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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

LA VITA DI BENVENUTO CELLINI FIORENTINO

scritta (per lui medesimo) in Firenze

LIBRO SECONDO

[XXXIII] [XXXIV] [XXXV] [XXXVI] [XXXVII] [XXXVIII] [XXXIXI] [XL] [XLI] [XLII] [XLIII] [XLIV] [XLV] [XLVI] [XLVII] [XLVIII][XLIX] [L] [LI] [LII] [LIII] [LIV] [LV] [LVI] [LVII] [LVIII] [LIX] [LX] [LXI] [LXII]

 

XXXIII.

Non fui sí tosto iscavalcato, che una buona persona, di quelli che hanno piacere di vedere del male, mi venne a dire che Pagolo Miccieri aveva preso una casa per quella puttanella della Caterina e per sua madre, e che continuamente lui si tornava quivi, e che parlando di me, sempre con ischerno diceva: - Benvenuto aveva dato a guardia la lattuga ai paeri, e pensava che io non me la mangiassi; basta che ora e' va bravando e crede che io abbia paura di lui: io mi son messo questa spada e questo pugnale a canto per dargli a divedere che anche la mia spada taglia e son fiorentino come lui, de' Miccieri, molto meglio casata che non sono i sua Cellini -. Questo ribaldo, che mi portò tale imbasciata, me la disse con tanta efficacia, io mi senti' subito balzare la febbre addosso, dico la febbre sanza dire per comparazione. E perché forse di tale bestiale passione io mi sarei morto, presi per rimedio di dar quell'esito, che m'aveva dato tale occasione, sicondo il modo che in me sentivo. Dissi a quel mio lavorante ferrarese, che si chiamava il Chioccia, che venissi meco, e mi feci menar dietro dal servitore el mio cavallo; e giunto a casa, dove era questo isciagurato, trovato la porta socchiusa, entrai dentro: viddilo che gli aveva accanto la spada e 'l pugnale, ed era assedere in su 'n un cassone, e teneva il braccio al collo a la Caterina: appunto arrivato, senti' che lui con la madre di lei motteggiava de' casi mia. Spinta la porta innun medesimo tempo messo la mana alla spada, gli posi la punta d'essa alla gola, non gli avendo dato tempo a poter pensare che ancora lui aveva la spada, dissi a un tratto: - Vil poltrone, raccomandati a Dio, che tu se' morto -. Costui, fermo, disse tre volte: - O mamma mia, aiutatemi -. Io che avevo voglia d'ammazzarlo a ogni modo, sentito che ebbi quelle parole tanto sciocche, mi passò la metà della stizza. Intanto aveva detto a quel mio lavorante Chioccia, che non lasciassi uscire né lei né la madre, perché se io davo allui, altretanto male volevo fare a quelle dua puttane. Tenendo continuamente la punta della spada alla gola, e alquanto un pochetto lo pugnevo, sempre con paventose parole; veduto poi che lui non faceva una difesa al mondo, e io non sapevo piú che mi fare, e quella bravata fatta non mi pareva che l'avessi fine nessuna, mi venne in fantasia, per il manco male, di fargnene isposare, con disegno di far da poi le mie vendette. Cosí resolutomi, dissi: - Càvati quello anello che tu hai in dito, poltrone, e sposala, acciò che poi io possa fare le vendette che tu meriti -. Costui subito disse: - Purché voi non mi ammazziate, io farò ogni cosa. - Adunche - diss'io - mettigli l'anello -. Scostatogli un poco la spada dalla gola, costui le misse l'anello. Allora io dissi: - Questo non basta, perché io voglio che si vadia per dua notari, che tal cosa passi per contratto -. Ditto al Chioccia che andassi per e' notari, subito mi volsi allei e alla madre. Parlando in franzese dissi: - Qui verrà i notari e altri testimoni: la prima che io sento di voi che parli nulla di tal cosa, subito l'ammazzerò, e v'ammazzerò tutt'a tre; sí che state in cervello -. A lui dissi in italiano: - Se tu replichi nulla a tutto quel che io proporrò, ogni minima parola che tu dica, io ti darò tante pugnalate, che io ti faro votare ciò che tu hai nelle budella -. A questo lui rispose: - A me basta che voi non mi ammazziate; e io farò ciò che voi volete -. Giunse i notari e li testimoni, fecesi il contratto altentico e, mirabile!, passommi la stizza e la febbre. Pagai li notari, e anda' mene. L'altro giorno venne a Parigi il Bologna a posta, e mi fece chiamare da Mattio del Nasaro: andai e trovai il detto Bologna, il quale con lieta faccia mi si fece incontro, pregandomi che io lo volessi per buon fratello, e che mai piú parlerebbe di tale opera, perché conosceva benissimo che io avevo ragione.
XXIV.
Se io non dicessi, in qualcuno di questi mia accidenti, cognoscere d'aver fatto male, quell'altri, dove io cognosco aver fatto bene, non sarebbono passati per veri; però io cognosco d'aver fatto errore a volermi vendicare tanto istranamente con Pagolo Miccieri. Benché, se io avessi pensato che lui fussi stato uomo di tanta debolezza, non mai mi sarie venuta in animo una tanto vituperosa vendetta, qual io feci; ché non tanto mi bastò l'avergli fatto pigliar per moglie una cosí iscellerata puttanella; che ancora di poi, per voler finire il restante della mia vendetta, la facevo chiamare, e la ritraevo: ognindí le davo trenta soldi; e faccendola stare ignuda, voleva la prima cosa che io li dessi li sua dinari innanzi; la siconda voleva molto bene da far colezione; la terza io per vendetta usavo seco, rimproverando allei e al marito le diverse corna che io gli facevo; la quarta si era che io la facevo stare con gran disagio parecchi e parecchi ore; e stando in questo disagio a lei veniva molto affastidio, tanto quanto a me dilettava, perché lei era di bellissima forma e mi faceva grandissimo onore. E perché e' non le pareva che io l'avessi quella discrezione che prima io avevo innanzi che lei fossi maritata, venendole grandemente a noia, cominciava a brontolare; e in quel modo suo francioso con parole bravava, allegando il suo marito, il quale era ito a stare col priore di Capua, fratello di Piero Strozzi. E sí come i' ho detto, la allegava questo suo marito; e come io sentivo parlar di lui, subito mi veniva una stizza inistimabile; pure me la sopportavo, mal volentieri, il meglio che io potevo, considerando che per l'arte mia io non potevo trovare cosa piú a proposito di costei; e da me dicevo: - Io fo qui dua diverse vendette: l'una per esser moglie: queste non son corna vane, come eran le sua quando lei era a me puttana; però se io fo questa vendetta sí rilevata inverso di lui e inverso di lei ancora tanta istranezza, faccendola stare qui con tanto disagio, il quale, oltra al piacere, mi resulta tanto onore e tanto utile, che poss'io piú desiderare? - In mentre che io facevo questo mio conto, questa ribalda moltipricava con quelle parole ingiuriose, parlando pure del suo marito; e tanto faceva e diceva, che lei mi cavava de' termini della ragione; e datomi in preda all'ira, la pigliavo pe' capegli e la strascicavo per la stanza, dandogli tanti calci e tante pugna insino che io ero stracco. E quivi non poteva entrare persona al suo soccorso. Avendola molto ben pesta, lei giurava di non mai piú voler tornar da me; per la qual cosa la prima volta mi parve molto aver mal fatto, perché mi pareva perdere una mirabile occasione al farmi onore. Ancora vedevo lei esser tutta lacerata, livida e enfiata, pensando che, se pure lei tornassi, essere di necessità di farla medicare per quindici giorni, innanzi che io me ne potessi servire.
XXXV.
Tornando allei, mandavo una mia serva che l'aiutassi vestire, la qual serva era una donna vecchia che si domandava Ruberta, amorevolissima; e giunta a questa ribaldella, le portava di nuovo da bere e da mangiare; di poi l'ugneva con un poco di grasso di carnesecca arrostito quelle male percosse che io le avevo date, e 'l resto del grasso che avanzava se lo mangiavano insieme. Vestita, poi si partiva bestemmiando e maladicendo tutti li taliani e il Re che ve gli teneva: cosí se ne andava piagnendo e borbottando insino a casa. Certo che a me questa prima volta parve molto aver mal fatto; e la mia Ruberta mi riprendeva, e pur mi diceva: - Voi sete ben crudele a dare tanto aspramente a una cosí bella figlietta -. Volendomi scusare con questa mia Ruberta, dicendole le ribalderie che l'aveva fatte, e lei e la madre, quando la stava meco, a questo la Ruberta mi sgridava, dicendo che quel non era nulla, perché gli era il costume di Francia, e che sapeva certo che in Francia non era marito che non avessi le sue cornetta. A queste parole io mi movevo a risa, e poi dicevo alla Ruberta che andassi a vedere come la Caterina istava, perché io arei aùto a piacere di poter finire quella mia opera, servendomi di lei. La mia Ruberta mi riprendeva, dicendomi che io non sapevo vivere; perché - a pena sarà egli giorno, che lei verrà qui da per sé, dove che, se voi la mandassi a domandare o a visitare, la farebbe il grande e non ci vorrebbe venire -. Venuto il giorno seguente, questa ditta Caterina venne alla porta mia, e con gran furore picchiava la ditta porta, di modo che, per essere io abbasso, corsi a vedere se questo era pazzo o di casa. Aprendo la porta, questa bestia ridendo mi si gittò al collo, abbracciommi e baciommi, e mi dimandò se io era piú crucciato con essa. Io dissi che no. Lei disse: - Datemi ben d'asciolvere addunche -. Io le detti ben d'asciolvere, e con essa mangiai per segno di pace. Di poi mi messi a ritrarla, e in quel mezzo vi occorse le piacevolezze carnali, e di poi a quell'ora medesima del passato giorno, tanto lei mi stuzzicò, che io l'ebbi a dare le medesime busse; e cosí durammo parecchi giorni, faccendo ogni dí tutte queste medesime cose, come che a stampa: poco variava dal piú al manco. Intanto io, che m'avevo fatto grandissimo onore e finito la mia figura, detti ordine di gittarla di bronzo; innella quale io ebbi qualche difficultà, che sarebbe bellissimo per gli accidenti dell'arte a narrare tal cosa; ma perché io me ne andrei troppo in lunga, me la passerò. Basta che la mia figura venne benissimo, e fu cosí bel getto come mai si facessi.
XXXVI.
In mentre che questa opera si tirava innanzi, io compartivo certe ore del giorno e lavoravo in su la saliera, e quando in sul Giove. Per essere la saliera lavorata da molte piú persone che io non avevo tanto di comodità per lavorare in sul Giove, di già a questo tempo io l'avevo finita di tutto punto. Era ritornato il Re a Parigi, e io l'andai a trovare, portandogli la ditta saliera finita; la quale, sí come io ho detto di sopra, era in forma ovata ed era di grandezza di dua terzi di braccio in circa, tutta d'oro, lavorata per virtú di cesello. E sí come io dissi quando io ragionai del modello, avevo figurato il Mare e la Terra assedere l'uno e l'altro, e s'intramettevano le gambe, sí come entra certi rami del mare infra la tetra, e la terra infra del detto mare: cosí propiamente avevo dato loro quella grazia. A il Mare avevo posto in mano un tridente innella destra; e innella sinistra avevo posto una barca sottilmente lavorata, innella quale si metteva la salina. Era sotto a questa detta figura i sua quattro cavalli marittimi, che insino al petto e le zampe dinanzi erano di cavallo; tutta la parte dal mezzo indietro era di pesce: queste code di pesce con piacevol modo s'intrecciavano insieme; in sul qual gruppo sedeva con fierissima attitudine il detto Mare: aveva all'intorno molta sorte di pesci e altri animali marittimi. L'acqua era figurata con le sue onde; di poi era benissimo smaltata del suo propio colore. Per la Terra avevo figurato una bellissima donna, con il corno della sua dovizia in mano, tutta ignuda come il mastio appunto; nell'altra sua sinistra mana avevo fatto un tempietto di ordine ionico, sottilissimamente lavorato; e in questo avevo accomodato il pepe. Sotto a questa femina avevo fatto i piú belli animali che produca la terra; e i sua scogli terrestri avevo parte ismaltati e parte lasciati d'oro. Avevo da poi posata questa ditta opera e investita in una basa d'ebano nero: era di una certa accomodata grossezza, e aveva un poco di goletta, nella quale io aveva cumpartito quattro figure d'oro, fatte di piú che mezzo rilievo: questi si erano figurato la Notte, il Giorno, il Graprusco e l'Aurora. Ancora v'era quattro altre figure della medesima grandezza, fatte per i quattro venti principali, con tanta puletezza lavorate e parte ismaltate, quanto immaginar si possa. Quando questa opera io posi agli occhi del Re, messe una voce di stupore, e non si poteva saziare di guardarla: di poi mi disse che io la riportassi a casa mia, e che mi direbbe a tempo quello che io ne dovessi fare. Porta'nela a casa, e subito invitai parecchi mia cari amici, e con essi con grandissima lietitudine desinai, mettendo la saliera in mezzo alla tavola; e fummo i primi a 'doperarla. Di poi seguitavo di finire il Giove d'argento, e un gran vaso, già ditto, lavorato tutto con molti ornamenti piacevolissimi e con assai figure.
XXXVII.
