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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

LA VITA DI BENVENUTO CELLINI FIORENTINO

scritta (per lui medesimo) in Firenze

LIBRO SECONDO

[I] [II] [III] [IV] [V] [VI] [VII] [VIII] [IX] [X] [XI] [XII] [XIII] [XIV] [XV] [XVI][XVII] [XVIII] [XIX] [XX] [XXI] [XXII] [XXIII] [XXIV] [XXV] [XXVI] [XXVII] [XXVIII] [XXIX] [XXX] [XXXI] [XXXII]

 

I.
Standomi innel palazzo del sopraditto cardinal di Ferrara, molto ben veduto universalmente da ogniuno, e molto maggiormente visitato che prima non ero fatto, maravigliandosi ogni uomo piú dello essere uscito e vivuto infra tanti ismisurati affanni; in mentre che io ripigliavo il fiato, ingegnandomi di ricordarmi dell'arte mia, presi grandissimo piacere di riscrivere questo soprascritto capitolo. Di poi, per meglio ripigliar le forze, presi per partito di andarmi a spasso all'aria qualche giorno, e con licenzia e cavagli del mio buon Cardinale, insieme con dua giovani romani, che uno era lavorante dell'arte mia; l'altro suo compagno non era de l'arte, ma venne per tenermi compagnia. Uscito di Roma, me ne andai alla volta di Tagliacozze, pensando trovarvi Ascanio, allevato mio sopraditto; e giunto in Tagliacozze, trovai Ascanio ditto insieme con suo padre e frategli e sorelle e matrigna. Dalloro per dua giorni fu' carezzato, che impossibile saria il dirlo: partimmi per alla volta di Roma, e meco ne menai Ascanio. Per la strada cominciammo a ragionare dell'arte, di modo che io mi struggevo di ritornare a Roma, per ricominciare le opere mie. Giunti che noi fummo a Roma, subito mi accomodai da lavorare; e ritrovato un bacino d'argento, il quale avevo cominciato per il Cardinale innanzi che io fussi carcerato: insieme col ditto bacino si era cominciato un bellissimo boccaletto: questo mi fu rubato con molta quantità di altre cose di molto valore. Innel detto bacino facevo lavorare Pagolo sopraditto. Ancora ricominciai il boccale, il quale era composto di figurine tonde e di basso rilievo; e similmente era composto di figure tonde e di pesci di basso rilievo il detto bacino, tanto ricco e tanto bene accomodato, che ogniuno che lo vedeva restava maravigliato, sí per la forza del disegno e per la invenzione e per la pulizia che usavono quei giovani in su dette opere. Veniva il Cardinale ogni giorno almanco dua volte a starsi meco, insieme con messer Luigi Alamanni e con messer Gabbriel Cesano, e quivi per qualche ora si passava lietamente tempo. Non istante che io avessi assai da fare, ancora mi abbundava di nuove opere; e mi dette a fare il suo suggello pontificale, il quale fu di grandezza quanto una mana d'un fanciullo di dodici anni; e in esso suggello intagliai dua istoriette in cavo; che l'una fu quando san Giovanni predicava nel diserto, l'altra quando sant'Ambruogio scacciava quelli Ariani, figurato in su'n un cavallo con una sferza in mano, con tanto ardire e buon disegno, e tanto pulitamente lavorato, che ogniuno diceva che io avevo passato quel gran Lautizio il quale faceva solo questa professione; e il Cardinale lo paragonava per propria boria con gli altri suggelli dei cardinali di Roma, quali erano quasi tutti di mano del sopraditto Lautizio.
II.
Ancora m'aggiunse il Cardinale, insieme con quei dua sopra ditti, che io gli dovessi fare un modello d'una saliera; ma che arebbe voluto uscir dell'ordinario di quei che avean fatte saliere. Messer Luigi, sopra questo, approposito di questo sale, disse molte mirabil cose; messer Gabbriello Cesano ancora lui in questo proposito disse cose bellissime. Il Cardinale, molto benigno ascoltatore e saddisfatto oltramodo delli disegni, che con parole aveano fatto questi dua gran virtuosi, voltosi a me disse: - Benvenuto mio, il disegno di messer Luigi e quello di messer Gabbriello mi piacciono tanto, che io non saprei qual mi tòrre l'un de' dua; però a te rimetto, che l'hai a mettere in opera -. Allora io dissi: - Vedete, Signori, di quanta importanza sono i figliuoli de' re e degli imperatori, e quel maraviglioso splendore e divinità che in loro apparisce. Niente di manco se voi dimandate un povero umile pastorello, a chi gli ha piú amore e piú affezione, o a quei detti figliuoli o ai sua, per cosa certa dirà d'avere piú amore ai sua figliuoli. Però ancora io ho grande amore ai miei figliuoli, che di questa mia professione partorisco: sí che 'l primo che io vi mostrerrò, Monsignor reverendissimo mio patrone, sarà mia opera e mia invenzione; perché molte cose son belle da dire, che faccendole poi non s'accompagnano bene in opera -. E voltomi a que' dua gran virtuosi, dissi: - Voi avete detto e io farò -. Messer Luigi Alamanni allora ridendo, con grandissima piacevolezza, in mio favore aggiunse molte virtuose parole: e allui s'avvenivano, perché gli era bello d'aspetto e di proporzion di corpo, e con suave voce. Messer Gabbriello Cesano era tutto il rovescio, tanto brutto e tanto dispiacevole; e cosí sicondo la sua forma parlò. Aveva messer Luigi con le parole disegnato che io facessi una Venere con un Cupido, insieme con molte galanterie, tutte a proposito; messer Gabbriello aveva disegnato che io facessi una Amfitrite moglie di Nettunno, insieme con di quei Tritoni di Nettunno e molte altre cose assai belle da dire, ma non da fare. Io feci una forma ovata di grandezza di piú d'un mezzo braccio assai bene, quasi dua terzi, e sopra detta forma, sicondo che mostra il Mare abbracciarsi con la Terra, feci dua figure grande piú d'un palmo assai bene, le quale stavano a sedere entrando colle gambe l'una nell'altra, sí come si vede certi rami di mare lunghi che entran nella terra; e in mano al mastio Mare messi una nave ricchissimamente lavorata: innessa nave accomodatamente e bene stava di molto sale; sotto al detto avevo accomodato quei quattro cavalli marittimi: innella destra del ditto Mare avevo messo il suo tridente. La Terra avevo fatta una femmina tanto di bella forma quanto io avevo potuto e saputo, bella e graziata; e in mano alla ditta avevo posto un tempio ricco e adorno, posato in terra; e lei in sun esso appoggiava con la ditta mano; questo avevo fatto per tenere il pepe. Nell'altra mano posto un corno di dovizia, addorno con tutte le bellezze che io sapevo al mondo. Sotto questa Iddea, e in quella parte che si mostrava esser terra, avevo accomodato tutti quei piú bei animali che produce la terra. Sotto la parte del Mare avevo figurato tutta la bella sorte di pesci e chiocciolette, che comportar poteva quel poco ispazio: quel resto de l'ovato, nella grossezza sua, feci molti ricchissimi ornamenti. Poi aspettato il Cardinale, qual venne con quelli dua virtuosi, trassi fuora questa mia opera di cera: alla quale con molto romore fu il primo messer Gabbriel Cesano, e disse: - Questa è un'opera da non si finire innella vita di dieci uomini; e voi, Monsignore reverendissimo, che la vorresti, a vita vostra non l'aresti mai; però Benvenuto v'ha voluto mostrare de' sua figliuoli, ma non dare, come facevàno noi, i quali dicevamo di quelle cose che si potevano fare; e lui v'ha mostro di quelle che non si posson fare -. A questo, messer Luigi Alamanni prese la parte mia. [Il Cardinale disse] che non voleva entrare in sí grande inpresa. Allora io mi volsi a loro, e dissi: - Monsignore reverendissimo, e a voi pien di virtú, dico, che questa opera io spero di farla a chi l'arà avere, e ciascun di voi la vedrete finita piú ricca l'un cento che 'l modello; e spero che ci avanzi ancora assai tempo da farne di quelle molto maggiori di questa -. Il Cardinale disse isdegnato: - Non la faccendo al Re, dove io ti meno, non credo che ad altri la possa fare - e mostratomi le lettere, dove il Re in un capitolo iscriveva che presto tornassi menando seco Benvenuto, io alzai le mane al cielo dicendo: - Oh quando verrà questo presto? - Il Cardinale disse che io dessi ordine e spedissi le faccende mie, che io avevo in Roma, in fra dieci giorni.
III.
Venuto il tempo della partita, mi donò un cavallo bello e buono; e lo domandava Tornon, perché il cardinal Tornon l'aveva donato a lui. Ancora Pagolo e Ascanio, mia allevati, furno provisti di cavalcature. Il Cardinale divise la sua Corte, la quale era grandissima: una parte piú nobile ne menò seco: con essa fece la via della Romagna, per andare a visitare la Madonna del Loreto, e di quivi poi a Ferrara, casa sua; l'altra parte dirizzò per la volta di Firenze. Questa era la maggior parte; ed era una gran quantità, con la bellezza della sua cavalleria. A me disse che se io volevo andar sicuro, che io andassi seco: quando che no, che io portavo pericolo della vita. Io detti intenzione a Sua Signoria reverendissima di andarmene seco; e cosí come quel ch'è ordinato dai Cieli convien che sia, piacque a Dio che mi tornò in memoria la mia povera sorella carnale, la quale aveva auto tanti gran dispiaceri de' miei gran mali. Ancora mi tornò in memoria le mie sorelle cugine, le quali erano a Viterbo monache, una badessa e l'altra camarlinga, tanto che l'eran governatrice di quel ricco monisterio; e avendo aùto per me tanti grevi affanni e per me fatto tante orazione, che io mi tenevo certissimo per le orazioni di quelle povere verginelle d'avere impetrato la grazia da Dio della mia salute. Però venutemi tutte queste cose in memoria, mi volsi per la volta di Firenze; e dove io sarei andato franco di spese o col Cardinale o coll'altro suo traino, io me ne volsi andare da per me; e m'accompagnai con un maestro di oriuoli eccellentissimo, che si domandava maestro Cherubino, molto mio amico. Trovandoci a caso, facevamo quel viaggio molto piacevole insieme. Essendomi partito el lunedí santo di Roma, ce ne venimmo soli noi tre, e a Monteruosi trovai la ditta compagnia; e perché io avevo dato intenzione di andarmene col Cardinale, non pensavo che nissuno di quei miei nimici m'avessino aùto a vigilare altrimenti. Certo che io capitavo male a Monteruosi, perché innanzi a noi era istato mandato una frotta di uomini bene armati, per farmi dispiacere; e volse Idio che in mentre che noi desinavamo, loro, che avevano aùto indizio che io me ne venivo sanza il traino del Cardinale, erano messisi innordine per farmi male. In questo appunto sopraggiunse il detto traino del Cardinale, e con esso lietamente salvo me ne andai insino a Viterbo; ché da quivi in là io non vi conoscevo poi pericolo, e maggiormente andavo innanzi sempre parecchi miglia; e quegli uomini migliori che erano in quel traino, tenevano molto conto di me. Arrivai lo Iddio grazia sano e salvo a Viterbo, e quivi mi fu fatto grandissime carezze da quelle mie sorelle e da tutto il monisterio.
IV.
Partitomi di Viterbo con i sopraddetti, venimmo via cavalcando, quando innanzi e quando indietro al ditto traino del Cardinale, di modo che il giovedí santo a ventidua ore ci trovammo presso Siena a una posta; e veduto io che v'era alcune cavalle di ritorno, e che quei delle poste aspettavano di darle a qualche passeggiere, per qualche poco guadagno, che alla posta di Siena le rimenassi; veduto questo, io dismontai del mio cavallo Tornon, e messi in su quella cavalla il mio cucino e le staffe, e detti un giulio a un di quei garzoni delle poste. Lasciato il mio cavallo a' mie' giovani che me lo conducessino, subito innanzi m'avviai per giugnere in Siena una mezz'ora prima, sí per vicitare alcuno mio amico, e per fare qualche altra mia faccenda: però, se bene io venni presto, io non corsi la detta cavalla. Giunto che io fui in Siena, presi le camere all'osteria, buone che ci faceva di bisogno per cinque persone, e per il garzon de l'oste rimandai la detta cavalla alla posta, che stava fuori della porta a Camollía; e in su detta cavalla m'avevo isdementicato le mie staffe e il mio cucino. Passammo la sera del giovedí santo molto lietamente: la mattina poi, che fu il venerdí santo, io mi ricordai delle mie staffe e del mio cucino. Mandato per esso, quel maestro delle poste disse che non me lo voleva rendere, perché io avevo corso la sua cavalla. Piú volte si mandò innanzi e indietro e il detto sempre diceva di non me le voler rendere, con molte ingiuriose e insopportabil parole; e l'oste, dove io ero alloggiato, mi disse: - Voi n'andate bene se egli non vi fa altro che non vi rendere il cucino e le staffe - e aggiunse dicendo: - Sappiate che quello è il piú bestial uomo che avessi mai questa città; e ha quivi duoi figliuoli uomini, soldati bravissimi, piú bestiali di lui; sí che ricomperate quel che vi bisogna, e passate via sanza dirgli niente -. Ricomperai un paio di staffe, pur pensando con amorevol parole di riavere il mio buon cucino: e perché io ero molto bene a cavallo, e bene armato di giaco e maniche, e con un mirabile archibuso all'arcione, non mi faceva spavento quelle gran bestialità che colui diceva che aveva quella pazza bestia. Ancora avevo avezzo quei mia giovani a portare giaco e maniche, e molto mi fidavo di quel giovane romano che mi pareva che non se lo cavassi mai, mentre che noi stavamo in Roma. Ancora Ascanio, ch'era pur giovanetto, ancora lui lo portava: e per essere il venerdí santo, mi pensavo che la pazzia de' pazzi dovesse pure avere qualche poco di feria. Giugnemmo alla ditta porta a Camollía; per la qual cosa io viddi e cognobbi, per i contrasegni che m'eran dati, per esser cieco de l'occhio manco, questo maestro delle poste. Fattomigli incontro, e lasciato da banda quei mia giovani e quei compagni, piacevolmente dissi: - Maestro delle poste, se io vi fo sicuro che io non ho corso la vostra cavalla, perché non sarete voi contento di rendermi il mio cucino e le mie staffe? - A questo lui rispose veramente in quel modo pazzo, bestiale che m'era stato detto. Per la qual cosa io gli dissi: - Come non siate voi cristiano? O volete voi 'n un venerdí santo scandalizzare e voi e me? - Disse che non gli dava noia o venerdí santo o venerdí diavolo, e che, se io non mi gli levavo d'inanzi, con uno spuntone che gli aveva preso, mi traboccherebbe in terra insieme con quell'archibuso che io avevo in mano. A queste rigorose parole s'accostò un gentiluomo vecchio, sanese, vestito alla civile, il qual tornava da far di quelle divozione che si usano in un cotal giorno; e avendo sentito di lontano benissimo tutte le mie ragione, arditamente s'accostò a riprendere il detto maestro delle poste, pigliando la parte mia, e garriva li sua dua figliuoli perché e' non facevano il dovere ai forestieri che passavano, e che a quel modo e' facevano contro a Dio, e davano biasimo alla città di Siena. Quei dua giovani suoi figliuoli, scrollato il capo sanza dir nulla, se ne andorno in là, nel drento della lor casa. Lo arrabbiato padre invelenito dalle parole di quello onorato gentiluomo, subito con vituperose bestemmie abbassò lo spuntone, giurando che con esso mi voleva ammazzare a ogni modo. Veduto questa bestial resoluzione, per tenerlo alquanto indietro, feci segno di mostrargli la bocca del mio archibuso. Costui piú furioso gittandomisi addosso, l'archibuso che io avevo in mano, se bene in ordine per la mia difesa, non l'avevo abbassato ancora tanto, che fussi arrincontro di lui, anzi era colla bocca alta; e da per sé dette fuoco. La palla percosse nell'arco della porta, e sbattuta indietro, colse nella canna della gola del detto, il quale cadde in terra morto. Corsono i dua figliuoli velocemente, e preso l'arme da un rastrello uno, l'altro prese lo spuntone del padre; e gittatisi addosso a quei mia giovani, quel figliuolo che aveva lo spuntone investí il primo Pagolo romano sopra la poppa manca; l'altro corse addosso a un milanese, che era in nostra compagnia, il quale aveva viso di pazzo: e non valse raccomandarsi dicendo che non aveva che far meco, e difendendosi dalla punta d'una partigiana con un bastoncello che gli aveva in mano: con il quale non possette tanto ischermire che fu investito un poco nella bocca. Quel messer Cherubino era vestito da prete, e se bene egli era maestro di oriuoli eccellentissimo, come io dissi, aveva aùto benefizii dal Papa con buone entrate. Ascanio, se bene egli era armato benissimo, non fece segno di fuggire, come aveva fatto quel milanese; di modo che questi dua non furno tocchi. Io, che avevo dato di piè al cavallo e in mentre che lui galoppava, prestamente avevo rimesso in ordine e carico il mio archibuso e tornavo arrovellatoindietro, parendomi aver fatto da motteggio, per voler fare daddovero, e pensavo che quei mia giovani fussino stati ammazzati, resoluto andavo per morire anch'io. Non molti passi corse il cavallo indietro, che io riscontrai che inverso me venivano, ai quali io domandai se gli avevano male. Rispose Ascanio, che Pagolo era ferito d'uno spuntone a morte. Allora io dissi: - O Pagolo figliuol mio! Addunche lo spuntone ha sfondato il giaco? - No - disse - ché il giaco avevo messo nella bisaccia questa mattina -. Addunche e' giachi si portano per Roma per mostrarsi bello alle dame? e inne' luoghi pericolosi, dove fa mestiero avergli, si tengono alla bisaccia? Tutti e' mali che tu hai, ti stanno molto bene e se' causa che io voglio andare a morire quivi anch'io or ora - e in mentre che io dicevo queste parole, sempre tornavo indietro gagliardamente. Ascanio e lui mi pregavono che io fussi contento per l'amor de Dio salvarmi e salvargli, perché sicuro s'andava alla morte. In questo scontrai quel messer Cherubino, insieme con quel milanese ferito: subito mi sgridò, dicendo che nissuno non aveva male, e che il colpo di Pagolo era ito tanto ritto, che non era isfondato; e che quel vecchio delle poste era restato in terra morto, e che i figliuoli, con altre persone assai, s'erano messi in ordine, e che al sicuro ci arebbon tagliati tutti a pezzi: - Sicché, Benvenuto, poiché la fortuna ci ha salvati da quella prima furia, non la tentar piú, ché la non ci salverebbe -. Allora io dissi: - Da poi che voi sete contenti cosí, ancora io son contento - e voltomi a Pagolo e Ascanio, dissi loro: - Date di piè a' vostri cavalli, e galoppiamo insino a Staggia sanza mai fermarci, e quivi saremo sicuri -. Quel milanese ferito disse: - Che venga il canchero ai peccati! ché questo male che io ho, fu solo per il peccato d'un po' di minestra di carne che io mangiai ieri, non avendo altro che desinare -. Con tutte queste gran tribulazioni che noi avevamo, fummo forzati a fare un poco di segno di ridere di quella bestia e di quelle sciocche parole che lui aveva detto. Demmo di piedi a' cavagli, e lasciammo messer Cherubino e 'l milanese, che a loro agio se ne venissino.
