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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

LA VITA DI BENVENUTO CELLINI FIORENTINO

scritta (per lui medesimo) in Firenze

LIBRO SECONDO

[LXIII] [LXIV] [LXV] [LXVI] [LXVII] [LXVIII] [LXIX] [LXX] [LXXI] [LXXII] [LXXIII] [LXXIV] [LXXV] [LXXVI] [LXXVII] [LXXVIII] [LXXIX] [LXXX][LXXXI] [LXXXII] [LXXXIII] [LXXXIV] [LXXXV] [LXXXVI] [LXXXVII] [LXXXVIII] [LXXXIX] [XC]

 

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LXIII.

E la prima opera che io gittai di bronzo fu quella testa grande, ritratto di Sua Eccellenzia, che io avevo fatta di terra nell'oreficerie, mentre che io avevo male alle stiene. Questa fu un'opera che piacque e io non la feci per altra causa se non per fare sperienzia delle terre da gittare il bronzo. E se bene io vedevo che quel mirabil Donatello aveva fatto le sue opere di bronzo, quale aveva gittate con la terra di Firenze, e' mi pareva che l'avessi condutte con grandissima difficultà; e pensando che venissi dal difetto della terra, innanzi che io mi mettessi a gittare il mio Perseo, io volsi fare queste prime diligenzie; per le quali trovai esser buona la terra, se bene non era stata bene intesa da quel mirabil Donatello, perché con grandissima difficultà vedevo condotte le sue opere. Cosí, come io dico di sopra, per virtú d'arte io composi la terra, la quale mi serví benissimo; e, sí come io dico, con essa gittai la detta testa; ma perché io non avevo ancora fatto la fornace, mi servi' della fornace di maestro Zanobi di Pagno, campanaio. E veduto che la testa era ben venuta netta, subito mi messi a fare una fornacetta nella bottega che mi aveva fatta il Duca, con mio ordine e disegno, nella propria casa che mi aveva donata; e subito fatto la fornace, con quanta piú sollecitudine io potevo, mi messi in ordine per gittare la statua della Medusa, la quale si è quella femmina scontorta che è sotto i piedi del Perseo. E per essere questo getto cosa difficilissima, io non volsi mancare di tutte quelle diligenzie che avevo imparato, acciò che non mi venissi fatto qualche errore; e cosí il primo getto ch'io feci in detta mia fornacina venne bene superlativo grado, ed era tanto netto ch'e' non pareva alli amici mia il dovere che io altrimenti la dovessi rinettare; la qualcosa hanno trovato certi Todeschi e Franciosi, quali dicono e si vantano di bellissimi secreti di gittare i bronzi senza rinettare; cosa veramente da pazzi; perché il bronzo, di poi che gli è gittato, bisogna riserarlo con i martelli e con i ceselli, sí come i maravigliosissimi antichi, e come hanno ancor fatto i moderni, dico quei moderni ch'hanno saputo lavorare il bronzo. Questo getto piacque assai a Sua Eccellenzia illustrissima, che piú volte lo venne a vedere sino a casa mia, dandomi grandissimo animo al ben fare. Ma possette tanto quella rabbiosa invidia del Bandinello, che, con tanta sollecitudine intorno alli orecchi di Sua Eccellenzia illustrissima, che gli fece pensare, che se bene io gittavo qualcuna di queste statue, che mai io non le metterei insieme, perché l'era in me arte nuova; e che Sua Eccellenzia doveva ben guardare a non gittare via i sua denari. Possetton tanto queste parole in quei gloriosi orecchi, che mi fu allentato alcuna spesa di lavoranti; di modo che io fui necessitato a risentirmi arditamente con Sua Eccellenzia: dove una mattina, aspettando quella nella via de' Servi, le dissi: - Signor mio, io non son soccorso d'i miei bisogni, di modo che io sospetto che Vostra Eccellenzia non diffidi di me; il perché di nuovo le dico che a me basta la vista di condur tre volte meglio quest'opera, che non fu il modello, sí come io vi ho promesso.
LXIV.
Avendo detto queste parole a Sua Eccellenzia, e conosciuto che le non facevan frutto nissuno, perché non ne ritraevo risposta, subito mi crebbe una stizza, insieme con una passione intollerabile, e di nuovo cominciai a riparlare al Duca e gli dissi: - Signor mio, questa città veramente è stata sempre la scuola delle maggior virtute; ma cognosciuto che uno s'è, avendo imparato qualche cosa, volendo accrescer gloria alla sua città e al suo glorioso Principe, gli è bene andare a operare altrove. E che questo, Signor mio, sia il vero, io so che l'Eccellenzia Vostra ha saputo chi fu Donatello, e chi fu il gran Leonardo da Vinci, e chi è ora il mirabil Michelagnol Buonarroti. Questi accrescono la gloria per le lor virtú all'Eccellenzia Vostra; per la qualcosa io ancora spero di far la parte mia; sí che, Signor mio, lasciatemi andare. Ma Vostra Eccellenzia avvertisca bene a non lasciare andare il Bandinello, anzi dateli sempre piú che lui non vi domanda; perché se costui va fuora, gli è tanto la ignoranzia sua prosuntuosa, che gli è atto a vituperare questa nobilissima Scuola. Or dàtimi licenzia, Signore, né domando altro delle mie fatiche sino a qui che la grazia di Vostra Eccellenzia illustrissima -. Vedutomi Sua Eccellenzia a quel modo resoluto, con un poco di sdegno mi si volse, dicendo: - Benvenuto, se tu hai voglia di finir l'opera, e' non si mancherà di nulla -. Allora io lo ringraziai, e dissi che altro desiderio non era il mio, se non di mostrare a quelli invidiosi che a me bastava la vista di condurre l'opera promessa. Cosí spiccatomi da Sua Eccellenzia, mi fu dato qualche poco di aiuto; per la qual cosa fui necessitato a metter mano alla borsa mia, volendo che la mia opera andassi un poco piú che di passo. E perché la sera io sempre me ne andavo a veglia nella guardaroba di Sua Eccellenzia, dove era Domenico e Gianpavolo Poggini, suo fratello, quali lavoravano un vaso di oro, che addietro s'è detto, per la Duchessa e una cintura d'oro; ancora Sua Eccellenzia m'aveva fatto fare un modellino d'un pendente, dove andava legato dentro quel diamante grande che li aveva fatto comperare Bernardone e Antonio Landi. E con tutto che io fuggissi di non voler far tal cosa, il Duca con tante belle piacevolezze mi vi faceva lavorare ogni sera in sino alle quattro ore. Ancora mi strigneva con piacevolissimi modi a far che io vi lavorassi ancora di giorno; alla qual cosa non volsi mai acconsentire; e per questo io credetti per cosa certa che Sua Eccellenzia si adirassi meco. E una sera in fra le altre, essendo giunto alquanto piú tardi che al mio solito, il Duca mi disse: - Tu sia il malvenuto -. Alle quali parole io dissi: - Signor mio, cotesto non è il mio nome, perché io ho nome Benvenuto; e perché io penso che l'Eccellenzia Vostra motteggi meco, io non entrerò in altro -. A questo il Duca disse che diceva da maledetto senno e non motteggiava e che io avvertissi bene quel che io facevo, perché gli era venuto alli orecchi che, prevalendomi del suo favore, io facevo fare or questo or quello. A queste parole io pregai Sua Eccellenzia illustrissima di farmi degno di dirmi solo un omo che io avevo mai fatto fare al mondo. Subito mi si volse in collera e mi disse: - Va' e rendi quello che tu hai di Bernardone: eccotene uno -. A questo io dissi: - Signor mio, io vi ringrazio, e vi priego mi facciate degno d'ascoltarmi quattro parole: egli è il vero che e' mi prestò un paio di bilance vecchie e dua ancudine e tre martelletti piccoli, le qual masserizie oggi son passati quindici giorni che io dissi al suo Giorgio da Cortona che mandassi per esse; il perché il detto Giorgio venne per esse lui stesso; e se mai Vostra Eccellenzia illustrissima truova, che dal di' che io nacqui in qua, io abbia mai nulla di quello di persona in cotesto modo, se bene in Roma o in Francia, faccia intender da quelli che li hanno riferite quelle cose o da altri; e trovando il vero, mi castighi a misura di carboni -. Vedutomi il Duca in grandissima passione, come Signor discretissimo e amorevole mi si volse e disse: - E' non si dice a quelli che non fanno li errori; sí che, se l'è come tu di', io ti vedrò sempre volentieri, come ho fatto per il passato -. A questo io dissi: - Sappi l'Eccellenzia Vostra che le ribalderie di Bernardone mi sforzano a domandarla e pregarla, che quella mi dica quel che la spese nel diamante grande, punta schericata: perché io spero mostrarle perché questo male omaccio cerca mettermivi in disgrazia -. Allora Sua Eccellenzia mi disse: - Il diamante mi costò 25 mila ducati: perché me ne domandi tu? - Perché, Signor mio, il tal dí, alle tal'ore, in sul canto di Mercato nuovo, Antonio di Vettorio Landi mi disse che io cercassi di far mercato con Vostra Eccellenzia illustrissima, e di prima domanda ne chiese sedici mila ducati: ora Vostra Eccellenzia sa quel che la l'ha comperato. E che questo sia il vero, domandate ser Domenico Poggini e Giampavolo suo fratello, che son qui; che io lo dissi loro subito, e da poi non ho mai piú parlato, perché l'Eccellenzia Vostra disse che io non me ne intendevo; onde io pensavo che quella lo volessi tenere in riputazione. Sappiate, Signor mio, che io me ne intendo; e quanto all'altra parte fo professione d'esser uomo da bene quanto altro che sia nato al mondo, e sia chi vuole. Io non cercherò di rubarvi otto o dieci mila ducati per volta, anzi mi ingegnerò guadagnarli con le mie fatiche: e mi fermai a servir Vostra Eccellenzia per iscultore, orefice e maestro di monete; e di riferirle delle cose d'altrui, mai. E questa che io le dico adesso, la dico per difesa mia, e non ne voglio il quarto: e gnene dico presente tanti uomini dabbene che son qui, acciò Vostra Eccellenzia illustrissima non creda a Bernardone ciò che dice -. Subito il Duca si levò in collera e mandò per Bernardone, il qual fu necessitato a correre sino a Vinezia, lui e Antonio Landi; quale Antonio mi diceva che non aveva volsuto dir quel diamante. Gli andorno e tornorno da Vinezia, e io trovai il Duca, e dissi: - Signore, quel che io vi dissi è vero, e quel vi disse delle masserizie Bernardone non fu vero; e faresti bene a farne la pruova, e io mi avviarò al bargello -. A queste parole il Duca mi si volse, dicendomi: - Benvenuto, attendi a esser omo da bene, come hai fatto per il passato, e non dubitar mai di nulla -. La cosa andò in fumo e io non ne senti' mai piú parlare. Attesi a finire il suo gioiello; e portatolo un giorno finito alla Duchessa, lei stessa mi disse che stimava tanto la mia fattura quanto il diamante, che li aveva fatto comperar Bernardaccio, e volse che io gnene appiccassi al petto di mia mano, e mi dette uno spilletto grossetto in mano, e con quello gnene appiccai, e mi parti' con molta sua buona grazia. Da poi io intesi che e' l'avevano fatto rilegare a un tedesco o altro forestiero, salvo 'l vero, perché il detto Bernardone disse che 'l detto diamante mostrerrebbe meglio legato con manco opera.
LXV.