In questo tempo il Bologna pittore sopra ditto dette ad intendere al Re, che gli era bene che Sua Maestà lo lasciassi andare insino a Roma, e gli facessi lettere di favori, per le quali lui potessi formare di quelle prime belle anticaglie, cioè il Leoconte, la Cleopatra, la Venere, il Comodo, la Zingana e Appollo. Queste veramente sono le piú belle cose che sieno in Roma. E diceva al Re, che quando Sua Maestà avessi dappoi veduto quelle meravigliose opere, allora saprebbe ragionare dell'arte del disegno; perché tutto quello che gli aveva veduto di noi moderni era molto discosto dal ben fare di quelli antichi. Il Re fu contento, e fecegli tutti i favori che lui domandò. Cosí andò nella sua malora questa bestia. Non gli essendo bastato la vista di fare con le sue mane a gara meco, prese quell'altro lombardesco ispediente, cercando di svilire l'opere mie facendosi formatore di antichi. E con tutto che lui benissimo l'avessi fatte formare, gliene riuscí tutto contrario effetto da quello che lui era immaginato; qual cosa si dirà da poi al suo luogo. Avendo a fatto cacciato via la ditta Caterinaccia, e quel povero giovane isgraziato del marito andatosi con Dio di Parigi, volendo finire di nettare la mia Fontana Beliò, qual'era di già fatta di bronzo, ancora per fare bene quelle due Vittorie, che andavano negli anguli da canto nel mezzo tondo della porta, presi una povera fanciulletta de l'età di quindici anni in circa. Questa era molto bella di forma di corpo ed era alquanto brunetta; e per essere salvatichella e di pochissime parole, veloce nel suo andare, accigliata negli occhi, queste tali cose causorno ch'io le posi nome Scorzone: il nome suo proprio si era Gianna. Con questa ditta figliuola io fini' benissimo di bronzo la ditta Fontana Beliò, e quelle due Vittorie ditte per la ditta porta. Questa giovanetta era pura e vergine, e io la 'ngravidai; la quale mi partorí una figliuola a' dí sette di giugno, a ore tredici di giorno, 1544, quale era il corso dell'età mia appunto de' 44 anni. La detta figliuola io le posi nome Constanza; e mi fu battezzata da messer Guido Guidi, medico del Re, amicissimo mio, siccome di sopra ho scritto. Fu lui solo compare, perché in Francia cosí è il costume d'un solo compare e dua comare, che una fu la signora Maddalena, moglie di messer Luigi Alamanni, gentiluomo fiorentino e poeta maraviglioso; l'altra comare si fu la moglie di messer Ricciardo del Bene nostro cittadin fiorentino e là gran mercante; lei gran gentildonna franzese. Questo fu il primo figliuolo che io avessi mai, per quanto io mi ricordo. Consegnai alla detta fanciulla tanti dinari per dota, quanti si contentò una sua zia, a chi io la resi; e mai piú da poi la cognobbi.
XXXVIII.
Sollecitavo l'opere mie, e l'avevo molto tirate innanzi: il Giove era quasi che alla sua fine, il vaso similmente; la porta cominciava a mostrare le sue bellezze. In questo tempo capitò il Re a Parigi; e se bene io ho detto per la nascita della mia figliuola 1544, noi non eramo ancora passati il 1543; ma perché m'è venuto in proposito il parlar di questa mia figliuola ora, per non mi avere a impedire in quest'altre cose di piú importanza, non ne dirò altro per insino al suo luogo. Venne il Re a Parigi, come ho detto, e subito se ne venne a casa mia, e trovato quelle tante opere innanzi, tale che gli occhi si potevan benissimo sattisfare; sí come fecero quegli di quel maraviglioso Re, al quale sattisfece tanto le ditte opere quanto desiderar possa uno che duri fatica come avevo fatto io; subito da per sé si ricordò, che il sopra ditto cardinale di Ferrara non m'aveva dato nulla, né pensione né altro, di quello che lui m'aveva promesso; e borbottando con il suo Amiraglia, disse che il cardinale di Ferrara s'era portato molto male a non mi dar niente; ma che voleva rimediare a questo tale inconveniente, perché vedeva che io ero uomo da far poche parole; e, da vedere a non vedere, una volta io mi sarei ito con Dio sanza dirgli altro. Andatisene a casa, di poi il desinare di Sua Maestà, disse al Cardinale, che con la sua parola dicessi al tesauriere de' risparmi che mi pagassi il piú presto che poteva settemila scudi d'oro, in tre o in quattro paghe, secondo la comodità che a lui veniva, purché di questo non mancassi; e piú gli replicò, dicendo: - Io vi detti Benvenuto in custode, e voi ve l'avete dimenticato -. Il Cardinale disse che farebbe volentieri tutto quello che diceva Sua Maestà. Il ditto Cardinale per sua mala natura lasciò passare a il Re questa voluntà. Intanto le guerre crescevano; e fu nel tempo che lo Imperadore con il suo grandissimo esercito veniva alla volta di Parigi. Veduto il Cardinale che la Francia era in gran penuria di danari, entrato un giorno in proposito a parlar di me, disse: - Sacra Maestà, per far meglio, io non ho fatto dare danari a Benvenuto; l'una si è perché ora ce n'è troppo bisogno; l'altra causa si è perché una cosí grossa partita di danari piú presto v'arebbe fatto perdere Benvenuto; perché parendogli esser ricco, lui se ne arebbe compro de' beni nella Italia, e una volta che gli fussi tocco la bizzaria, piú volentieri si sarebbe partito da Voi; sí che io ho considerato che il meglio sia che Vostra Maestà gli dia qualcosa innel suo regno, avendo voluntà che lui resti per piú lungo tempo al suo servizio -. Il Re fece buone queste ragioni, per essere in penuria di danari; niente di manco, come animo nobilissimo, veramente degno di quel Re che gli era, considerò che il detto Cardinale aveva fatto cotesta cosa piú per gratificarsi che per necessità, che lui immaginare avessi possuto tanto innanzi le necessità di un sí gran regno.
XXXIX.
E con tutto che, sí come io ho detto, il Re dimostrassi di avergli fatte buone queste ditte ragione, innel segreto suo lui non la intendeva cosí; perché, sí come io ho detto di sopra, egli rivenne a Parigi, e l'altro giorno, senza che io l'andassi a incitate, da per sé venne accasa mia: dove, fattomigli incontro, lo menai per diverse stanze, dove erano diverse sorte d'opere, e cominciando alle cose piú basse, gli mostrai molta quantità d'opere di bronzo, le quali lui non aveva vedute tante di gran pezzo. Di poi lo menai a vedere il Giove d'argento, e gnene mostrai come finito, con tutti i sua bellissimi ornamenti: qual gli parve cosa molto piú mirabile che non saria parsa ad altro uomo, rispetto a una certa terribile occasione che allui era avvenuta certi pochi anni innanzi: che passando, di poi la presa di Tunizi, lo Imperadore per Parigi d'accordo con il suo cognato re Francesco, il detto Re, volendo fare un presente degno d'un cosí grande Imperadore, gli fece fare uno Ercole d'argento, della grandezza appunto che io avevo fatto il Giove; il quale Ercole il Re confessava essere la piú brutta opera che lui mai avessi vista; e cosí avendola accusata per tale a quelli valenti uomini di Parigi i quali si pretendevano essere li piú valenti uomini del mondo di tal professione, avendo dato ad intendere a il Re che quello era tutto quello che si poteva fare in argento e nondimanco volsono dumila ducati di quel lor porco lavoro; per questa cagione avendo veduto il Re quella mia opera, vidde in essa tanta pulitezza, quale lui non arebbe mai creduto. Cosí fece buon giudizio, e volse che la mia opera del Giove fossi valutata ancora essa dumila ducati, dicendo: - A quelli io non davo salario nessuno: a questo, che io do mille scudi incirca di salario, certo egli me la può fare per il prezzo di dumila scudi d'oro, avendo il ditto vantaggio del suo salario -. Appresso io lo menai a vedere altre opere d'argento e d'oro, e molti altri modegli per inventare opere nuove. Di poi all'utimo della sua partita, innel mio prato del castello scopersi quel gran gigante, a il quale il Re fece una maggior maraviglia che mai gli avessi fatto a nessuna altra cosa; e voltosi all'Amiraglio, qual si chiamava Monsignor Aniballe, disse: - Da poi che dal Cardinale costui di nulla è stato provisto, gli è forza che per essere ancor lui pigro a domandare, sanza dire altro voglio che lui sia provisto: sí che questi uomini, che non usano dimandar nulla, par lor dovere che le fatiche loro dimandino assai: però provedetelo della prima badia che vaca, qual sia insino al valore di dumila scudi d'entrata; e quando ella non venga in una pezza sola, fate che la sia in dua e tre pezzi, perché a lui gli sarà il medesimo -. Io, essendo alla presenza, senti' ogni cosa e subito lo ringraziai, come se aúta io l'avessi, dicendo a Sua Maestà che io volevo, quando questa cosa fossi venuta, lavorare per Sua Maestà sanza altro premio né di salario né d'altra valuta d'opere, infino a tanto che costretto dalla vecchiaia, non possendo piú lavorare, io potessi in pace riposare la istanca vita mia, vivendo con essa entrata onoratamente, ricordandomi d'aver servito un cosí gran Re, quant'era Sua Maestà. A queste mie parole il Re con molta baldanza lietissimo inverso di me disse: - E cosí si facci - e contento Sua Maestà da me si partí, e io restai.
XL.
Madama di Tampes, saputo queste mie faccende, piú grandemente inverso di me inveleniva, dicendo da per sé: - Io governo oggi il mondo, e un piccolo uomo, simile a questo, nulla mi stima! - Si messe in tutto e per tutto a bottega per fare contra di me. E capitandogli uno certo uomo alle mani, il quale era grande istillatore - questo gli dette alcune acque odorifere e mirabile, le quali gli facevan tirare la pelle, cosa per l'addietro non mai usata in Francia - lei lo misse innanzi al Re: il quale uomo propose alcune di queste istillazione, le quali molto dilettorno al Re; e in questi piaceri fece, che lui domandò a Sua Maestà un giuoco di palla che io avevo nel mio castello, con certe piccole istanzette, le quale lui diceva che io non me ne servivo. Quel buon Re, che cognosceva la cosa onde la veniva, non dava risposta alcuna. Madama di Tampes si messe a sollecitare per quelle vie che possono le donne innegli uomini, tanto che facilmente gli riuscí questo suo disegno, che trovando il Re in una amorosa tempera, alla quale lui era molto sottoposto, conpiacque a Madama tanto quanto lei desiderava. Venne questo ditto uomo insieme con il tesauriere Grolier, grandissimo gentiluomo di Francia; e perché questo tesauriere parlava benissimo italiano, venne al mio castello, e entrò in esso alla presenza mia parlando meco in italiano, in modo di motteggiare. Quando e' vidde il bello, disse: - Io metto in tenuta da parte del Re questo uomo qui di quel giuoco di palla insieme con quelle casette che a il detto giuoco appartengono -. A questo io dissi: - Del sacro Re è ogni cosa; però piú liberamente voi potevi entrare qua drento; perché in questo modo, fatto per via di notai e della corte, mostra piú essere una via d'inganno, che una istietta commessione di un sí gran Re; e vi protesto che prima che io mi vadia a dolere al Re, io mi difenderò in quel modo che Sua Maestà l'altr'ieri mi commisse che io facessi; e vi sbalzerò quest'uomo, che voi m'avete messo qui, per le finestre, se altra spressa commessione io non veggo per la propia mana del Re -. A queste mie parole il detto tesauriere se n'andò minacciando e borbottando, e io faccendo il simile mi restai, né volsi per allora fare altra dimostrazione: di poi me n'andai a trovare quelli notari, che avevano messo colui in possessione. Questi erano molto mia conoscenti, e mi dissono che quella era una cerimonia fatta bene con commessione del Re, ma che la non importava molto; e che se io gli avessi fatto qualche poco di resistenza, lui non arebbe preso la possessione, come egli fece; e che quelli erano atti e costumi della corte, i quali non toccavano punto l'ubbidienza del Re; di modo che, quando a me venissi bene il cavarlo di possessione in quel modo che v'era entrato, saria ben fatto, e non ne saria altro. A me bastò essere accennato, che l'altro giorno cominciai a mettere mano all'arme; e se bene io ebbi qualche diflicultà, me l'avevo presa per piacere. Ogni dí un tratto facevo uno assalto con sassi, con picche, con archibusi, pure sparando sanza palla; ma mettevo loro tanto ispavento, che nissuno non voleva piú venire a 'iutarlo. Per la qual cosa, trovando un giorno la sua battaglia debole, entrai per forza in casa, e lui ne cacciai, gittandogli fuori tutto tutto quello che lui v'aveva portato. Di poi ricorsi al Re, e li dissi che io avevo fatto tutto tutto che Sua Maestà m'aveva commisso, difendendomi da tutti quelli che mi volevano inpedire il servizio di Sua Maestà. A questo il Re se ne rise, e mi spedí nuove lettere, per le quale io non avessi piú da esser molestato.
XLI.