V.
Intanto e' figliuoli del morto corsono al Duca di Melfi, che dessi loro parecchi cavagli leggieri, per raggiugnerci e pigliarci. Il detto Duca, saputo che noi eramo degli uomini del cardinale di Ferrara, non volse dare né cavagli né licenzia. Intanto noi giugnemmo a Staggia, dove ivi noi fummo sicuri. Giunti in Istaggia, cercammo d'un medico, il meglio che in quel luogo si poteva avere: e fatto vedere il detto Pagolo, la ferita andava pelle pelle, e cognobbi che non arebbe male. Facemmo mettere in ordine da desinare. Intanto comparse messer Cherubino e quel pazzo di quel milanese, che continuamente mandava il canchero alle quistione, e diceva d'essere iscomunicato, perché non aveva potuto dire in quella santa mattina un sol Paternostro. Per essere costui brutto di viso, e la bocca aveva grande per natura; da poi per la ferita che in essa aveva auta gli era cresciuta la bocca piú di tre dita; e con quel suo giulío parlar milanese, e con essa lingua isciocca, quelle parole che lui diceva ci davano tanta occasione di ridere, che in cambio di condolerci della fortuna, non possevamo fare di non ridere a ogni parola che costui diceva. Volendogli il medico cucire quella ferita della bocca, avendo fitto di già tre punti, disse al medico che sostenessi alquanto, ché non arebbe voluto che per qualche nimicizia e' gliene avessi cucita tutta: e messe mano a un cucchiaio, e diceva che voleva che lui gnene lasciassi tanto aperta, che quel cucchiaio v'entrassi, acciò che potessi tornar vivo alle sue brigate. Queste parole che costui diceva con certi scrollamenti di testa, davano sí grande occasione di ridere, che in cambio di condolerci della nostra mala fortuna, noi non restammo mai di ridere; e cosí sempre ridendo ci conducemmo a Firenze. Andammo a scavalcare a casa della mia povera sorella, dove noi fummo dal mio cognato e dallei molto maravigliosamente carezzati. Quel messer Cherubino e 'l milanese andorno ai fatti loro. Noi restammo in Firenze per quattro giorni, inne' quali si guarí Pagolo; ma era ben gran cosa, che continuamente che e' si parlava di quella bestia del milanese, ci moveva a tante risa, quanto ci moveva a pianto l'altre disgrazie avvenute; di modo che continuamente in un tempo medesimo si rideva e piagneva. Facilmente guarí Pagolo: di poi ce ne andammo alla volta di Ferrara, e il nostro Cardinale trovammo che ancora non era arrivato a Ferrara, e aveva inteso tutti e' nostri accidenti; e condolendosi disse: - Io priego Idio che mi dia tanta grazia che io ti conduca vivo a quel Re che io t'ho promesso -. Il ditto Cardinale mi consegnò in Ferrara un suo palazzo, luogo bellissimo, dimandato Belfiore: confina con le mura della città: quivi mi fece acconciare da lavorare. Di poi dette ordine di partirsi sanza me alla volta di Francia; e veduto che io restavo molto mal contento, mi disse: - Benvenuto, tutto quello che io fo si è per la salute tua; perché innanzi che io ti levi della Italia, io voglio che tu sappia benissimo in prima quel che tu vieni a fare in Francia: in questo mezzo sollecita il piú che tu puoi questo mio bacino e boccaletto; e tutto quel che tu hai di bisogno lascerò ordine a un mio fattore che te lo dia -. E partitosi, io rimasi molto mal contento, e piú volte ebbi voglia di andarmi con Dio: ma sol mi teneva quell'avermi libero da papa Pagolo, perché del resto io stavo mal contento e con mio gran danno. Pure, vestitomi di quella gratitudine che meritava il benifizio ricevuto, mi disposi aver pazienzia e vedere che fine aveva da 'vere questa faccenda; e messomi a lavorare con quei dua mia giovani, tirai molto maravigliosamente innanzi quel boccale e quel bacino. Dove noi eramo alloggiati era l'aria cattiva, e per venire verso la state, tutti ci ammalammo un poco. In queste nostre indisposizione andavamo guardando il luogo dove noi eramo, il quale era grandissimo, e lasciato salvatico quasi un miglio di terreno scoperto, innel quale era tanti pagoni nostrali, che come uccei salvatici ivi covavano. Avvedutomi di questo, acconciai il mio scoppietto con certa polvere senza far romore; di poi appostavo di quei pagoni giovani, e ogni dua giorni io ne ammazzavo uno, il quale larghissimamente ci nutriva, ma di tanta virtú che tutte le malattie da noi si partirno: e attendemmo quei parecchi mesi lietissimamente a lavorare, e tirammo innanzi quel boccale e quel bacino, quale era opera che portava molto gran tempo.
VI.
In questo tempo il Duca di Ferrara s'accordò con papa Pagolo romano certe lor differenze antiche, che gli avevano di Modana e di certe altre città; le quali, per averci ragione la Chiesa, il Duca fece questa pace col ditto Papa con forza di danari: la qual quantità fu grande: credo che la passassi piú di trecento mila ducati di Camera. Aveva il Duca in questo tempo un suo tesauriere vecchio, allievo del duca Alfonso suo padre, il quale si domandava messer Girolamo Giliolo. Non poteva questo vecchio sopportare questa ingiuria di questi tanti danari che andavano al Papa, e andava gridando per le strade, dicendo: - Il Duca Alfonso suo padre con questi danari gli arebbe piú presto con essi tolto Roma, che mostratigliele - e non v'era ordine che gli volessi pagare. All'ultimo poi sforzato il Duca a fargnene pagare, venne a questo vecchio un flusso sí grande di corpo, che lo condusse vicino alla morte. In questo mezzo che lui stava ammalato, mi chiamò il ditto Duca e volse che io lo ritraessi, la qual cosa io feci innun tondo di pietra nera, grande quanto un taglieretto da tavola. Piaceva al Duca quelle mie fatiche insieme con molti piacevoli ragionamenti; le qual dua cose ispesso causavano che quattro e cinque ore il manco istava attento a lasciarsi ritrarre, e alcune volte mi faceva cenare alla sua tavola. In ispazio d'otto giorni io gli fini' questo ritratto della sua testa: di poi mi comandò che io facessi il rovescio; il quale si era figurata per la Pace una femmina con una faccellina in mano, che ardeva un trufeo d'arme: la quale io feci, questa ditta femmina, in istatura lieta, con panni sottilissimi, di bellissima grazia; e sotto i piedi di lei figurai afflitto e mesto, e legato con molte catene, il disperato Furore. Questa opera io la feci con molto istudio, e la detta mi fece grandissimo onore. Il Duca non si poteva saziare di chiamarsi sattisfatto, e mi dette le lettere per la testa di Sua Eccellenzia e per il rovescio. Quelle del rovescio dicevano "Pretiosa in conspectu Domini". Mostrava che quella pace s'era venduta per prezzo di danari.
VII.
In questo tempo, che io messi a fare questo ditto rovescio, il Cardinale m'aveva scritto dicendomi che io mi mettessi in ordine, perché il Re m'aveva domandato: e che alle prime lettere sue s'arebbe l'ordine di tutto quello che lui m'aveva promesso. Io feci incassare il mio bacino e 'l mio boccale bene acconcio; e l'avevo di già mostro al Duca. Faceva le faccende del Cardinale un gentiluomo ferrarese, il qual si chiamava per nome messer Alberto Bendedio. Questo uomo era stato in casa dodici anni sanza uscirne mai, causa d'una sua infirmità. Un giorno con grandissima prestezza mandò per me, dicendomi che io dovessi montare in poste subito per andare a trovare il Re, il quale con grand'istanzia m'aveva domandato, pensando che io fussi in Francia. Il Cardinale per iscusa sua aveva detto che io ero restato a una sua badia in Lione, un poco ammalato, ma che farebbe che io sarei presto da Sua Maestà; però faceva questa diligenza che io corressi in poste. Questo messer Alberto era grande uomo da bene, ma era superbo, e per la malattia superbo insopportabile; e sí come io dico, mi disse che io mi mettessi in ordine presto, per correre in poste. Al quale io dissi che l'arte mia non si faceva in poste, e che se io vi avevo da 'ndare, volevo andarvi a piacevol giornate e menar meco Ascanio e Pagolo, mia lavoranti, i quali avevo levati di Roma; e di piú volevo un servitore con esso noi a cavallo, per mio servizio, e tanti danari che bastassino a condurmivi. Questo vecchio infermo con superbissime parole mi rispose, che in quel modo che io dicevo, e non altrimenti, andavano i figliuoli del Duca. Allui subito risposi che i figliuoli de l'arte mia andavano in quel modo che io avevo detto; e per non essere stato mai figliuol di duca, quelli non sapevo come s'andassino; e che se gli usava meco quelle istratte parole ai mia orecchi, che io non v'andrei in modo nessuno, sí per avermi mancato il Cardinale della fede sua e, arrotomi poi queste villane parole, io mi risolverei sicuramente di non mi voler impacciare con ferraresi; e voltogli le stiene, io brontolando e lui bravando, mi parti'. Andai a trovare il sopraditto Duca con la sua medaglia finita; il quale mi fece le piú onorate carezze che mai si facessino a uomo del mondo: e aveva commesso a quel suo messer Girolamo Giliolo, che per quelle mie fatiche trovassi uno anello d'un diamante di valore di ducento scudi, e che lo dessi al Fiaschino suo cameriere, il quale me lo dessi. Cosí fu fatto. Il ditto Fiaschino, la sera che il giorno gli avevo dato la medaglia, a un'ora di notte mi porse uno anello drentovi un diamante, il quale aveva gran mostra; e disse queste parole da parte del suo Duca: che quella unica virtuosa mano, che tanto bene aveva operato, per memoria di Sua Eccellenzia con quel diamante si adornassi la ditta mano. Venuto il giorno, io guardai il ditto anello, il quale era un diamantaccio sottile, il valore d'un dieci scudi in circa. E perché quelle tante meravigliose parole, che quel Duca m'aveva fatto usare, io, che non volsi che le fussino vestite di un cosí poco premio, pensando il Duca d'avermi ben sattisfatto; e io che m'immaginai che la venissi da quel suo furfante tesauriere, detti l'anello a un mio amico, che lo rendessi al cameriere Fiaschino, in ogni modo che egli poteva. Questo fu Bernardo Saliti, che fece questo uffizio mirabilmente. Il detto Fiaschino subito mi venne a trovare con grandissime sclamazioni, dicendomi che se il Duca sapeva che io gli rimandassi un presente in quel modo, che lui cosí benignamente m'aveva donato, che egli l'arebbe molto per male, e forse me ne potrei pentire. Al ditto risposi, che l'anello che Sua Eccellenzia m'avea donato, era di valore d'un dieci scudi in circa, e che l'opera che io avevo fatta a Sua Eccellenzia valeva piú di ducento; ma per mostrare a Sua Eccellenzia che io stimavo l'atto della sua gentilezza, che solo mi mandassi uno anello del granchio, di quelli che vengon d'Inghilterra che vagliono un carlino in circa; quello io lo terrei per memoria di Sua Eccellenzia in sin che io vivessi, insieme con quelle onorate parole che Sua Eccellenzia m'aveva fatto porgere; perché io facevo conto che lo splendore di Sua Eccellenzia avessi largamente pagato le mie fatiche, dove quella bassa gioia me le vituperava. Queste parole furno di tanto dispiacere al Duca, che egli chiamò quel suo detto tesauriere, e gli disse villania, la maggiore che mai pel passato lui gli avessi detto; e a me fe' comandare, sotto pena della disgrazia sua, che io non partissi di Ferrara se lui non me lo faceva intendere; e al suo tesauriere comandò che mi dessi un diamante che arrivassi a trecento scudi. L'avaro tesauriere ne trovò uno che passava di poco sessanta scudi, e dette ad intendere che il ditto diamante valeva molto piú di dugento.