Domenico e Giovanpagolo Poggini, orefici e frategli, lavoravano, sí come io credo d'aver detto, in guardaroba di Sua Eccellenzia illustrissima cone i miei disegni, certi vasetti d'oro cesellati, con istorie di figurine di basso rilievo e altre cose di molta inportanza. E perché io dissi piú volte al Duca: - Signor mio, se Vostra Eccellenzia illustrissima mi pagassi parecchi lavoranti, io vi farei le monete della vostra zecca e le medaglie colla testa di Vostra Eccellenzia illustrissima, le qual farei a gara con gli antichi e arei speranza di superargli: perché dappoi in qua che io feci le medaglie di papa Clemente io ho imparato tanto, che io farei molto meglio di quelle: e cosí farei meglio delle monete che io feci al duca Alessandro, le quale sono ancora tenute belle; e cosí vi farei de' vasi grandi d'oro e d'argento, sí come io ne ho fatti tanti a quel mirabil re Francesco di Francia, solo per le gran comodità che ei m'ha date, né mai s'è perso tempo ai gran colossi né all'altre statue -. A queste mie parole il Duca mi diceva: - Fa', e io vedrò - né mai mi dette comodità né aiuto nessuno. Un giorno Sua Eccellenzia illustrissima mi fece dare parecchi libbre d'argento e mi disse: - Questo è dello argento delle mie cave, fammi un bel vaso -. E perché io non volevo lasciare in dietro il mio Perseo e ancora avevo gran volontà di servirlo, io lo detti da fare, con i miei disegni e modelletti di cera, a un certo ribaldo che si chiama Piero di Martino, orafo: il quale lo cominciò male e anche non vi lavorava, di modo che io vi persi piú tempo che se io lo avessi fatto tutto di mia mano. Cosí avendomi straziato parecchi mesi, e veduto che il detto Piero non vi lavorava, né manco vi faceva lavorare, io me lo feci rendere, e durai una gran fatica a riavere, con el corpo del vaso mal cominciato, come io dissi, il resto dell'argento che io gli avevo dato. Il Duca che intese qualcosa di questi romori, mandò per il vaso e per i modelli e mai piú mi disse né perché né per come; basta che con certi mia disegni e' ne fece fare a diverse persone e a Venezia e in altri luoghi, e fu malissimo servito. La Duchessa mi diceva spesso che io lavorassi per lei di oreficerie: alla quale io piú volte dissi, che 'l mondo benissimo sapeva, e tutta la Italia, che io ero buono orefice; ma che la Italia non aveva mai veduto opere di mia mano di scultura: - e per l'arte certi scultori arrabbiati, ridendosi di me, mi chiamano lo scultor nuovo; ai quali io spero di mostrare d'esser scultor vecchio, se Idio mi darà tanta grazia che io possa mostrar finito 'l mio Perseo in quella onorata piazza di Sua Eccellenzia illustrissima -. E ritiratomi a casa, attendevo a lavorare il giorno e la notte, e non mi lasciavo vedere in Palazzo. E pensando pure di mantenermi nella buona grazia della Duchessa, io gli feci fare certi piccoli vasetti, grandi come un pentolino di dua quattrini, d'argento, con belle mascherine in foggia rarissima, all'antica; e portatole li detti vasetti, lei mi fece la piú grata accoglienza che immaginar si possa al mondo e mi pagò 'l mio argento e oro che io vi avevo messo. E io pure mi raccomandavo a Sua Eccellenzia illustrissima pregandola che la dicessi al Duca, che io avevo poco aiuto a cosí grande opera, e che Sua Eccellenzia illustrissima doverrebbe dire al Duca, che ei non volessi tanto credere a quella mala lingua del Bandinello, con la quale e' m'impediva al finire il mio Perseo. A queste mie lacrimose parole la Duchessa si ristrinse nelle spalle e pur mi disse: - Per certo che 'l Duca lo doverria pur conoscere, che questo suo Bandinello non val niente.
LXVI.
Io mi stavo in casa, e di rado mi appresentavo al Palazzo, e con gran sollecitudine lavoravo, per finire la mia opera; e mi conveniva pagare i lavoranti de il mio; perché, avendomi fatto pagare certi lavoranti il Duca da Lattanzio Gorini in circa a diciotto mesi ed essendogli venuto annoia, mi fece levare le commessione, per la qual cosa io domandai il detto Lattanzio, perché e' non mi pagava. E' mi rispose, menando certe sue manuzze di ragnatelo, con una vocerellina di zanzara: - Perché non finisci questa tua opera? E' si crede che tu nolla finirai mai -. Io subito gli risposi adirato e dissi: - Cosí vi venga il canchero e a voi e attutti quegli che non credono che io nolla finisca -. E cosí disperato mi ritornai accasa al mio mal fortunato Perseo, e non senza lacrime, perché mi tornava in memoria il mio bello stato che io avevo lasciato in Parigi sotto 'l servizio di quel maraviglioso re Francesco, con el quale mi avanzava ogni cosa, e qui mi mancava ogni cosa. E parecchi volte mi disposi di gittarmi al disperato: e una volta infra l'altre io montai in su un mio bel cavalletto, e mi missi cento scudi accanto, e me n'andai a Fiesole a vedere un mio figliuolino naturale, il quale tenevo abbalia con una mia comare, moglie di un mio lavorante. E giunto al mio figliolino lo trovai di buono essere, e io cosí malcontento lo baciai; e volendomi partire, e' non mi lasciava, perché mi teneva forte colle manine e con un furore di pianto e strida, che in quell'età di due anni in circa era cosa piú che maravigliosa. E perché io m'ero resoluto che, se io trovavo 'l Bandinello, il quale soleva andare ogni sera a quel suo podere sopra San Domenico, come disperato lo volevo gittare in terra, cosí mi spiccai dal mio bambino, lasciandolo con quel suo dirotto pianto. E venendomene inverso Firenze, quando io arrivai alla piazza di San Domenico, appunto il Bandinello entrava dall'altro lato in su la piazza. Subito resolutomi di fare quella sanguinosa opera, giunsi allui, e alzato gli occhi, lo vidi senza arme, in su un muluccio come uno asino e aveva seco un fanciullino dell'età di dieci anni; e subito che lui mi vidde, divenne di color di morto, e tremava dal capo ai piedi. Io, conosciuto la vilissima opera, dissi: - Non aver paura, vil poltrone, che io non ti vo' far degno delle mie busse -. Egli mi guardò rimesso e non disse nulla. Allora io ripresi la virtú, e ringrazia' Iddio che per sua vera virtute non aveva voluto che io facessi un tal disordine. Cosí liberatomi da quel diabolico furore, mi accrebbe animo e meco medesimo dicevo: - Se Iddio mi dà tanto di grazia che io finisca la mia opera, spero con quella di ammazzare tutti i mia ribaldi nimici; dove io farò molte maggiori e piú gloriose le mie vendette, che se io mi fussi sfogato con un solo - e con questa buona resoluzione mi tornai a casa. In capo di tre giorni io intesi come quella mia comare mi aveva affogato il mio unico figliolino; il quale mi dette tanto dolore che mai non senti' il maggiore. Imperò mi inginocchiai in terra, e non senza lacrime al mio solito ringraziai il mio Iddio, dicendo: - Signor mio, tu me lo desti, e or tu me t'hai tolto, e di tutto io con tutto 'l cuor mio ti ringrazio -. E con tutto che 'l gran dolore mi aveva quasi smarrito, pure, al mio solito, fatto della necessità virtú, il meglio che io potevo mi andavo accomodando.
LXVII.
E' s'era partito un giovane in questo tempo dal Bandinello, il quale aveva nome Francesco, figliuolo di Matteo fabbro. Questo detto giovane mi fece domandare se io gli volevo dare da lavorare; e io fui contento, e lo missi a rinettare la figura della Medusa, che era di già gittata. Questo giovane, dipoi quindici giorni, mi disse che aveva parlato con el suo maestro, cioè il Bandinello, e che lui mi diceva da sua parte che, se io volevo fare una figura di marmo, che ei mi mandava a offerire di donarmi un bel pezzo di marmo. Subito io dissi: - Digli che io l'accetto; e potria essere il mal marmo per lui, perché ei mi va stuzzicando, e non si ricorda il gran pericolo che lui aveva passato meco in su la piazza di San Domenico: or digli che io lo voglio a ogni modo. Io non parlo mai di lui e sempre questa bestia mi dà noia: e mi credo che tu sia venuto a lavorare meco mandato dallui, solo per spiare i fatti mia. O va, e digli che io vorrò il marmo a suo malgrado; e ritòrnatene seco.
LXVIII.
Essendo stato di molti giorni che io non m'ero lasciato rivedere in Palazzo, v'andai una mattina, che mi venne quel capriccio, e il Duca aveva quasi finito di desinare, e, per quel che io intesi, Sua Eccellenzia aveva la mattina ragionato e ditto molto bene di me, e infra l'altre cose ei mi aveva molto lodato in legar gioie; e per questo, come la Duchessa mi vide, la mi fece chiamare da messer Sforza; e appressatomi a Sua Eccellenzia illustrissima, lei mi pregò che io le legassi un diamantino in punta innuno anello, e mi disse che lo voleva portare sempre nel suo dito; e mi dette la misura e 'l diamante, il quale valeva in circa a cento scudi, e mi pregò che io lo facessi presto. Subito 'l Duca cominciò a ragionare con la Duchessa e le disse: - Certo che Benvenuto fu in cotesta arte senza pari; ma ora che lui l'ha dimessa, io credo che 'l fare uno anellino come voi vorresti, e' gli sarebbe troppa gran fatica: sí che io vi priego che voi nollo affatichiate in questa piccola cosa, la quale allui saria grande, per essersi disuso -. A queste parole io ringraziai el Duca, e poi lo pregai che mi lasciassi fare questo poco del servizio alla signora Duchessa: e subito messovi le mani, in pochi giorni lo ebbi finito. L'anello si era per il dito piccolo della mano: cosí feci quattro puttini tondi con quattro mascherine, le qual cose facevano il detto anellino: e anche vi accomodai alcune frutte e legaturine smaltate; di modo che la gioia e l'anello si mostravano molto bene insieme. E subito lo portai alla Duchessa: la quale con benigne parole mi disse che io gli avevo fatto un lavoro bellissimo, e che si ricorderebbe di me. Il detto anellino la lo mandò a donare al re Filippo, e dappoi sempre la mi comandava qualche cosa, ma tanto amorevolmente, che io sempre mi sforzavo di servirla, con tutto che io vedessi pochi dinari; e Iddio sa se io ne avevo gran bisogno, perché disideravo di finire 'l mio Perseo, e avevo trovati certi giovani che mi aiutavano, i quali io pagavo del mio; e di nuovo cominciai a lasciarmi vedere piú spesso che io non avevo fatto per il passato.
LXIX.
Un giorno di festa in fra gli altri me n'andai in Palazzo dopo 'l desinare, e giunto in su la sala dell'Oriolo, viddi aperto l'uscio della guardaroba, e appressatomi un poco, il Duca mi chiamò, e con piacevole accoglienza mi disse: - Tu sia 'l benvenuto: guarda quella cassetta, che m'ha mandato a donare 'l signore Stefano di Pilestina; aprila e guardiamo che cosa l'è -. Subito apertola, dissi al Duca: - Signor mio, questa è una figura di marmo greco ed è cosa maravigliosa: dico che per un fanciulletto io non mi ricordo di avere mai veduto fra le anticaglie una cosí bella opera, né di cosí bella maniera; di modo che io mi offerisco a Vostra Eccellenzia illustrissima di restaurarvela e la testa e le braccia, i piedi. E gli farò una aquila, acciò che e' sia battezzato per un Ganimede. E se bene e' non si conviene a mme il rattoppare le statue, perché ell'è arte da certi ciabattini, i quali la fanno assai malamente; imperò l'eccellenzia di questo gran maestro mi chiama asservirlo -. Piacque al Duca assai che la statua fussi cosí bella, e mi domandò di assai cose, dicendomi: - Dimmi, Benvenuto mio, distintamente in che consiste tanta virtú di questo maestro, la quale ti dà tanta maraviglia -. Allora io mostrai a Sua Eccellenzia illustrissima con el meglio modo che io seppi, di farlo capace di cotal bellezza e di virtú di intelligenzia, e di rara maniera; sopra le qual cose io aveva discorso assai, e molto piú volentieri lo facevo, conosciuto che Sua Eccellenzia ne pigliava grandissimo piacere.
LXX.