Intanto con gran sollecitudine io fini' il bel Giove d'argento, insieme con la sua basa dorata, la quale io avevo posta sopra uno zocco di legno, che appariva poco; e in detto zocco di legno avevo commesso quattro pallottole di legno forte, le quali istavano piú che mezze nascoste nelle lor casse, in foggia di noce di balestre. Eran queste cose tanto gentilmente ordinate, che un piccol fanciullo facilmente per tutti i versi sanza una fatica al mondo, mandava innanzi e indietro e volgeva la ditta statua di Giove. Avendola assettata a mio modo, me ne andai con essa a Fontana Beliò, dove era il Re. In questo tempo il sopra ditto Bologna aveva portato di Roma le sopra ditte statue, e l'aveva con gran sollecitudine fatte gittare di bronzo. Io che non sapevo nulla di questo, sí perché lui aveva fatto questa sua faccenda molto segretamente, e perché Fontana Beliò è discosto da Parigi piú di quaranta miglia; però non avevo potuto sapere niente. Faccendo intendere al Re dove voleva che io ponessi il Giove, essendo alla presenza Madama di Tampes, disse al Re che non v'era luogo piú a proposito dove metterlo che nella sua bella galleria. Questo si era, come noi diremmo in Toscana, una loggia, o sí veramente uno androne: piú presto androne si potria chiamare, perché loggia noi chiamiamo quelle stanze che sono aperte da una parte. Era questa stanza lunga molto piú di cento passi andanti, ed era ornata e ricchissima di pitture di mano di quel mirabile Rosso, nostro fiorentino; e infra le pitture era accomodato moltissime parte di scultura, alcune tonde, altre di basso rilievo: era di larghezza di passi andanti dodici in circa. Il sopra ditto Bologna aveva condotto in questa ditta galleria tutte le sopra ditte opere antiche, fatte di bronzo e benissimo condotte, e l'aveva poste con bellissimo ordine, elevate in su le sue base; e sí come di sopra ho ditto, queste erano le piú belle cose tratte da quelle antiche di Roma. In questa ditta istanza io condussi il mio Giove; e quando viddi quel grande apparecchio, tutto fatto a arte, io da per me dissi: - Questo si è come passare in fra le picche. Ora Idio mi aiuti -. Messolo al suo luogo e, quanto io potetti, benissimo acconcio, aspettai quel gran Re che venissi. Aveva il ditto Giove innella sua mano destra accomodato il suo fúlgore in attitudine di volerlo trarre, e nella sinistra gli avevo accomodato il Mondo. Infra le fiamme avevo con molta destrezza commisso un pezzo d'una torcia bianca. E perché Madama di Tampes aveva trattenuto il Re insino a notte per fare uno de' duo mali, o che lui non venissi o sí veramente che l'opera mia, causa della notte, si mostrassi manco bella; e come Idio promette a quelle creature che hanno fede in lui, ne avvenne tutto il contrario; perché veduto fattosi notte, io accesi la ditta torcia che era in mano al Giove; e per essere alquanto elevata sopra la testa del ditto Giove, cadevano i lumi di sopra e facevano molto piú bel vedere, che di dí non arien fatto. Comparse il ditto Re insieme con la sua Madama di Tampes, col Dalfino suo figliuolo e con la Dalfina, oggi re, con il re di Navarra suo cognato, con madama Margherita sua figliuola, e parecchi altri gran signori, i quali erano instruiti a posta da Madama di Tampes per dire contro a di me. Veduto entrare il Re, feci ispignere innanzi da quel mio garzone già ditto, Ascanio, che pianamente moveva il bel Giove incontro al Re: e perché ancora io fatto con un poco d'arte, quel poco del moto che si dava alla ditta figura, per essere assai ben fatta, la faceva parer viva; e lasciatomi alquanto le ditte figure antiche indietro, detti prima gran piacere, agli occhi, della opera mia. Subito disse il Re: - Questa è molto piú bella cosa che mai per nessuno uomo si sia veduta, e io, che pur me ne diletto e 'ntendo, non n'arei immaginato la centesima parte -. Quei Signori, che avevano a dire contr'a di me, pareva che non si potessino saziare di lodare la ditta opera. Madama di Tampes arditamente disse: - Ben pare che voi non abbiate occhi. Non vedete voi quante belle figure di bronzo antiche son poste piú là, innelle quali consiste la vera virtú di quest'arte, e non in queste baiate moderne? - Allora il Re si mosse, e gli altri seco; e dato una occhiata alle ditte figure, e quelle, per esser lor porto i lumi inferiori, non si mostravano punto bene; a questo il Re disse: - Chi ha voluto disfavorire questo uomo, gli ha fatto un gran favore; perché mediante queste mirabile figure si vede e cognosce questa sua da gran lunga esser piú bella e piú maravigliosa di quelle. Però è da fare un gran conto di Benvenuto, che non tanto che l'opere sue restino al paragone dell'antiche, ancora quelle superano -. A questo Madama di Tampes disse che vedendo di dí tale opera, la non parrebbe l'un mille bella di quel che lei par di notte; ancora v'era da considerare, che io avevo messo un velo addosso alla ditta figura, per coprire gli errori. Questo si era un velo sottilissimo, che io avevo messo con bella grazia addosso al ditto Giove, perché gli accrescessi maestà: il quale a quelle parole io lo presi, alzandolo per di sotto, scoprendo quei bei membri genitali, e con un poco di dimostrata istizza tutto lo stracciai. Lei pensò che io gli avessi scoperto quella parte per proprio ischerno. Avvedutosi il Re di quello isdegno e io vinto dalla passione, volsi cominciare a parlare: subito il savio Re disse queste formate parole in sua lingua: - Benvenuto, io ti taglio la parola; sí che sta cheto, e arai piú tesoro che tu non desideri, l'un mille -. Non possendo io parlare, con gran passione mi scontorcevo: causa che lei piú sdegnosa brontolava; e il Re, piú presto assai di quel che gli arebbe fatto, si partí, dicendo forte, per darmi animo, aver cavato di Italia il maggior uomo che nascessi mai, pieno di tante professione.
XLII.
Lasciato il Giove quivi, volendomi partire la mattina, mi fece dare mille scudi d'oro: parte erano di mia salari, e parte di conti, che io mostravo avere speso di mio. Preso li dinari, lieto e contento me ne tornai a Parigi; e subito giunto, rallegratomi in casa, di poi il desinare feci portare tutti li miei vestimenti, quali erano molta quantità di seta, di finissime pelle e similmente di panni sottilissimi. Questi io feci a tutti quei mia lavoranti un presente, donandogli sicondo i meriti d'essi servitori, insino alle serve e i ragazzi di stalla, dando a tutti animo che m'aiutassino di buon cuore. Ripreso il vigore, con grandissimo istudio e sollecitudine mi missi intorno a finire quella grande statua del Marte, quale avevo fatto di legni benissimo tessuti per armadura; e di sopra, la sua carne si era una crosta, grossa uno ottavo di braccio, fatta di gesso e diligentemente lavorata; dipoi avevo ordinato di formare di molti pezzi la ditta figura, e commetterla da poi a coda di rondine, si come l'arte promette; che molto facilmente mi veniva fatto. Non voglio mancare di dare un contra segno di questa grande opera, cosa veramente degna di riso: perché io avevo comandato a tutti quelli a chi io davo le spese, che nella casa mia e innel mio castello non vi conducessino meretrice; e a questo io ne facevo molta diligenza che tal cosa non vi venissi. Era quel mio giovane Ascanio innamorato d'una bellissima giovine, e lei di lui: per la qual cosa fuggitasi questa ditta giovine da sua madre, essendo venuta una notte a trovare Ascanio, non se ne volendo poi andare, e lui non sapendo dove se la nascondere, per utimo rimedio, come persona ingegnosa, la mise drento nella figura del ditto Marte, e innella propia testa ve l'accomodò da dormire; e quivi soprastette, assai, e la notte lui chetamente alcune volte la cavava. Per avere lasciato quella testa molto vicino alla sua fine, e per un poco di mia boria, lasciavo iscoperto la ditta testa, la quale si vedeva per la maggior parte della città di Parigi: avevano cominciato quei piú vicini a salire su per i tetti, e andavavi assai popoli a posta per vederla. E perché era un nome per Parigi, che in quel mio castello ab antico abitassi uno spirito, della qual cosa io ne vidi alcuno contra segno da credere che cosí fussi il vero - il detto spirito universalmente per la plebe di Parigi lo chiamavano per nome Lemmonio Boreò - e perché questa fanciulletta, che abitava innella ditta testa, alcune volte non poteva fare che non si vedessi per gli occhi un certo poco di muovere; dove alcuni di quei sciocchi popoli dicevano che quel ditto spirito era entrato in quel corpo di quella gran figura, e che e' faceva muovere gli occhi a quella testa, e la bocca, come se ella volessi parlare; e molti ispaventati si partivano, e alcuni astuti, venuti a vedere e non si potendo discredere di quel balenamento degli occhi che faceva la ditta figura, ancora loro affermavano che ivi fussi spirito, non sapendo che v'era spirito e buona carne di piú.
XLIII.
In quel mentre io m'attendevo a mettere insieme la mia bella porta, con tutte le infrascritte cose. E perché io non mi voglio curare di scrivere in questa mia Vita cose che s'appartengono a quelli che scrivono le cronache, però ho lasciato indietro la venuta dello Imperadore con il suo grande esercito, e il Re con tutto il suo sforzo armato. E in questi tempi cercò del mio consiglio, per affortificare prestamente Parigi: venne a posta per me a casa, e menommi intorno a tutta la città di Parigi; e sentito con che buona ragione io prestamente gli affortificavo Parigi, mi dette ispressa commessione, che quanto io avevo detto subitamente facessi; e comandò al suo Amiraglio che comandassi a quei populi che mi ubbidissino, sotto 'l poter della disgrazia sua. L'Amiraglio, che era fatto tale per il favore di Madama di Tampes e non per le sue buone opere, per essere uomo di poco ingegno e per essere il nome suo monsignore d'Anguebò, se bene in nostra lingua e' vol dire monsignor d'Aniballe, in quella loro lingua e' suona in modo, che quei populi i piú lo chiamavano monsignore Asino Bue; questa bestia, conferito il tutto a Madama di Tampes, lei gli comandò che prestamente egli facessi venire Girolimo Bellarmato. Questo era uno ingegnere sanese ed era a Diepa, poco piú d'una giornata discosto da Parigi. Venne subito, e messo in opera la piú lunga via da forzificare, io mi ritirai da tale impresa; e se lo Imperadore spigneva innanzi, con gran facilità si pigliava Parigi. Ben si disse che in quello accordo fatto da poi, Madama di Tampes, che piú che altra persona vi s'era intermessa, aveva tradito il Re. Altro non mi occorre dire di questo, perché non fa al mio proposito. Mi missi con gran sollecitudine a mettere insieme la mia porta di bronzo, e a finire quel gran vaso, e du' altri mezzani fatti di mio argento. Dipoi queste tribulazioni venne il buon Re a riposarsi alquanto a Parigi. Essendo nata questa maledetta donna quasi per la rovina del mondo, mi par pure esser da qualcosa, da poi che l'ebbe me per suo nimico capitale. Caduta in proposito con quel buon Re de' casi mia, gli disse tanto mal di me, che quel buono uomo per compiacerle, si misse a giurare che mai piú terrebbe un conto di me al mondo, come se cognosciuto mai non mi avessi. Queste parole me le venne a dir subito un paggio del cardinal di Ferrara, che si chiamava il Villa, e mi disse lui medesimo averle udite della bocca del Re. Questa cosa mi messe in tanta còllora, che gittato a traverso tutti i miei ferri, e tutte l'opera ancora, mi missi in ordine per andarmi con Dio, e subito andai a trovare il Re. Dipoi il suo desinare, entrai in una camera dove era Sua Maestà con pochissime persone; e quando e' mi vidde entrare, fattogli io quella debita reverenza che s'appartiene a un Re, subito con lieta faccia m'inchinò il capo. Per la qual cosa presi isperanza, e a poco a poco accostatomi a Sua Maestà, perché si mostrava alcune cose della mia professione, quando si fu ragionato un pezzetto sopra le ditte cose, Sua Maestà mi domandò se io avevo da mostrargli a casa mia qualche cosa di bello, di poi disse quando io volevo che venissi a vederle. Allora io dissi che io stavo in ordine da mostrargli qualcosa, se gli avessi ben voluto, allora. Subito disse che io mi avviassi a casa, e che allora voleva venire.
XLIV.
Io mi avviai, aspettando questo buon Re, il quale era ito per tor licenza di Madama di Tampes. Volendo ella saper dove gli andava, perché disse che gli terrebbe compagnia, quando il Re gli ebbe ditto dove gli andava, lei disse a Sua Maestà che non voleva andar seco, e che lo pregava che gli facessi tanto di grazia per quel dí di non andare manco lui. Ebbe a rimettersi piú di due volte, volendo svolgere il Re da quella impresa: per quel dí non venne a casa mia. L'altro giorno da poi tornai dal Re in su quella medesima ora: subito vedutomi, giurò di voler venir subito a casa mia. Andato al suo solito per licenzia dalla sua Madama di Tampes, veduto con tutto il suo potere di non aver potuto distorre il Re, si misse con la sua mordace lingua a dir tanto male di me, quanto dir si possa d'uno uomo, che fussi nimico mortale di quella degna Corona. A questo quel buon Re disse, che voleva venire a casa mia, solo per gridarmi di sorte, che m'arebbe ispaventato; e cosí dette la fede a Madama di Tampes di fare. E subito venne a casa, dove io lo guidai in certe grande stanze basse, nelle quale io avevo messo insieme tutta quella mia gran porta; e giunto a essa il Re rimase tanto stupefatto, che egli non ritrovava la via per dirmi quella gran villania che lui aveva promesso a Madama di Tampes. Né anche per questo non volse mancare di non trovare l'occasione per dirmi quella promessa villania, e cominciò dicendo: - Gli è pure grandissima cosa,Benvenuto, che voi altri, se bene voi sete virtuosi, doverresti cognoscere che quelle tal virtú da per voi non le potete mostrare; e solo vi dimostrate grandi mediante le occasione che voi ricevete da noi. Ora voi doverresti essere un poco piú ubbidienti, e non tanto superbi e di vostro capo. Io mi ricordo avervi comandato espressamente che voi mi facessi dodici statue d'argento; e quello era tutto il mio desiderio. Voi mi avete voluta fare una saliera, e vasi e teste e porte, e tante altre cose, che io sono molto smarrito, veduto lasciato indrieto tutti i desideri delle mie voglie, e atteso a compiacere a tutte le voglie vostre: sí che pensando di fare di questa sorte, io vi darò poi a divedere come io uso di fare, quando io voglio che si faccia a mio modo. Pertanto vi dico: attendete a ubbidire a quanto v'è detto, perché stando ostinato a queste vostre fantasie, voi darete del capo nel muro -. E in mentre che egli diceva queste parole, tutti quei Signori stavano attenti, veduto che lui scoteva il capo, aggrottava gli occhi, or con una mana or con l'altra faceva cenni; talmente che tutti quelli uomini che erano quivi alla presenza, tremavono di paura per me, perché io m'ero risoluto di non avere una paura al mondo.
XLV.