VIII.
Intanto il sopra ditto messer Alberto aveva ripreso la buona via, e m'aveva provisto di tutto quello che io avevo domandato. Eromi quel dí disposto di partirmi di Ferrara a ogni modo; ma quel diligente cameriere del Duca aveva ordinato col ditto messer Alberto, che per quel dí io non avessi cavalli. Avevo carico un mulo di molte mia bagaglie, e con esse avevo incassato quel bacino e quel boccale che fatto avevo per il Cardinale. In questo sopraggiunse un gentiluomo ferrarese, il quale si domandava per nome messer Alfonso de' Trotti. Questo gentiluomo era molto vecchio e era persona affettatissima, e si dilettava delle virtú grandemente; ma era una di quelle persone che sono difficilissime a contentare; e se per aventura elle s'abbattono mai a vedere qualche cosa che piaccia loro, se la dipingono tanto eccellente nel cervello, che mai piú pensono di rivedere altra cosa che piaccia loro. Giunse questo messer Alfonso; per la qual cosa messer Alberto gli disse: - A me sa male che voi sete venuto tardi: perché di già s'è incassato e fermo quel boccale e quel bacino che noi mandiamo al Cardinale di Francia -. Questo messer Alfonso disse che non se ne curava; e accennato a un suo servitore, lo mandò a casa sua: il quale portò un boccale di terra bianca, di quelle terre di Faenza, molto dilicatamente lavorato. In mentre che il servitore andò e tornò, questo messer Alfonso diceva al ditto messer Alberto: - Io vi voglio dire per quel che io non mi curo di vedere mai piú vasi: questo si è che una volta io ne vidi uno d'argento, antico, tanto bello e tanto maraviglioso, che la immaginazione umana non arriverebbe a pensare a tanta eccellenzia; e però io non mi curo di vedere altra cosa tale, acciò che la non mi guasti quella maravigliosa inmaginazione di quello. Questo si fu un gran gentiluomo virtuoso, che andò a Roma per alcune sue faccende e segretamente gli fu mostro questo vaso antico; il quale per vigore d'una gran quantità di scudi corroppe quello che l'aveva, e seco ne lo portò in queste nostre parti; ma lo tien ben segreto, che 'l Duca non lo sappia; perché arebbe paura di perderlo a ogni modo -. Questo messer Alfonso, in mentre che diceva queste sue lunghe novellate, egli non si guardava da me, che ero alla presenza, perché non mi conosceva. Intanto, comparso questo benedetto modello di terra, iscoperto con una tanta boriosità, ciurma e sicumera, che veduto che io l'ebbi, voltomi a messer Alberto, dissi: - Pur beato che io l'ho veduto! - Messer Alfonso adirato, con qualche parola ingiuriosa, disse: - O chi se' tu, che non sai quel che tu di'? - A questo io dissi: - Ora ascoltatemi, e poi vedrete chi di noi saprà meglio quello che e' si dice -. Voltomi a messer Alberto, persona molto grave e ingegnosa, dissi: - Questo è un boccaletto d'argento di tanto peso, il quale io lo feci innel tal tempo a quel ciurmadore di maestro Iacopo cerusico da Carpi, il quale venne a Roma e vi stette sei mesi; e con una sua unzione imbrattò di molte decine di signori e poveri gentiluomini, da i quali lui trasse di molte migliara di ducati. In quel tempo io gli feci questo vaso e un altro diverso da questo; e lui me lo pagò, l'uno e l'altro, molto male, e ora sono in Roma tutti quelli sventurati che gli unse, storpiati e malcondotti. A me è gloria grandissima che l'opere mie sieno di tanto nome appresso a voi altri Signori ricchi; ma io vi dico bene, che da quei tanti anni in qua io ho atteso quanto io ho potuto a 'mparare; di modo che io mi penso, che quel vaso ch'io porto in Francia, sia altrimenti degno del Cardinale e del Re, che non fu quello di quel vostro mediconzolo -. Ditte che io ebbi queste mie parole, quel messer Alfonso pareva proprio che si struggessi di desiderio di vedere quel bacino e boccale, il quale io continuamente gli negavo. Quando un pezzo fummo stati in questo, disse che se andrebbe al Duca e per mezzo di Sua Eccellenzia lo vedrebbe. Allora messer Alberto Bendidio ch'era, come ho detto, superbissimo, disse: - Innanzi che voi partiate di qui, messer Alfonso, voi lo vedrete, sanza adoperare i favori del Duca -. A queste parole io mi parti' e lasciai Ascanio e Pagolo che lo mostrassi loro; qual disse poi che egli avean ditto cose grandissime in mia lode. Volse poi messer Alfonso che io mi addomesticassi seco, onde a me parve mill'anni di uscir di Ferrara e levarmi lor dinanzi. Quanto io v'avevo aùto di buono si era stata la pratica del cardinal Salviati e quella del cardinal di Ravenna, e di qualcuno altro di quelli virtuosi musici, e non d'altri; perché i Ferraresi son gente avarissime e piace loro la roba d'altrui in tutti e' modi che la possino avere; cosí son tutti. Comparse alle ventidua ore il sopra ditto Fiaschino, e mi porse il ditto diamante di valore di sessanta scudi in circa; dicendomi con faccia malinconica e con breve parole che io portassi quello per amore di Sua Eccellenzia. Al quale io risposi: - E io cosí farò -. Mettendo i piedi innella staffa in sua presenza, presi il viaggio per andarmi con Dio. Notò l'atto e le parole; e riferito al Duca, in còllora ebbe voglia grandissima di farmi tornare indietro.
IX.
Andai la sera innanzi piú di dieci miglia, sempre trottando; e quando l'altro giorno io fu' fuora dal ferrarese, n'ebbi grandissimo piacere, perché da quei pagoncelli, che io vi mangiai, causa della mia sanità, in fuora, altro non vi cognobbi di buono. Facemmo il viaggio per il Monsanese, non toccando la città di Milano per il sospetto sopraditto; in modo che sani e salvi arrivammo a Lione. Insieme con Pagolo e Ascanio e un servitore, eramo in quattro con quattro cavalcature assai buone. Giunti a Lione ci fermammo parecchi giorni per aspettare il mulattiere, il quale aveva quel bacino e boccale d'argento insieme con le altre nostre bagaglie: fummo alloggiati in una badia, che era del Cardinale. Giunto che fu il mulattiere, mettemmo tutte le nostre cose in una carretta e l'avviammo alla volta di Parigi: cosí noi andammo in verso Parigi, e avemmo per la strada qualche disturbo, ma non fu molto notabile. Trovammo la corte del Re a Fontana Beleò: facemmoci vedere al Cardinale, il quale subito ci fece consegnare alloggiamenti, e per quella sera stemmo bene. L'altra giornata comparse la carretta; e preso le nostre cose, intesolo il Cardinale, lo disse al Re, il quale subito mi volse vedere. Andai da Sua Maestà con il ditto bacino e boccale, e giunto alla presenza sua, gli baciai il ginocchio e lui gratissimamente mi raccolse. Intanto che io ringraziavo Sua Maestà dell'avermi libero del carcere, dicendo che gli era ubrigato, ogni principe buono e unico al mondo, come era Sua Maestà, a liberare uomini buoni a qualcosa, e maggiormente innocenti come ero io; che quei benifizii eran prima iscritti in su' libri de Dio, che ogni altro che far si potessi al mondo; questo buon Re mi stette a 'scoltare finché io dissi, con tanta gratitudine e con qualche parola, sola degna di lui. Finito che io ebbi, prese il vaso e il bacino, e poi disse: - Veramente che tanto bel modo d'opera non credo mai che degli antichi se ne vedessi: perché ben mi sovviene di aver veduto tutte le miglior opere e dai miglior maestri fatte, di tutta la Italia; ma io non viddi mai cosa che mi movessi piú grandemente che questa -. Queste parole il ditto Re le parlava in franzese al cardinale di Ferrara, con molte altre maggior che queste. Di poi voltosi a me mi parlò in taliano, e disse: - Benvenuto, passatevi tempo lietamente qualche giorno, e confortatevi il cuore e attendete a far buona cera; e intanto noi penseremo di darvi buone comodità al poterci far qualche bell'opera.
X.
Il cardinal di Ferrara sopra ditto veduto che il Re aveva preso grandissimo piacere del mio arrivo; ancora lui veduto che con quel poco dell'opere il Re s'era promesso di potersi cavar la voglia di fare certe grandissime opere, che lui aveva in animo; però in questo tempo, che noi andavamo drieto alla Corte, puossi dire tribulando (il perché si è che il traino del Re si strascica continuamente drieto dodici mila cavalli; e questo è il manco: perché quando la Corte in e' tempi di pace è intera, e' sono diciotto mila, di modo che sempre vengono da essere piú di dodici mila; per la qual cosa noi andavamo seguitando la ditta Corte in tai luoghi, alcuna volta, dove non era dua case a pena; e sí come fanno i zingani, si faceva delle trabacche di tele, e molte volte si pativa assai): io pure sollecitavo il Cardinale che incitassi il Re a mandarmi a lavorare; il Cardinale mi diceva che il meglio di questo caso si era d'aspettare che il Re da sé se ne ricordassi; e che io mi lasciassi alcuna volta vedere a Sua Maestà, in mentre ch'egli mangiava. Cosí faccendo, una mattina al suo desinare mi chiamò il Re: cominciò a parlar meco in taliano, e disse che aveva animo di fare molte opere grande, e che presto mi darebbe ordine dove io avessi a lavorare, con provvedermi di tutto quello che mi faceva bisogno; con molti altri ragionamenti di piacevoli e diverse cose. Il cardinal di Ferrara era alla presenza, perché quasi di continuo mangiava la mattina al tavolino del Re; e sentito tutti questi ragionamenti, levatosi il Re dalla mensa, il cardinal di Ferrara in mio favore disse, per quanto mi fu riferito: - Sacra Maestà, questo Benvenuto ha molto gran voglia di lavorare; quasi che si potria dire l'esser peccato a far perder tempo a un simile virtuoso -. Il Re aggiunse che gli aveva ben detto, e che meco istabilissi tutto quello che io volevo per la mia provvisione. Il qual Cardinale la sera seguente che la mattina aveva aùto la commessione, dipoi la cena fattomi domandare, mi disse da parte di Sua Maestà come Sua Maestà s'era risoluta che io mettessi mano a lavorare; ma prima voleva che io sapessi qual dovessi essere la mia provvisione. A questo disse il Cardinale: - A me pare, che se Sua Maestà vi dà di provvisione trecento scudi l'anno, che voi benissimo vi possiate salvare; appresso vi dico che voi lasciate la cura a me, perché ogni giorno, viene occasione di poter far bene in questo gran regno e io sempre vi aiuterò mirabilmente -. Allora io dissi: - Sanza che io ricercassi Vostra Signoria reverendissima, quando quella mi lasciò in Ferrara, mi promise di non mi cavar mai di Italia, se prima io non sapevo tutto il modo che con Sua Maestà io dovevo stare; Vostra Signoria reverendissima, in cambio di mandarmi a dire il modo che io dovevo stare, mandò espressa commessione che io dovessi venire in poste, come se tale arte in poste si facessi: che se voi mi avessi mandato a dire di trecento scudi, come voi mi dite ora, io non mi sarei mosso per sei. Ma di tutto ringrazio Idio e Vostra Signoria reverendissima ancora, perché Idio l'ha adoperata per istrumento a un sí gran bene, quale è stato la mia liberazione del carcere. Per tanto dico a Vostra Signoria, che tutti e' gran mali che ora io avessi da quella, non possono aggiungere alla millesima parte del gran bene che da lei ho ricevuto, e con tutto il cuore ne la ringrazio, e mi piglio buona licenzia, e dove io sarò, sempre infin che io viva, pregherò Idio per lei -. Il Cardinale adirato disse in còllora: - Va' dove tu vuoi, perché a forza non si può far bene a persona -. Certi di quei sua cortigiani scannapagnotte dicevano: - A costui gli par essere qualche gran cosa, perché e' rifiuta trecento ducati di entrata -. Altri, di quei virtuosi, dicevano: - Il Re non troverrà mai un par di costui; e questo nostro Cardinale lo vuole mercatare, come se ei fusse una soma di legne -. Questo fu messer Luigi Alamanni, che cosí mi fu ridetto che lui disse. Questo fu innel Delfinato, a un castello che non mi sovviene il nome: e fu l'ultimo dí d'ottobre.
XI.
Partitomi dal Cardinale, me ne andai al mio alloggiamento tre miglia lontano di quivi, insieme con un segretario del Cardinale che al medesimo alloggiamento ancora lui veniva. Tutto quel viaggio quel segretario mai restò di domandarmi quel che io volevo far di me, e quel che saria stato la mia fantasia di volere di provvisione. Io non gli risposi mai se none una parola, dicendo: - Tutto mi sapevo -. Di poi giunto allo alloggiamento, trovai Pagolo e Ascanio che quivi vi stavano; e vedendomi turbatissimo, mi sforzorno a dir loro quello che io aveva; e veduto isbigottiti i poveri giovani, dissi loro: - Domattina io vi darò tanti danari che largamente voi potrete tornare alle case vostre; e io andrò a una mia faccenda inportantissima, sanza di voi; che gran pezzo è che io ho aùto in animo di fare -. Era la camera nostra a muro a muro accanto a quella del ditto segretario, e talvolta è possibile che lui lo scrivessi al Cardinale tutto quello che io avevo in animo di fare; se bene io non ne seppi mai nulla. Passossi la notte sanza mai dormire: a me pareva mill'anni che si facessi giorno, per seguitare la resoluzione che di me fatto avevo. Venuto l'alba del giorno, dato ordine ai cavagli e io prestamente messomi in ordine, donai a quei dua giovani tutto quello che io avevo portato meco, e di piú cinquanta ducati d'oro: e altre tanta ne salvai per me, di piú quel diamante che mi aveva donato il Duca; solo due camicie ne portavo e certi non troppi boni panni da cavalcare, che io avevo addosso. Non potevo ispiccarmi dalli dua giovani, che se ne volevano venire con esso meco a ogni modo; per la qual cosa io molto gli svili' dicendo loro: - Uno è di prima barba e l'altro a mano a mano comincia a 'verla, e avete da me imparato tanto di questa povera virtú che io v'ho potuto insegnare, che voi siete oggi i primi giovani di Italia; e non vi vergognate che non vi basti l'animo a uscire del carruccio del babbo, qual sempre vi porti? Questa è pure una vil cosa! O se vi lasciassi andare sanza danari, che diresti voi? Ora levatevimi d'inanzi, che Dio vi benedica mille volte: a Dio -. Volsi il cavallo, e lascia' li piangendo. Presi la strada bellissima per un bosco, per discostarmi quella giornata quaranta miglia il manco, in luogo piú incognito che pensar potevo. E di già m'ero discostato incirca a dua miglia; e in quel poco viaggio io m'ero risoluto di non mai piú praticare in parte dove io fussi conosciuto, né mai piú volevo lavorare altra opera, che un Cristo grande di tre braccia, appressandomi piú che potevo a quella infinita bellezza che dallui stesso m'era stata mostra. Essendomi già resoluto affatto, me n'andavo alla volta del Sepulcro. Pensando essermi tanto iscostato che nessuno piú trovar non mi potessi, in questo io mi senti' correr dietro cavagli; e mi feciono alquanto sospetto, perché in quelle parte v'è una certa razza di brigate, li quali si domandan venturieri, che volentieri assassinano alla strada; e se bene ogni 'n dí assai se ne impicca, quasi pare che non se ne curino. Appressatimisi piú costoro, cognobbi che gli erano un mandato del Re, insieme con quel mio giovane Ascanio; e giunto a me disse: - Da parte del Re vi dico che prestamente voi vegniate a lui -. Al quale uomo io dissi: - Tu vieni da parte del Cardinale; per la qual cosa io non voglio venire -. L'uomo disse che da poi che io non volevo andare amorevolmente, aveva autorità di comandare a' populi, i quali mi merrebbono legato come prigione. Ancora Ascanio, quant'egli poteva, mi pregava, ricordandomi che quando il Re metteva un prigione, stava dappoi cinque anni per lo manco a risolversi di cavarlo. Questa parola della prigione, sovvenendomi di quella di Roma, mi porse tanto ispavento, che prestamente volsi il cavallo dove il mandato del Re mi disse. Il quale, sempre borbottando in franzese, non restò mai in tutto quel viaggio, insinché m'ebbe condutto alla Corte: or mi bravava, or mi diceva una cosa, ora un'altra, da farmi rinnegare il mondo.