In mentre che io cosí piacevolmente trattenevo 'l Duca, avvenne che un paggio uscí fuori della guardaroba e che, nell'uscire il detto, entrò il Bandinello. Vedutolo 'l Duca, mezzo si conturbò, e con cera austera gli disse: - Che andate voi faccendo? - Il detto Bandinello, sanza rispondere altro, subito gittò gli occhi a quella cassetta, dove era la detta statua scoperta, e con un suo mal ghignaccio, scotendo 'l capo, disse volgendosi inverso 'l Duca: - Signore, queste sono di quelle cose che io ho tante volte dette a Vostra Eccellenzia illustrissima. Sappiate che questi antichi non intendevano niente la notomia, e per questo le opere loro sono tutte piene di errori -. Io mi stavo cheto e non attendevo a nulla di quello che egli diceva, anzi gli avevo volte le rene. Subito che questa bestia ebbe finita la sua dispiacevol cicalata, il Duca disse: - O Benvenuto, questo si è tutto 'l contrario di quello che con tante belle ragioni tu m'hai pure ora sí ben dimostro: sí che difendila un poco -. A queste ducal parole, portemi con tanta piacevolezza, subito io risposi e dissi: - Signor mio, vostra Eccellenzia Illustrissima ha da sapere che Baccio Bandinelli si è composto tutto di male, e cosí ei è stato sempre; di modo che ciocché lui guarda, subito a' sua dispiacevoli occhi, se bene le cose sono in sopralativo grado tutto bene, subito le si convertono innun pessimo male. Ma io, che solo son tirato al bene, veggo piú santamente 'l vero; di modo che quello che io ho detto di questa bellissima statua a Vostra Eccellenzia illustrissima si è tutto il puro vero, e quello che n'ha ditto 'l Bandinello si è tutto quel male solo, di quel che lui è composto -. Il Duca mi stette a udire con molto piacere, e in mentre che io dicevo queste cose, il Bandinello si scontorceva e faceva i piú brutti visi del suo viso, che era bruttissimo, che immaginar si possa al mondo. Subito 'l Duca si mosse, avviandosi per certe stanze basse, e il detto Bandinello lo seguitava. I camerieri mi presono per la cappa e me gli avviorno dietro e cosí seguitammo il Duca, tanto che Sua Eccellenzia illustrissima, giunto innuna stanza, e' si misse assedere, e il Bandinello e io stavamo un da destra e un da sinistra di Sua Eccellenzia illustrissima. Io stavo cheto, e quei che erano all'intorno, parecchi servitori di Sua Eccellenzia, tutti guardavano fiso 'l Bandinello, alquanto soghignando l'un coll'altro di quelle parole che io gli avevo detto in quella stanza di sopra. Cosí il detto Bandinello cominciò a favellare e disse: - Signore, quando io scopersi il mio Ercole e Cacco, certo che io credo che piú di cento sonettacci ei mi fu fatti, i quali dicevano il peggio che immaginar si possa al mondo da questo popolaccio -. Io allora risposi e dissi: - Signore, quando il nostro Michelagnolo Buonaroti scoperse la sua Sacrestia, dove ei si vidde tante belle figure, questa mirabile e virtuosa Scuola, amica della verità e del bene, gli fece piú di cento sonetti, a gara l'un l'altro a chi ne poteva dir meglio: e cosí come quella del Bandinello meritava quel tanto male che lui dice che della sua si disse, cosí meritava quel tanto bene quella del Buonaroti, che di lei si disse -. A queste mie parole il Bandinello venne in tanta rabbia, che ei crepava, e mi si volse e disse: - E tu che le sapresti apporre? - Io te lo dirò se tu arai tanta pazienza di sapermi ascoltare -. Diss'ei: - Or di' su -. Il Duca e gli altri, che erano quivi, tutti stavano attenti. Io cominciai e in prima dissi: - Sappi ch'ei m 'incresce di averti a dire e' difetti di quella tua opera, ma none io ti dirò tal cose, anzi ti dirò tutto quello che dice questa virtuosissima Scuola -. E perché questo uomaccio or diceva qualcosa dispiacevole e or faceva con le mani e con i piedi, ei mi fece venire in tanta còllora, che io cominciai in molto piú dispiacevol modo che, faccendo ei altrimenti, io nonnarei fatto: - Questa virtuosa Scuola dice che se e' si tosassi i capegli a Ercole, che e' non vi resterebbe zucca che fussi tanta per riporvi il cervello; e che quella sua faccia e' non si conosce se l'è di omo o se l'è di lionbue; e che la non bada a quel che la fa, e che l'è male appiccata in sul collo, con tanta poca arte e con tanta mala grazia, che e' non si vedde mai peggio; e che quelle sue spallacce somigliano due arcioni d'un basto d'un asino; e che le sue poppe e il resto di quei muscoli non son ritratti da un omo, ma sono ritratti da un saccaccio pieno di poponi, che diritto sia messo, appoggiato al muro. Cosí le stiene paiono ritratte da un sacco pieno di zucche lunghe; le due gambe e non si conosce in che modo le si sieno appiccate a quel torsaccio; perché e' non si conosce in su qual gamba e' posa o in su quale e' fa qualche dimostrazione di forza; né manco si vede che ei posi in su tutt'a dua, sí come e' s'è usato alcune volte di fare da quei maestri che sanno qualche cosa; ben si vede che la cade innanzi piú d'un terzo di braccio: che questo solo si è 'l maggiore e il piú incomportabile errore che faccino quei maestracci di dozzina plebe'. Delle braccia dicono che le son tutt'a dua giú distese senza nessuna grazia, né vi si vede arte, come se mai voi non avessi visto degl'ignudi vivi, e che la gamba dritta d'Ercole e quella di Cacco fanno ammezzo delle polpe delle gambe loro; che se un de' dua si scostassi dall'altro, non tanto l'uno di loro, anzi tutt'a dua resterebbono senza polpe da quella parte che ei si toccano; e dicono che uno dei piedi di Ercole si è sotterrato, e che l'altro pare che gli abbia il fuoco sotto.
LXXI.
Questo uomo non potette stare alle mosse d'aver pazienza che io dicessi ancora i gran difetti di Cacco; l'una si era che io dicevo 'l vero, l'altra si era che io lo facevo conoscere chiaramente al Duca e agli altri che erano alla presenzia nostra, che facevano i piú gran segni e atti di dimostrazione di maravigliarsi e allora conoscere che io dicevo il verissimo. A un tratto quest'uomaccio disse: - Ahi cattiva linguaccia, o dove lasci tu 'l mio disegno? - Io dissi che chi disegnava bene e' non poteva operar mai male - imperò io crederrò che 'l tuo disegno sia come sono le opere -. Or, veduto quei visi ducali e gli altri, che con gli sguardi e con gli atti lo laceravano, egli si lasciò vincere troppo dalla sua insolenzia, e voltomisi con quel suo bruttissimo visaccio, a un tratto mi disse: - Oh sta' cheto, soddomitaccio -. Il Duca a quella parola serrò le ciglia malamente inverso di lui, e gli altri serrato le bocche e aggrottato gli occhi inverso di lui. Io, che mi senti' cosí scelleratamente offendere, sforzato dal furore, e a un tratto, corsi al rimedio e dissi: - O pazzo, tu esci dei termini: ma Iddio 'l volessi che io sapessi fare una cosí nobile arte, perché e' si legge ch'e' l'usò Giove con Ganimede in paradiso, e qui in terra e' la usano i maggiori imperatori e i piú gran re del mondo. Io sono un basso e umile omicciattolo, il quale né potrei né saprei impacciarmi d'una cosí mirabil cosa -. A questo nessuno non potette esser tanto continente che 'l Duca e gli altri levorno un rumore delle maggior risa che immaginar si possa al mondo. E con tutto che io mi dimostrassi tanto piacevole, sappiate, benigni lettori, che dentro mi scoppiava 'l cuore, considerato che uno, 'l piú sporco scellerato che mai nascessi al mondo, fussi tanto ardito, in presenza di un cosí gran principe, a dirmi una tanta e tale ingiuria; ma sappiate che egli ingiuriò 'l Duca e non me; perché, se io fussi stato fuor di cosí gran presenza, io l'arei fatto cader morto. Veduto questo sporco ribaldo goffo che le risa di quei Signori non cessavano, ei cominciò, per divertirgli da tanta sua beffe, a entrare innun nuovo proposito, dicendo: - Questo Benvenuto si va vantando che io gli ho promesso un marmo -. A queste parole io subito dissi: - Come! non m'hai tu mandato a dire per Francesco di Matteo fabbro, tuo garzone, che se io voglio lavorar di marmo, che tu mi vuoi donare un marmo? E io l'ho accettato, e vo' lo -. Allora ei disse: - Oh fa' conto di noll'aver mai -. Subito io, che ero ripieno di rabbia per le ingiuste ingiurie dettemi in prima, smarrito dalla ragione e accecato della presenza del Duca, con gran furore dissi: - Io ti dico espresso che se tu non mi mandi il marmo insino accasa, cèrcati di un altro mondo, perché in questo io ti sgonfierò a ogni modo -. Subito avvedutomi che io ero alla presenza d'un sí gran Duca, umilmente mi volsi a Sua Eccellenzia, e dissi: - Signor mio, un pazzo ne fa cento; le pazzie di questo omo mi avevano fatto smarrire la gloria di Vostra Eccellenzia illustrissima e me stesso; sí che perdonatemi -. Allora il Duca disse al Bandinello: - È egli 'l vero che tu gli abbia promesso 'l marmo? - Il detto Bandinello disse che gli era il vero. Il Duca mi disse: - Va all'Opera, e to'tene uno a tuo modo -. Io dissi che ei me l'aveva promesso di mandarmelo a casa. Le parole furno terribile; e io innaltro modo nollo volevo. La mattina seguente e' mi fu portato un marmo accasa; il quale io dimandai chi me lo mandava: e' dissono che e' me lo mandava 'l Bandinello, e che quello si era 'l marmo che lui mi aveva promesso.
LXXII.
Subito io me lo feci portare in bottega e cominciai a scarpellarlo; e in mentre che io lavoravo, io facevo il modello: e gli era tanta la voglia che io avevo di lavorare di marmo, che io non potevo aspettare di risolvermi a fare un modello con quel giudizio che si aspetta, a tale arte. E perché io lo sentivo tutto crocchiare, io mi penti' piú volte di averlo mai cominciato allavorare: pure ne cavai quel che io potetti, che è l'Appollo e Iacinto, che ancora si vede imprefetto in bottega mia. E in mentre che io lo lavoravo, il Duca veniva a casa mia, e molte volte mi disse: - Lascia stare un poco 'l bronzo e lavora un poco di marmo, che io ti vegga -. Subito io pigliavo i ferri da marmo, e lavoravo via sicuramente. Il Duca mi domandava del modello che io avevo fatto per il detto marmo; al quale io dissi: - Signore, questo marmo si è tutto rotto, ma assuo dispetto io ne caverò qualcosa; imperò io non mi sono potuto risolvere al modello, ma io andrò cosí faccendo 'l meglio che io potrò -. Con molta prestezza mi fece venire 'l Duca un pezzo di marmo greco, di Roma, acciò che io restaurassi il suo Ganimede antico, qual fu causa della ditta quistione connil Bandinello. Venuto che fu 'l marmo greco, io considerai che gli era peccato a farne pezzi per farne la testa e le braccia ell'altre cose per il Ganimede; e mi providdi d'altro marmo, e a quel pezzo di marmo greco feci un piccol modellino di cera, al quale posi nome Narciso. E perché questo marmo aveva dua buchi che andavano affondo piú di un quarto di braccio e larghi dua buone dita, per questo feci l'attitudine che si vede, per difendermi da quei buchi, di modo che io gli avevo cavati della mia figura. Ma quelle tante decine d'anni che v'era piovuto sú, perché e' restava sempre quei buchi pieni d'acqua, la detta aveva penetrato tanto che il detto marmo si era debilitato; e come marcio in quella parte del buco di sopra; e si dimostrò dappoi che e' venne quella gran piena d'acqua d'Arno, la quale alzò in bottega mia piú d'un braccio e mezzo. E perché il detto Narciso era posato in su un quadro di legno, la detta acqua gli fece dar la volta, per la quale e' si roppe in su le poppe, e io lo rappiccai; e perché e non si vedessi quel fesso della appiccatura, io gli feci quella grillanda de' fiori che si vede che gli ha in sul petto; e me l'andavo finendo accerte ore innanzi dí, o sí veramente il giorno delle feste, solo per non perdere tempo dalla mia opera del Perseo. E perché una mattina in fra l'altre io mi acconciavo certi scarpelletti per lavorarlo, ed e' mi schizzò una verza d'acciaio sottilissima nell'occhio dritto; ed era tanto entrata dentro nella pupilla, che in modo nessuno la non si poteva cavare. Io pensavo per certo di perdere la luce di quell'occhio. Io chiamai in capo di parecchi giorni maestro Raffaello de' Pilli, cerusico, il quale prese dua pipioni vivi, e faccendomi stare rovescio in su una tavola, prese i detti pipioni e con un coltellino forò loro una venuzza che gli hanno nell'alie, di modo che quel sangue mi colava dentro innel mio occhio; per il qual sangue subito mi senti' confortare e in ispazio di dua giorni uscí la verza d'acciaio e io restai libero e migliorato della vista. E venendo la festa di Santa Luscia, alla quale eravamo presso a tre giorni, io feci uno occhio d'oro di uno scudo franzese, e gnele feci presentare a una delle sei mie nipotine, figliuole della Liperata mia sorella, la quale era dell'età di dieci anni in circa, e con essa io ringraziai Iddio e Santa Luscia; e per un pezzo non volsi lavorare in sul detto Narciso, ma tiravo innanzi il Perseo colle sopra ditte difficultà, e m'ero disposto di finirlo e andarmi con Dio.
LXXIII.