E subito finito che gli ebbe di farmi quella bravata, che gli aveva promesso alla sua Madama di Tampes, io missi un ginocchio in terra, e baciatogli la vesta in sul suo ginocchio, dissi: - Sacra Maestà, io affermo tutto quello che voi dite che sia vero; solo dico a Quella, che il mio cuore è stato continuamente giorno e notte con tutti li mia vitali spiriti intenti solo per ubbidirla e per servirla; e tutto quello che a Vostra Maestà paressi che fussi in contrario da quel che io dico, sappi Vostra Maestà che quello non è stato Benvenuto, ma può essere stato un mio cattivo fato o ria fortuna, la quale m'ha voluto fare indegno di servire il piú maraviglioso principe che avessi mai la terra: pertanto la priego che mi perdoni. Solo mi parve che Vostra Maestà mi dessi argento per una istatua sola: e non avendo da me, io none possetti fare piú che quella; e di quel poco dello argento che della detta figura m'avanzò, io ne feci quel vaso, per mostrare a Vostra Maestà quella bella maniera degli antichi; qual forse prima lei di tal sorte non aveva vedute. Quanto alla saliera, mi parve, se ben mi ricordo, che Vostra Maestà da per sé me ne richiedessi un giorno, entrato in proposito d'una che ve ne fu portata innanzi; per la qual cosa mostratogli un modello, quale io avevo fatto già in Italia, solo a vostra requisizione voi mi facesti dare subito mille ducati d'oro, perché io la facessi, dicendo che mi sapevi il buon grado di tal cosa: e maggiormente mi parve che molto mi ringraziassi quando io ve la detti finita. Quanto alla porta, mi parve che, ragionandone a caso, Vostra Maestà dessi le commessione a monsignor di Villurois suo primo segretario, il quale commesse a monsignor di Marmagnia e monsignor della Fa che tale opera mi sollecitassino, e mi provvedessino; e sanza queste commessione, da per me io non arei mai potuto tirare innanzi cosí grande imprese. Quanto alle teste di bronzo e la base del Giove e d'altro, le teste io le feci veramente da per me, per isperimentare queste terre di Francia, le quali io, come forestiero, punto non conoscevo; e sanza far esperienza delle ditte terre io non mi sarei messo a gettare queste grande opere. Quanto alle base, io le feci, parendomi che tal cosa benissimo si convenissi per compagnia di quelle tal figure; però tutto quello che io ho fatto, ho pensato di fare il meglio, e non mai discostarmi dal volere di Vostra Maestà. Gli è bene il vero, che quel gran colosso io l'ho fatto tutto, insino al termine che gli è, con le spese della mia borsa; solo parendomi che voi sí gran Re e io quel poco artista che io sono, dovessi fare per vostra gloria e mia una statua, quale gli antichi non ebbon mai. Conosciuto ora che a Dio non è piaciuto di farmi degno d'un tanto onorato servizio, la priego che, cambio di quello onorato premio che vostra Maestà alle opere mie aveva destinato, solo mi dia un poco della sua buona grazia e con essa buona licenzia; perché in questo punto, faccendomi degno di tal cose, mi partirò tornandomi in Italia, sempre ringraziando Idio e Vostra Maestà di quell'ore felice che io sono stato al suo servizio.
XLVI.
Mi prese con le sue mane, e levommi con gran piacevolezza di ginocchioni; di poi mi disse che io dovessi contentarmi di servirlo, e che tutto quello che io avevo fatto era buono, e gli era gratissimo. E voltosi a quei Signori disse queste formate parole: - Io credo certamente che, se il Paradiso avessi d'aver porte, che piú bella di questa già mai non l'arebbe -. Quando io viddi fermato un poco la baldanza di quelle parole, quale erano tutte in mio favore, di nuovo con grandissima reverenza io lo ringraziai, replicando pure di volere licenza; perché a me non era passata ancora la stizza. Quando quel gran Re s'avvidde che io non aveva fatto quel capitale che meritavono quelle sue inusitate e gran carezze, mi comandò con una grande e paventosa voce che io non parlassi piú parola, ché guai a me; e poi aggiunse che mi affogherebbe nell'oro, e che mi dava licenzia, che, dipoi l'opere commessemi da Sua Maestà, tutto quel che io facevo in mezzo da per me era contentissimo, e che non mai piú io arei diferenza seco, perché m'aveva conosciuto; e che ancora io m'ingegnassi di cognoscere Sua Maestà, sí come voleva il dovere. Io dissi che ringraziavo Idio e Sua Maestà di tutto, di poi lo pregai che venissi a vedere la gran figura, come io l'avevo tirata innanzi: cosí venne appresso di me. Io la feci scoprire: la qual cosa gli dette tanta maraviglia, che immaginar mai si potria; e subito commesse a un suo segretario, che incontinente mi rendessi tutti li danari che di mio io avevo spesi, e fussi che somma la volessi, bastando che io la dessi scritta di mia mano. Da poi si partí, e mi disse: - Addio, mon ami -: qual gran parola a un re non si usa.
XLVII.
Ritornato al suo palazzo, venne a replicare le gran parole tanto maravigliosamente umile e tanto altamente superbe, che io avevo usato con Sua Maestà, le qual parole l'avevano molto fatto crucciare; e contando alcuni de' particulari di tal parole alla presenza di Madama di Tampes, dove era Monsignor di San Polo, gran barone di Francia. Questo tale aveva fatto per il passato molta gran professione d'essere amico mio; e certamente che a questa volta molto virtuosamente, alla franciosa, lui lo dimostrò. Perché, dipoi molti ragionamenti, il Re si dolse del cardinal di Ferrara, che avendomigli dato in custode, non aveva mai piú pensato a' fatti mia, e che non era mancato per causa sua che io non mi fussi andato con Dio del suo regno, e che veramente penserebbe di darmi in custode a qualche persona che mi conoscessi meglio, che non aveva fatto il cardinale di Ferrara, perché non mi voleva dar piú occasione di perdermi. A queste parole subito si offerse Monsignor di San Polo, dicendo al Re che mi dessi in guardia allui, e che farebbe ben cosa che io non arei mai piú causa di partirmi del suo regno. A questo il Re disse che molto era contento, se San Polo gli voleva dire il modo che voleva tenere perché io non mi partissi. Madama, che era alla presenza, stava molto ingrognata, e San Polo stava in su l'onorevole, non volendo dire al Re il modo che lui voleva tenere. Dimandatolo di nuovo il Re, e lui, per piacere a Madama di Tampes, disse: - Io lo impiccherei per la gola, questo vostro Benvenuto; e a questo modo voi non lo perderesti del vostro regno -. Subito Madama di Tampes levò una gran risa, dicendo che io lo meritavo bene. A questo il Re per conpagnia si messe a ridere, e disse che era molto contento che San Polo m'impiccassi, se prima lui trovava un altro par mio; ché, con tutto che io non l'avessi mai meritata, gliene dava piena licenzia. Innel modo ditto fu finita questa giornata, e io restai sano e salvo; che Dio ne sia laudato e ringraziato.
XLVIII.
Aveva in questo tempo il Re quietata la guerra con lo Imperadore, ma non con gli Inghilesi, di modo che questi diavoli ci tenevano in molta tribulazione. Avendo il capo ad altro il Re che ai piaceri, aveva commesso a Piero Strozzi che conducessi certe galee in quei mari d'Inghilterra; qual fu cosa grandissima e difficile a condurvele, pure a quel mirabil soldato, unico ne' tempi sua in tal professione, e altanto unico disavventurato. Era passato parecchi mesi che io non avevo aùto danari né ordine nessuno di lavorare; di modo che io avevo mandato via tutti i mia lavoranti, da quei dua in fuora italiani, ai quali io feci lor fare dua vasotti di mio argento, perché loro non sapevan lavorare in sul bronzo. Finito che gli ebbono i dua vasi, io con essi me n'andai a una città, che era della regina di Navarra: questa si domanda Argentana, ed è discosto da Parigi di molte giornate. Giunsi al ditto luogo e trovai il Re che era indisposto; el cardinal di Ferrara disse a Sua Maestà come io ero arrivato in quel luogo. A questo il Re non rispose nulla, qual fu causa che io ebbi a stare di molti giorni a disagio. E veramente che io non ebbi mai il maggior dispiacere: pure in capo di parecchi giorni io me gli feci una sera innanzi, e appresenta'gli agli occhi quei dua bei vasi: e' quali oltramodo gli piacquono. Quando io veddi benissimo disposto il Re, io pregai Sua Maestà che fussi contento di farmi tanto di grazia, che io potessi andare a spasso infino in Italia, e che io lascierei sette mesi di salario che io ero creditore, i quali danari Sua Maestà si degnerebbe farmegli da poi pagare, se mi facessino di mestiero per il mio ritorno. Pregavo Sua Maestà che mi compiacessi questa cotal grazia, avvenga che allora era veramente tempo da militare, e non da statuare ancora, perché Sua Maestà aveva compiaciuto tal cosa al suo Bologna pittore, però divotissimamente lo pregavo che fussi contento farne degno ancora me. Il Re, mentre che io gli dicevo queste parole, guardava con grandissima attenzione quei dua vasi, e alcune volte mi feriva con un suo sguardo terribile; io pure, il meglio che io potevo e sapevo, lo pregavo che mi concedessi questa tal grazia. A un tratto lo viddi isdegnato, e rizzossi da sedere e a me disse in lingua italiana: - Benvenuto, voi sete un gran matto; portatene questi vasi a Parigi, perché io gli voglio dorati - e non mi data altra risposta, si partí. Io mi accostai al Cardinal di Ferrara, che era alla presenza, e lo pregai, che da poi che m'aveva fatto tanto bene innel cavarmi del carcere di Roma, insieme con tanti altri benifizi ancora mi compiacessi questo, che io potessi andare insino in Italia. Il ditto Cardinle mi disse che molto volentieri arebbe fatto tutto quel che potessi per farmi quel piacere, e che liberamente io ne lasciassi la cura a lui; e anche, se io volevo, potevo andare liberamente, perché lui mi tratterrebbe benissimo con il Re. Io dissi al ditto Cardinale, sí come io sapevo che Sua Maestà m'aveva dato in custode a Sua Signoria reverendissima, e che se quella mi dava licenzia, io volentieri mi partirei, per tornare a un sol minimo cenno di Sua Signoria reverendissima. Allora il Cardinale mi disse, che io me n'andassi a Parigi, e quivi sopra stessi otto giorni, e in questo tempo lui otterrebbe grazia dal Re che io potrei andare: e in caso che il Re non si contentassi che io partissi, sanza manco nessuno me ne darebbe avviso; il perché, non mi scrivendo altro, saria segno che io potrei liberamente andare.
XLIX.
Andatomene a Parigi, sí come m'aveva detto il Cardinale, feci di mirabil casse per quei tre vasi d'argento. Passato che fu venti giorni, mi messi in ordine, e li tre vasi messi in su 'n una soma di mulo, il quale mi aveva prestato per insino in Lione il vescovo di Pavia, il quale io avevo alloggiato di nuovo innel mio castello. Partimmi innella mia malora, insieme col signore Ipolito Gonzaga, il qual signore stava al soldo del Re e trattenuto dal conte Galeotto della Mirandola, e con certi altri gentiluomini del detto conte. Ancora s'accompagnò con esso noi Lionardo Tedaldi nostro fiorentino. Lasciai Ascanio e Pagolo in custode del mio castello e di tutta la mia roba, infra la quale era certi vasetti cominciati, i quali io lasciavo, perché quei dua giovani non si stessino. Ancora c'era molto mobile di casa di gran valore, perché io stavo molto onoratamente: era il valore di queste mie dette robe di piú di mille cinquecento scudi. Dissi a Ascanio, che si ricordassi quanti gran benifizi lui aveva aúti da me, e che per insino allora lui era stato fanciullo di poco cervello: che gli era tempo omai d'aver cervello da uomo; però io gli volevo lasciare in guardia tutta la mia roba, insieme con tutto l'onor mio; che se lui sentiva piú una cosa che un'altra da quelle bestie di quei Franciosi, subito me l'avvisassi, perché io monterei in poste e volerei d'onde io mi fussi, sí per il grande obrigo che io avevo a quel buon Re, e sí per lo onor mio. Il ditto Ascanio con finte e ladronesche lacrime mi disse: - Io non cognobbi mai altro miglior padre di voi, e tutto quello che debbe fare un buon figliuolo inverso del suo buon padre, io sempre lo farò inverso di voi -. Cosí d'accordo mi parti' con un servitore e con un piccolo ragazzetto franzese. Quando fu passato mezzo giorno, venne al mio castello certi di quei tesaurieri, i quali non erano punto mia amici. Questa canaglia ribalda subito dissono che io m'ero partito con l'argento del Re, e dissono a messer Guido e al Vescovo di Pavia che rimandassimo prestamente per i vasi del Re; se non che loro manderebbon per essi drietomi con molto mio gran dispiacere. Il Vescovo e messer Guido ebbon molto piú paura che non faceva mestiero, e prestamente mi mandorno drieto in poste quel traditore d'Ascanio, il quale comparse in su la mezza notte. E io che non dormivo, da per me stesso mi condolevo, dicendo: - A chi lascio la roba mia, il mio castello? Oh che destino mio è questo, che mi sforza a far questo viaggio? Pur che il Cardinale non sia d'accordo con Madama di Tampes, la quale non desidera altra cosa al mondo, se non che io perda la grazia di quel buon Re!
L.