XII.
Quando noi fummo giunti agli alloggiamenti del Re, noi passammo dinanzi a quelli del cardinale di Ferrara. Essendo il Cardinale in su la porta, mi chiamò a sé e disse: - Il nostro Re Cristianissimo da per sé stesso v'ha fatto la medesima provvisione, che sua Maestà dava a Lionardo da Vinci pittore: qual sono settecento scudi l'anno; e di piú vi paga tutte l'opere che voi gli farete; ancora per la vostra venuta vi dona cinquecento scudi d'oro, i quali vuol che vi sien pagati prima che voi vi partiate di qui -. Finito che ebbe di dire il Cardinale, io risposi che quelle erono offerte da quel Re che gli era. Quel mandato del Re, non sapendo chi io mi fussi, vedutomi fare quelle grande offerte da parte del Re, mi chiese molte volte perdono. Pagolo e Ascanio dissono: - Idio ci ha aiutati ritornare in cosí onorato carruccio -. Di poi l'altro giorno io andai a ringraziare il Re, il quale m'impose che io gli facessi i modelli di dodici statue d'argento, le quali voleva che servissino per dodici candelieri intorno alla sua tavola: e voleva che fussi figurato sei Iddei e sei Iddee, della grandezza appunto di Sua Maestà, quale era poco cosa manco di quattro braccia alto. Dato che egli m'ebbe questa commessione, si volse al tesauriere de' risparmi e lo domandò se lui mi aveva pagato li cinquecento scudi. Disse che non gli era stato detto nulla. El Re l'ebbe molto per male, ché aveva commesso al Cardinale che gnene dicessi. Ancora mi disse che io andassi a Parigi, e cercassi che stanza fussi a proposito per far tale opere, perché me la farebbe dare. Io presi li cinquecento scudi d'oro e me ne andai a Parigi in una stanza del cardinale di Ferrara; e quivi cominciai innel nome di Dio a lavorare, e feci quattro modelli piccoli di dua terzi di braccio l'uno, di cera: Giove, Iunone, Appollo, Vulgano. In questo mezzo il Re venne a Parigi; per la qual cosa io subito lo andai a trovare, e portai i detti modelli con esso meco, insieme con quei mia dua giovani, cioè Ascanio e Pagolo. Veduto che io ebbi che il Re era sadisfatto delli detti modelli, e' m'impose per il primo che io gli facessi il Giove d'argento della ditta altezza. Mostrai a Sua Maestà che quelli dua giovani ditti io gli avevo menati di Italia per servizio di Sua Maestà; e perché io me gli avevo allevati, molto meglio per questi principii avrei tratto aiuto da loro, che da quelli della città di Parigi. A questo il Re disse, che io facessi alli ditti dua giovani un salario qual mi paressi a me, che fussi recipiente a potersi trattenere. Dissi che cento scudi d'oro per ciascuno stava bene, e che io farei benissimo guadagnar loro tal salario. Cosí restammo d'accordo. Ancora dissi, che io aveva trovato un luogo il quale mi pareva molto a proposito da fare in esso tali opere; el ditto luogo si era di Sua Maestà particulare, domandato il Piccol Nello, e che allora lo teneva il provosto di Parigi, a chi Sua Maestà l'aveva dato; ma perché questo provosto non se ne serviva, Sua Maestà poteva darlo a me, che l'adoperrei per suo servizio. Il Re subito disse: - Cotesto luogo è casa mia; e io so bene che quello a chi io lo detti non lo abita, e non se ne serve; però ve ne servirete voi per le faccende nostre - e subito comandò al suo luogotenente, che mi mettessi in detto Nello. Il quale fece alquanto di resistenza, dicendo al Re che non lo poteva fare. A questo il Re rispose in còllora che voleva dar le cose sue a chi piaceva allui e a uomo che lo servissi, perché di cotestui non si serviva niente: però non gli parlassi piú di tal cosa. Ancora aggiunse il luogotenente, che saria di necessità di usare un poco di forza. Al quale il Re disse: - Andate adesso, e se la piccola forza non è assai, mettetevi della grande -. Subito mi menò al luogo ed ebbe a usar forza a mettermi in possessione: di poi mi disse che io m'avessi benissimo cura di non v'essere ammazzato. Entrai drento, e subito presi de' servitori, e comperai parecchi gran pezzi d'arme in aste, e parecchi giorni mi stetti con grandissimo dispiacere; perché questo era gran gentiluomo pariciano, e gli altri gentiluomini m'erano tutti nimici, di modo che mi facevano tanti insulti, che io non potevo resistere. Non voglio lasciare indietro, che in questo tempo che io m'acconciai con Sua Maestà correva appunto il millesimo del 1540, che appunto era l'età mia de' quaranta anni.
XIII.
Per questi grandi insulti io ritornai al Re, pregando Sua Maestà che mi accomodassi altrove: alle qual parole mi disse il Re: - Chi siate voi, e come avete voi nome? - Io restai molto ismarrito e non sapevo quello che il Re si volessi dire; e standomi cosí cheto, il Re replicò un'altra volta le medesime parole quasi adirato. Allora io risposi che aveva nome Benvenuto. Disse il Re: - Addunche se voi siete quel Benvenuto che io ho inteso, fate sicondo il costume vostro, che io ve ne dò piena licenza -. Dissi a Sua Maestà che mi bastava solo mantenermi nella grazia sua, del resto io non conoscevo cosa nessuna che mi potessi nuocere. Il Re, ghignato un pochetto, disse: - Andate addunche, e la grazia mia non vi mancherà mai -. Subito mi ordinò un suo primo segretario, il quale si domandava monsignor di Villurois, che dessi ordine a farmi provvedere e acconciare per tutti i miei bisogni. Questo Villurois era molto grande amico di quel gentiluomo chiamato il provosto, di chi era il ditto luogo di Nello. Questo luogo era in forma triangulare, ed era appiccato con le mura della città ed era castello antico, ma non si teneva guardie: era di buona grandezza. Questo detto Monsignor di Villurois mi consigliava che io cercassi di qualche altra cosa, e che io lo lasciassi a ogni modo; perché quello di che gli era, era uomo di grandissima possanza, e che certissimo lui mi arebbe fatto ammazzare. Al quale io risposi, che ero andato di Italia in Francia solo per servire quel maraviglioso Re, e quanto al morire, io sapevo certo che a morire avevo; che un poco prima o un poco dappoi non mi dava una noia al mondo. Questo Villurois era uomo di grandissimo ispirito, e mirabile in ogni cosa sua, grandissimamente ricco: non è al mondo cosa che lui non avessi fatto per farmi dispiacere, ma non lo dimostrava niente; era persona grave, di bello aspetto, parlava adagio. Commesse a un altro gentiluomo, che si domandava Monsignor di Marmagnia, quale era tesauriere di Lingua d'oca. Questo uomo, la prima cosa che e' fece, cercato le migliore stanze di quel luogo, le faceva acconciare per sé: al quale io dissi che quel luogo me lo aveva dato il Re perché io lo servissi, e che quivi non volevo che abitassi altri che me e li mia servitori. Questo uomo era superbo, aldace, animoso; e mi disse che voleva fare quanto gli piaceva, e che io davo della testa nel muro a voler contrastare contro a di lui; e che tutto quel che lui faceva, ne aveva aùto commessione da Villurois di poter farlo. Allora io dissi che io avevo aùto commessione dal Re, che né lui né Villurois tal cosa non potrebbe fare. Quando io dissi questa parola, questo superbo uomo mi disse in sua lingua franzese molte brutte parole, alle quali io risposi in lingua mia, che lui mentiva. Mosso dall'ira, fece segni di metter mano a una sua daghetta; per la qual cosa io messi la mano in sun una mia daga grande, che continuamente io portavo accanto per mia difesa, e li dissi: - Se tu sei tanto ardito di sfoderar quell'arme, io subito ti ammazzerò -. Gli aveva seco dua servitori, e io avevo li mia dua giovani: e in mentre che il ditto Marmagnia stava cosí sopra di sé, non sapendo che farsi, piú presto vòlto al male, e' diceva borbottando: - Già mai non comporterò tal cosa -. Io vedevo la cosa andar per la mala via; subito mi risolsi e dissi a Pagolo e Ascanio: - Come voi vedete che io sfodero la mia daga, gittatevi addosso ai dua servitori e ammazzategli, se voi potete: perché costui io lo ammazzerò al primo; poi ci andren con Dio d'accordo subito -. Sentito Marmagnia questa resoluzione, gli parve fare assai a uscir di quel luogo vivo. Tutte queste cose, alquanto un poco piú modeste, io le scrissi al cardinale di Ferrara, il quale subito le disse al Re. Il Re crucciato mi dette in custode a un altro di quei suoi ribaldi, il quale si domandava monsignor lo iscontro d'Orbech. Questo uomo con tanta piacevolezza, quanto inmaginar si possa, mi provvedde di tutti li mia bisogni.
XIV.
Fatto ch'io ebbi tutti gli acconci della casa e della bottega, accomodatissimi a poter servire, e onoratissimamente, per li mia servizii della casa, subito messi mano a far tre modelli, della grandezza appunto che gli avevano da essere d'argento: questi furno Giove e Vulgano e Marte. Gli feci di terra, benissimo armati di ferro, di poi me ne andai dal Re, il quale mi fece dare, se ben mi ricordo, trecento libbre d'argento, acciò che io cominciassi a lavorare. In mentre che io davo ordine a queste cose, si finiva il vasetto e il bacino ovato, i quali ne portorno parecchi mesi. Finiti che io gli ebbi, gli feci benissimo dorare. Questa parve la piú bell'opera che mai si fosse veduta in Francia. Subito lo portai al cardinal di Ferrara, il quale mi ringraziò assai; di poi sanza me lo portò al Re e gnene fece un presente. Il Re l'ebbe molto caro, e mi lodò piú smisuratamente che mai si lodassi uomo par mio; e per questo presente donò al cardinal di Ferrara una badia di sette mila scudi d'entrata; e a me volse far presente. Per la qual cosa il Cardinale lo inpedí, dicendo a Sua Maestà che quella faceva troppo presto, non gli avendo ancora dato opera nessuna. E il Re, che era liberalissimo, disse: - Però gli vo' io dar coraggio che me ne possa dare -. Il Cardinale, a questo vergognatosi, disse: - Sire, io vi priego che voi lasciate fare a me; perché io gli farò una pensione di trecento scudi il manco, subito che io abbia preso il possesso della badia -. Io non gli ebbi mai, e troppo lungo sarebbe a voler dire la diavoleria di questo Cardinale; ma mi voglio riserbare a' cose di maggiore importanza.
XV.
Mi tornai a Parigi. Con tanto favore fattomi dal Re io era ammirato da ugniuno. Ebbi l'argento, e cominciai la ditta statua di Giove. Presi di molti lavoranti, e con grandissima sollecitudine giorno e notte non restavo mai di lavorare; di modo che, avendo finito di terra Giove, Vulcano e Marte, di già cominciato d'argento a tirare innanzi assai bene il Giove, si mostrava la bottega di già molto ricca. In questo conparse el Re a Parigi: io l'andai a visitare; e subito che Sua Maestà mi vedde, lietamente mi chiamò e mi domandava se alla mia magione era qualcosa da mostrargli di bello, perché verrebbe insin quivi. Al quale io contai tutto quel che io avevo fatto. Subito gli venne voluntà grandissima di venire; e di poi il suo desinare, dette ordine con madama de Tampes, col cardinal di Loreno, e certi altri di quei signori, qual fu il re di Navarra, cognato del re Francesco, e la Regina, sorella del ditto re Francesco; venne il Dalfino e la Dalfina; tanto si è, che quel dí venne tutta la nobiltà della Corte. Io m'ero avviato a casa, e m'ero misso a lavorare. Quando il Re comparse alla porta del mio castello, sentendo picchiare a parecchi martella, comandò a ugniuno che stessi cheto: in casa mia ogniuno era innopera; di modo che io mi trovai sopraggiunto dal Re, che io non lo aspettavo. Entrò nel mio salone: e 'l primo che vedde, vedde me con una gran piastra d'argento in mano, qual serviva per il corpo del Giove: un altro faceva la testa, un altro le gambe, in modo che il romore era grandissimo. In mentre che io lavoravo, avendo un mio ragazzetto franzese intorno, il quale m'aveva fatto non so che poco di dispiacere, per la qual cosa io gli avevo menato un calcio, e per mia buona sorte, entrato col piè nella inforcatura delle gambe, l'avevo spinto innanzi piú di quattro braccia, di modo che all'entrare del Re questo putto s'attenne addosso al Re: il perché il Re grandemente se ne rise, e io restai molto smarrito. Cominciò il Re a dimandarmi quello che io facevo, e volse che io lavorassi; di poi mi disse che io gli farei molto piú piacere a non mi affaticare mai, sí bene tòrre quanti uomini io volessi, e quelli far lavorare: perché voleva che io mi conservassi sano per poterlo servir piú lungamente. Risposi a Sua Maestà, che subito io mi ammalerei se io non lavorassi, né manco l'opere non sarebbono di quella sorte - che io desidero fare per Sua Maestà -. Pensando il Re che quello che io dicevo fussi detto per millantarsi, e non perché cosí fussi la verità, me lo fece ridire dal cardinal de Loreno, al quali io mostrai tanto larghe le mie ragione e aperte, che lui ne restò capacissimo: però confortò il Re che mi lasciassi lavorare poco e assai, secondo la mia voluntà.
XVI.