Avendo gittata la Medusa, ed era venuta bene, con grande speranza tiravo il mio Perseo a fine, che lo avevo di cera, e mi promettevo che cosí bene e' mi verrebbe di bronzo, sí come aveva fatto la detta Medusa. E perché vedendolo di cera ben finito ei si mostrava tanto bello, che (vedendolo il Duca aqquel modo e parendogli bello; o che e' fussi stato qualche uno che avessi dato a credere al Duca che ei non poteva venire cosí di bronzo, o che il Duca da per sé se lo immaginassi; e venendo piú spesso a casa che ei non soleva) una volta infra l'altre e' mi disse: - Benvenuto, questa figura non ti può venire di bronzo, perché l'arte non te lo promette -. A queste parole di Sua Eccellenzia io mi risenti' grandemente, dicendo: - Signore, io conosco che Vostra Eccellenzia illustrissima m'ha questa molta poca fede: e questo io credo che venga perché Vostra Eccellenzia illustrissima crede troppo a quei che le dicono tanto mal di me, o sí veramente lei non se ne intende -. Ei non mi lasciò finire appena le parole che disse: - Io fo professione di intendermene, e me ne intendo benissimo -. Io subito risposi e dissi: - Sí, come Signore, e non come artista; perché se Vostra Eccellenzia illustrissima se ne intendessi innel modo che lei crede di intendersene, lei mi crederrebbe mediante la bella testa di bronzo che io l'ho fatto, cosí grande, ritratto di Vostra Eccellenzia illustrissima che s'è mandato all'Elba, e mediante l'avere restauratole il bel Ganimede di marmo con tanta strema difficultà, dove io ho durato molta maggior fatica che se io lo avessi fatto tutto di nuovo; e ancora per avere gittata la Medusa, che pur si vede qui alla presenza di Vostra Eccellenzia: un getto tanto difficile, dove io ho fatto quello che mai nessuno altro uomo ha fatto innanzi a me, di questa indiavolata arte. Vedete, Signor mio: io ho fatto la fornace di nuovo, a un modo diverso dagli altri; perché io, oltre a molte altre diversità e virtuose iscienze che innessa si vede, io l'ho fatto dua uscite per il bronzo, perché questa difficile e storta figura innaltro modo nonnera possibile che mai la venissi: e sol per queste mie intelligenzie l'è cosí ben venuta, la qual cosa non credette mai nessuno di questi pratici di questa arte. E sappiate, Signor mio, per certissimo, che tutte le grandi e difficilissime opere che io ho fatte in Francia sotto quel maravigliosissimo re Francesco, tutte mi sono benissimo riuscite, solo per il grande animo che sempre quel buon Re mi dava con quelle gran provvisione, e nel compiacermi di tanti lavoranti quanto io domandavo; che gli era talvolta che io mi servivo di piú di quaranta lavoranti, tutti a mia scelta; e per queste cagioni io vi feci tanta quantità di opere in cosí breve tempo. Or, Signor mio, credetemi e soccorretemi degli aiuti che mi fanno di bisogno, perché io spero di condurre a fine una opera che vi piacerà; dove che, se Vostra Eccellenzia illustrissima mi avvilisce d'animo e non mi dà gli aiuti che mi fanno di bisogno, gli è impossibile che né io né qualsivoglia uomo mai al mondo possa fare cosa che bene stia.
LXXIV.
Con gran difficultà stette il Duca a udire queste mie ragione, che or si volgeva innun verso e or innun altro; e io disperato, poverello, che mi ero ricordato del mio bello stato che io avevo in Francia, cosí mi affliggevo. Subito il Duca disse: - Or dimmi, Benvenuto, come è egli possibile che quella bella testa di Medusa, che è lassú innalto in quella mano del Perseo, mai possa venire? - Subito io dissi: - Or vedete, Signor mio, che se Vostra Eccellenzia illustrissima avessi quella cognizione dell'arte, che lei dice di avere, la non arebbe paura di quella bella testa che lei dice, che la non venissi; ma sí bene arebbe ad aver paura di questo piè diritto, il quale si è quaggiú tanto discosto -. A queste mie parole il Duca mezzo adirato subito si volse a certi Signori che erano con Sua Eccellenzia illustrissima e disse: - Io credo che questo Benvenuto lo faccia per saccenteria il contraporsi a ogni cosa - e subito voltomisi con mezzo scherno, dove tutti quei che erano alla presenza facevano il simile, e' cominciò a dire: - Io voglio aver teco tanta pazienza di ascoltare che ragione tu ti saprai immaginare di darmi, che io la creda -. Allora io dissi: - Io vi darò una tanto vera ragione che Vostra Eccellenzia ne sarà capacissima - e cominciai: - Sappiate, Signore, che la natura del fuoco si è di ire all'insú, e per questo le prometto che quella testa di Medusa verrà benissimo; ma perché la natura del fuoco nonn'è l'andare all'ingiú, e per avervelo a spignere sei braccia ingiú per forza d'arte, per questa viva ragione io dico a Vostra Eccellenzia illustrissima che gli è impossibile che quel piede venga; ma ei mi sarà facile a rifarlo -. Disse 'l Duca: - O perché non pensavi tu che quel piede venissi innel modo che tu di' che verrà la testa? - Io dissi: - E' bisognava fare molto maggiore la fornace, dove io arei potuto fare un ramo di gitto, grosso quanto io ho la gamba, e con quella gravezza di metallo caldo per forza ve l'arei fatto andare, dove il mio ramo, che va insino a' piedi quelle sei braccia che io dico, nonn'è grosso piú che dua dita. Imperò e' non portava 'l pregio; ché facilmente si racconcerà. Ma quando la mia forma sarà piú che mezza piena, sí come io spero, da quel mezzo in su, il fuoco che monta sicondo la natura sua, questa testa di Perseo e quella della Medusa verranno benissimo: sí che statene certissimo -. Detto che io gli ebbi queste mie belle ragioni con molte altre infinite, che per nonnessere troppo lungo io non ne scrivo, il Duca, scotendo il capo, si andò con Dio.
LXXV.
Fattomi da per me stesso sicurtà di buono animo, e scacciato tutti quei pensieri che di ora innora mi si rappresentavano innanzi (i quali mi facevano spesso amaramente piangere con el pentirmi della partita mia di Francia, per essere venuto afFirenze, patria mia dolce, solo per fare una lemosina alle ditte sei mia nipotine, e per cosí fatto bene vedevo che mi mostrava prencipio di tanto male), con tutto questo io certamente mi promettevo che, finendo la mia cominciata opera del Perseo, che tutti i mia travagli si doverriano convertire in sommo piacere e glorioso bene. E cosí ripreso 'l vigore, con tutte le mie forze, e del corpo e della borsa, con tutto che pochi dinari e' mi fussi restati, cominciai a procacciarmi di parecchi cataste di legni di pino, le quali ebbi dalla pineta de' Seristori, vicino a Monte Lupo; e in mentre che io l'aspettavo, io vestivo il mio Perseo di quelle terre che io avevo acconce parecchi mesi in prima, acciò che l'avessino la loro stagione. E fatto che io ebbi la sua tonaca di terra, che tonaca si dimanda innell'arte, e benissimo armatola e ricinta con gran diligenzia di ferramenti, cominciai con lente fuoco a trarne la cera, la quali usciva per molti sfiatatoi che io avevo fatti, che quanti piú se ne fa, tanto meglio si empie le forme. E finito che io ebbi di cavar la cera, io feci una manica intorno al mio Perseo, cioè alla detta forma, di mattoni, tessendo l'uno sopra l'altro, e lasciavo di molti spazi, dove 'l fuoco potessi meglio esalare: dipoi vi cominciai a mettere delle legne cosí pianamente, e gli feci fuoco dua giorni e dua notte continuamente; tanto che, cavatone tutta la cera, e dappoi s'era benissimo cotta la detta forma, subito cominciai a votar la fossa per sotterrarvi la mia forma, con tutti quei bei modi che la bella arte ci comanda. Quand'io ebbi finito di votar la detta fossa, allora io presi la mia forma, e con virtú d'argani e di buoni canapi diligentemente la dirizzai; e sospesala un braccio sopra 'l piano della mia fornace, avendola benissimo dirizzata di sorte che la si spenzolava appunto nel mezzo della sua fossa, pian piano la feci discendere in sino nel fondo della fornace, e si posò con tutte quelle diligenzie che immaginar si possano al mondo. E fatto che io ebbi questa bella fatica, cominciai a incalzarla con la medesima terra che io ne avevo cavata; e di mano in mano che io vi alzavo la terra, vi mettevo i sua sfiatatoi, i quali erano cannoncini di terra cotta che si adoperano per gli acquai e altre simil cose. Come che io vidi d'averla benissimo ferma e che quel modo di incalzarla con el metter quei doccioni bene ai sua luoghi, e che quei mia lavoranti avevano bene inteso il modo mio, il quale si era molto diverso da tutti gli altri maestri di tal professione; assicuratomi che io mi potevo fidare di loro, io mi volsi alla mia fornace, la quale avevo fatta empiere di molti masselli di rame e altri pezzi di bronzi; e accomodatigli l'uno sopra l'altro in quel modo che l'arte ci mostra, cioè sollevati, faccendo la via alle fiamme del fuoco, perché piú presto il detto metallo piglia il suo calore e con quello si fonde e riducesi in bagno, cosí animosamente dissi che dessino fuoco alla detta fornace. E mettendo di quelle legne di pino, le quali per quella untuosità della ragia che fa 'l pino, e per essere tanto ben fatta la mia fornacetta, ella lavorava tanto bene, che io fui necessitato assoccorrere ora da una parte e ora da un'altra con tanta fatica, che la m'era insopportabile; e pure io mi sforzavo. E di piú mi sopragiunse ch' e' s'appiccò fuoco nella bottega, e avevamo paura che 'l tetto non ci cadessi addosso; dall'altra parte di verso l'orto il cielo mi spigneva tant'acqua e vento, che e' mi freddava la fornace. Cosí combattendo con questi perversi accidenti parecchi ore, sforzandomi la fatica tanto di piú che la mia forte valitudine di complessione non potette resistere, di sorte che e' mi saltò una febbre efimera addosso, la maggiore che immaginar si possa al mondo, per la qual cosa io fui sforzato andarmi a gittare nel letto. E cosí molto mal contento, bisognandomi per forza andare, mi volsi a tutti quegli che mi aiutavano, i quali erano in circa a dieci o piú, infra maestri di fonder bronzo e manovali e contadini e mia lavoranti particulari di bottega; infra e' quali si era un Bernardino Mannellini di Mugello, che io m'avevo allevato parecchi anni; e al detto dissi, dappoi che mi ero raccomandato a tutti: - Vedi, Bernardino mio caro, osserva l'ordine che io ti ho mostro, e fa presto quanto tu puoi, perché il metallo sarà presto in ordino: tu non puoi errare, e questi altri uomini dabbene faranno presto i canali, e sicuramente potrete con questi dua mandriani dare nelle due spine, e io son certo che la mia forma si empierà benissimo. Io mi sento 'l maggior male che io mi sentissi mai da poi che io venni al mondo, e credo certo che in poche ore questo gran male m'arà morto -. Cosí molto mal contento mi parti' da loro, e me n'andai alletto.
LXXVI.
Messo che io mi fui nel letto, comandai alle mie serve che portassino in bottega da mangiare e dabbere attutti; e dicevo loro: - Io non sarò mai vivo domattina -. Loro mi davano pure animo, dicendomi che 'l mio gran male si passerebbe, e che e' mi era venuto per la troppa fatica. Cosí soprastato dua ore con questo gran combattimento di febbre; e di continuo io me la sentivo crescete, e sempre dicendo - Io mi sento morire - la mia serva, che governava tutta la casa, che aveva nome monna Fiore di Castel del Rio: questa donna era la piú valente che nascessi mai e altanto la piú amorevole, e di continuo mi sgridava, che io mi ero sbigottito, e dall'altra banda mi faceva le maggiore amorevolezze di servitú che mai far si possa al mondo. Imperò, vedendomi con cosí smisurato male e tanto sbigottito, con tutto il suo bravo cuore lei non si poteva tenere che qualche quantità di lacrime non gli cadessi dagli occhi; e pure lei quanto poteva si riguardava che io non le vedessi. Stando in queste smisurate tribulazione, io mi veggo entrare in camera un certo omo, il quale nella sua persona ei mostrava d'essere storto come una esse maiuscola; e cominciò a dire con un certo suon di voce mesto, afflitto, come coloro che danno il commandamento dell'anima a quei che hanno a 'ndare a giostizia, e disse: - O Benvenuto! la vostra opera si è guasta, e non ci è piú un rimedio al mondo -. Subito che io senti' le parole di quello sciagurato, messi un grido tanto smisurato, che si sarebbe sentito dal cielo del fuoco; e sollevatomi del letto presi li mia panni e mi cominciai a vestire; e le serve e 'l mio ragazzo e ognuno che mi si accostava per aiutarmi, attutti io davo o calci o pugna, e mi lamentavo dicendo: - Ahi traditori, invidiosi! Questo si è un tradimento fatto a arte; ma io giuro per Dio che benissimo i' lo conoscerò e innanzi che io muoia lascerò di me un tal saggio al mondo, che piú d'uno ne resterà maravigliato -. Essendomi finito di vestire, mi avviai con cattivo animo inverso bottega, dove io viddi tutte quelle gente, che con tanta baldanza avevo lasciate, tutti stavano attoniti e sbigottiti. Cominciai, e dissi: - Orsú intendetemi, e dappoi che voi non avete o saputo o voluto ubbidire al modo che io v'insegnai, ubbiditemi ora che io sono con voi alla presenza dell'opera mia; e non sia nessuno che mi si contraponga, perché questi cotai casi hanno bisogno di aiuto e non consiglio -. A queste mie parole e' mi rispose un certo maestro Alessandro Lastricati e disse: - Vedete, Benvenuto, voi vi volete mettere a fare una impresa, la quale mai nollo promette l'arte, né si può fare in modo nissuno -. A queste parole io mi volsi con tanto furore e resoluto al male, che ei e tutti gli altri, tutti a una voce dissono: - Sú, comandate, che tutti vi aiuteremo tanto quanto voi ci potrete comandare, in quanto si potrà resistere con la vita -. E queste amorevol parole io mi penso che ei le dicessino pensando che io dovessi poco soprastare a cascar morto. Subito andai a vedere la fornace, e viddi tutto rappreso il metallo, la qual cosa si domanda l'essersi fatto un migliaccio. Io dissi a dua manovali, che andassino al dirimpetto, in casa 'l Capretta beccaio, per una catasta di legne di quercioli giovani, che erano secchi di piú di uno anno, le quali legne madonna Ginevra, moglie del detto Capretta, me l'aveva offerte; e venute che furno le prime bracciate, cominciai a impiere la braciaiuola. E perché la quercia di quella sorte fa 'l piú vigoroso fuoco che tutte l'altre sorte di legne, avvenga che e' si adopera legne di ontano o di pino per fondere per l'artiglierie, perché è fuoco dolce; oh quando quel migliaccio cominciò a sentire quel terribil fuoco, ei si cominciò a schiarire, e lampeggiava. Dall'altra banda sollecitavo i canali, e altri avevo mandato sul tetto arriparare al fuoco, il quale per la maggior forza di quel fuoco si era maggiormente appiccato; e di verso l'orto avevo fatto rizzare certe tavole e altri tappeti e pannacci, che mi riparavano all'acqua.