In mentre che meco medesimo io facevo questo contrasto, mi senti' chiamare da Ascanio; e al primo mi sollevai dal letto, e li domandai se lui mi portava buone o triste nuove. Disse il ladrone: - Buone nuove porto; ma sol bisogna che voi rimandiate indietro li tre vasi, perché quei ribaldi di quei tesaurieri gridano accorruomo, di modo che il Vescovo e messer Guido dicono che voi gli rimandiate a ogni modo: e del resto non vi dia noia nulla, e andate a godervi questo viaggio felicemente -. Subitamente io gli resi i vasi, che ve n'era dua mia, con l'argento e ogni cosa. Io gli portavo alla badia del Cardinale di Ferrara in Lione; perché se bene e' mi detton nome che io me ne gli volevo portare in Italia, questo si sa bene per ugniuno che non si può cavare né danari, né oro, né argento, sanza gran licenzia. Or ben si debbe considerare se io potevo cavare quei tre gran vasi, i quali occupavono con le loro casse un mulo. Bene è vero che, per essere quelli cosa molto bella e di gran valore, io sospettavo della morte del Re, perché certamente io l'avevo lasciato molto indisposto; e da me dicevo: - Se tal cosa avenissi, avendogli io in mano al Cardinale, io non gli posso perdere -. Ora, in conclusione, io rimandai il detto mulo con i vasi e altre cose d'importanza; e con la ditta compagnia la mattina seguente attesi a camminare innanzi, né mai per tutto il viaggio mi potetti difendere di sospirare e piagnere. Pure alcune volte con Idio mi confortavo, dicendo: - Signore Idio, tu che sai la verità, cognosci che questa mia gita è solo per portare una elimosina a sei povere meschine verginelle e alla madre loro, mia sorella carnale; che se bene quelle hanno il lor padre, gli è tanto vecchio e l'arte sua non guadagna nulla; che quelle facilmente potrieno andare per la mala via; dove faccendo io questo opera pia, spero da Tua Maestà aiuto e consiglio -. Questo si era quanta recreazione io mi pigliavo camminando innanzi. Trovandoci un giorno presso a Lione a una giornata, era vicino alle ventidua ore, cominciò il cielo a fare certi tuoni secchi, e l'aria era bianchissima: io ero innanzi una balestrata dalli mia compagni; doppo i tuoni faceva il cielo un romore tanto grande e tanto paventoso, che io da per me giudicavo che fussi il dí del Giudizio; e fermatomi alquanto, cominciò a cadere una gragnuola senza gocciola d'acqua. Questa era grossa piú che pallottole di cerbottana, e, dandomi addosso, mi faceva gran male: a poco a poco questa cominciò a ringrossare di modo che l'era come pallottole d'una balestra. Veduto che 'l mio cavallo forte ispaventava, lo volsi addietro con grandissima furia a corso, tanto che io ritrovai li mia compagni, li quali per la medesima paura s'erano fermi drento in una pineta. La gragnuola ringrossava come grossi limoni: io cantavo un Miserere; e in mentre che cosí dicevo divotamente a Dio, venne un di quei grani tanto grosso che gli scavezzò un ramo grossissimo di quel pino, dove mi pareva esser salvo. Un'altra parte di quei grani dette in sul capo al mio cavallo, qual fe' segno di cadere in terra; a me ne colse uno, ma non in piena, perché m'aria morto. Similmente ne colse uno a quel povero vecchio di Lionardo Tedaldi, di sorte che lui, che stava come me ginocchioni, gli fe' dare delle mane in terra. Allora io prestamente, veduto che quel gran ramo non mi poteva piú difendere e che col Miserere bisognava far qualche opera, cominciai a raddoppiarmi e' panni in capo: e cosí dissi a Lionardo, che accorruomo gridava: - Giesú, Giesú - che quello lo aiuterebbe se lui si aiutava. Ebbi una gran fatica piú a campar lui che me medesimo. Questa cosa durò un pezzo, pur poi cessò e noi, ch'eràmo tutti pesti, il meglio che noi potemmo ci rimettemmo a cavallo; e in mentre che noi andavamo inverso l'alloggiamento, mostrandoci l'un l'altro gli scalfitti e le percosse, trovammo un miglio innanzi tanta maggior mina della nostra, che pare impossibile a dirlo. Erano tutti gli arbori mondi e scavezzati, con tanto bestiame morto, quanto la n'aveva trovati; e molti pastori ancora morti: vedemmo quantità assai di quelle granella le quali non si sarebbon cinte con dua mani. Ce ne parve avere un buon mercato, e cognoscemmo allora che il chiamare Idio e quei nostri Misereri ci avevano piú servito che da per noi non aremmo potuto fare. Cosí ringraziando Idio, ce ne andammo in Lione l'altra giornata appresso, e quivi ci posammo per otto giorni. Passati gli otto giorni, essendoci molto bene ricreati, ripigliammo il viaggio, e molto felicemente passammo i monti. Ivi io comperai un piccol cavallino, perché certe poche bagaglie avevano alquanto istracco i mia cavalli.
LI.
Di poi che noi fummo una giornata in Italia, ci raggiunse il conte Galeotto della Mirandola, il quale passava in poste, e fermatosi con esso noi, mi disse che io avevo fatto errore a partirmi, e che io dovessi non andare piú innanzi, perché le cose mie, tornando subito, passerebbono meglio che mai; ma se io andavo innanzi, che io davo campo ai mia nimici e comodità di potermi far male; dove che, se io tornavo subito, arei loro impedita la via a quello che avevano ordinato contro a di me; e quelli tali, in chi io avevo piú fede, erano quelli che m'ingannavano. Non mi volse dire altro, che lui benissimo lo sapeva: e 'l cardinal di Ferrara era accordato con quei dua mia ribaldi che io avevo lasciato in guardia d'ogni cosa mia. Il ditto contino mi repricò piú volte che io dovessi tornare a ogni modo. Montato in su le poste passò innanzi, e io, per la compagnia sopra ditta, ancora mi risolsi a passare innanzi. Avevo uno istruggimento al cuore, ora di arrivare prestissimo a Firenze, e ora di ritornarmene in Francia. Istavo in tanta passione, a quel modo inresoluto, che io per utimo mi risolsi voler montare in poste per arrivare presto a Firenze. Non fu' d'accordo con la prima posta; per questo fermai il mio proposito assoluto di venire a tribulare in Firenze. Avendo lasciato la compagnia del signore Ipolito Gonzaga, il quale aveva preso la via per andare alla Mirandola e io quella di Parma e Piacenza, arrivato che io fui a Piacenza iscontrai per una strada il duca Pierluigi, il quale mi squadrò e mi cognobbe. E io che sapevo che tutto il male che io avevo aùto nel Castel Sant'Agnolo di Roma, n'era stato lui la intera causa, mi dette passione assai il vederlo; e non conoscendo nessun rimedio a uscirgli delle mane, mi risolsi di andarlo a visitare; e giunsi appunto che s'era levata la vivanda, ed era seco quelli uomini della casata de' Landi, qual da poi furno quelli che lo ammazzorno. Giunto a Sua Eccellenzia, questo uomo mi fece le piú smisurate carezze che mai immaginar si possa: e infra esse carezze da sé cadde in proposito, dicendo a quelli ch'erano alla presenza, che io era il primo uomo del mondo della mia professione e che io ero stato gran tempo in carcere in Roma. E voltosi a me disse: - Benvenuto mio, quel che voi avesti, a me ne 'ncrebbe assai; e sapevo che voi eri innocente, e non vi potetti aiutare altrimenti, perché mio padre per soddisfare a certi vostri nimici, i quali gli avevano ancora dato addintendere che voi avevi sparlato di lui: la qual cosa io so certissima che non fu mai vera; e a me ne increbbe assai del vostro - e con queste parole egli multipricò in tante altre simile, che pareva quasi che mi chiedessi perdonanza. Appresso mi domandò di tutte l'opere che io aveva fatte al Re Cristianissimo; e dicendogliele io, istava attento, dandomi la piú grata audienza che sia possibile al mondo. Di poi mi ricercò se io lo volevo servire: a questo io risposi che con mio onore io non lo potevo fare; che se io avessi lasciato finite quelle tante grand'opere che io avevo cominciate per quel gran Re, io lascerei ogni gran signore, solo per servire Sua Eccellenzia. Or qui si cognosce quanto la gran virtú de Dio non lascia mai impunito di qualsivoglia sorta di uomini, che fanno torti e ingiustizie agli innocenti. Questo uomo come perdonanza mi chiese alla presenza di quelli, che poco da poi feciono le mie vendette, insieme con quelle di molti altri ch'erano istati assassinati da lui; però nessun Signore, per grande che e' sia, non si faccia beffe della giustizia de Dio, sí come fanno alcuni di quei che io cognosco, che sí bruttamente m'hanno assassinato, dove al suo luogo io lo dirò. E queste mie cose io non le scrivo per boria mondana, ma solo per ringraziare Idio, che m'ha campato da tanti gran travagli. Ancora di quelli che mi s'appresentano innanzi alla giornata, di tutti allui mi querelo, e per mio propio difensore chiamo e mi raccomando. E sempre, oltra che io m'aiuti quanto io posso, da poi avvilitomi dove le debile forze mie non arrivano, subito mi si mostra quella gran bravuria de Dio, la quale viene inaspettata a quelli che altrui offendono a torto, e a quelli che hanno poco cura della grande e onorata carica, che Idio ha dato loro.
LII.
Torna'mene all'osteria e trovai che il sopra detto Duca m'aveva mandato abbundantissimamente presenti da mangiare e da bere, molto onorati: presi di buona voglia il mio cibo; da poi, montato a cavallo, me ne venni alla volta di Fiorenze; dove giunto che io fui, trovai la mia sorella carnale con sei figliolette, che una ve n'era da marito e una ancora a balia: trovai il marito suo, il quale per vari accidenti della città non lavorava piú dell'arte sua. Avevo mandato piú d'uno anno innanzi gioie e dorure franzese per il valore di piú di dumila ducati, e meco ne avevo portate per li valore di circa mille scudi. Trovai che, se bene io davo loro continuamente quattro scudi d'oro il mese, ancora continuamente pigliavano di gran danari di quelle mie dorure che alla giornata loro vendevano. Quel mio cognato era tanto uomo da bene che, per paura che io non mi avessi a sdegnar seco, non gli bastando i dinari che io gli mandavo per le sue provvisione, dandogliene per limosina, aveva inpegnato quasi ciò che gli aveva al mondo, lasciandosi mangiare dagli interessi, solo per non toccare di quelli dinari che non erano ordinati per lui. A questo io cognobbi che gli era molto uomo da bene e mi crebbe voglia di fargli piú limosina: e prima che io partissi di Firenze volevo dare ordine a tutte le sue figlioline.
LIII.
Il nostro Duca di Firenze in questo tempo, che eramo del mese d'agosto nel 1545, essendo al Poggio a Caiano, luogo dieci miglia discosto di Firenze, io l'andai a trovare, solo per fare il debito mio, per essere anch'io cittadino fiorentino e perché i mia antichi erano stati molto amici della casa de' Medici, e io piú che nessuno di loro amavo questo duca Cosimo. Sí come io dico, andai al detto Poggio solo per fargli reverenza e non mai con nessuna intenzione di fermarmi seco, sí come Dio, che fa bene ogni cosa, a lui piacque: ché veggendomi il detto Duca, dipoi fattomi molte infinite carezze, e lui e la Duchessa mi dimandorno dell'opere che io avevo fatte al Re; alla qual cosa volentieri, e tutte per ordine, io raccontai. Udito che egli m'ebbe, disse che tanto aveva inteso che cosí era il vero; e da poi aggiunse in atto di compassione, e disse: - O poco premio a tante belle e gran fatiche! Benvenuto mio, se tu mi volessi fare qualche cosa a me, io ti pagherei bene altrimenti che non ha fatto quel tuo Re, di chi per tua buona natura tanto ti lodi -. A queste parole io aggiunsi li grandi obrighi che io avevo con Sua Maestà, avendomi tratto d'un cosí ingiusto carcere, di poi datomi l'occasione di fare le piú mirabile opere che ad altro artefice mio pari che nascessi mai. In mentre che io dicevo cosí il mio Duca si scontorceva e pareva che non mi potessi stare a udire. Da poi finito che io ebbi, mi disse: - Se tu vuoi far qualcosa per me, io ti farò carezze tali, che forse tu resterai maravigliato, purché l'opere tue mi piacciano; della qual cosa io punto non dubito -. Io poverello isventurato, desideroso di mostrare in questa mirabile Iscuola, che di poi che io ero fuor d'essa, m'ero affaticato in altra professione di quello che la ditta iscuola non istimava, risposi al mio Duca che volentieri, o di marmo o di bronzo, io gli farei una statua grande in su quella sua bella piazza. A questo mi rispose, che arebbe voluto da me, per una prima opera, solo un Perseo. Questo era quanto lui aveva di già desiderato un pezzo; e mi pregò che io gnene facessi un modelletto. Volentieri mi messi a fate il detto modello, e in breve settimane finito l'ebbi, della altezza d'unbraccio in circa: questo era di cera gialla, assai accomodatamente finito: bene era fatto con grandissimo istudio e arte. Venne il Duca a Firenze e innanzi che io gli potessi mostrare questo ditto modello, passò parecchi dí; che propio pareva che lui non mi avessi mai veduto né conosciuto, di modo che io feci un mal giudizio de' fatti mia con Sua Eccellenzia. Pur da poi, un dí doppo desinare, avendolo io condotto nella sua guardaroba, lo venne a vedere insieme con la Duchessa e con pochi altri Signori. Subito vedutolo gli piacque e lodollo oltramodo: per la qual cosa mi dette un poco di speranza che lui alquanto se ne 'ntendessi. Da poi che l'ebbe considerato assai, crescendogli grandemente di piacere, disse queste parole: - Se tu conducessi, Benvenuto mio, cosí in opera grande questo piccol modellino, questa sarebbe la piú bella opera di piazza -. Allora io dissi: - Eccellentissimo mio Signore, in piazza sono l'opere del gran Donatello e del maraviglioso Michelagnolo, qual sono istati dua li maggior uomini dagli antichi in qua. Per tanto Vostra Eccellenzia illustrissima dà un grand'animo al mio modello, perché a me basta la vista di far meglio l'opera, che il modello, piú di tre volte -. A questo fu non piccola contesa, perché il Duca sempre diceva che se ne intendeva benissimo e che sapeva appunto quello che si poteva fare. A questo io gli dissi che l'opere mie deciderebbono quella quistione e quel suo dubbio, e che certissimo io atterrei a Sua Eccellenzia molto piú di quel che io gli promettevo, e che mi dessi pur le comodità che io potessi fare tal cosa, perché sanza quelle comodità io non gli potrei attenere la gran cosa che io gli promettevo. A questo Sua Eccellenzia mi disse che io facessi una supplica di quanto io gli dimandavo, e in essa contenessi tutti i mia bisogni, ché a quella amplissimamente darebbe ordine. Certamente che se io fussi stato astuto a legare per contratto tutto quello che io avevo di bisogno in queste mia opere, io non arei aùto e' gran travagli, che per mia causa mi son venuti: perché la voluntà sua si vedeva grandissima sí in voler fare delle opere e sí nel dar buon ordine a esse. Però non conoscendo io che questo Signore aveva piú modo di mercatante che di duca, liberalissimamente procedevo con Sua Eccellenzia come duca e non come mercatante. Fecigli le suppliche, alle quale Sua Eccellenzia liberalissimamente rispose. Dove io dissi: - Singularissimo mio patrone, le vere suppliche e i veri nostri patti non consistono in queste parole né in questi scritti, ma sí bene il tutto consiste che io riesca con l'opere mie a quanto io l'ho promesse; e riuscendo, allora io mi prometto che Vostra Eccellenzia illustrissima benissimo si ricorderà di quanto la promette a me -. A queste parole invaghito Sua Eccellenzia e del mio fare e del mio dire, lui e la Duchessa mi facevano i piú isterminati favori che si possa immaginare al mondo.