Restato sadisfatto il Re delle opere mie, se ne tornò al suo palazzo, e mi lasciò pieno di tanti favori, che saria lungo a dirgli. L'altro giorno appresso, al suo desinare, mi mandò a chiamare. V'era alla presenza il cardinal di Ferrara, che desinava seco. Quando io giunsi, ancora il Re era alla siconda vivanda: accostatomi a Sua Maestà, subito cominciò a ragionar meco, dicendo che da poi che gli aveva cosí bel bacino e cosí bel boccale di mia mano, che per compagnia di quelle tal cose richiedeva una bella saliera, e che voleva che io gnene facessi un disegno; ma ben l'arebbe voluto veder presto. Allora io aggiunsi dicendo: - Vostra Maestà vedrà molto piú presto un tal disegno, che la mi domanda; perché in mentre che io facevo il bacino pensavo che per sua compagnia si gli dovessi far la saliera - e che tal cosa era di già fatta; e che se gli piaceva, io gliene mostrerrei subito. El Re si risentí con molta baldanza, e voltosi a quei Signori, qual era il re di Navarra, el cardinal di Loreno e 'l cardinal di Ferrara, e' disse: - Questo veramente è un uomo da farsi amare e desiderare da ogni uomo che non lo cognosca -; di poi disse a me, che volentieri vedrebbe quel disegno che io avevo fatto sopra tal cosa. Messimi in via, e prestamente andai e tornai, perché avevo solo a passare la fiumara, cioè la Sena: portai meco un modello di cera, il quale io avevo fatto già a richiesta del cardinal di Ferrara in Roma. Giunto che io fui dal Re, scopertogli il modello, il Re maravigliatosi disse: - Questa è cosa molto piú divina l'un cento, che io non arei mai pensato. Questa è gran cosa di quest'uomo! Egli non debbe mai posarsi -. Di poi si volse a me con faccia molto lieta, e mi disse che quella era un'opera che gli piaceva molto, e che desiderava che io gliene facessi d'oro. Il cardinal di Ferrara, che era alla presenza mi guardò in viso e mi accennò, come quello che la ricognobbe che quello era il modello che io avevo fatto per lui in Roma. A questo io dissi che quell'opera già avevo detto che io la farei a chi l'aveva avere. Il Cardinale, ricordatosi di quelle medesime parole, quasi che isdegnato, parutogli che io mi fussi voluto vendicare, disse al Re: - Sire, questa è una grandissima opera, e però io non sospetterei d'altro, se none che io non crederrei mai vederla finita; perché questi valenti uomini, che hanno quei gran concetti di quest'arte, volentieri danno lor principio, non considerando bene quando ell'hanno aver la fine. Per tanto, faccendo fare di queste cotale grande opere, io vorrei sapere quando io l'avessi avere -. A questo rispose il Re dicendo che chi cercassi cosí sottilmente la fine dell'opere, non ne comincerebbe mai nessuna; e lo disse in un certo modo, mostrando che quelle cotali opere non fussino materia da uomini di poco animo. Allora io dissi: - Tutti e' principi che danno animo ai servitori loro, in quel modo che fa e che dice Sua Maestà, tutte le grande imprese si vengono a facificare; e poi che Dio m'ha dato un cosí maraviglioso padrone, io spero di dargli finite di molte grande e meravigliose opere. - E io lo credo - disse il Re; e levossi da tavola. Chiamommi nella sua camera e mi domandò quanto oro bisognava per quella saliera: - Mille scudi, - dissi io. Subito il Re chiamò un suo tesauriere, che si domandava Monsignor lo risconte di Orbeche, e gli domandò che allora allora mi provvedessi mille scudi vecchi di buon peso, d'oro. Partitici da Sua Maestà, mandai a chiamare quelli dua notati che m'avevan fatto dare l'argento per il Giove e molte altre cose, e passato la Sena, presi una piccolissima sportellina che m'aveva donato una mia sorella cugina, monaca, innel passare per Firenze, e per mia buona aúria tolsi quella sportellina, e none un sacchetto: e pensando di spedire tal faccenda di giorno, perché ancora era buon'otta, e non volendo isviare i lavoranti; e manco non mi curai di menare servitore meco. Giunsi a casa il tesauriere, il quale di già aveva innanzi li danari, e gli sceglieva sí come gli aveva detto il Re. Per quanto a me parve vedere, quel ladrone tesauriere fece con arte il tardare insino a tre ore di notte a contarmi li detti dinari. Io, che non mancai di diligenza, mandai a chiamare parecchi di quei mia lavoranti, che venissino a farmi compagnia, perché era cosa di molta importanza. Veduto che li detti non venivano, io domandai a quel mandato, se gli aveva fatto l'anbasciata mia. Un certo ladroncello servitore disse che l'aveva fatta, e che loro avevan detto non poter venire; ma che lui di buona voglia mi porterebbe quelli dinari: al quale io dissi, che li dinari volevo portar da me. Intanto era spedito il contratto, contato li dinari e tutto. Messomili nella sportellina ditta, di poi messi il braccio nelle dua manichi; e perché entrava molto per forza, erano ben chiusi, e con piú mia comodità gli portavo che se fussi stato un sacchetto. Ero bene armato di giaco e maniche, e con la mia spadetta e 'l pugnale accanto prestamente mi messi la via fra gambe.
XVII.
In quello stante viddi certi servitori, che, bisbigliando, presto ancora loro si partirno di casa, mostrando andare per altra via che quella dove io andavo. Io che sollecitamente camminavo, passato il ponte al Cambio, venivo su per un muricciuolo della fiumara, il quale mi conduceva a casa mia a Nello. Quando io fui appunto dagli Austini, luogo pericolosissimo se ben vicino a casa mia cinquecento passi; per essere l'abitazione del castello a drento quasi che altretanto, non si sarebbe sentito la voce, se io mi fussi messo a chiamare, ma resolutomi in un tratto che io mi veddi scoperto a dosso quattro con quattro spade, prestamente copersi quella sportellina con la cappa, e messo mano in su la mia spada, veduto che costoro con sollecitudine mi serravano, dissi: - Dai soldati non si può guadagnare altro che la cappa e la spada; e questa, prima che io ve la dia, spero l'arete con poco vostro guadagno -. E pugnando contro a di loro animosamente, piú volte m'apersi, acciò che, se e' fussino stati di quelli indettati da quei servitori, che m'avevan visto pigliare i danari, con qualche ragione iudicassino che io non avevo tal somma di danari addosso. La pugna durò poco, perché a poco a poco si ritiravono; e da lor dicevano in lingua loro: - Questo è un bravo italiano, e certo non è quello che noi cercavamo; o sí veramente, se gli è lui, e' non ha nulla addosso -. Io parlavo italiano, e continuamente a colpi di stoccate e imbroccate talvolta molto a presso gl'investi' alla vita; e perché io ho benissimo maneggiato l'arme, piú giudicavono che io fussi soldato che altro; e ristrettisi insieme, a poco a poco si scostavano da me, sempre borbottando sotto voce in lor lingua; e ancora io sempre dicevo, modestamente pure, che chi voleva la mia arme e la mia cappa, non l'arebbe senza fatica. Cominciai a sollecitare il passo, e lor sempre venivano a lento passo drietomi; per la qual cosa a me crebbe la paura, pensando di non dare in qualche imboscata di parecchi altri simili, che m'avessino messo in mezzo; di modo che, quando io fui presso a cento passi, mi messi a tutta corsa e ad alta voce gridavo: - Arme arme, fuora fuora, ché io sono assassinato -. Subito corse quattro giovani con quattro pezzi d'arme in aste: e volendo seguitar drieto a coloro, che ancor gli vedevano, gli fermai, dicendo pur forte: - Quei quattro poltroni non hanno saputo fare, contro a uno uomo solo, un bottino di mille scudi d'oro in oro, i quali m'hanno rotto un braccio; sí che andiangli prima a riporre, e di poi io vi farò compagnia col mio spadone a dua mane dove voi vorrete -. Andammo a riporre li dinari; e quelli mia giovani, condolendosi molto del gran pericolo che io avevo portato, modo che isgridarmi, dicevano: - Voi vi fidate troppo di voi stesso, e una volta ci avete a far piagner tutti -. Io dissi di molte cose; e lor mi risposono anche; fuggirno gli aversari mia; e noi tutti allegri e lieti cenammo, ridendoci di quei gran pressi che fa la fortuna, tanto in bene quanto in male; e non cogliendo, è come se nulla non fussi stato. Gli è ben vero che si dice: "Tu imparerai per un'altra volta". Questo non vale, perché la vien sempre con modi diversi e non mai immaginati.
XVIII.
La mattina seguente subito detti principio alla gran saliera, e con sollecitudine quella con l'altre opere facevo tirare innanzi. Di già avevo preso di molti lavoranti, sí per l'arte della scultura, come per l'arte della oreficeria. Erano, questi lavoranti, italiani, franzesi, todeschi, e talvolta n'avevo buona quantità, sicondo che io trovavo de' buoni; perché di giorno in giorno mutavo, pigliando di quelli che sapevano piú, e quelli io gli sollecitavo di sorte che per il continuo affaticarsi (vedendo fare a me, che mi serviva un poco meglio la complessione che a loro, non possendo resistere alle gran fatiche, pensando ristorarsi col bere e col mangiare assai), alcuni di quei todeschi, che meglio sapevano che gli altri, volendo seguitarmi, non sopportò da loro la natura tale ingiurie, che quegli ammazzò. In mentre che io tiravo innanzi il Giove d'argento, vedutomi avanzare assai bene dell'argento, messi mano sanza saputa del Re a fare un vaso grande con dua manichi, dell'altezza d'un braccio e mezzo in circa. Ancora mi venne voglia di gittare di bronzo quel modello grande che io avevo fatto per il Giove d'argento; messo mano a tal nuova impresa, quale io non avevo mai piú fatta, e conferitomi con certi vecchioni di quei maestri di Parigi, dissi loro tutti e' modi che noi nella Italia usavono fare tal impresa. Questi a me dissono che per quella via non erano mai camminati, ma se io lasciavo fare sicondo i lor modi, me lo darebbon fatto e gittato tanto netto e bello, quant'era quello di terra. Io volsi fare mercato, dando quest'opera sopra di loro: e sopra la domanda che quei m'avevan fatta, promessi loro parecchi scudi di piú. Messon mano a tale impresa; e veduto io che loro non pigliavono la buona via, prestamente cominciai una testa di Iulio Cesare, col suo petto, armata, grande molto piú del naturale, qual ritraevo da un modello piccolo che io m'avevo portato di Roma, ritratto da una testa maravigliosissima antica. Ancora messi mano in un'altra testa della medesima grandezza, quale io ritraevo da una bellissima fanciulla, che per mio diletto carnale a presso a me tenevo. A questa posi nome Fontana Beliò, che era quel sito che aveva eletto il Re per sua propria dilettazione. Fatto la fornacetta bellissima per fondere il bronzo, e messo in ordine e cotto le nostre forme, quegli el Giove e io le mia dua teste, dissi a loro: - Io non credo che il vostro Giove venga, perché voi non gli avete dati tanti spiriti da basso, che el vento possa girare; però voi perdete il tempo -. Questi dissono a me, che quando la loro opera non fossi venuta, mi renderebbono tutti li dinari che io avevo dati loro a buon conto, e mi rifarebbono tutta la perduta ispesa; ma che io guardassi bene, che quelle mie belle teste, che io volevo gittare al mio modo della Italia, mai non mi verrebbono. A questa disputa fu presente quei tesaurieri e altri gentiluomini, che per commession del Re mi venivano a vedere; e tutto quello che si diceva e faceva, ogni cosa riferivano al Re. Feciono questi dua vecchioni, che volevan gittare il Giove, soprastare alquanto il dare ordine del getto; perché dicevano che arebbon voluto acconciare quelle dua forme delle mie teste; perché quel modo che io facevo, non era possibile che le venissimo, ed era gran peccato a perder cosí bell'opere. Fattolo intendere al Re, rispose Sua Maestà che gli attendessino a 'mparare e non cercassino di volere insegnare al maestro. Questi con gran risa messono in fossa l'opera loro; e io saldo, sanza nissuna dimostrazione né di risa né di stizza - che l'avevo - messi con le mie dua forme in mezzo il Giove: e quando il nostro metallo fu benissimo fonduto, con grandissimo piacere demmo la via al ditto metallo, e benissimo s'empié la forma del Giove; innel medesimo tempo s'empié la forma delle mie due teste: di modo che loro erano lieti e io contento; perché avevo caro d'aver detto le bugie della loro opera, e loro mostravano d'aver molto caro d'aver detto le bugie della mia. Domandorno pure alla franciosa con gran letizia da bere: io molto volentieri feci far loro una ricca colezione. Da poi mi chiesono li dinari che gli avevano da avere, e quegli di piú che io avevo promessi loro. A questo io dissi: - Voi vi siate risi di quello, che io ho ben paura che voi non abbiate a piangere; perché io ho considerato che in quella vostra forma è entrato molto piú roba che 'l suo dovere; però io non vi voglio dare piú dinari, di quelli che voi avete auti, insino a domattina -. Cominciorno a considerare questi poveri uomini quello che io avevo detto loro, e sanza dir niente se ne andorno a casa. Venuti la mattina, cheti cheti cominciorno a cavare di fossa; e perché loro non potevano iscoprire la loro gran forma, se prima egli non cavavano quelle mie due teste, le quali cavorno e stavono benissimo, e le avevano messe in piede, che benissimo si vedevano. Cominciato da poi a scoprire il Giove, non furno dua braccia in giú, che loro con quattro lor lavoranti messono sí grande il grido, che io li sentii. Pensando che fussi grido di letizia, mi cacciai a correre, che ero nella mia camera lontano piú di cinquecento passi. Giunsi a loro e li trovai in quel modo che si figura quelli che guardavano il sepulcro di Cristo, afflitti e spaventati. Percossi gli occhi nelle mie due teste, e veduto che stavan bene, accomoda' mi il piacere col dispiacere: e loro si scusavano, dicendo: - La nostra mala fortuna! - Alle qual parole io dissi: - La vostra fortuna è stata bonissima, ma gli è bene stato cattivo il vostro poco sapere. Se io avessi veduto mettervi innella forma l'anima, con una sola parola io v'arei insegnato che la figura sarebbe venuta benissimo; per la qual cosa a me ne risultava molto grande onore e a voi molto utile: ma io del mio onore mi scuserò, ma voi né de l'onore né de l'utile non avete iscampo: però un'altra volta imparate a lavorare e non imparate a uccellare -. Pur mi si raccomandavono, dicendomi che io avevo ragione, e che se io non gli aiutavo, che avendo a pagare quella grossa spesa e quel danno, loro andrebbono accattando insieme con le lor famiglie. A questo io dissi, che quando gli tesaurieri del Re volessin lor far pagare quello a che loro s'erano ubrigati, io prommettevo loro di pagargli del mio, perché io avevo veduto veramente che loro avevan fatto di buon cuore tutto quello che loro sapevano. Queste cose m'accrebbono tanta benivolenzia con quei tesaurieri e con quei ministri del Re, che fu inistimabile. Tutto si scrisse al Re, il quale unico liberalissimo, comandò che si facessi tutto quello che io dicevo.
XIX.
Era in questo giunto il maravigliosissimo bravo Piero Strozzi; e ricordato al Re le sue lettere di naturalità, il Re subito comandò che fussino fatte. - E insieme con esse - disse - fate ancora quelle di Benvenuto, mon ami, e le portate subito da parte mia a sua magione, e dategnene senza nessuna spesa -. Quelle del gran Piero Strozzi gli costorno molte centinaia di ducati; le mie me le portò un di quei primi sua segretari, il quale si domandava messer Antonio Massone. Questo gentiluomo mi porse le lettere con maravigliosa dimostrazione, da parte di Sua Maestà, dicendo: Di queste vi fa presente il Re, acciò che con maggior coraggio voi lo possiate servire. Queste son lettere di naturalità - e contonmi come molto tempo e con molti favori l'aveva date a richiesta di Piero Istrozzi a esso, e che queste da per sé istesso me le mandava a presentare: che un tal favore non s'era mai piú fatto in quel regno. A queste parole io con gran dimostrazione ringraziai il Re; di poi pregai il ditto segretario, che di grazia mi dicessi quel che voleva dire quelle "lettere di naturalità". Questo segretario era molto virtuoso e gentile, e parlava benissimo italiano: mossosi prima a gran risa, di poi ripreso la gravità, mi disse innella lingua mia, cioè in italiano, quello che voleva dire "lettere di naturalità" quale era una delle maggior degnità che si dessi a un forestiero; e disse: - Questa è altra maggiore cosa che esser fatto gentiluomo veniziano -. Partitosi da me, tornato al Re, tutto riferí a Sua Maestà, il quale rise un pezzo, di poi disse: - Or voglio che sappia per quel che io gli ho mandato lettere di naturalità. Andate, e fatelo signore del castello del Piccolo Nello che lui abita, il quale è mio di patrimonio. Questo saprà egli che cosa egli è, molto piú facilmente che lui non ha saputo che cosa fussino le lettere di naturalità -. Venne a me un mandato con il detto presente, per la qual cosa io volsi usargli cortesia: non volse accettar nulla, dicendo che cosí era commessione di Sua Maestà. Le ditte lettere di naturalità, insieme con quelle del dono del castello, quando io venni in Italia le portai meco; e dovunque io vada, e dove io finisca la vita mia, quivi m'ingegnerò d'averle.
