrà! Poi rideremo insieme.

GIOVANNI.        Non ne vedo l'ora. (Con un sospiro.)

ALBERIGHI.       Dov'è la tua stanza?

GIOVANNI         (confuso). Non so se sia un soggiorno degno di lor signori…

ALBERIGHI.       A la guerre comme à la guerre. Vieni, Squatti.

SQUATTI             (sulla soglia). Com'è piccola questa stanza! Non potresti offrirci di meglio? (Di fuori suono di un campanello.)

GIOVANNI         (agitatissimo) Che sia il padrone? Chissà perché suona alla porta di casa? Egli ha la chiave.

ALBERIGHI        (con disprezzo). Suona perché ha paura di fare le scale da solo. (Tutti e tre si recano un po' distante dalla finestra e guardano fuori.)

SQUATTI.           Due questurini! E parlano animatamente con Alfredo.

ALBERIGHI.       Devono discutere l'organizzazione della forza pubblica.

SQUATTI.           Domani sarà bellissimo poter descrivere questa sua gita in mezzo ai due fratelli Branca.

GIOVANNI.        Scusi se glielo dico, ma non sarebbe bello da parte sua.

ALBERIGHI.       Va a prendere il tuo padrone, Giovanni e non temere. Se Squatti parlasse domani della paura del tuo padrone, io racconterei con quale facilità son riuscito a farmi consegnare da lui il portafogli. (Giovanni esce con una candela accesa in mano.)

SQUATTI             (mitemente). Fai male a parlare davanti a questo zotico di me in questo modo.

ALBERIGHI.       Ne sei colpa tu stesso. Ad ogni tratto con le tue parole inconsulte minacci di mandare a rotoli la mia diplomazia.

SQUATTI.           Diplomazia! Per lui è quistione di denaro. (Poi.) Ha dimenticato di riporre quel vassoio e quei bicchieri. Che ne dici? Li portiamo con noi per alleviare l'attesa?

ALBERIGHI.       Prendili pure. Curiosa dimenticanza per un cameriere. Salgono! Vieni. (Escono a destra dello spettatore.)

 

 

 

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:14/07/2005 00.00

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