LXXVII.
Di poi che io ebbi dato il rimedio attutti questi gran furori, con voce grandissima dicevo ora a questo e ora a quello: - Porta qua, leva là - di modo che, veduto che 'l detto migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con tanta voglia mi ubbidiva che ogniuno faceva per tre. Allora io feci pigliare un mezzo pane di stagno, il quale pesava in circa a 6o libbre, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornace, il quale, cone gli altri aiuti e di legne e di stuzzicare or co' ferri e or cone stanghe, in poco spazio di tempo e' divenne liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignoranti, e' mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo piú febbre o piú paura di morte. Innun tratto ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra; per la quale insolita spaventosa paura ogniuno s'era sbigottito, e io piú degli altri. Passato che fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l'un l'altro; e veduto che 'l coperchio della fornace si era scoppiato e si era sollevato di modo che 'l bronzo si versava, subito feci aprire le bocche della mia forma e nel medesimo tempo feci dare alle due spine. E veduto che 'l metallo non correva con quella prestezza ch'ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega per virtú di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornace; di modo che, veduto ogniuno che 'l mio bronzo s'era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e dicevo: - O Dio, che con le tue immense virtú risuscitasti da e' morti, e glorioso te ne salisti al cielo! - di modo che innun tratto e' s'empié la mia forma; per la qual cosa io m'inginochiai e con tutto 'l cuore ne ringraziai Iddio; dipoi mi volsi a un piatto d'insalata che era quivi in sur un banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella brigata; dipoi me n'andai nel letto sano ellieto, perché gli era due ore innanzi il giorno; e come se mai io non avessi aùto un male al mondo, cosí dolcemente mi riposavo. Quella mia buona serva, senza che io le dicessi nulla, mi aveva provvisto d'un grasso capponcello; di modo che, quando io mi levai del letto, che era vicino all'ora del desinare, la mi si fece incontro lietamente, dicendo: - Oh, è questo uomo quello che si sentiva morire? Io credo che quelle pugna e calci che voi davi annoi stanotte passata, quando voi eri cosí infuriato, che con quel diabolico furore che voi mostravi d'avere, quella vostra tanto smisurata febbre, forse spaventata che voi non dessi ancora allei, si cacciò a fuggire -. E cosí tutta la mia povera famigliuola, rimossa da tanto spavento e da tante smisurate fatiche, innun tratto si mandò a ricomperare, in cambio di quei piatti e scodelle di stagno, tante stoviglie di terra, e tutti lietamente desinammo, che mai non mi ricordo in tempo di mia vita né desinare con maggior letizia né con migliore appetito. Dopo 'l desinare mi vennono a trovare tutti quegli che mi avevano aiutato, i quali lietamente si rallegravano, ringraziando Iddio di tutto quel che era occorso, e dicevano che avevano imparato e veduto fare cose, le quali era dagli altri maestri tenute impossibili. Ancora io, alquanto baldanzoso, parendomi d'essere un poco saccente, me ne gloriavo; e messomi mano alla mia borsa, tutti pagai e contentai. Quel mal uomo, nimico mio mortale, di messer Pierfrancesco Ricci, maiordomo del Duca, con gran diligenzia cercava di intendere come la cosa si era passata; di modo che quei dua, di chi io avevo aùto sospetto che mi avessino fatto fare quel migliaccio, gli dissono che io nonnero uno uomo, anzi ero uno spresso gran diavolo, perché io avevo fatto quello che l'arte nollo poteva fare; con tante altre gran cose, le quali sarieno state troppe a un diavolo. Sí come lor dicevano molto piú di quello che era seguito, forse per loro scusa, il detto maiordomo lo scrisse subito al Duca, il quale era a Pisa, ancora piú terribilmente e piene di maggior maraviglie che coloro non gli avevano detto.
LXXVIII.
Lasciato che io ebbi dua giorni freddare la mia gittata opera, cominciai a scoprirla pian piano; e trovai, la prima cosa, la testa della Medusa, che era venuta benissimo per virtú degli sfiatatoi, sí come io dissi al Duca che la natura del fuoco si era l'andare all'insú; di poi seguitai di scoprire il resto, e trovai l'altra testa, cioè quella del Perseo, che era venuta similmente benissimo; e questa mi dette molto piú di meraviglia, perché sí come e' si vede, l'è piú bassa assai bene di quella della Medusa. E perché le bocche di detta opera si erano poste nel disopra della testa del Perseo e per le spalle, io trovai che alla fine della detta testa del Perseo si era appunto finito tutto 'l bronzo che era nella mia fornace. E fu cosa maravigliosa, che e' non avanzò punto di bocca di getto, né manco non mancò nulla; che questo mi dette tanta maraviglia, che e' parve propio che la fussi cosa miracolosa, veramente guidata e maneggiata da Iddio. Tiravo felicemente innanzi di finire di scoprirla, e sempre trovavo ogni cosa venuto benissimo, in sino a tanto che e s'arivò al piede della gamba diritta che posa, dove io trovai venuto il calcagno; e andando innanzi, vedevol essere tutto pieno, di modo che io da una banda molto mi ralegravo e da un'altra parte mezzo e' m'era discaro, solo perché io avevo detto al Duca, che e' non poteva venire. Di modo che finendolo di scoprire, trovai che le dita non erano venute, di detto piede, e non tanto le dita, ma e' mancava sopra le dita un pochetto, attale che gli era quasi manco mezzo; e se bene e' mi crebbe quel poco di fatica, io l'ebbi molto caro, solo per mostrare al Duca che io intendevo quello che io facevo. E se bene gli era venuto molto piú di quel piede che io non credevo, e' n'era stato causa che per i detti tanti diversi accidenti il metallo si era piú caldo, che non promette l'ordine dell'arte; e ancora per averlo aùto assoccorrerlo con la lega in quel modo che s'è detto, con quei piatti di stagno, cosa che mai per altri non s'è usata. Or veduta l'opera mia tanto bene venuta, subito me n'andai a Pisa a trovare il mio Duca; il quale mi fece una tanto gratissima accoglienza, quanto immaginar si possa al mondo; e il simile mi fece la Duchessa; e se bene quel lor maiordomo gli aveva avvisati del tutto, ei parve alloro Eccellenzie altra cosa piú stupenda e piú meravigliosa il sentirla contare a mme in voce; e quando io venni a quel piede del Perseo, che non era venuto, sí come io ne avevo avvisato in prima Sua Eccellenzia illustrissima, io lo viddi empiere di meraviglia, e lo contava alla Duchessa, si come io gnel' avevo detto innanzi. Ora veduto quei mia Signori tanto piacevoli inverso di me, allora io pregai il Duca, che mi lasciassi andare insino a Roma. Cosí benignamente mi dette licenzia, e mi disse che io tornassi presto affinire 'l suo Perseo, e mi fece lettere di favore al suo imbasciadore, il quale era Averardo Serristori: ed erano li primi anni di papa Iulio de' Monti.
LXXIX.
Innanzi che io mi partissi, detti ordine ai mia lavoranti che seguitassino sicondo 'l modo che io avevo lor mostro. E la cagione perché io andai si fu che avendo fatto a Bindo d'Antonio Altoviti un ritratto della sua testa, grande quanto 'l propio vivo, di bronzo, e gnel'avevo mandato insino a Roma, questo suo ritratto egli l'aveva messo innun suo scrittoio, il quale era molto riccamente ornato di anticaglie e altre belle cose; ma il detto scrittoio nonnera fatto per sculture, né manco per pitture, perché le finestre venivano sotto le dette belle opere, di sorte che, per avere quelle sculture e pitture i lumi al contrario, le non mostravano bene, in quel modo che le arebbono fatto se le avessino aùto i loro ragionevoli lumi. Un giorno si abbatté 'l detto Bindo a essere in su la sua porta, e passando Michelagnolo Buonaroti, scultore, ei lo pregò che si degnassi di entrare in casa sua a vedere un suo scrittoio; e cosí lo menò. Subito entrato, e veduto, disse: - Chi è stato questo maestro che v'ha ritratto cosí bene e con sí bella maniera? E sappiate che quella testa mi piace come, e meglio qualcosa che si faccino quelle antiche; e pur le sono delle buone che di loro si veggono; e se queste finestre fussino lor di sopra, come le son lor di sotto, le mostrerrieno tanto meglio, che quel vostro ritratto infra queste tante belle opere si farebbe un grande onore -. Subito partito che 'l detto Michelagnolo si fu di casa 'l detto Bindo, ei mi scrisse una piacevolissima lettera la quale diceva cosí:"Benvenuto mio, io v'ho conosciuto tanti anni per il maggiore orefice che mai ci sia stato notizia; e ora vi conoscerò per scultore simile. Sappiate che messer Bindo Altoviti mi menò a vedere una testa del suo ritratto, di bronzo, e mi disse che l'era di vostra mano; io n'ebbi molto piacere; ma e' mi seppe molto male che l'era messa a cattivo lume, che se l'avessi il suo ragionevol lume, la si mostrerrebbe quella bella opera che l'è". Questa lettera si era piena delle piú amorevol parole e delle piú favorevole inverso di me: che innanzi che io mi partissi per andare a Roma, l'avevo mostrata al Duca, il quale la lesse con molta affezione, e mi disse: - Benvenuto, se tu gli scrivi e faccendogli venir voglia di tornarsene a Firenze, io lo farei de' Quarantotto -. Cosí io gli scrissi una lettera tanta amorevole, e innessa gli dicevo da parte del Duca piú l'un cento di quello che io avevo aùto la commessione; e per non voler fare errore, la mostrai al Duca in prima che io la suggellassi, e dissi a Sua Eccellenzia illustrissima: - Signore, io ho forse promessogli troppo -. Ei rispose e disse: - E' merita piú di quello che tu gli hai promesso, e io gliele atterrò da vantaggio -. A quella mia lettera Michelagnolo non fece mai risposta, per la qual cosa il Duca mi si mostrò molto sdegnato seco.
LXXX.
Ora, giunto che io fui a Roma, andai alloggiare in casa del detto Bindo Altoviti: ei subito mi disse come gli aveva mostro 'l suo ritratto di bronzo a Michelagnolo, e che ei lo aveva tanto lodato; cosí di questo noi ragionammo molto allungo. Ma perché gli aveva in mano di mio mille dugento scudi d'oro innoro, i quali il detto Bindo me gli aveva tenuti insieme di cinque mila simili, che lui ne aveva prestati al Duca, che quattro mila ve n'era de' sua e in nome suo v'era li mia, e' me ne dava quel utile della parte mia che e' mi si preveniva; qual fu la causa che io mi messi a fargli il detto ritratto. E perché quando 'l detto Bindo lo vide di cera, ei mi mandò a donare 50scudi d'oro per un suo ser Giuliano Paccalli notai', che stava seco, i quali dinari io non gli volsi pigliare e per il medesimo gliele rimandai, e di poi dissi al detto Bindo: - A me basta che quei mia dinari voi me gli tegniate vivi; e che e' mi guadagnino qualche cosa - io mi avvidi che gli aveva cattivo animo, perché in cambio di farmi carezze, come gli era solito di farmi, egli mi si mostrò rigido; e con tutto che ei mi tenessi in casa, mai non mi si mostrò chiaro, anzi stava ingrognato. Pure con poche parole la risolvemmo: io mi persi la mia fattura di quel suo ritratto e il bronzo ancora, e ci convenimmo che quei mia dinari e' gli tenessi a 15 per cento a vita mia durante naturale.