XX.
Or sèguito innanzi il cominciato discorso della vita mia. Avendo infra le mane le sopra ditte opere, cioè il Giove d'argento, già cominciato, la ditta saliera d'oro, il gran vaso ditto d'argento, le due teste di bronzo, sollecitamente innesse opere si lavorava. Ancora detti ordine a gittare la basa del ditto Giove, qual feci di bronzo ricchissimamente, piena di ornamenti, infra i quali ornamenti iscolpi' in basso rilievo il ratto di Ganimede; da l'altra banda poi Leda e 'l cigno: questa gittai di bronzo, e venne benissimo. Ancora ne feci un'altra simile per porvi sopra la statua di Iunone, aspettando di cominciare questa ancora, se il Re mi dava l'argento da poter fare tal cosa. Lavorando sollecitamente, avevo messo di già insieme il Giove d'argento; ancora avevo misso insieme la saliera d'oro; il vaso era molto innanzi; le due teste di bronzo erano di già finite. Ancora avevo fatto parecchi operette al cardinale di Ferrara; di piú un vasetto d'argento, riccamente lavorato, avevo fatto per donarlo a madama de Tampes; a molti Signori italiani, cioè il signor Piero Strozzi, il conte dell'Anguillara, il conte di Pitigliano, il conte della Mirandola e a molti altri avevo fatto di molte opere. Tornando al mio gran Re, sí come io ho detto, avendo tirato innanzi benissimo queste sue opere, in questo tempo lui ritornò a Parigi, e il terzo giorno venne a casa mia con molta quantità della maggior nobiltà della sua Corte, e molto si maravigliò delle tante opere che io avevo innanzi e a cosí buon porto tirate; e perché e' v'era seco la sua madama di Tampes, cominciorno a ragionare di Fontana Beliò. Madama di Tampes disse a Sua Maestà che egli doverrebbe farmi fare qualcosa di bello per ornamento della sua Fontana Beliò. Subito il Re disse: - Gli è ben fatto quel che voi dite, e adesso adesso mi voglio risolvere che là si faccia qualcosa di bello - e voltosi a me, mi cominciò a domandare quello che mi pareva da fare per quella bella fonte. A questo io proposi alcune mie fantasie: ancora Sua Maestà disse il parer suo; dipoi mi disse che voleva andare a spasso per quindici o venti giornate a San Germano dell'Aia, quale era dodici leghe discosto di Parigi; e che in questo tanto io facessi un modello per questa sua bella fonte con piú ricche invenzione che io sapevo, perché quel luogo era la maggior recreazione che lui avessi nel suo regno; però mi comandava e pregava, che mi sforzassi di fare qualcosa di bello: e io tanto gli promessi. Veduto il Re tante opere innanzi, disse a madama de Tampes: - Io non ho mai aùto uomo di questa professione che piú mi piaccia, né che meriti piú d'esser premiato di questo; però bisogna pensare di fermarlo. Perché gli spende assai, ed è buon compagnone e lavora assai, è di necessità che da per noi ci ricordiamo di lui: il perché si è, considerate, Madama, tante volte quante gli è venuto da me, e quanto io son venuto qui, non ha mai domandato niente: il cuor suo si vede essere tutto intento all'opere; e bisogna fargli qualche bene presto, acciò che noi non lo perdiamo -. Madama de Tampes disse: - Io ve lo ricorderò -. Partirnosi: io messi con gran sollecitudine intorno all'opere mie cominciate, e di piú messi mano al modello della fonte e con sollecitudine lo tiravo innanzi.
XXI.
In termine d'un mese e mezzo il Re ritornò a Parigi; e io, che avevo lavorato giorno e notte, l'andai a trovare, e portai meco il mio modello, di tanta bella bozza che chiaramente s'intendeva. Di già era cominciato a rinnovare le diavolerie della guerra in fra lo Imperadore e lui, di modo che io lo trovai molto confuso; pure parlai col cardinale di Ferrara, dicendogli che io avevo meco certi modelli, i quali m'aveva commesso Sua Maestà: cosí lo pregai che se e' vedeva tempo da commettere qualche parola per causa che questi modegli si potessin mostrare, - io credo che il Re ne piglierebbe molto piacere -. Tanto fece il Cardinale; propose al Re detti modelli; subito il Re venne dove io avevo i modelli. Imprima avevo fatto la porta del palazzo di Fontana Beliò: per non alterare il manco che io potevo, l'ordine della porta che era fatta a ditto palazzo, qual era grande e nana, di quella lor mala maniera franciosa; la quale era l'apritura poco piú d'un quadro, e sopra esso quadro un mezzo tondo istiacciato a uso d'un manico di canestro: in questo mezzo tondo il Re desiderava d'averci una figura, che figurassi Fontana Beliò. Io detti bellissima proporzione al vano ditto; di poi posi sopra il ditto vano un mezzo tondo giusto; e dalle bande feci certi piacevoli risalti, sotto i quali nella parte da basso, che veniva a conrispondenza di quella di sopra, posi un zocco; e altanto di sopra; e in cambio di due colonne, che mostrava che si richiedessi sicondo le modanature fatte di sotto e di sopra, avevo fatto un satiro in ciascuno de' siti delle colonne. Questo era piú che di mezzo rilievo, e con un de' bracci mostrava di reggere quella parte che tocca alle colonne: innell'altro braccio aveva un grosso bastone, con la sua testa ardito e fiero, qual mostrava spavento a' riguardanti. L'altra figura era simile di positura, ma era diversa e varia di testa e d'alcune altre tali cose: aveva in mano una sferza con tre palle accomodate con certe catene. Se bene io dico satiri, questi non avevano altro di satiro che certe piccole cornetta e la testa caprina; tutto il resto era umana forma. Innel mezzo tondo avevo fatto una femmina in bella attitudine a diacere: questa teneva il braccio manco sopra al collo d'un cervio, quale era una de l'imprese del Re: da una banda avevo fatto di mezzo rilievo caprioletti, e certi porci cignali e altre salvaticine di piú basso rilievo; da l'altra banda cani bracchi e livrieri di piú sorte, perché cosí produce quel bellissimo bosco, dove nasce la fontana. Avevo di poi tutta quest'opera ristretta innun quadro oblungo, e innegli anguli del quadro di sopra, in ciascuno, avevo fatto una Vittoria in basso rilievo, con quelle faccelline in mano, come hanno usato gli antichi. Di sopra al ditto quadro avevo fatto la salamandra, propia impresa del Re, con molti gratissimi altri ornamenti a proposito della ditta opera, qual dimostrava di essere di ordine ionico.
XXII.
Veduto il Re questo modello, subito lo fece rallegrare, e lo divertí da quei ragionamenti fastidiosi in che gli era stato piú di dua ore. Vedutolo io lieto a mio modo, gli scopersi l'altro modello, quale lui punto non aspettava, parendogli d'aver veduto assai opera in quello. Questo modello era grande piú di due braccia, nel quale avevo fatto una fontana in forma d'un quadro perfetto, con bellissime iscalee intorno, quale s'intrasegavano l'una nell'altra: cosa che mai piú s'era vista in quelle parti, e rarissima in queste. In mezzo a detta fontana avevo fatto un sodo, il quale si dimostrava un poco piú alto che 'l ditto vaso della fontana: sopra questo sodo avevo fatto, a conrispondenza, una figura ignuda di molta bella grazia. Questa teneva una lancia rotta nella man destra elevata innalto, e la sinistra teneva in sul manico d'una sua storta fatta di bellissima forma: posava in sul piè manco e il ritto teneva in su un cimiere tanto riccamente lavorato, quanto immaginar si possa; e in su e' quattro canti della fontana avevo fatto, in su ciascuno, una figura assedere elevata, con molte sue vaghe imprese per ciascuna. Comincionmi a dimandare il Re che io gli dicessi che bella fantasia era quella che io avevo fatta, dicendomi che tutto quello che io avevo fatto alla porta, sanza dimandarmi di nulla lui l'aveva inteso, ma che questo della fonte, sebbene gli pareva bellissimo, nulla non n'intendeva; e ben sapeva che io non avevo fatto come gli altri sciocchi, che se bene e' facevano cose con qualche poco di grazia, le facevano senza significato nissuno. A questo io mi messi in ordine; ché essendo piaciuto col fare, volevo bene che altretanto piacessi il mio dire. - Sappiate, sacra Maestà, che tutta quest'opera piccola è benissimo misurata a piedi piccoli, qual mettendola poi in opera, verrà di questa medesima grazia che voi vedete. Quella figura di mezzo si è cinquantaquattro piedi - (questa parola il Re fe' grandissimo segno di maravigliarsi); - appresso, è fatta figurando lo Idio Marte. Quest'altre quattro figure son fatte per le Virtú, di che si diletta e favorisce tanto Vostra Maestà: questa a man destra è figurata per la scienza di tutte le Lettere: vedete che l'ha i sua contra segni, qual dimostra la Filosofia con tutte le sue virtú compagne. Quest'altra dimostra essere tutta l'Arte del disegno, cioè Scultura, Pittura e Architettura. Quest'altra è figurata per la Musica, qual si conviene per compagnia a tutte queste iscienzie. Quest'altra, che si dimostra tanto grata e benigna, è figurata per la Liberalità; che sanza lei non si può dimostrare nessuna di queste mirabil Virtú che Idio ci mostra. Questa istatua di mezzo, grande, è figurata per Vostra Maestà istessa, quale è un dio Marte, che voi siete sol bravo al mondo; e questa bravuria voi l'adoperate iustamente e santamente in difensione della gloria vostra -. Appena che gli ebbe tanta pazienza che mi lasciassi finir di dire, che levato gran voce, disse: - Veramente io ho trovato uno uomo sicondo il cuor mio - e chiamò li tesaurieri ordinatimi, e disse che mi provvedessino tutto quel che mi faceva di bisogno, e fussi grande ispesa quanto si volessi: poi a me dette in su la spalla con la mana, dicendomi: - Mon ami (che vuol dire "amico mio"), io non so qual s'è maggior piacere, o quello d'un principe l'aver trovato un uomo sicondo il suo cuore, o quello di quel virtuoso l'aver trovato un principe che gli dia tanta comodità, che lui possa esprimere i sua gran virtuosi concetti -. Io risposi, che se io ero quello che diceva Sua Maestà, gli era stato molto maggior ventura la mia. Rispose ridendo: - Diciamo che la sia eguale -. Partimmi con grande allegrezza, e tornai alle mie opere.
XXIII.
Volse la mia mala fortuna che io non fui avvertito di fare altretanta commedia con madama de Tampes, che saputo la sera tutte queste cose, che erano corse, dalla propia bocca del Re, gli generò tanta rabbia velenosa innel petto che con isdegno la disse: - Se Benvenuto m'avessi mostro le belle opere sue, m'arebbe dato causa di ricordarmi di lui al tempo -. Il Re mi volse iscusare, e nulla s'appiccò. Io che tal cosa intesi, ivi a quindici giorni - ché, girato per la Normandia a Roano e a Diepa, dipoi eran ritornati a San Germano de l'Aia sopra ditto - presi quel bel vasetto che io avevo fatto a riquisizione della ditta madama di Tampes, pensando che, donandoglielo, dovere riguadagnare la sua grazia. Cosí lo portai meco; e fattogli intendere per una sua nutrice, e mòstrogli alla ditta il bel vaso che io avevo fatto per la sua Signora, e come io gliene volevo donare, la ditta nutrice mi fece carezze ismisurate, e mi disse che direbbe una parola a Madama, qual non era ancor vestita, e che subito dittogliene, mi metterebbe drento. La nutrice disse il tutto a Madama, la qual rispose isdegnosamente: - Ditegli che aspetti -. Io inteso questo, mi vesti' di pazienzia, la qual cosa mi è difficilissima; pure ebbi pazienzia insin doppo il suo desinare: e veduto poi l'ora tarda, la fame mi causò tanta ira, che non potendo piú resistere, mandatole divotamente il canchero nel cuore, di quivi mi parti' e me n'andai a trovare il cardinale di Loreno, e li feci presente del ditto vaso, raccomandatomi solo che mi tenessi in buona grazia del Re. Disse che non bisognava, e quando fussi bisogno, che lo farebbe volentieri: di poi chiamato un suo tesauriere, gli parlò nello orecchio. Il ditto tesauriere aspettò che io mi partissi dalla presenza del Cardinale; di poi mi disse: - Benvenuto, venite meco, che io vi darò da bere un bicchier di buon vino - al quale io dissi, non sapendo quel che lui si volessi dire: - Di grazia, Monsignore tesauriere, fatemi donare un sol bicchier di vino e un boccon di pane, perché veramente io mi vengo manco, perché sono stato da questa mattina a buon'otta insino a quest'ora, che voi vedete, digiuno, alla porta di madama di Tampes, per donargli quel bel vasetto d'argento dorato, e tutto gli ho fatto intendere, e lei, per istraziarmi sempre, m'ha fatto dire che io aspettassi. Ora m'era sopraggiunto la fame, e mi sentivo mancare; e, sí come Idio ha voluto, ho donato la roba e le fatiche mie a chi molto meglio le meritava, e non vi chieggo altro che un poco da bere, che per essere alquanto troppo colleroso, mi offende il digiuno di sorte che mi faria cader in terra isvenuto -. Tanto quanto io penai a dire queste parole, era comparso di mirabil vino e altre piacevolezze di far colezione, tanto che io mi recreai molto bene: e riaúto gli spiriti vitali, m'era uscita la stizza. Il buon tesauriere mi porse cento scudi d'oro; ai quali io feci resistenza, di non gli volere in modo nissuno. Andollo a riferire al Cardinale; il quale, dettogli una gran villania, gli comandò che me gli facessi pigliar per forza, e che non gli andassi piú inanzi altrimenti. Il tesauriere venne a me crucciato, dicendo che mai piú era stato gridato per l'addietro dal Cardinale; e volendomegli dare, io che feci un poco di resistenza, molto crucciato mi disse che me gli farebbe pigliar per forza. Io presi li dinari. Volendo andare a ringraziare il Cardinale, mi fece intendere per un suo segretario, che sempre che lui mi poteva far piacere, che me ne farebbe di buon cuore: io me ne tornai a Parigi la medesima sera. Il Re seppe ogni cosa. Dettono la baia a madama de Tampes, qual fu causa di farla maggiormente invelenire a far contro a di me, dove io portai gran pericolo della vita mia, qual si dirà al suo luogo.
XXIV.