LIV.
Avendo io grandissimo desiderio di cominciare a lavorare, dissi a Sua Eccellenzia che io avevo bisogno d'una casa, la quale fussi tale che io mi vi potessi accomodare con le mie fornaciette, e da lavorarvi l'opere di terra e di bronzo, e poi, appartatamente, d'oro e d'argento; perché io so che lui sapeva quanto io ero bene atto a servirlo di queste tale professione; e mi bisognava stanze comode da poter far tal cosa. E perché Sua Eccellenzia vedessi quanto io avevo voglia di servirla, di già io avevo trovato la casa, la quale era a mio proposito, ed era in luogo che molto mi piaceva. E perché io non volevo prima intaccare Sua Eccellenzia a danari o nulla, che egli vedessi l'opere mie, avevo portato di Francia dua gioielli, coi quali io pregavo Sua Eccellenzia che mi comperassi la ditta casa, e quelli salvassi insino attanto che con l'opere e con le mie fatiche io me la guadagnassi. Gli detti gioielli erano benissimo lavorati di mano di mia lavoranti, sotto i mia disegni. Guardati che gli ebbe assai, disse queste animose parole, le quali mi vestirno di falsa isperanza: - Togliti, Benvenuto, i tua gioielli, perché io voglio te e non loro; e tu abbi la casa tua libera -. Appresso a questo me ne fece uno rescritto sotto una mia supplica, la quale ho sempre tenuta. Il detto rescritto diceva cosí: "Veggasi la detta casa, e a chi sta a venderla, e il pregio che se ne domanda; perché ne vogliamo compiacere Benvenuto". Parendomi per questo rescritto esser sicuro della casa; perché sicuramente io mi promettevo che le opere mie sarebbono molto piú piaciute di quello che io avevo promesso; appresso a questo Sua Eccellenzia aveva dato espressa commessione a un certo suo maiordomo il quale si domandava ser Pier Francesco Riccio. Era da Prato, ed era stato pedantuzzo del ditto Duca. Io parlai a questa bestia, e dissigli tutte le cose di quello che io avevo di bisogno, perché dove era orto in detta casa io volevo fare una bottega. Subito questo uomo dette la commessione a un certo pagatore secco e sottile, il quale si chiamava Lattanzio Gorini. Questo omiciattolo con certe sue manine di ragnatelo e con una vociolina di zanzara, presto come una lumacuzza, pure in malora mi fe' condurre a casa sassi, rena e calcina tanto, che arebbe servito per fare un chiusino da colombi malvolentieri. Veduto andar le cose tanto malamente fredde, io mi cominciai a sbigottire; o pure da me dicevo: - I piccoli principii alcune volte hanno gran fine - e anche mi dava qualche poco di speranza di vedere quante migliaia di ducati il Duca aveva gittato via in certe brutte operaccie di scultura, fatte di mano di quel bestial Buaccio Bandinello. Fattomi da per me medesimo animo, soffiavo in culo a quel Lattanzio Gurini per farlo muovere; gridavo a certi asini zoppi e a uno cecolino che gli guidava; e con queste difficultà, poi con mia danari, avevo segnato il sito della bottega, e sbarbato alberi e vite: pure, al mio solito, arditamente, con qualche poco di furore, andavo faccendo. D'altra banda, ero alle man del Tasso legnaiuolo, amicissimo mio, e allui facevo fare certe armadure di legno per cominciare il Perseo grande. Questo Tasso era eccellentissimo valente uomo, credo il maggiore che fussi mai di sua professione: dall'altra banda era piacevole e lieto, e ogni volta che io andavo dallui, mi si faceva incontro ridendo, con un canzoncino in quílio. E io, che ero di già piú che mezzo disperato, sí perché cominciavo a sentire le cose di Francia che andavano male, e di queste mi promettevo poco per la loro freddezza, mi sforzava a farmi udire sempre la metà per lo manco di quel suo canzoncino: pure all'utimo alquanto mi rallegravo seco, sforzandomi di smarrire quel piú che io potevo, quattro di quei mia disperati pensieri.
LV.
Avendo dato ordine a tutte le sopra ditte cose, e cominciando a tirare innanzi per apparecchiarmi piú presto a questa sopra ditta impresa - di già era spento parte della calcina - innun tratto io fui chiamato dal sopra ditto maiodomo; e io, andando a lui, lo trovai dopo il desinare di Sua Eccellenzia in sulla sala detta dell'Oriuolo; e fattomigli innanzi, io allui con grandissima riverenza, e lui a me con grandissima rigidità, mi domandò chi era quello che m'aveva messo in quella casa, e con che autorità io v'avevo cominciato drento a murare; e che molto si maravigliava di me, che io fussi cosí ardito prosuntuoso. A questo io risposi che innella casa m'aveva misso Sua Eccellenzia, e in nome di Sua Eccellenzia Sua Signoria, la quale aveva dato le commessione a Lattanzio Gurini; e il detto Lattanzio aveva condotto pietra, rena, calcina, e dato ordine alle cose che io avevo domandato - e di tanto diceva avere aùto commessione da Vostra Signoria -. Ditto queste parole, quella ditta bestia mi si volse con maggiore agrezza che prima, e mi disse che né io né nessuno di quelli che io avevo allegato, non dicevano la verità. Allora io mi risenti' e gli dissi: - O maiordomo, insino a tanto che Vostra Signoria parlerà sicondo quel nobilissimo grado in che quella è involta, io la riverirò e parlerò allei con quella sommissione che io fo al Duca; ma faccendo altrimenti, io le parlerò come a un ser Pier Francesco Riccio. -. Questo uomo venne in tanta còllora, che io credetti che volesse impazzare allora, per avanzar tempo da quello che i cieli determinato gli aveano; e mi disse, insieme con alcune ingiuriose parole, che si maravigliava molto di avermi fatto degno che io parlassi a un suo pari. A queste parole io mi mossi e dissi: - Ora ascoltatemi, ser Pier Francesco Riccio, che io vi dirò chi sono i mia pari, e chi sono i pari vostri, maestri d'insegnar leggere a' fanciulli -. Ditto queste parole, quest'uomo con arroncigliato viso alzò la voce, replicando piú temerariamente quelle medesime parole. Alle quali ancora io acconciomi con 'l viso de l'arme, mi vesti' per causa sua d'un poco di presunzione, e dissi che li pari mia eran degni di parlare a papi e a imperatori e a gran re; e che delli pari mia n'andava forse un per mondo, ma delli sua pari n'andava dieci per uscio. Quando e' sentí queste parole, salí in su 'n muricciuolo di finestra, che è in su quella sala; da poi mi disse che io replicassi un'altra volta le parole che io gli avevo dette; le quale piú arditamente che fatto non avevo replicai, e di piú dissi che io non mi curavo piú di servire il Duca, e che io me ne tornerei nella Francia, dove io liberamente potevo ritornare. Questa bestia restò istupido e di color di terra, e io arrovellato mi parti' con intenzione di andarmi con Dio; che volessi Idio che io l'avessi eseguita. Dovette l'Eccellenzia del Duca non saper cosí al primo questa diavoleria occorsa, perché io mi stetti certi pochi giorni avendo dimesso tutti i pensieri di Firenze, salvo che quelli della mia sorella e delle mie nipotine, i quali io andavo accomodando; ché con quel poco che io avevo portato le volevo lasciare acconcie il meglio che io potevo, e quanto piú presto da poi mi volevo ritornare in Francia, per non mai piú curarmi di rivedere la Italia. Essendomi resoluto di spedirmi il piú presto che io potevo, e andarmene sanza licenzia del Duca o d'altro, una mattina quel sopra ditto maiordomo da per se medesimo molto umilmente mi chiamò, e messe mano a una certa sua pedantesca orazione, innella quale io non vi senti' mai né modo né grazia, né virtú, né principio, né fine: solo v'intesi che disse che faceva professione di buon cristiano, e che non voleva tenere odio con persona, e mi domandava da parte del Duca che salario io volevo per mio trattenimento. A questo io stetti un poco sopra di me e non rispondevo, con pura intenzione di non mi voler fermare. Vedendomi soprastare sanza risposta, ebbe pur tanta virtú che egli disse: - O Benvenuto, ai duchi si risponde; e quello che io ti dico te lo dico da parte di Sua Eccellenzia -. Allora io dissi che dicendomelo da parte di Sua Eccellenzia, molto volentieri io volevo rispondere; e gli dissi che dicessi a Sua Eccellenzia come io non volevo esser fatto secondo a nessuno di quelli che lui teneva della mia professione. Disse il maiordomo: - Al Bandinello si dà dugento scudi per suo trattenimento, sicché, se tu ti contenti di questo, il tuo salario è fatto -. Risposi che ero contento, e che quel che io meritassi di piú, mi fussi dato da poi vedute l'opere mie, e rimesso tutto nel buon giudizio di Sua Eccellenzia illustrissima: cosí contra mia voglia rappiccai il filo e mi messi a lavorare, faccendomi di continuo il Duca i piú smisurati favori che si potessi al mondo immaginare.
LVI.
Avevo aùto molto ispesso lettere di Francia da quel mio fidelissimo amico messer Guido Guidi: queste lettere per ancora non mi dicevano se non bene; quel mio Ascanio ancora lui m'avvisava dicendomi che io attendessi a darmi buon tempo, e che, se nulla occorressi, me l'arebbe avvisato. Fu riferito al Re come io m'ero messo a lavorare per il duca di Firenze; e perché questo uomo era il miglior del mondo, molte volte disse: - Perché non torna Benvenuto? - E dimandatone particularmente quelli mia giovani, tutti a dua gli dissono che io scrivevo loro che stavo cosí bene, e che pensavano che io non avessi piú voglia di tornare a servire Sua Maestà. Trovato il Re in còllora, e sentendo queste temerarie parole, le quale non vennono mai da me, disse: - Da poi che s'è partito da noi sanza causa nessuna, io non lo dimanderò mai piú; sí che stiesi dove gli è -. Questi ladroni assassini avendo condutta la cosa a quel termine che loro desideravono, perché ogni volta che io fossi ritornato in Francia loro si ritornavano lavoranti sotto a di me come gli erano in prima, per il che, non ritornando, loro restavano liberi e in mio scambio, per questo e' facevano tutto il loro sforzo perché io non ritornassi.
LVII.
In mentre che io facevo murare la bottega per cominciarvi drento il Perseo, io lavoravo in una camera terrena, innella quale io facevo il Perseo di gesso, della grandezza che gli aveva da essere, con pensiero di formarlo da quel di gesso. Quando io viddi che il farlo per questa via mi riusciva un po' lungo, presi un altro espediente, perché di già era posto sú, di mattone sopra mattone, un poco di bottegaccia, fatta con tanta miseria, che troppo mi offende il ricordarmene. Cominciai la figura della Medusa, e feci una ossatura di ferro; di poi la cominciai a far di terra, e fatta che io l'ebbi di terra, io la cossi. Ero solo con certi fattoruzzi, infra i quali ce ne era uno molto bello: questo si era figliuolo d'una meretrice, chiamata la Gambetta. Servivomi di questo fanciullo per ritrarlo, perché noi non abbiamo altri libri [che ci insegnin l'arte, altro che il naturale]. Cercavo di pigliar de' lavoranti per ispedir presto questa mia opera, e non ne potevo trovare, e da per me solo io non potevo fare ogni cosa. Eracene qualcuno in Firenze che volentieri sarebbe venuto, ma il Bandinello subito m'impediva che non venissino; e faccendomi stentare cosí un pezzo, diceva al Duca che io andavo cercando dei sua lavoranti, perché da per me non era mai possibile che io sapessi mettere insieme una figura grande. Io mi dolsi col Duca della gran noia che mi dava questa bestia, e lo pregai che mi facessi avere qualcun di quei lavoranti dell'Opera. Queste mie parole furno causa di far credere al Duca quello che gli diceva il Bandinello. Avvedutomi di questo, io mi disposi di far da me quanto io potevo. E messomi giú con le piú estreme fatiche che immaginar si possa, in questo che io giorno e notte m'affaticavo, si ammalò il marito della mia sorella, e in brevi giorni si morí. Lasciòmi la mia sorella, giovane, con sei figliuole fra piccole e grande: questo fu il primo gran travaglio che io ebbi in Firenze: restar padre e guida d'una tale isconfitta.
LVIII.
Desideroso pure che nulla non andassi male, essendo carico il mio orto di molte brutture, chiamai due manovali, e' quali mi furno menati dal Ponte Vecchio: di questi ce n'era uno vecchio di sessant'anni, l'altro si era giovane di diciotto. Avendogli tenuti circa tre giornate, quel giovane mi disse che quel vecchio non voleva lavorare e che io facevo meglio a mandarlo via, perché non tanto che lui non voleva lavorare, impediva il giovane che non lavorassi: e mi disse che quel poco che v'era da fare, lui se lo poteva fare da sé, sanza gittar via e' denari in altre persone: questo aveva nome Bernardino Manellini di Mugello. Vedendolo io tanto volentieri affaticarsi, lo domandai se lui si voleva acconciar meco per servidore: al primo noi fummo d'accordo. Questo giovane mi governava un cavallo, lavorava l'orto, di poi s'ingegnava d'aiutarmi in bottega, tanto che a poco a poco e' cominciò a 'nparare l'arte con tanta gentilezza che io non ebbi mai migliore aiuto di quello. E risolvendomi di far con costui ogni cosa, cominciai a mostrare al Duca che 'l Bandinello direbbe le bugie, e che io farei benissimo sanza i lavoranti del Bandinello. Vennemi in questo tempo un poco di male alle rene; e perché io non potevo lavorare, volentieri mi stavo in guardaroba del Duca con certi giovani orefici, che si domandavano Gianpagolo e Domenico Poggini, ai quali io facevo fare uno vasetto d'oro, tutto lavorato di basso rilievo, con figure e altri belli ornamenti: questo era per la Duchessa, il quale Sua Eccellenzia faceva fare per bere dell'acqua. Ancora mi richiese che io le facesse una cintura d'oro; e anche quest'opera ricchissimamente, con gioie e con molte piacevole invenzione di mascherette e d'altro: questa se le fece. Veniva a ogni poco il Duca in questa guardaroba, e pigliavasi piacere grandissimo di veder lavorare, e di ragionare con esso meco. Cominciato un poco a migliorare delle mie rene, mi feci portar della terra, e in mentre che 'l Duca si stava quivi a passar tempo, io lo ritrassi, faccendo una testa assai maggiore del vivo. Di questa opera Sua Eccellenzia ne prese grandissimo piacere e mi pose tanto amore, che lui mi disse che gli sarebbe stato grandissimo appiacere che io mi fussi accomodato a lavorare in Palazzo, cercandomi in esso palazzo di stanze capace, le quale io mi dovessi fare acconciare con le fornacie e con ciò che io avessi di bisogno; perché pigliava piacere di tal cose grandissimo. A questo io dissi a Sua Eccellenzia, che non era possibile, perché io non arei finito l'opere mia in cento anni.