LXXXI.
In prima ero ito a baciare i piedi al Papa; e in mentre che io ragionavo col Papa, sopra giunse messer Averardo Serristori, il quale era imbasciadore del nostro Duca; e perché io avevo mossi certi ragionamenti con el Papa, con e' quali io credo che facilmente mi sarei convenuto seco e volentieri mi sarei tornato a Roma per le gran difficultà che io avevo a Firenze; ma 'l detto imbasciatore io mi avvidi che egli aveva operato in contrario. Andai a trovare Michelagnolo Buonaroti e gli replicai quella lettera che di Firenze io gli avevo scritto da parte del Duca. Egli mi rispose che era impiegato nella fabbrica di San Piero, e che per cotal causa ei non si poteva partire. Allora io gli dissi, che da poi che e' s'era resoluto al modello di detta fabbrica, che ei poteva lasciare il suo Urbino, il quale ubbidirebbe benissimo quando lui gli ordinassi; e aggiunsi molte altre parole di promesse; dicendogliele dapparte del Duca. Egli subito mi guardò fiso, e sogghignando disse: - E voi come state contento seco? - Se bene io dissi che stavo contentissimo, e che io ero molto ben tratto, ei mostrò di sapere la maggior parte dei mia dispiaceri; e cosí mi rispose ch'egli sarebbe difficile il potersi partire. Allora io aggiunsi che ci farebbe 'l meglio a tornare alla sua patria, la quale era governata da un Signore giustissimo e il piú amatore delle virtute che mai altro Signore che mai nascessi al mondo. Sí come di sopra ho detto, gli aveva seco un suo garzone, che era da Urbino, il quale era stato seco di molti anni e lo aveva servito piú di ragazzo e di serva che d'altro: e il perché si vedeva, che 'l detto non aveva imparato nulla dell'arte; e perché io avevo stretto Michelagnolo con tante buone ragione, che e' non sapeva che dirsi subito, ei si volse al suo Urbino con un modo di domandarlo quel che gnele pareva. Questo suo Urbino subito, con un suo villanesco modo, co' molta gran voce cosí disse: - Io non mi voglio mai spiccare dal mio messer Michelagnolo, insino o che io scorticherò lui o che lui scorticherà me -. A queste sciocche parole io fui sforzato a ridere, e senza dirgli addio, colle spalle basse mi volsi, e parti' mi.
LXXXII.
Da poi che cosí male io avevo fatto la mia faccenda con Bindo Altoviti, col perdere la mia testa di bronzo e 'l dargli li mia danari a vita mia, io fui chiaro di che sorte si è la fede dei mercatanti, e cosí malcontento me ne ritornai a Firenze. Subito andai a Palazzo per visitare il Duca; e Sua Eccellenzia illustrissima si era a Castello, sopra 'l Ponte a Rifredi. Trovai in Palazzo messer Pierfrancesco Ricci, maiordomo, e volendomi accostare al detto per fare le usate cerimonie, subito con una smisurata maraviglia disse: - Oh tu sei tornato! - e colla medesima maraviglia, battendo le mani, disse: - Il Duca è a Castello - e voltomi le spalle si partí. Io non potevo né sapere né immaginare il perché quella bestia si aveva fatto quei cotai atti. Subito me n'andai a Castello, ed entrato nel giardino, dove era 'l Duca, io lo vidi di discosto, che quando ei mi vide, fece segno di meravigliarsi, e mi fece intendere che io me n'andassi. Io che mi ero promesso che Sua Eccellenzia mi facessi le medesime carezze e maggiore ancora che ei mi fece quando io andai, or vedendo una tanta stravaganza, molto malcontento mi ritornai a Firenze; e riprese le mie faccende, sollicitando di tirare a fine la mia opera, non mi potevo immaginare un tale accidente da quello che e' si potessi procedere: se non che osservando in che modo mi guardava messer Sforza e certi altri di quei piú stretti al Duca, e' mi venne voglia di domandare messer Sforza che cosa voleva dire questo; il quale cosí sorridendo, disse: - Benvenuto, attendete a essere uomo dabbene, e non vi curate d'altro -. Pochi giorni appresso mi fu dato comodità che io parlai al Duca, ed ei mi fece certe carezze torbide e mi domandò quello che si faceva a Roma: cosí 'l meglio che io seppi appiccai ragionamento, e gli dissi della testa che io avevo fatta di bronzo a Bindo Altoviti, con tutto quel che era seguito. Io mi avvidi che gli stava a 'scoltarmi con grande attenzione: e gli dissi similmente di Michelagnolo Buonaroti il tutto. Il quale mostrò alquanto sdegno; e delle parole del suo Urbino, di quello 'scorticamento che gli aveva detto, forte se ne rise; poi disse: - Suo danno - e io mi parti'. Certo che quel ser Pierfrancesco, maiordomo, doveva aver fatto qualche male uffizio contra di me cone il Duca, il quale non gli riuscí: che Iddio amatore della verità mi difese, sí come sempre insino a questa mia età di tanti smisurati pericoli e' m'ha scampato, e spero che mi scamperà insino al fine di questa mia, se bene travagliata, vita; pure vo innanzi, sol per sua virtú, animosamente, né mi spaventa nissun furore di fortuna o di perverse stelle: sol mi mantenga Iddio nella sua grazia.
LXXXIII.
Or senti un terribile accidente, piacevolissimo lettore. Con quanta sollicitudine io sapevo e potevo, attendevo a dar fine alla mia opera, e la sera me n'andavo a veglia nella guardaroba del Duca, aiutando a quegli orefici che vi lavoravano per Sua Eccellenzia illustrissima; ché la maggior parte di quelle opere che lor facevano si erano sotto i mia disegni: e perché io vedevo che 'l Duca ne pigliava molto piacere, sí del vedere lavorare come del confabulare meco, ancora e' mi veniva a proposito lo andarvi alcune volte di giorno. Essendo un giorno in fra gli altri nella detta guardaroba, il Duca venne al suo solito e piú volentieri assai, saputo Sua Eccellenzia illustrissima che io v'ero; e subito giunto cominciò arragionar meco di molte diverse e piacevolissime cose, e io gli rispondevo approposito, e lo avevo di modo invaghito, che ei mi si mostrò piú piacevole che mai ei mi si fussi mostro per il passato. Innun tratto e' comparve un dei sua segretarii, il quale parlando all'orecchio di Sua Eccellenzia per esser forse cosa di molta importanza, subito il Duca si rizzò e andossene innun'altra stanza con el detto segretario. E perché la Duchessa aveva mandato a vedere quel che faceva Sua Eccellenzia illustrissima, disse il paggio alla Duchessa: - Il Duca ragiona e ride con Benvenuto, ed è tutto in buona -. Inteso questo, la Duchessa subito venne in guardaroba e non vi trovando 'l Duca, si messe a sedere appresso a noi; e veduto che la ci ebbe un pezzo lavorare, con gran piacevolezza si volse a me e mi mostrò un vezzo di perle grosse, e veramente rarissime, e domandandomi quello che e' me ne pareva, io le dissi che gli era cosa molto bella. Allora Sua Eccellenzia illustrissima mi disse: - Io voglio che il Duca me lo comperi; sí che, Benvenuto mio, lodalo al Duca quanto tu sai e puoi al mondo -. A queste parole io, con quanta reverenzia seppi, mi scopersi alla Duchessa, e dissi: - Signora mia, io mi pensavo che questo vezzo di perle fussi di Vostra Eccellenzia illustrissima; e perché la ragione non vuole che e' si dica mai nessuna di quelle cose che saputo el nonnessere di Vostra Eccellenzia illustrissima ei mi occorre dire, anzi e' m'è di necessità il dirle; sappi Vostra Eccellenzia illustrissima che, per essere molto mia professione, io conosco in queste perle di moltissimi difetti, per i quali già mai vi consiglierei che Vostra Eccellenzia lo comperassi -. A queste mie parole lei disse: - Il mercatante me lo dà per sei mila scudi: che se e' non avessi qualcuno di quei difettuzzi, e' ne varrebbe piú di dodici mila -. Allora io dissi, che quando quel vezzo fussi di tutta infinita bontà, che io non consiglierei mai persona che aggiugnessi a cinque mila scudi; perché le perle non sono gioie; le perle sono un osso di pesce e in ispazio di tempo le vengono manco; ma i diamanti, e i rubini e gli smeraldi nonninvecchiano, e i zaffiri: queste quattro son gioie, e di queste si vuol comperare. A queste mie parole, alquanto sdegnosetta la Duchessa mi disse: - Io ho voglia or di queste perle, e però ti priego che tu le porti al Duca, e lodale quanto tu puoi e sai al mondo; e se bene e' ti par dire qualche poco di bugie, dille per far servizio a me; ché buon per te -. Io che son sempre stato amicissimo della verità e nimico delle bugie, ed essendomi di necessità, volendo non perdere la grazia di una tanto gran principessa, cosí malcontento presi quelle maledette perle, e andai con esse in quell'altra stanza, dove s'era ritirato 'l Duca. Il quale subito che e' mi vide, disse: - O Benvenuto, che vai tu faccendo? - Scoperto quelle perle, dissi: - Signor mio, io vi vengo a mostrare un bellissimo vezzo di perle, rarissimo e veramente degno di Vostra Eccellenzia illustrissima; e per ottanta perle, io non credo che mai e' se ne mettessi tante insieme, che meglio si mostrassino innun vezzo; sí che comperatele, Signore, che le sono miracolose -. Subito 'l Duca disse: - Io nolle voglio comperare, perché le non sono quelle perle né di quella bontà che tu di', e le ho viste, e non mi piacciono -. Allora io dissi: - Perdonatemi, Signore, che queste perle avanzano di infinita bellezza tutte le perle che per vezzo mai fussino ordinate -. La Duchessa si era ritta, e stava dietro a una porta e sentiva tutto quello che io dicevo; di modo che, quando io ebbi detto piú di mille cose piú di quel che io scrivo, il Duca mi si volse con benigno aspetto, e mi disse: - O Benvenuto mio, io so che tu te ne 'ntendi benissimo: e se coteste perle fussino con quelle virtú tante rare che tu apponi loro, a mme non parrebbe fatica il comperarle, sí per piacere alla Duchessa, e sí per averle; perché queste tal cose mi sono di necessità, non tanto per la Duchessa, quanto per l'altre mia faccende di mia figliuoli e figliuole -. E io a queste sue parole, dappoi che io avevo cominciato a dir le bugie, ancora con maggior aldacia seguitavo di dirne, dando loro il maggior colore di verità, acciò che 'l Duca me le credessi, fidandomi della Duchessa, che attempo ella mi dovessi aiutare. E perché ei mi si preveniva piú di dugento scudi, faccendo un cotal mercato, e la Duchessa me n'aveva accennato, io m'ero resoluto e disposto di non voler pigliare un soldo, solo per mio scampo, acciò che 'l Duca mai nonnavessi pensato che io lo facessi per avarizia. Di nuovo 'l Duca con piacevolissime parole mosse addirmi: - Io so che tu te ne intendi benissimo: imperò se tu se' quell'uomo dabbene, che io mi son sempre pensato che tu sia, or dimmi 'l vero -. Allora, arrossiti li mia occhi e alquanto divenuti umidi di lacrime, dissi: - Signor mio, se io dico 'l vero a Vostra Eccellenzia illustrissima, la Duchessa mi diventa mortalissima inimica, per la qual cosa io sarò necessitato andarmi con Dio, e l'onor del mio Perseo, il quale io ho promesso a questa nobilissima Scuola di Vostra Eccellenzia illustrissima, subito li inimici miei mi vitupereranno; sí che io mi raccomando a Vostra Eccellenzia illustrissima.
LXXXIV.