Se bene molto prima io mi dovevo ricordare della guadagnata amicizia del piú virtuoso, del piú amorevole e del piú domestico uomo dabbene che mai io conoscessi al mondo: questo si fu messer Guido Guidi, eccellente medico e dottore e nobil cittadin fiorentino; per gli infiniti travagli postimi innanzi dalla perversa fortuna, l'avevo alquanto lasciato un poco indietro. Benché questo non importi molto, io mi pensavo, per averlo di continuo innel cuore, che bastassi; ma avvedutomi poi che la mia Vita non istà bene senza lui, l'ho commesso infra questi mia maggior travagli, acciò che sí come la e' m'era conforto e aiuto, qui mi faccia memoria di quel bene. Capitò il ditto messer Guido in Parigi; e avendolo cominciato a cognoscere, lo menai al mio castello, e quivi gli detti una stanza libera da per sé; cosí ci godemmo insieme parecchi anni. Ancora capitò il vescovo di Pavia, cioè monsignor de' Rossi, fratello del conte di San Sicondo. Questo Signore io levai d'in su l'osteria e lo missi innel mio castello, dando ancora a lui una istanza libera, dove benissimo istette accomodato con sua servitori e cavalcature per di molti mesi. Ancora altra volta accomodai messer Luigi Alamanni con i figliuoli per qualche mese; pure mi dette grazia Idio che io potetti far qualche piacere, ancora io, agli uomini e grandi e virtuosi. Con il sopraditto messer Guido godemmo l'amicizia tanti anni, quanto io là soprastetti, gloriandoci spesso insieme che noi imparavamo qualche virtú alle spese di quello cosí grande e maraviglioso principe, ogniun di noi innella sua professione. Io posso dire veramente che quello che io sia, e quanto di buono e bello io m'abbia operato, tutto è stato per causa di quel maraviglioso Re: però rappicco il filo a ragionare di lui e delle mie grande opere fattegli.
XXV.
Avevo in questo mio castello un giuoco di palla da giucare alla corda, del quale io traevo assai utile mentre che io lo facevo esercitare. Era in detto luogo alcune piccole stanzette dove abitava diversa sorte di uomini, in fra i quali era uno stampatore molto valente di libri: questo teneva quasi tutta la sua bottega drento innel mio castello, e fu quello che stampò quel primo bel libro di medicina a messer Guido. Volendomi io servire di quelle stanze, lo mandai via, pur con qualche difficultà non piccola. Vi stava ancora un maestro di salnitri; e perché io volevo servirmi di queste piccole istanzette per certi mia buoni lavoranti todeschi, questo ditto maestro di salnitri non voleva diloggiare; e io piacevolmente piú volte gli avevo detto che lui m'accomodassi delle mie stanze, perché me ne volevo servire per abituro de' mia lavoranti per il servizio del Re. Quanto piú umile parlavo, questa bestia tanto piú superbo mi rispondeva: all'utimo poi io gli detti per termine tre giorni. Il quale se ne rise, e mi disse che in capo di tre anni comincierebbe a pensarvi. Io non sapevo che costui era domestico servitore di madama di Tampes: e se e' non fussi stato che quella causa di madama di Tampes mi faceva un po' piú pensare alle cose, che prima io non facevo, lo arei subito mandato via; ma volsi aver pazienzia quei tre giorni; i quali passati che e' furno, sanza dire altro, presi todeschi, italiani e franciosi, con l'arme in mano, e molti manovali che io avevo; e in breve tempo sfasciai tutta la casa, e le sue robe gittai fuor del mio castello. E questo atto alquanto rigoroso feci, perché lui aveva dettomi, che non conosceva possanza di italiano tanto ardita che gli avessi mosso una maglia del suo luogo. Però, di poi il fatto, questo arrivò; al quale io dissi: - Io sono il minimo italiano della Italia, e non t'ho fatto nulla appetto a quello che mi basterebbe l'animo di farti, e che io ti farò, se tu parli un motto solo - con altre parole ingiuriose che io gli dissi. Quest'uomo, attonito e spaventato, dette ordine alle sue robe il meglio che potette; di poi corse a madama de Tampes, e dipinse uno inferno; e quella mia gran nimica, tanto maggiore, quanto lei era piú eloquente e piú d'assai, lo dipinse al Re; il quale due volte, mi fu detto, si volse crucciar meco e dare male commessione contro a di me; ma perché Arrigo Dalfino suo figliuolo, oggi re di Francia, aveva ricevuto alcuni dispiaceri da quella troppo ardita donna, insieme con la regina di Navarra, sorella del re Francesco, con tanta virtú mi favorirno, che il Re convertí in riso ogni cosa: per la qual cosa, con il vero aiuto de Dio io passai una gran fortuna.
XXVI.
Ancora ebbi a fare il medesimo a un altro simile a questo, ma non rovinai la casa; ben gli gittai tutte le sue robe fuori. Per la quale cosa madama de Tampes ebbe ardire tanto, che la disse al Re: - Io credo che questo diavolo una volta vi saccheggerà Parigi -. A queste parole il Re adirato rispose a madama de Tampes dicendole che io facevo troppo bene a difendermi da quella canaglia, che mi volevano inpedire il suo servizio. Cresceva ogniora maggior rabbia a questa crudel donna: chiamò a sé un pittore, il quale istava per istanza a Fontana Beliò, dove il re stava quasi di continuo. Questo pittore era italiano e bolognese, e per il Bologna era conosciuto: per il nome suo proprio si chiamava Francesco Primaticcio. Madama di Tampes gli disse, che lui doverrebbe domandare a il Re quell'opera della Fonte, che Sua Maestà aveva resoluta a me, e che lei con tutta la sua possanza ne lo aiuterebbe: cosí rimasono d'accordo. Ebbe questo Bologna la maggiore allegrezza che gli avessi mai, e tal cosa si promesse sicura, con tutto che la non fussi sua professione; ma perché gli aveva assai buon disegno, e era messo in ordine con certi lavoranti, i quali erano fattisi sotto la disciplina de il Rosso, pittore nostro fiorentino, veramente maravigliosissimo valentuomo: e ciò che costui faceva di buono, l'aveva preso dalla mirabil maniera del ditto Rosso, il quale era di già morto. Potettono tanto quelle argute ragione, con il grande aiuto di madama di Tampes e con il continuo martellare giorno e notte, or Madama, ora il Bologna, agli orecchi di quel gran Re. E quello che fu potente causa a farlo cedere, che lei e il Bologna d'accordo dissono: - Come è 'gli possibile, sacra Maestà, che, volendo quella che Benvenuto gli faccia dodici statue d'argento, per la qual cosa non n'ha ancora finito una? O se voi lo impiegate in una tanta grande impresa, è di necessità che di queste altre, che tanto voi desiderate, per certo voi ve ne priviate; perché cento valentissimi uomini non potrebbono finire tante grande opere, quante questo valente uomo ha ordite. Si vede espresso che lui ha gran voluntà di fare; la qual cosa sarà causa che a un tratto Vostra Maestà perda e lui e l'opere -. Queste con molt'altre simile parole, trovato il Re in tempera, compiacque tutto quello che dimandato e' gli avevano: e per ancora non s'era mai mostro né disegni né modegli di nulla di mano del detto Bologna.
XXVII.
In questo medesimo tempo in Parigi s'era mosso contro a di me quel sicondo abitante che io avevo cacciato del mio castello, e avevami mosso una lite, dicendo che io gli avevo rubato gran quantità della sua roba, quando l'avevo iscasato. Questa lite mi dava grandissimo affanno e toglievami tanto tempo, che piú volte mi volsi mettere al disperato per andarmi con Dio. Hanno per usanza in Francia di fare grandissimo capitale d'una lite che lor cominciano con un forestiero o con altra persona che 'e veggano che sia alquanto istraccurato allitigare; e subito che lor cominciano a vedersi qualche vantaggio innella ditta lite, truovano da venderla; e alcuni l'hanno data per dote a certi, che fanno totalmente quest'arte di comperar lite. Hanno un'altra brutta cosa, che gli uomini di Normandia, quasi la maggior parte, hanno per arte loro il fare il testimonio falso; di modo che questi che comprano la lite, subito instruiscono quattro di questi testimoni o sei, sicondo il bisogno, e per via di questi, chi non è avvertito, a produrne tanti in contrario, un che non sappia l'usanza, subito ha la sentenzia contro. E a me intravenne questi ditti accidenti: e parendomi cosa molto disonesta, comparsi alla gran sala di Parigi per difender le mie ragione; dove io viddi un giudice, luogotenente del Re, del civile, elevato in sun un gran tribunale. Questo uomo era grande, grosso e grasso, e d'aspetto austerissimo: aveva all'intorno di sé da una banda e da l'altra molti proccuratori e avvocati, tutti messi per ordine da destra e da sinistra: altri venivano, un per volta; e proponevano al ditto giudice una causa. Quelli avvocati, che erano da canto, io gli viddi talvolta parlar tutti a un tratto; dove io stetti maravigliato che quel mirabile uomo, vero aspetto di Plutone, con attitudine evidente porgeva l'orecchio ora a questo ora a quello, e virtuosamente a tutti rispondeva. E perché a me sempre è dilettato il vedere e gustare ogni sorte di virtú, mi parve questa tanto mirabile, che io non arei voluto per gran cosa non l'aver veduta. Accadde, per essere quella sala grandissima e piena di gran quantità di gente, ancora usavano diligenza che quivi non entrassi chi non v'aveva che fare, e tenevano la porta serrata e una guardia a detta porta; la qual guardia alcune volte, per far resistenza a chi lui non voleva ch'entrassi, impediva con quel gran romore quel maraviglioso giudice, il quale adirato diceva villania alla ditta guardia. E io piú volte mi abbatte', e considerai l'accidente; e le formate parole, quale io senti', furno queste, che disse il propio giudice, il quale iscòrse dua gentiluomini che venivano per vedere; e faccendo questo portiere grandissima resistenza, il ditto giudice disse gridando ad alta voce: - Sta' cheto, sta' cheto, Satanasso, levati di costí, e sta' cheto -. Queste parole innella lingua franzese suonano in questo modo: "Phe phe Satan phe phe Satan alè phe". Io che benissimo avevo imparata la lingua franzese, sentendo questo motto, mi venne in memoria quel che Dante volse dire quando lui entrò con Vergilio suo maestro drento alle porte dello Inferno. Perché Dante a tempo di Giotto dipintore furno insieme in Francia e maggiormente in Parigi, dove per le ditte cause si può dire quel luogo dove si litiga essere uno Inferno: però ancora Dante, intendendo bene la lingua franzese, si serví di quel motto; e m'è parso gran cosa che mai non sia stato inteso per tale; di modo che io dico e credo che questi comentatori gli fanno dir cose le quale lui non pensò mai.
XXVIII.
Ritornando ai fatti mia, quando io mi viddi dar certe sentenzie per mano di questi avvocati, non vedendo modo alcuno di potermi aiutare, ricorsi per mio aiuto a una gran daga che io avevo, perché sempre mi son dilettato di tener belle armi; e il primo che io cominciai a intaccare si fu quel principale che m'aveva mosso la ingiusta lite; e una sera gli detti tanti colpi, pur guardando di non lo ammazzare, innelle gambe e innelle braccia, che di tutt'a due le gambe io lo privai. Di poi ritrovai quell'altro che aveva compro la lite, e anche lui toccai di sorte che tal lite si fermò. Ringraziando di questo e d'ogni altra cosa sempre Idio, pensando per allora di stare un pezzo sanza esser molestato, dissi ai mia giovani di casa, massimo a l'italiani, per amor de Dio ogniuno attendesse alle faccende sua, e m'aiutassino qualche tempo, tanto che io potessi finire quell'opere cominciate, perché presto le finirei; di poi me volevo ritornare innItalia, non mi potendo comportare con le ribalderie di quei Franciosi; e che se quel buon Re s'adirava una volta meco, m'arebbe fatto capitar male, per avere io fatto per mia difesa di molte di quelle cotal cose. Questi italiani ditti si erano, il primo e 'l piú caro, Ascanio, del regno di Napoli, luogo ditto Tagliacozze; l'altro si era Pagolo, romano, persona nata molto umile e non si cognosceva suo padre: questi dua erano quelli che io avevo menato di Roma, li quali in detta Roma stavano meco. Un altro romano, che era venuto ancora lui a trovarmi di Roma apposta, ancora questo si domandava per nome Pagolo ed era figliuolo d'un povero gentiluomo romano della casata de' Macaroni: questo giovane non sapeva molto de l'arte, ma era bravissimo con l'arme. Un altro n'avevo, il quale era ferrarese, e per nome Bartolomeo Chioccia. Ancora un altro n'avevo: questo era fiorentino e aveva nome Pagolo Miccieri. E perché il suo fratello, ch'era chiamato per sopra nome il Gatta, questo era valente in su le scritture, ma aveva speso troppo innel maneggiare la roba di Tommaso Guadagni ricchissimo mercatante, questo Gatta mi dette ordine a certi libri, dove io tenevo i conti del gran Re Cristianissimo e d'altri; questo Pagolo Miccieri, avendo preso il modo dal suo fratello di questi mia libri, lui me gli seguitava, e io gli davo bonissima provvisione. E perché e' mi pareva molto buon giovane, perché lo vedevo divoto, sentendolo continuamente quando borbottar salmi, quando con la corona in mano, assai mi promettevo, della sua finta bontà. Chiamato lui solo da parte, gli dissi: - Pagolo, fratello carissimo; tu vedi come tu stai meco bene, e sai che tu non avevi nissuno avviamento, e di piú ancora tu se' fiorentino; per la qual cosa io mi fido piú di te, per vederti molto divoto con gli atti della religione, quale è cosa che molto mi piace. Io ti priego che tu mi aiuti, perché io non mi fido tanto di nessuno di quest'altri: pertanto ti priego che tu m'abbia cura a queste due prime cose, che molto mi darieno fastidio: l'una si è che tu guardi benissimo la roba mia, che la non mi sia tolta, e cosí tu non me la toccare; ancora, tu vedi quella povera fanciulletta della Caterina, la quale io tengo principalmente per servizio de l'arte mia, che senza non potrei fare: ancora, perché io sono uomo, me ne son servito ai mia piaceri carnali, e potria essere che la mi farebbe un figliuolo; e perché io non vo' dar le spese ai figliuoli d'altri, né manco sopporterei che mi fossi fatto una tale ingiuria. Se nissuno di questa casa fussi tanto ardito di far tal cosa, e io me ne avvedessi, per certo credo che io ammazzerei l'una e l'altro. Però ti priego, caro fratello, che tu m'aiuti; e se tu vedi nulla, subito dimmelo, perché io manderò alle forche lei e la madre e chi a tal cosa attendessi: però sia il primo a guardartene -. Questo ribaldo si fece un segno di croce, che arrivò dal capo ai piedi, e disse: - O Iesu benedetto! Dio me ne guardi, che mai io pensassi a tal cosa! prima, per non esser dedito a coteste cosaccie; di poi, non credete voi che io cognosca il gran bene che io ho da voi? - A queste parole, vedutemele dire in atto simplice e amorevole in verso di me, credetti che la stessi appunto come lui diceva.
XXIX.