LIX.
La Duchessa mi faceva favori inistimabili, e arebbe voluto che io avessi atteso a lavorare per lei, e non mi fussi curato né di Perseo né di altro. Io, che mi vedevo in questi vani favori, sapevo certo che la mia perversa e mordace fortuna non poteva soprastare a farmi qualche nuovo assassinamento; perché ogniora mi s'appresentava innanzi el gran male che io avevo fatto, cercando di fare un sí gran bene: dico quanto alle cose di Francia. Il Re non poteva inghiottire quel gran dispiacere che gli aveva della mia partita, e pure arebbe voluto che io fussi ritornato, ma con ispresso suo onore: a me pareva avere molte gran ragione, e non mi volevo dichinare; perché pensavo, se io mi fussi dichinato a scrivere umilmente, quelli uomini alla franciosa arebbono detto che io fussi stato peccatore e che e' fussi stato il vero certe magagne, che a torto m'erano aposte. Per questo io stavo in su l'onorevole, e, come uomo che ha ragione, iscrivevo rigorosamente, quale era il maggior piacere che potevano avere quei dua traditori mia allevati: perché io mi vantavo, scrivendo loro, delle gran carezze che m'era fatte nella patria mia da un Signore e da una Signora, assoluti patroni della città di Firenze, mia patria. Come eglino avevano una di queste cotal lettere, andavano dal Re e strignevano Sua Maestà a dar loro il mio castello, in quel modo che l'aveva dato a me. Il Re, qual era persona buona e mirabile, mai volse acconsentire alle temerarie dimande di questi gran ladroncelli, perché si era cominciato a 'vedere a quel che loro malignamente espiravano: e per dar loro un poco di speranza e a me occasione di tornar subito, mi fece iscrivere alquanto in còllora da un suo tesauriere, che si dimandava messer Giuliano Buonaccorsi, cittadino fiorentino. La lettera conteneva questo: che, se io volevo mantenere quel nome de l'uomo da bene che io v'avevo portato, da poi che io me n'ero partito sanza nessuna causa, ero veramente ubrigato a render conto di tutto quello che io avevo maneggiato e fatto per Sua Maestà. Quando io ebbi questa lettera, mi dette tanto piacere, che a chiedere a lingua, io non arei domandato né piú né manco. Messomi a scrivere, empie' nove fogli di carta ordinaria; e in quegli narrai tritamente tutte l'opere che io avevo fatte e tutti gli accidenti che io avevo aúti in esse, e tutta la quantità de' denari che s'erano ispesi in dette opere, i quali tutti s'erano dati per mano di dua notari e d'un suo tesauriere, e sottoscritti da tutti quelli proprii uomini che gli avevano aúti, i quali alcuno aveva dato delle robe sue e gli altri le sue fatiche; e che di essi danari io non m'ero messo un sol quattrino in borsa, e che delle opere mie finite io non avevo aùto nulla al mondo; solo me ne avevo portato in Italia alcuni favori e promesse realissime, degne veramente di Sua Maestà. E se bene io non mi potevo vantare d'aver tratto nulla altro delle mie opere, che certi salari ordinatimi da Sua Maestà per mio trattenimento, e di quelli anche restavo d'avere piú di settecento scudi d'oro, i quali apposta io lasciai, perché mi fussino mandati per il mio buon ritorno; - però, conosciuto che alcuni maligni per propia invidia hanno fatto qualche malo uffizio, la verità ha a star sempre di sopra: io mi glorio di Sua Maestà cristianissima, e non mi muove l'avarizia. Se bene io cognosco d'avere attenuto molto piú a Sua Maestà di quello che io mi offersi di fare: e se bene a me non è conseguito il cambio promissomi, d'altro non mi curo al mondo, se non di restare, nel concetto di Sua Maestà, uomo da bene e netto, tal quale io fui sempre. E se nessun dubbio di questo fussi in Vostra Maestà, a un minimo cenno verrò volando a render conto di me, con la propia vita: ma vedendo tener cosí poco conto di me, non son voluto tornare a offerirmi, saputo che a me sempre avanzerà del pane dovunche io vada: e quando io sia chiamato, sempre risponderò -. Era in detta lettera molti altri particulari degni di quel maraviglioso Re e della salvazione dell'onor mio. Questa lettera, innanzi che io la mandassi, la portai al mio Duca, il quale ebbe molto piacere di vederla; di poi subito la mandai in Francia, diritta al cardinal di Ferrara.
LX.
In questo tempo Bernardone Baldini, sensale di gioie di Sua Eccellenzia, aveva portato di Vinezia un diamante grande, di piú di trentacinque carati di peso: eraci Antonio di Vittorio Landi ancora lui interessato per farlo comperare al Duca. Questo diamante era stato già una punta, ma perché e' non riusciva con quella limpidità fulgente, che a tal gioia si doveva desiderare, li padroni di esso diamante avevano ischericato questa ditta punta, la quale veramente non faceva bene né per tavola né per punta. Il nostro Duca, che si dilettava grandemente di gioie, ma però non se ne intendeva, dette sicura isperanza a questo ribaldone di Bernardaccio di volere comperare questo ditto diamante. E perché questo Bernardo cercava di averne l'onore lui solo, di questo inganno che voleva fare al Duca di Firenze,mai non conferiva nulla con il suo compagno, il ditto Antonio Landi. Questo ditto Antonio era molto mio amico per insino da puerizia, e perché lui vedeva che io ero tanto domestico con il mio Duca, un giorno infra gli altri mi chiamò da canto - era presso a mezzodí, e fu in sul canto di Mercato Nuovo - e mi disse cosí: - Benvenuto, io son certo che 'l Duca vi mostrerrà un diamante, il quale e' dimostra aver voglia di comperarlo: voi vedrete un gran diamante. Aiutate la vendita; e io vi dico che io lo posso dare per diciasette mila scudi: io son certo che il Duca vorrà il vostro consiglio; se voi lo vedete inclinato bene al volerlo, e' si farà cosa che lo potrà pigliare -. Questo Antonio mostrava di avere una gran sicurtà nel poter far partito di questa gioia. Io li promessi che, essendomi mostra e di poi domandato del mio parere, io arei detto tutto quello che io intendessi, senza danneggiare la gioia. Sí come io ho detto di sopra, il Duca veniva ogni giorno in quella oreficeria per parecchi ore; e dal dí che m'aveva parlato Antonio Landi piú di otto giorni dappoi, il Duca mi mostrò un giorno doppo desinare questo ditto diamante, il quale io ricognobbi per quei contra segni che m'aveva detto Antonio Landi e della forma e del peso. E perché questo ditto diamante era d'un'acqua, sí come io dissi di sopra, torbidiccia e per quella causa avevano ischericato quella punta, vedendolo io di quella sorte, certo l'arei isconsigliato a far tale ispesa; però, quando e' me lo mostrò, io domandai Sua Eccellenzia quello che quella voleva che io dicessi, perché gli era divario a' gioiellieri a il pregiare una gioia, di poi che un Signore l'aveva compera, o al porgli pregio perché quello la comperassi. Allora Sua Eccellenzia mi disse che l'aveva compro e che io dicessi solo il mio parere. Io non volsi mancare di non gli accennare modestamente quel poco che di quella gioia io intendevo. Mi disse che io considerassi la bellezza di quei gran filetti che l'aveva. Allora io dissi che quella non era quella gran bellezza che Sua Eccellenzia s'immaginava e che quella era una punta ischericata. A queste parole il mio Signore, che s'avvedde che io dicevo il vero, fece un mal grugno e mi disse che io attendessi a stimar la gioia e giudicare quello che mi pareva che la valessi. Io che pensavo che, avendomelo Antonio Landi offerto per diciasette mila scudi, mi credevo che il Duca l'avessi aùto per quindici mila il piú, e per questo io, che vedevo che lui aveva per male che io gli dicessi il vero, pensai di mantenerlo nella sua falsa oppinione, e pòrtogli il diamante, dissi: - Diciotto mila scudi avete ispeso -. A queste parole il Duca levò un rumore, faccendo uno O piú grande che una bocca di pozzo, e disse: - Or cred'io che tu non te ne intendi -. Dissi allui: - Certo, Signor mio, che voi credete male: attendete a tenere la vostra gioia in riputazione e io attenderò a intendermene. Ditemi almanco quello che voi vi avete speso drento, acciò che io impari a intendermene sicondo i modi di Vostra Eccellenzia -. Rizzatosi il Duca con un poco di sdegnoso ghigno, disse: - Venticinque mila iscudi e da vantaggio,Benvenuto, mi costa - e andato via. A queste parole era alla presenza Gianpagolo e Domenico Poggini, orefici; e il Bachiacca ricamatore, ancora lui, che lavorava in una stanza vicina alla nostra, corse a quel rimore; dove io dissi: - Io non l'arei mai consigliato che egli lo comperassi; ma se pure egli n'avessi aùto voglia, Antonio Landi otto giorni fa me lo offerse per diciasette mila scudi; io credo che io l'arei aùto per quindici o manco. Ma il Duca vuol tenere la sua gioia in riputazione; perché avendomela offerta Antonio Landi per un cotal prezzo, diavol che Bernardone avessi fatto al Duca una cosí vituperosa giunteria! - E non credendo mai che tal cosa fussi vera, come l'era, ridendo ci passammo quella simplicità del Duca.
LXI.
Avendo di già condotto la figura della gran Medusa, sí come io dissi, avevo fatto la sua ossatura di ferro: di poi fattala di terra, come di notomia, e magretta un mezzo dito, io la cossi benissimo; di poi vi messi sopra la cera e fini'la innel modo che io volevo che la stessi. Il Duca, che piú volte l'era venuta a vedere, aveva tanta gelosia che la non mi venissi di bronzo, che egli arebbe voluto che io avessi chiamato qualche maestro che me la gittassi. E perché Sua Eccellenzia parlava continuamente e con grandissimo favore delle mie saccenterie, il suo maiordomo, che continuamente cercava di qualche lacciuolo per farmi rompere il collo, e perché gli aveva l'autorità di comandare a' bargelli e a tutti gli uffizi della povera isventurata città di Firenze, che un pratese, nimico nostro, figliuol d'un bottaio, ignorantissimo, per essere stato pedante fradicio di Cosimo de' Medici innanzi che fussi duca, fussi venuto in tanta grande autorità, sí come ho detto, stando vigilante quanto egli poteva per farmi male, veduto che per verso nessuno lui non mi poteva appiccare ferro addosso, pensò un modo di far qualcosa. E andato a trovare la madre di quel mio fattorino, che aveva nome Cencio, e lei la Gambetta, dettono uno ordine, quel briccon pedante e quella furfante puttana, di farmi uno spavento, acciò che per quello, io mi fussi andato con Dio. La Gambetta, tirando all'arte sua, uscí, di commessione di quel pazzo ribaldo pedante maiordomo: e perché gli avevano ancora indettato il bargello, il quale era un certo bolognese, che per far di queste cose il Duca lo cacciò poi via; venendo un sabato sera, alle tre ore di notte mi venne a trovare la ditta Gambetta con il suo figliuolo, e mi disse che ella l'aveva tenuto parecchi dí rinchiuso per la salute mia. Alla quale io risposi che per mio conto lei non lo tenessi rinchiuso: e ridendomi della sua puttanesca arte, mi volsi al figliuolo in sua presenza e gli dissi: - Tu lo sai, Cencio, se io ho peccato teco - il qual piagnendo disse che no. Allora la madre, scotendo il capo, disse al figliuolo: - Ahi ribaldello, forse che io non so come si fa? - poi si volse a me, dicendomi che io lo tenessi nascosto in casa, perché il bargello ne cercava, e che l'arebbe preso ad ogni modo fuor di casa mia; ma che in casa mia non l'arebbon tocco. A questo io le dissi che in casa mia io aveva la sorella vedova con sei sante figlioline, e che io non volevo, in casa mia, persona. Allora lei disse che 'l maiordomo aveva dato le commessione al bargello e che io sarei preso a ogni modo; ma poiché io non volevo pigliare il figliuolo in casa, se io le davo cento scudi potevo non dubitar piú di nulla, perché essendo il maiordomo tanto grandissimo suo amico, io potevo star sicuro che lei gli arebbe fatto fare tutto quel che allei piaceva, purché io le dessi li cento scudi. Io ero venuto in tanto furore, col quale io le dissi: - Levamiti d'innanzi, vituperosa puttana, che se non fussi per onor di mondo e per la innocenzia di quello infelice figliuolo che tu hai quivi, io ti arei di già iscannata con questo pugnaletto, che dua o tre volte ci ho messo su le mane -. E con queste parole, con molte villane urtate, lei e 'l figliuolo pinsi fuor di casa.
LXII.