Il Duca, avendo conosciuto che tutto quello che io avevo detto e' m'era stato fatto dire come per forza, disse: - Se tu hai fede in me, non ti dubitare di nulla al mondo -. Di nuovo io dissi: - Oimè, Signor mio, come potrà egli essere che la Duchessa nullo sappia? - A queste mie parole 'l Duca alzò la fede e disse: - Fa conto di averle sepolte innuna cassettina di diamanti -. A queste onorate parole, subito io dissi il vero di quanto io intendeva di quelle perle, e che le non valevano troppo piú di dumila scudi. Avendoci sentiti la Duchessa racchetare, perché parlavàno quando dir si può piano, ella venne innanzi, e disse: - Signor mio, Vostra Eccellenzia di grazia mi compri questo vezzo di perle, perché io ne ho grandissima voglia, e il vostro Benvenuto ha ditto che mai e' non n'ha veduto il piú bello -. Allora il Duca disse: - Io nollo voglio comprare. - Perché, Signor mio, non mi vuole Vostra Eccellenzia contentare di comperare questo vezzo di perle? - Perché e' non mi piace di gittar via i danari -. La Duchessa di nuovo disse: - Oh come gittar via li dinari, che 'l vostro Benvenuto, in chi voi avete tanta fede meritamente, m'ha ditto che gli è buon mercato piú di tremila scudi? - Allora il Duca disse: - Signora, il mio Benvenuto m'ha detto, che se io lo compro, che io gitterò via li mia dinari, perché queste perle non sono né tonde né equali, e ce n'è assai delle vecchie; e che e' sia il vero, or vedete questa e quest'altra, e vedete qui e qua: si che le non sono 'l caso mio -. A queste parole la Duchessa mi guardò con malissimo animo, e minacciandomi col capo si partí di quivi, di modo che io fui tutto tentato di andarmi con Dio e dileguarmi di Italia; ma perché il mio Perseo si era quasi finito, io non volsi mancare di nollo trar fuora: ma consideri ogni uomo in che greve travaglio io mi ritrovavo. Il Duca aveva comandato a' suoi portieri in mia presenza, che mi lasciassino sempre entrare per le camere e dove Sua Eccellenzia fussi; e la Duchessa aveva comandato a quei medesimi che tutte le volte che io arrivavo in quel palazzo, eglino mi cacciassino via; di sorte che come ei mi vedevano, subito e' si partivano da quelle porte e mi cacciavano via; ma e' si guardavano che 'l Duca no gli vedessi, di sorte che se 'l Duca mi vedeva in prima che questi sciagurati, o egli mi chiamava o e' mi faceva cenno che io andassi. La Duchessa chiamò quel Bernardone sensale, il quale lei s'era meco tanto doluta della sua poltroneria e vil dappocaggine, e allui si raccomandò, sí come l'aveva fatto a mme; il quale disse: - Signora mia, lasciate fare a me -. Questo ribaldone andò innanzi al Duca con questo vezzo in mano. Il Duca, subito che e' lo vide, gli disse che e' se gli levassi d'inanzi. Allora il detto ribaldone con quella sua vociaccia, che ei la sonava per il suo nasaccio d'asino, disse: - Deh! Signor mio, comperate questo vezzo a quella povera Signora, la quale se ne muor di voglia, e non può vivere sanz'esso -. E aggiugnendo molte altre sue sciocche parolaccie, ed essendo venuto affastidio al Duca, gli disse: - O tu mi ti lievi d'inanzi, o tu gonfia un tratto -. Questo ribaldaccio, che sapeva benissimo quello che lui faceva, perché se o per via del gonfiare o per cantare La bella Franceschina, ei poteva ottenere che 'l Duca facessi quella compera, egli si guadagnava la grazia della Duchessa e di piú la sua senseria, la quale montava parecchi centinaia di scudi: e cosí egli gonfiò. Il Duca gli dette parecchi ceffatoni in quelle sue gotaccie, e per levarselo d'inanzi ei gli dette un poco piú forte che e' non soleva fare. A queste percosse forti in quelle sue gotaccie, non tanto l'esser diventate troppo rosse, che e' ne venne giú le lacrime. Con quelle ei cominciò a dire: - Eh! Signore, un vostro fidel servitore, il quale cerca di far bene e si contenta di comportare ogni sorte di dispiacere, pur che quella povera Signora sia contenta -. Essendo troppo venuto affastidio al Duca questo uomaccio, e per le gotate e per amor della Duchessa, la quale Sua Eccellenzia illustrissima sempre volse contentare, subito disse: - Levamiti d'inanzi col malanno che Dio ti dia, e va, fanne mercato, che io son contento di far tutto quello che vuole la signora Duchessa -. Or qui si conosce la rabbia della mala fortuna inverso d'un povero uomo e la vituperosa fortuna a favorire uno sciagurato: io mi persi tutta la grazia della Duchessa, che fu buona causa di tormi ancor quella del Duca; e lui si guadagnò quella grossa senseria e la grazia loro: sí che e' non basta l'esser uomo dabbene e virtuoso.
LXXXV.
In questo tempo si destò la guerra di Siena; e volendo 'l Duca afforzificare Firenze, distribuí le porte infra i sua scultori e architettori; dove a me fu consegnato la Porta al Prato e la Porticciuola d'Arno, che è in sul prato dove si va alle mulina; al cavalieri Bandinello la porta a San Friano; apPasqualino d'Ancona, la porta a San Pier Gattolini; a Giulian di Baccio d'Agnolo, legnaiuolo, la porta a San Giorgio; al Particino, legnaiuolo, la porta a Santo Niccolò; a Francesco da Sangallo, scultore, detto il Margolla, fu dato la porta alla Croce; e a Giovanbatista, chiamato il Tasso, fu data la porta a Pinti: e cosí certi altri bastioni e porte a diversi ingegneri, i quali non mi soviene né manco fanno al mio proposito. Il Duca, che veramente è sempre stato di buono ingegno, dappersé medesimo, se n'andò intorno alla sua città; e quando Sua Eccellenzia illustrissima ebbe bene esaminato e resolutosi, chiamò Lattanzio Gorini, il quale si era un suo pagatore: e perché anche questo Lattanzio si dilettava alquanto di questa professione, Sua Eccellenzia illustrissima lo fece disegnare tutti i modi che e' voleva che si afforzificassi le dette porte, e a ciascuno di noi mandò disegnata la sua porta; di modo che vedendo quella che toccava a me, e parendomi che 'l modo non fussi sicondo la sua ragione, anzi egli si era scorrettissimo, subito con questo disegno in mano me n'andai a trovare 'l mio Duca; e volendo mostrare a Sua Eccellenzia i difetti di quel disegno datomi, non sí tosto che io ebbi cominciato a dire, il Duca infuriato mi si volse, e disse: - Benvenuto, del far benissimo le figure io cederò a te, ma di questa professione io voglio che tu ceda a me; sí che osserva il disegno che io t'ho dato -. A queste brave parole io risposi quanto benignamente io sapevo al mondo e dissi: - Ancora, Signor mio, del bel modo di fare le figure io ho imparato da Vostra Eccellenzia illustrissima; imperò noi l'abbiamo sempre disputata qualche poco insieme; cosí di questo afforzificare la vostra città, la qual cosa importa molto piú che 'l far delle figure, priego Vostra Eccellenzia illustrissima che si degni di ascoltarmi, e cosí ragionando con Vostra Eccellenzia, quella mi verrà meglio a mostrare il modo che io l'ho asservire -. Di modo che, con queste mie piacevolissime parole, benignamente ci si messe a disputarla meco; e mostrando a Sua Eccellenzia illustrissima con vive e chiare ragione, che in quel modo che ei m'aveva disegnato e' non sarebbe stato bene, Sua Eccellenzia mi disse: - O va, e fa un disegno tu, e io vedrò se e' mi piacerà -. Cosí io feci dua disegni sicondo la ragione del vero modo di afforzificare quelle due porte, e glieli portai, e conosciuto la verità dal falzo, Sua Eccellenzia piacevolmente mi disse: - O va, e fa attuo modo, che io sono contento -. Allora con gran sollecitudine io cominciai.
LXXXVI.
Egli era alla guardia della porta al Prato un capitano lombardo: questo si era uno uomo di terribil forma robusta, e con parole molto villane; ed era prosuntuoso e ignorantissimo. Questo uomo subito mi cominciò a domandare quel che io volevo fare; al quale io piacevolmente gli mostrai i mia disegni, e con strema fatica gli davo addintendere il modo che io volevo tenere. Or questa villana bestia ora scoteva 'l capo, e ora e' si voggeva in qua e ora in là, mutando spesso 'l posar delle gambe, artorcigliandosi i mostacci della barba, che gli aveva grandissimi, e spesso ci si tirava la piega della berretta in su gli occhi dicendo spesso: - Maidè, cancher! Io nolla intendo questa tua fazenda -.Di modo che, essendomi questa bestia venuto annoi', dissi: - Or lasciatela addunche fare a me, che la 'ntendo - e voltandogli le spalle per andare al fatto mio, questo uomo cominciò minacciando col capo; e colla man mancina, mettendola in su 'l pomo della sua spada, gli fece alquanto rizzar la punta, e disse: - Olà, mastro, tu vorrai che io facci quistion teco al sangue -. Io me gli volsi con grande còllora, perché e' mi aveva fatto adirare, e dissi: - E' mi parrà manco fatica il far quistione con esso teco,che il fare questo bastione a questa porta -. A un tratto tutt'a dua mettemmo le mani in su le nostre spade, e nolle sfoderammo affatto, che subito si mosse una quantità di uomini dabbene, sí de' nostri Fiorentini e altri cortigiani; e la maggior parte sgridorno lui dicendogli che gli aveva 'l torto, e che io ero uomo da rendergli buon conto, e che se 'l Duca lo sapessi, che guai a lui. Cosí egli andò al fatto sua: e io cominciai il mio bastione. E come io ebbi dato l'ordine al detto bastione, andai all'altra porticciuola d'Arno, dove io trovai un capitano da Cesena, il piú gentil galante uomo che mai io conoscessi di tal professione: ci dimostrava di essere una gentil donzelletta, e al bisogno egli si era de' piú bravi uomini e 'l piú miciduale che immaginar si possa. Questo gentile uomo mi osservava tanto che molte volte ei mi faceva peritare: e' desiderava di intendere e io piacevolmente gli mostravo: basta che noi facevàno a chi si faceva maggior carezze l'un l'altro, di sorte che io feci meglio questo bastione, che quello, assai. Avendo presso e finiti li mia bastioni, per aver dato una correria certe gente di quelle di Piero Strozzi, e' si era tanto spaventato 'l contado di Prato, che tutto ci si sgombrava, e per questa cagione tutte le carra di quel contado venivano cariche, portando ogniuno le sue robe alla città. E perché le carra si toccavano l'uno l'altra, le quali erano una infinità grandissima, vedendo un tal disordine, io dissi alle guardie delle porte che avvertissono che a quella porta e' nonnaccadessi un disordine come avvenne alle porte di Turino; ché bisognando l'aversi asservirsi della saracinesca, la non potria fare l'uffizio suo, perché la resterebbe sospesa in su uno di que' carri. Sentendo quel bestion di quel capitano queste mia parole, mi si volse con ingiuriose parole, e io gli risposi altanto; di modo che noi avemmo affar molto peggio che quella prima volta: imperò noi fummo divisi; e io, avendo finiti i mia bastioni, toccai parecchi scudi innaspettatamente, che e' me ne giovò, e volentieri me ne tornai affinire 'l mio Perseo.
LXXXVII.