Di poi dua giorni appresso, venendo la festa, messer Mattia del Nazaro, ancora lui italiano e servitor del Re, della medesima professione valentissimo uomo, m'aveva invitato con quelli mia giovani a godere a un giardino. Per la qual cosa io mi messi in ordine, e dissi ancora a Pagolo che lui dovessi venire a spasso a rallegrarsi, parendomi d'avere alquanto quietato un poco quella ditta fastidiosa lite. Questo giovane mi rispose dicendomi: - Veramente che sarebbe grande errore a lasciare la casa cosí sola: vedete quant'oro, argenti e gioie voi ci avete. Essendo a questo modo in città di ladri, bisogna guardarsi di dí come di notte: io mi attenderò a dire certe mie orazioni, in mentre che io guarderò la casa; andate con l'animo posato a darvi piacere e buon tempo: un'altra volta farà un altro questo uflizio -. Parendomi di andare con l'animo riposato, insieme con Pagolo, Ascanio e il Chioccia al ditto giardino andammo a godere, e quella giornata gran pezzo d'essa passammo lietamente. Cominciatosi a 'pressare piú inverso la sera, sopra il mezzo giorno mi toccò l'umore, e cominciai a pensare a quelle parole che con finta semplicità m'aveva detto quello isciagurato; montai in sul mio cavallo e con dua mia servitori tornai al mio castello; dove io trovai Pagolo e quella Caterinaccia quasi in sul peccato; perché giunto che io fui, la franciosa ruffiana madre con gran voce disse: - Pagolo, Caterina, gli è qui il padrone -. Veduto venire l'uno e l'altro ispaventati e sopragiunti a me tutti scompigliati, non sapendo né quello che lor si dicevano, né, come istupidi, dove loro andavano, evidentemente si cognobbe il commesso lor peccato. Per la qual cosa sopra fatta la ragione dall'ira, messi mano alla spada, resolutomi per ammazzargli tutt'a dua. Uno si fuggí, l'altra si gittò in terra ginocchioni, e gridava tutte le misericordie del cielo. Io, che arei prima voluto dare al mastio, non lo potendo cosí giugnere al primo, quando da poi l'ebbi raggiunto intanto m'ero consigliato: il mio meglio si era di cacciargli via tutt'a dua; perché con tante altre cose fattesi vicine a questa, io con difficultà arei campato la vita. Però dissi a Pagolo: - Se gli occhi mia avessino veduto quello che tu, ribaldo, mi fai credere, io ti passerei dieci volte la trippa con questa spada: or lievamiti dinanzi, che se tu dicesti mai il Pater nostro, sappi che gli è quel di san Giuliano -. Di poi cacciai via la madre e la figliuola a colpi di pinte, calci e pugna. Pensorno vendicarsi di questa ingiuria, e conferito con uno avvocato normando, insegnò loro che lei dicessi che io avessi usato seco al modo italiano; qual modo s'intendeva contro natura, cioè in soddomia; dicendo: - Per lo manco, come questo italiano sente questa tal cosa, e saputo quanto e' l'è di gran pericolo, subito vi donerà parecchi centinaia di ducati, acciò che voi non ne parliate, considerando la gran penitenzia che si fa in Francia di questo tal peccato -. Cosí rimasino d'accordo: mi posono l'accusa, e io fui richiesto.
XXX.
Quanto piú cercavo di riposo, tanto piú mi si mostrava le tribulazione. Offeso dalla fortuna ogni dí in diversi modi, cominciai a pensare qual cosa delle dua io dovevo fare; o andarmi con Dio e lasciare la Francia nella sua malora; o sí veramente combattere anche questa pugna e vedere a che fine m'aveva creato Idio. Un gran pezzo m'ero tribolato sopra questa cosa; all'utimo poi, preso per resoluzione d'andarmi con Dio, per non voler tentare tanto la mia perversa fortuna, che lei m'avessi fatto rompere il collo, quando io fui disposto in tutto e per tutto, e mosso i passi per dar presto luogo a quelle robe che io non potevo portar meco, e quell'altre sottile, il meglio che io potevo, accomodarle a dosso a me e miei servitori, pur con molto mio grave dispiacere faceva tal partita. Era rimasto solo innun mio studiolo; perché quei mia giovani, che m'avevano confortato che io mi dovessi andar con Dio, dissi loro, che gli era bene che io mi consigliassi un poco da per me medesimo; con tutto ciò che io conoscevo bene che loro dicevano in gran parte il vero; perché da poi che io fussi fuor di prigione e avessi dato un poco di luogo a questa furia, molto meglio mi potrei scusare con il Re, dicendo con lettere questo tale assassinamento fattomi sol per invidia. E sí come ho detto, m'ero risoluto a far cosí; e mossomi, fui preso per una spalla e volto, e una voce che disse animosamente: - Benvenuto, come tu suoi, e non aver paura -. Subito presomi contrario consiglio da quel che avevo fatto, i' dissi a quei mia giovani taliani: - Pigliate le buone arme e venite meco, e ubbidite a quanto io vi dico, e non pensate ad altro, perché io voglio comparire. Se io mi partissi, voi andresti l'altro dí tutti in fumo; sí che ubbidite e venite meco -. Tutti d'accordo quelli giovani dissono: - Da poi che noi siamo qui e viviamo del suo, noi doviamo andar seco e aiutarlo insinché c'è vita a ciò che lui proporrà; perché gli ha detto piú il vero che noi non pensavamo. Subito che e' fossi fuora di questo luogo, e' nemici sua ci farebbon tutti mandar via. Consideriamo bene le grande opere, che son qui cominciate, e di quanta grande inportanza le sono: a noi non ci basterebbe la vista di finirle sanza lui, e li nimici sua direbbono che e' se ne fussi ito per non gli bastar la vista di fluire queste cotale imprese -. Dissono di molte parole, oltre a queste, d'importanza. Quel giovane romano de' Macaroni fu il primo a metter animo agli altri: ancora chiamò parecchi di quei tedeschi e franciosi che mi volevan bene. Eramo dieci infra tutti: io presi il cammino dispostomi resoluto di non mi lasciare carcerare vivo. Giunto alla presenza dei giudici cherminali, trovai la ditta Caterina e sua madre. Sopragiunsi loro addosso che le ridevano con un loro avvocato: entrai drento e animosamente domandai il giudice, che gonfiato, grosso e grasso, stava elevato sopra gli altri in su 'n un tribunale. Vedutomi quest'uomo, minaccioso con la testa, disse con sommissa voce: - Se bene tu hai nome Benvenuto, questa volta tu sarai il mal venuto -. Io intesi, e replicai un'altra volta dicendo: - Presto ispacciatemi: ditemi quel che io son venuto a far qui -. Allora il ditto giudice si volse a Caterina e le disse: - Caterina, di' tutto quel che t'è occorso d'avere a fare con Benvenuto -. La Caterina disse che io avevo usato seco al modo della Italia. Il giudice voltosi a me, disse: - Tu senti quel che la Caterina dice, Benvenuto -. Allora io dissi: - Se io avessi usato seco al modo italiano, l'arei fatto solo per desiderio d'avere un figliuolo, sí come fate voi altri -. Allora il giudice replicò, dicendo: - Ella vuol dire che tu hai usato seco fuora del vaso dove si fa figliuoli -. A questo io dissi che quello non era il modo italiano; anzi che doveva essere il modo franzese, da poi che lei lo sapeva e io no; e che io volevo che lei dicessi a punto innel modo che io avevo aùto a far seco. Questa ribaldella puttana iscelleratamente disse iscoperto e chiaro il brutto modo che la voleva dire. Io gnene feci raffermare tre volte l'uno appresso a l'altro; e ditto che l'ebbe, io dissi ad alta voce: - Signor giudice, luogotenente del Re Cristianissimo, io vi domando giustizia; perché io so che le legge del Cristianissimo Re a tal peccato promettono il fuoco a l'agente e al paziente; però costei confessa il peccato: io non la cognosco in modo nessuno: la ruffiana madre è qui che per l'un delitto e l'altro merita il fuoco; io vi domando iustizia -. E queste parole replicavo tanto frequente e ad alta voce, sempre chiedendo il fuoco per lei e per la madre: dicendo al giudice, che se non la metteva prigione alla presenza mia, che io correrei al Re, e direi la ingiustizia che mi faceva un suo luogotenente cherminale. Costoro a questo mio gran romore cominciorno a 'bassar le voci; allora io l'alzavo piú: la puttanella a piagnere insieme con la madre, e io al giudice gridavo: - Fuoco, fuoco -. Quel poltroncione, veduto che la cosa non era passata in quel modo che lui aveva disegnato, cominciò con piú dolce parole a iscusare il debole sesso femminile. A questo, io considerai che mi pareva pure d'aver vinto una gran pugna, e borbottando e minacciando, volentieri m'andai con Dio; che certo arei pagato cinquecento scudi a non v'esser mai comparso. Uscito di quel pelago, con tutto il cuore ringraziai Idio, e lieto me ne tornai con i mia giovani al mio castello.
XXXI.
Quando la perversa fortuna, o sí veramente vogliam dire quella nostra contraria istella, toglie a perseguitare uno uomo, non gli manca mai modi nuovi da mettere in campo contro a di lui. Parendomi d'esser uscito di uno inistimabil pelago, pensando pure che per qualche poco di tempo questa mia perversa istella mi dovessi lasciare istare, non avendo ancora ripreso il fiato da quello inistimabil pericolo, che lei me ne dette dua a un tratto innanzi. In termine di tre giorni mi occorre dua casi; a ciascuno dei dua la vita mia è in sul bilico della bilancia. Questo si fu che, andando io a Fontana Beliò a ragionare con il Re, che m'aveva iscritto una lettera, per la quale lui voleva che io facessi le stampe delle monete di tutto il suo regno, e con essa lettera m'aveva mandato alcuni disegnetti per mostrarmi parte della voglia sua; ma ben mi dava licenzia che io facessi tutto quel che a me piaceva: io avevo fatto nuovi disegni, sicondo il mio parere e sicondo la bellezza de l'arte. Cosí giunto a Fontana Beliò, uno di quei tesaurieri, che avevano commessione dal Re di provvedermi, - questo si chiamava monsignor della Fa - il quale subito mi disse: - Benvenuto, il Bologna pittore ha aùto dal Re commessione di fare il vostro gran colosso e tutte le commessione che 'l nostro Re ci aveva dato per voi, tutte ce l'ha levate, e datecele per lui. A noi c'è saputo grandemente male, e c'è parso che questo vostro italiano molto temerariamente si sia portato inverso di voi; perché voi avevi di già aùto l'opera per virtú de' vostri modelli e delle vostre fatiche; costui ve la toglie solo per il favore di madama di Tampes: e sono oramai di molti mesi, che gli ha aùto tal commessione, e ancora non s'è visto che dia ordine a nulla -. Io, maravigliato, dissi: - Come è egli possibile che io non abbia mai saputo nulla di questo? - Allora mi disse che costui l'aveva tenuta segretissima, e che l'aveva aúta con grandissima difficultà, perché il Re non gnene voleva dare; ma le sollecitudine di madama di Tampes solo gnene avevan fatto avere. Io sentitomi a questo modo offeso e a cosí gran torto, e veduto tormi un'opera la quale io m'avevo guadagnata con le mia gran fatiche, dispostomi di fare qualche gran cosa di momento con l'arme, difilato me n'andai a trovare il Bologna. Trava'lo in camera sua, e inne' sua studii: fecemi chiamare drento, e con certe sue lombardesche raccoglienze mi disse qual buona faccenda mi aveva condotto quivi. Allora io dissi: - Una faccenda bonissima e grande -. Quest'uomo commesse ai sua servitori che portassino da bere, e disse: - Prima che noi ragioniamo di nulla, voglio che noi beviamo insieme; che cosí è il costume di Francia -. Allora io dissi: - Misser Francesco, sappiate che quei ragionamenti che noi abbiamo da fare insieme non richieggono il bere imprima: forse dappoi si potria bere -. Cominciai a ragionar seco dicendo: - Tutti gli uomini che fanno professione di uomo dabbene, fanno le opere loro che per quelle si cognosce quelli essere uomini dabbene; e faccendo il contrario, non hanno piú il nome di uomo da bene. Io so che voi sapevi che il Re m'aveva dato da fare quel gran colosso, del quale s'era ragionato diciotto mesi, e né voi né altri mai s'era fatto innanzi a dir nulla sopracciò; per la qual cosa con le mie gran fatiche io m'ero mostro al gran Re, il quale, piaciutogli i mia modelli, questa grande opera aveva dato a fare a me; e son tanti mesi che non ho sentito altro: solo questa mattina ho inteso che voi l'avete aúta e toltola a me; la quale opera io me la guadagnai con i mia maravigliosi fatti, e voi me la togliete solo con le vostre vane parole.
XXXII.
A questo il Bologna rispose e disse: - O Benvenuto, ogniun cerca di fare il fatto suo in tutt'i modi che si può: se il Re vuol cosí, che volete voi replicare altro? ché getteresti via il tempo, perché io l'ho aúta ispedita, ed è mia. Or dite voi ciò che voi volete, e io v'ascolterò -. Dissi cosí: - Sappiate, messer Francesco, che io v'arei da dire molte parole, per le quale con ragion mirabile e vera io vi farei confessare che tal modi non si usano, qual son cotesti che voi avete fatto e ditto, in fra gli animali razionali; però verrò con breve parole presto al punto della conclusione ma aprite gli orecchi e intendetemi bene, perché la importa -. Costui si volse muovere da sedere, perché mi vidde tinto in viso e grandemente cambiato: io dissi che non era ancor tempo a muoversi: che stessi a sedere e che m'ascoltassi. Allora io cominciai, dicendo cosí: - Messer Francesco, voi sapete che l'opera era prima mia, e che, a ragion di mondo, gli era passato il tempo che nessuno non ne doveva piú parlare: ora io vi dico, che io mi contento che voi facciate un modello, e io, oltra a quello che io ho fatto, ne farò un altro; di poi cheti cheti lo porteremo al nostro gran Re; e chi guadagnerà per quella via il vanto d'avere operato meglio, quello meritamente sarà degno del colosso; e se a voi toccherà a farlo, io diporrò tutta questa grande ingiuria che voi m'avete fatto, e benedirovvi le mane, come piú degne delle mia d'una tanta gloria. Sí che rimagnamo cosí, e saremo amici; altrimenti noi saremo nimici; e Dio che aiuta sempre la ragione, e io che le fo la strada, vi mostrerrei in quanto grande error voi fussi -. Disse messer Francesco: - L'opera è mia, e da poi che la m'è stata data, io non voglio mettere il mio in compromesso -. A cotesto io rispondo: - Messer Francesco, che da poi che voi non volete pigliare il buon verso, quale è giusto e ragionevole, io vi mostrerrò quest'altro, il quale sarà come il vostro, che è brutto e dispiacevole. Vi dico cosí, che se io sento mai in modo nessuno che poi parliate di questa mia opera, io subito vi ammazzerò come un cane: e perché noi non siamo né in Roma, né in Bologna, né in Firenze - qua si vive in un altro modo - se io so mai che voi ne parliate al Re o ad altri, io vi ammazzerò a ogni modo. Pensate qual via voi volete pigliare: o quella prima buona, che io dissi, o questa ultima cattiva, che io dico -. Quest'uomo non sapeva né che si dire, né che si fare, e io ero in ordine per fare piú volentieri quello effetto allora che mettere altro tempo in mezzo. Non disse altre parole che queste, il ditto Bologna: - Quando io farò le cose che debbe fare uno uomo da bene, io non arò una paura al mondo -. A questo dissi: - Bene avete detto; ma faccendo il contrario abbiate paura, perché la v'importa - e subito mi parti' dallui, e anda'mene dal Re, e con Sua Maestà disputai un gran pezzo la faccenda delle monete; la quale noi non fummo molto d'accordo; perché essendo quivi il suo Consiglio, lo persuadevano che le monete si dovessin fare in quella maniera di Francia, sí come le s'eran fatte insino a quel tempo. Ai quali risposi che Sua Maestà m'aveva fatto venire della Italia perché io gli facessi dell'opere che stessin bene; e se Sua Maestà mi comandassi al contrario, a me non comporteria l'animo mai di farle. A questo si dette spazio per ragionarne un'altra volta: subito io me ne tornai a Parigi.

 

 

 

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Ultimo Aggiornamento:13/07/2005 23.28