Considerato poi da me la ribalderia e possanza di quel mal pedante, giudicai che il mio meglio fussi di dare un poco di luogo a quella diavoleria, e la mattina di buon'ora, consegnato alla mia sorella gioie e cose per vicino a dumila scudi, montai a cavallo e me ne andai alla volta di Vinezia, e menai meco quel mio Bernardino di Mugello. E giunto che io fui a Ferrara, io scrissi alla Eccellenzia del Duca che se bene io me n'ero ito sanza esserne mandato, io ritornerei sanza esser chiamato. Di poi, giunto a Vinezia, considerato con quanti diversi modi la mia crudel fortuna mi straziava, niente di manco trovandomi sano e gagliardo mi risolsi di schermigliar con essa al mio solito. E in mentre andavo cosí pensando a' fatti miei, passandomi tempo per quella bella e ricchissima città, avendo salutato quel maraviglioso Tiziano pittore e Iacopo del Sansovino, valente scultore e architetto nostro fiorentino molto ben trattenuto dalla Signoria di Venezia, e per esserci conosciuti nella giovanezza in Roma e in Firenze come nostro fiorentino, questi duoi virtuosi mi feciono molte carezze. L'altro giorno a presso io mi scontrai in messer Lorenzo de' Medici, il quale subito mi prese per mano con la maggior raccoglienzia che si possa veder al mondo, perché ci eràmo cognosciuti in Firenze quando io facevo le monete al duca Lessandro, e di poi in Parigi, quando io ero al servizio del Re. Egli si tratteneva in casa di messer Giuliano Buonacorsi, e per non aver dove andarsi a passar tempo altrove sanza grandissimo suo pericolo, egli si stava piú del tempo in casa mia, vedendomi lavorare quelle grand'opere. E sí come io dico, per questa passtata conoscenzia, egli mi prese per mano e menòmi a casa sua, dov'era il signor Priore delli Strozzi, fratello del signor Pietro, e rallegrandosi, mi domandorno quanto io volevo soprastare in Venezia, credendosi che io me ne volessi ritornare in Francia. A' quali Signori io dissi che io mi ero partito di Fiorenze per una tale occasione sopra detta, e che fra dua o tre giorni io mi volevo ritornare a Fiorenze a servire il mio gran Duca. Quando io dissi queste parole, il signor Priore e messer Lorenzo mi si volsono con tanta rigidità, che io ebbi paura grandissima, e mi dissono: - Tu faresti il meglio a tornartene in Francia, dove tu sei ricco e conosciuto; che se tu torni a Firenze, tu perderai tutto quello che avevi guadagnato in Francia, e di Firenze non trarrai altro che dispiaceri -. Io non risposi alle parole loro, e partitomi l'altro giorno piú secretamente che io possetti, me ne tornai alla volta di Fiorenze, e intanto era maturato le diavolerie, perché io avevo scritto al mio gran Duca tutta l'occasione che mi aveva traportato a Venezia. E con la sua solita prudenzia e severità, io lo visitai senza alcuna cerimonia; stato alquanto con la detta severità, di poi piacevolmente mi si volse e mi domandò dove io ero stato. Al quale io risposi che il cuor mio mai non si era scostato un dito da Sua Eccellenzia illustrissima, se bene per qualche giuste occasioni e' mi era stato di necessità di menare un poco il mio corpo a zonzo. Allora faccendosi piú piacevole, mi cominciò a domandar di Vinezia e cosí ragionammo un pezzo; poi ultimamente mi disse che io attendessi a lavorare e che io gli finissi il suo Perseo. Cosí mi tornai a casa lieto e allegro, e rallegrai la mia famiglia, cioè la mia sorella con le sue sei figliuole, e ripreso l'opere mie, con quanta sollecitudine io potevo le tiravo innanzi.
LXIII.
E la prima opera che io gittai di bronzo fu quella testa grande, ritratto di Sua Eccellenzia, che io avevo fatta di terra nell'oreficerie, mentre che io avevo male alle stiene. Questa fu un'opera che piacque e io non la feci per altra causa se non per fare sperienzia delle terre da gittare il bronzo. E se bene io vedevo che quel mirabil Donatello aveva fatto le sue opere di bronzo, quale aveva gittate con la terra di Firenze, e' mi pareva che l'avessi condutte con grandissima difficultà; e pensando che venissi dal difetto della terra, innanzi che io mi mettessi a gittare il mio Perseo, io volsi fare queste prime diligenzie; per le quali trovai esser buona la terra, se bene non era stata bene intesa da quel mirabil Donatello, perché con grandissima difficultà vedevo condotte le sue opere. Cosí, come io dico di sopra, per virtú d'arte io composi la terra, la quale mi serví benissimo; e, sí come io dico, con essa gittai la detta testa; ma perché io non avevo ancora fatto la fornace, mi servi' della fornace di maestro Zanobi di Pagno, campanaio. E veduto che la testa era ben venuta netta, subito mi messi a fare una fornacetta nella bottega che mi aveva fatta il Duca, con mio ordine e disegno, nella propria casa che mi aveva donata; e subito fatto la fornace, con quanta piú sollecitudine io potevo, mi messi in ordine per gittare la statua della Medusa, la quale si è quella femmina scontorta che è sotto i piedi del Perseo. E per essere questo getto cosa difficilissima, io non volsi mancare di tutte quelle diligenzie che avevo imparato, acciò che non mi venissi fatto qualche errore; e cosí il primo getto ch'io feci in detta mia fornacina venne bene superlativo grado, ed era tanto netto ch'e' non pareva alli amici mia il dovere che io altrimenti la dovessi rinettare; la qualcosa hanno trovato certi Todeschi e Franciosi, quali dicono e si vantano di bellissimi secreti di gittare i bronzi senza rinettare; cosa veramente da pazzi; perché il bronzo, di poi che gli è gittato, bisogna riserarlo con i martelli e con i ceselli, sí come i maravigliosissimi antichi, e come hanno ancor fatto i moderni, dico quei moderni ch'hanno saputo lavorare il bronzo. Questo getto piacque assai a Sua Eccellenzia illustrissima, che piú volte lo venne a vedere sino a casa mia, dandomi grandissimo animo al ben fare. Ma possette tanto quella rabbiosa invidia del Bandinello, che, con tanta sollecitudine intorno alli orecchi di Sua Eccellenzia illustrissima, che gli fece pensare, che se bene io gittavo qualcuna di queste statue, che mai io non le metterei insieme, perché l'era in me arte nuova; e che Sua Eccellenzia doveva ben guardare a non gittare via i sua denari. Possetton tanto queste parole in quei gloriosi orecchi, che mi fu allentato alcuna spesa di lavoranti; di modo che io fui necessitato a risentirmi arditamente con Sua Eccellenzia: dove una mattina, aspettando quella nella via de' Servi, le dissi: - Signor mio, io non son soccorso d'i miei bisogni, di modo che io sospetto che Vostra Eccellenzia non diffidi di me; il perché di nuovo le dico che a me basta la vista di condur tre volte meglio quest'opera, che non fu il modello, sí come io vi ho promesso.
LXIV.
Avendo detto queste parole a Sua Eccellenzia, e conosciuto che le non facevan frutto nissuno, perché non ne ritraevo risposta, subito mi crebbe una stizza, insieme con una passione intollerabile, e di nuovo cominciai a riparlare al Duca e gli dissi: - Signor mio, questa città veramente è stata sempre la scuola delle maggior virtute; ma cognosciuto che uno s'è, avendo imparato qualche cosa, volendo accrescer gloria alla sua città e al suo glorioso Principe, gli è bene andare a operare altrove. E che questo, Signor mio, sia il vero, io so che l'Eccellenzia Vostra ha saputo chi fu Donatello, e chi fu il gran Leonardo da Vinci, e chi è ora il mirabil Michelagnol Buonarroti. Questi accrescono la gloria per le lor virtú all'Eccellenzia Vostra; per la qualcosa io ancora spero di far la parte mia; sí che, Signor mio, lasciatemi andare. Ma Vostra Eccellenzia avvertisca bene a non lasciare andare il Bandinello, anzi dateli sempre piú che lui non vi domanda; perché se costui va fuora, gli è tanto la ignoranzia sua prosuntuosa, che gli è atto a vituperare questa nobilissima Scuola. Or dàtimi licenzia, Signore, né domando altro delle mie fatiche sino a qui che la grazia di Vostra Eccellenzia illustrissima -. Vedutomi Sua Eccellenzia a quel modo resoluto, con un poco di sdegno mi si volse, dicendo: - Benvenuto, se tu hai voglia di finir l'opera, e' non si mancherà di nulla -. Allora io lo ringraziai, e dissi che altro desiderio non era il mio, se non di mostrare a quelli invidiosi che a me bastava la vista di condurre l'opera promessa. Cosí spiccatomi da Sua Eccellenzia, mi fu dato qualche poco di aiuto; per la qual cosa fui necessitato a metter mano alla borsa mia, volendo che la mia opera andassi un poco piú che di passo. E perché la sera io sempre me ne andavo a veglia nella guardaroba di Sua Eccellenzia, dove era Domenico e Gianpavolo Poggini, suo fratello, quali lavoravano un vaso di oro, che addietro s'è detto, per la Duchessa e una cintura d'oro; ancora Sua Eccellenzia m'aveva fatto fare un modellino d'un pendente, dove andava legato dentro quel diamante grande che li aveva fatto comperare Bernardone e Antonio Landi. E con tutto che io fuggissi di non voler far tal cosa, il Duca con tante belle piacevolezze mi vi faceva lavorare ogni sera in sino alle quattro ore. Ancora mi strigneva con piacevolissimi modi a far che io vi lavorassi ancora di giorno; alla qual cosa non volsi mai acconsentire; e per questo io credetti per cosa certa che Sua Eccellenzia si adirassi meco. E una sera in fra le altre, essendo giunto alquanto piú tardi che al mio solito, il Duca mi disse: - Tu sia il malvenuto -. Alle quali parole io dissi: - Signor mio, cotesto non è il mio nome, perché io ho nome Benvenuto; e perché io penso che l'Eccellenzia Vostra motteggi meco, io non entrerò in altro -. A questo il Duca disse che diceva da maledetto senno e non motteggiava e che io avvertissi bene quel che io facevo, perché gli era venuto alli orecchi che, prevalendomi del suo favore, io facevo fare or questo or quello. A queste parole io pregai Sua Eccellenzia illustrissima di farmi degno di dirmi solo un omo che io avevo mai fatto fare al mondo. Subito mi si volse in collera e mi disse: - Va' e rendi quello che tu hai di Bernardone: eccotene uno -. A questo io dissi: - Signor mio, io vi ringrazio, e vi priego mi facciate degno d'ascoltarmi quattro parole: egli è il vero che e' mi prestò un paio di bilance vecchie e dua ancudine e tre martelletti piccoli, le qual masserizie oggi son passati quindici giorni che io dissi al suo Giorgio da Cortona che mandassi per esse; il perché il detto Giorgio venne per esse lui stesso; e se mai Vostra Eccellenzia illustrissima truova, che dal di' che io nacqui in qua, io abbia mai nulla di quello di persona in cotesto modo, se bene in Roma o in Francia, faccia intender da quelli che li hanno riferite quelle cose o da altri; e trovando il vero, mi castighi a misura di carboni -. Vedutomi il Duca in grandissima passione, come Signor discretissimo e amorevole mi si volse e disse: - E' non si dice a quelli che non fanno li errori; sí che, se l'è come tu di', io ti vedrò sempre volentieri, come ho fatto per il passato -. A questo io dissi: - Sappi l'Eccellenzia Vostra che le ribalderie di Bernardone mi sforzano a domandarla e pregarla, che quella mi dica quel che la spese nel diamante grande, punta schericata: perché io spero mostrarle perché questo male omaccio cerca mettermivi in disgrazia -. Allora Sua Eccellenzia mi disse: - Il diamante mi costò 25 mila ducati: perché me ne domandi tu? - Perché, Signor mio, il tal dí, alle tal'ore, in sul canto di Mercato nuovo, Antonio di Vettorio Landi mi disse che io cercassi di far mercato con Vostra Eccellenzia illustrissima, e di prima domanda ne chiese sedici mila ducati: ora Vostra Eccellenzia sa quel che la l'ha comperato. E che questo sia il vero, domandate ser Domenico Poggini e Giampavolo suo fratello, che son qui; che io lo dissi loro subito, e da poi non ho mai piú parlato, perché l'Eccellenzia Vostra disse che io non me ne intendevo; onde io pensavo che quella lo volessi tenere in riputazione. Sappiate, Signor mio, che io me ne intendo; e quanto all'altra parte fo professione d'esser uomo da bene quanto altro che sia nato al mondo, e sia chi vuole. Io non cercherò di rubarvi otto o dieci mila ducati per volta, anzi mi ingegnerò guadagnarli con le mie fatiche: e mi fermai a servir Vostra Eccellenzia per iscultore, orefice e maestro di monete; e di riferirle delle cose d'altrui, mai. E questa che io le dico adesso, la dico per difesa mia, e non ne voglio il quarto: e gnene dico presente tanti uomini dabbene che son qui, acciò Vostra Eccellenzia illustrissima non creda a Bernardone ciò che dice -. Subito il Duca si levò in collera e mandò per Bernardone, il qual fu necessitato a correre sino a Vinezia, lui e Antonio Landi; quale Antonio mi diceva che non aveva volsuto dir quel diamante. Gli andorno e tornorno da Vinezia, e io trovai il Duca, e dissi: - Signore, quel che io vi dissi è vero, e quel vi disse delle masserizie Bernardone non fu vero; e faresti bene a farne la pruova, e io mi avviarò al bargello -. A queste parole il Duca mi si volse, dicendomi: - Benvenuto, attendi a esser omo da bene, come hai fatto per il passato, e non dubitar mai di nulla -. La cosa andò in fumo e io non ne senti' mai piú parlare. Attesi a finire il suo gioiello; e portatolo un giorno finito alla Duchessa, lei stessa mi disse che stimava tanto la mia fattura quanto il diamante, che li aveva fatto comperar Bernardaccio, e volse che io gnene appiccassi al petto di mia mano, e mi dette uno spilletto grossetto in mano, e con quello gnene appiccai, e mi parti' con molta sua buona grazia. Da poi io intesi che e' l'avevano fatto rilegare a un tedesco o altro forestiero, salvo 'l vero, perché il detto Bernardone disse che 'l detto diamante mostrerrebbe meglio legato con manco opera.

 

 

 

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Ultimo Aggiornamento:13/07/2005 23.20