Essendosi in questi giorni trovato certe anticaglie nel contado d'Arezzo, in fra le quali si era la Chimera, ch'è quel lione di bronzo, il quale si vede nelle camere convicino alla gran sala del Palazzo; e insieme con la detta Chimera si era trovato una quantità di piccole statuette, pur di bronzo, le quali erano coperte di terra e di ruggine, e a ciascuna di esse mancava o la testa o le mani o i piedi; il Duca pigliava piacere di rinettarsele da per sé medesimo con certi cesellini di orefici. Gli avvenne che e' mi occorse di parlare a Sua Eccellenzia illustrissima; e in mentre che io ragionavo seco, ei mi porse un piccol martellino con el quale io percotevo quei cesellini che 'l Duca teneva in mano, e in quel modo le ditte figurine si scoprivano dalla terra e dalla ruggine. Cosí passando innanzi parecchi sere, il Duca mi disse innopera, dove io cominciai a rifare quei membri che mancavano alle dette figurine. E pigliandosi tanto piacere Sua Eccellenzia di quel poco di quelle coselline, egli mi faceva lavorare ancora di giorno, e se io tardavo all'andarvi, Sua Eccellenzia illustrissima mandava per me. Piú volte feci intendere a Sua Eccellenzia che se io mi sviavo il giorno dal Perseo, che e' ne seguirebbe parecchi inconvenienti; e il primo, che piú mi spaventava, si era che 'l gran tempo che io vedevo che ne portava la mia opera, non fussi causa di venire annoia a Sua Eccellenzia illustrissima, sí come poi e' mi avvenne; l'altro si era, che io avevo parecchi lavoranti, e quando io nonnero alla presenza, eglino facevano dua notabili inconvenienti. E il primo si era che e' mi guastavano la mia opera, e l'altro che eglino lavoravano poco al possibile; di modo che il Duca si era contento che io v'andassi solamente dalle 24 ore in là. E perché io mi avevo indolcito tanto meravigliosamente Sua Eccellenzia illustrissima, che la sera che io arrivavo dallui, sempre ei mi cresceva le carezze. In questi giorni e' si murava quelle stanze nuove di verso i Leoni; di modo che, volendo Sua Eccellenzia ritirarsi in parte piú secreta, ei s'era fatto acconciare un certo stanzino in queste stanze fatte nuovamente, e a mme aveva ordinato che io me n'andassi per la sua guardaroba, dove io passavo segretamente sopra 'l palco della gran sala, e per certi pugigattoli me n'andavo al detto stanzino segretissimamente: dove che innispazio di pochi giorni la Duchessa me ne privò, faccendo serrare tutte quelle mie comodità; di modo che ogni sera che io arrivavo in Palazzo, io avevo a 'spettare un gran pezzo per amor che la Duchessa si stava in quelle anticamere dove io avevo da passare, alle sue comodità; e per essere infetta io non vi arrivavo mai volta che io nolla scomodassi. Or per questa e per altra causa la mi s'era recata tanto annoia, che per verso nissuno la non poteva patir di vedermi; e con tutto questo mio gran disagio e infinito dispiacere, pazientemente io seguitavo d'andarvi; e il Duca aveva di sorte fatto ispressi comandamenti, che subito che io picchiavo quelle porte, e' m'era aperto, e senza dirmi nulla e' mi lasciavano entrare per tutto; di modo che e' gli avvenne talvolta, che entrando chetamente cosí inaspettatamente per quelle secrete camere, che io trovava la Duchessa alle sue comodità; la quale subito si scrucciava con tanto arrabbiato furore meco, che io mi spaventavo, e sempre mi diceva: - Quando arai tu mai finito di racconciare queste piccole figurine? perché oramai questo tuo venire m'è venuto troppo affastidio -. Alla quale io benignamente rispondevo: - Signora, mia unica patrona, io non desidero altro, se none con fede e cone estrema ubbidienza servirla; e perché queste opere, che mi ha ordinato il Duca dureranno di molti mesi, dicami Vostra Eccellenzia illustrissima se la non vuole che io ci venga piú; io non ci verrò in modo alcuno e chiami chi vuole; e se bene e' mi chiamerà 'l Duca, io dirò che mi sento male e in modo nessuno mai non ci capiterò -. A queste mie parole ella diceva: - Io non dico che tu non ci venga e non dico che tu non ubbidisca al Duca; ma e' mi pare bene che queste tue opere nonnabbino mai fine -. O che 'l Duca ne avessi aùto qualche sentore, o innaltro modo che la si fussi, Sua Eccellenzia ricominciò: come e' si appressava alle 24 ore, ei mi mandava a chiamare; e quello che veniva a chiamarmi, sempre mi diceva: - Avvertisci a non mancare di venire, che 'l Duca ti aspetta - e cosí continuai, con queste medesime difficultà, parecchi serate. E una sera infra l'altre, entrando al mio solito, il Duca, che doveva ragionare colla Duchessa di cose forse segrete, mi si volse con el maggior furore del mondo; e io, alquanto spaventato, volendomi presto ritirare, innun subito disse: - Entra, Benvenuto mio, e va là alle tue faccende, e io starò poco a venirmi a star teco -. In mentre che io passavo, e' mi prese per la cappa il signor don Grazía, fanciullino di poco tempo, e mi faceva le piú piacevol baiuzze che possa fare un tal bambino; dove il Duca maravigliandosi, disse: - Oh, che piacevole amicizia è questa che i mia figliuoli hanno teco!
LXXXVIII.
In mentre che io lavoravo in queste baie di poco momento, il principe e don Giovanni e don Harnando e don Grazía tutta sera mi stavano addosso, e ascosamente dal Duca ei mi punzecchiavano: dove io gli pregavo di grazia che gli stessino fermi. Eglino mi rispondevano, dicendo: - Noi non possiamo -. E io dissi loro: - Quello che non si può non si vuole; or fate, via -. A un tratto el Duca e la Duchessa si cacciorno a ridere. Un'altra sera, avendo finite quelle quattro figurette di bronzo che sono nella basa commesse, qual sono Giove, Mercurio, Minerva, e Danae madre di Perseo con el suo Perseino a sedere ai sua piedi, avendole io fatte portare innella detta stanza dove io lavoravo la sera, io le messi in fila, alquanto levate un poco dalla vista, di sorte che le facevano un bellissimo vedere. Avendolo inteso il Duca, e' se ne venne alquanto prima che 'l suo solito; e perché quella tal persona, che riferí a Sua Eccellenzia illustrissima, gnele dovette mettere molto piú di quello che ell'erano, perché ei gli disse: - Meglio che gli antichi - e cotai simil cose, il mio Duca se ne veniva insieme con la Duchessa lietamente ragionando pur della mia opera; e io subito rizzatomi me gli feci incontro. Il quale con quelle sue ducale e belle accoglienze alzò la man dritta, innella quale egli teneva una pera bronca, piú grande che si possa vedere e bellissima, e disse: - Toi, Benvenuto mio, poni questa pera nell'orto della tua casa -. A quelle parole io piacevolmente risposi, dicendo: - O Signor mio, dice da dovero Vostra Eccellenzia illustrissima che io la ponga nell'orto della mia casa? - Di nuovo disse il Duca: - Nell'orto della casa, che è tua; ha' mi tu inteso? - Allora io ringraziai Sua Eccellenzia, e il simile la Duchessa, con quelle meglio cerimonie che io sapevo fare al mondo. Dappoi ei si posono assedere amendua, al rincontro di dette figurine, e per piú di dua ore non ragionorno mai d'altro che delle belle figurine; di sorte che e' n'era venuta una tanta smisurata voglia alla Duchessa che la mi disse allora: - Io non voglio che queste belle figurine si vadino apperdere in quella basa giú in piazza, dove elle porteriano pericolo di esser guaste; anzi voglio che tu me le acconci innuna mia stanza, dove le saranno tenute con quella reverenza che merita le lor rarissime virtute -. A queste parole mi contrapposi con molte infinite ragioni; e veduto che ella s'era resoluta che io nolle mettessi innella basa dove le sono, aspettai il giorno seguente, me n'andai in Palazzo alle ventidua ore; e trovando che 'l Duca e la Duchessa erano cavalcati, avendo di già messo innordine la mia basa, feci portare giú le dette figurine, e subito le inpiombai, come l'avevano a stare. Oh! quando la Duchessa lo intese, e' gli crebbe tanta stizza, che se e' non fussi stato il Duca che virtuosamente m'aiutò, io l'arei fatta molto male: e per quella stizza del vezzo di perle e per questa lei operò tanto, che 'l Duca si levò da quel poco del piacere; la qual cosa fu causa che io non v'ebbi piú a 'ndare, e subito mi ritornai in quelle medesime difficultà di prima, quanto all'entrare per il Palazzo.
LXXXIX
Torna' mi alla Loggia, dove io di già avevo condotto il Perseo e me l'andavo finendo con le difficultà già ditte, cioè senza dinari, e con altri accidenti, che la metà di quegli arieno fatto sbigottire uno uomo armato di diamanti. Pure seguitando via al mio solito, una mattina infra l'altre, avendo udito messa in San Piero Scheraggio, e' mi entrò innanzi Bernardone, sensale, orafaccio, e per bontà del Duca era provveditore della zecca; e subito che appena ei fu fuori della porta della chiesa, el porcaccio lasciò andare quattro coreggie, le quali si dovettono sentir da San Miniato. Al quale io dissi: - Ahi porco, poltrone, asino, cotesto si è il suono delle tue sporche virtute? - e corsi per un bastone. Il quale presto si ritirò nella zecca, e io stetti al fesso della mia porta, e fuori tenevo un mio fanciullino, il quale mi facessi segno quando questo porco usciva di zecca. Or veduto d'avere aspettato un gran pezzo, e venendomi annoia, e avendo preso luogo quel poco della stizza, considerato che i colpi non si danno a patti, dove e' ne poteva uscire qualche inconveniente, io mi risolsi a fare le mie vendette innun altro modo. E perché questo caso fu intorno alle feste del nostro San Giovanni, vigino un dí o dua, io gli feci quattro versi, e gli appiccai nel cantone della chiesa, dove si pisciava e cacava, e dicevano cosí:
Qui giace Bernardone, asin, porcaccio,
spia, ladro, sensale, in cui pose
Pandora i maggior mali, e poi traspose
di lui quel pecoron mastro Buaccio.
Il caso e i versi andorno per il palazzo, e il Duca e la Duchessa se ne rise; e innanzi che lui se ne avvedessi, e' vi si era fermo molta quantità di populi, e facevano le maggior risa del mondo: e perché e' guardavano inverso la zecca e affissavano gli occhi a Bernardone, avvedendosene il suo figliuolo mastro Baccio, subito con gran còllora lo stracciò e si morse un dito minacciando con quella sua vociaccia, la quale gli esce per il naso: ei fece una gran bravata.
XC.
Quando il Duca intese che tutta la mia opera del Perseo si poteva mostrare come finita, un giorno la venne a vedere e mostrò per molti segni evidenti che la gli sattisfaceva grandemente; e voltosi a certi Signori, che erano con Sua Eccellenzia illustrissima disse: - Con tutto che questa opera ci paia molto bella, ell'ha anche a piacere ai popoli; sí che, Benvenuto mio, innanzi che tu gli dia la ultima sua fine io vorrei che per amor mio tu aprissi un poco questa parte dinanzi, per un mezzo giorno, alla mia Piazza, per vedere quel che ne dice 'l popolo; perché e' non è dubbio che da vederla a questo modo ristretta al vederla a campo aperto, la mosterrà un diverso modo da quello che la si mostra cosí ristretta -. A queste parole io dissi umilmente a Sua Eccellenzia illustrissimo: - Sappiate, Signor mio, che la mosterrà meglio la metà. O come non si ricorda Vostra Eccellenzia illustrissima d'averla veduta nell'orto della casa mia, innel quale la si mostrava in tanta gran largura tanto bene, che per l'orto delli Innocenti l'è venuta a vedere 'l Bandinello, e con tutta la sua mala e pessima natura, la l'ha sforzato ed ei n'ha detto bene, che mai non disse ben di persona a' sua dí? Io mi avveggo che Vostra Eccellenzia illustrissima gli crede troppo -. A queste mie parole, sogghignando un poco isdegnosetto, pur con molte piacevol parole disse: - Fallo, Benvenuto mio, solo per un poco di mia sattisfazione -. E partitosi, io cominciai a dare ordine di scoprire; e perché e' mancava certo poco di oro, e certe vernice e altre cotai coselline, che si appartengono alla fine dell'opera, sdegnosamente borbottavo e mi dolevo, bestemmiando quel maladetto giorno che fu causa accondurmi a Firenze; perché di già io vedevo la grandissima e certa perdita che io avevo fatta alla mia partita di Francia, e non vedevo né conoscevo ancora che modo io dovevo sperare di bene con questo mio Signore in Firenze; perché dal prencipio al mezzo, alla fine, sempre tutto quello che io avevo fatto, si era fatto con molto mio dannoso disavvantaggio; e cosí malcontento il giorno seguente io la scopersi. Or siccome piacque a Dio, subito che la fu veduta, ei si levò un grido tanto smisurato in lode della detta opera, la qual cosa fu causa di consolarmi alquanto. E non restavano i popoli continuamente di appiccare alle spalle della porta, che teneva un poco di parato, in mentre che io le davo la sua fine. Io dico che 'l giorno medesimo, che la si tenne parecchi ore scoperta, e' vi fu appiccati piú di venti sonetti, tutti in lode smisuratissime della mia opera; dappoi che io la ricopersi, ogni dí mi v'era appiccati quantità di sonetti e di versi latini e versi greci; perché gli era vacanza allo Studio di Pisa, tutti quei eccellentissimi dotti e gli scolari facevano a gara. Ma quello che mi dava maggior contento, con isperanza di maggior mia salute inverso 'l mio Duca, si era che quegli dell'arte, cioè scultori e pittori, ancora loro facevano aggara a chi meglio diceva. E infra gli altri, quale io stimavo piú, si era il valente pittore Iacopo da Puntorno, e piú di lui il suo eccellente Bronzino, pittore, che non gli bastò il farvene appiccare parecchi, che egli me ne mandò per il suo Sandrino insino a casa mia, i quali dicevano tanto bene, con quel suo bel modo, il quale è rarissimo, che questo fu causa di consolarmi alquanto. E cosí io la ricopersi, e mi sollicitavo di finirla.

 

 

 

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Ultimo Aggiornamento:13/07/2005 22.45