XXXIII. |
Gli aveva quel suo misser Giovanni compro un cavallo morello
bellissimo, in el quale aveva speso centocinquanta scudi. Questo cavallo si maneggiava
mirabilissimamente, in modo che questo Luigi andava ogni giorno a saltabeccar con questo
cavallo intorno a questa meretrice Pantassilea. Io, avedutomi di tal cosa, non me ne curai
punto, dicendo che ogni cosa faceva secondo la natura sua; e mi attendevo a' mia studi.
Accadde una domenica sera, che noi fummo invitati da quello scultore Michelagnolo sanese a
cena seco; ed era di state. A questa cena ci era il Bachiacca già ditto, e con esso aveva
menato quella ditta Pantassilea, sua prima pratica. Cosí essendo a tavola a cena, lei era
a sedere in mezzo fra me e il Bachiacca ditto: in su il piú bello della cena lei si levò
da tavola, dicendo che voleva andare a alcune sue commodità, perché si sentiva dolor di
corpo, e che tornerebbe subito. In mentre che noi piacevolissimamente ragionavàno e
cenavamo, costei era soprastata alquanto piú che il dovere. Accadde che, stando in
orecchi, mi parve sentire isghignazzare cosí sommissamente nella strada. Io teneva un
coltello in mano, il quale io adoperavo in mio servizio a tavola. Era la finestra tanto
appresso alla tavola, che sollevatomi alquanto, viddi nella strada quel ditto Luigi Pulci
insieme con la ditta Pantassilea, e senti' di loro Luigi che disse: - Oh se quel diavolo
di Benvenuto ci vedessi, guai a noi! - E lei disse: - Non abiate paura; sentite che romore
e' fanno: pensano a ogni altra cosa che a noi -. Alle qual parole io, che gli avevo
conosciuti, mi gittai da terra la finestra, e presi Luigi per la cappa e col coltello che
io avevo in mano certo lo ammazzavo; ma perché gli era in sun un cavalletto bianco, al
quale lui dette di sprone, lasciandomi la cappa in mano per campar la vita. La Pantassilea
si cacciò a fuggire in una chiesa quivi vicina. Quelli che erano a tavola, subito
levatisi, tutti vennono alla volta mia, pregandomi che io non volessi disturbate né me
né loro a causa di una puttana; ai quali io dissi, che per lei io non mi sarei mosso, ma
sí bene per quello scellerato giovine, il quale dimostrava di stimarmi sí poco: e cosí
non mi lasciai piegare da nessuna di quelle parole di quei virtuosi uomini da bene; anzi
presi la mia spada e da me solo me ne andai in Prati; perché la casa dove noi cenavamo
era vicina alla porta di Castello, che andava in Prati. Cosí andando alla volta di Prati,
non istetti molto che, tramontato il sole, a lento passo me ne ritornai in Roma. Era già
fatto notte e buio, e le porte di Roma non si serravano. Avvicinatosi a dua ore, passai da
casa di quella Pantassilea, con animo, che, essendovi quel Luigi Pulci, di fare dispiacere
a l'uno e l'altro. Veduto e sentito che altri non era in casa che una servaccia chiamata
la Canida, andai a posare la cappa e il fodero della spada, e cosí me ne venni alla ditta
casa, la quali era drieto a Banchi in sul fiume del Tevero. Al dirimpetto a questa casa si
era un giardino di uno oste, che si domandava Romolo: questo giardino era chiuso da una
folta siepe di marmerucole, innella quale cosí ritto mi nascosi, aspettando che la ditta
donna venissi a casa insieme con Luigi. Alquanto soprastato, capitò quivi quel mio amico
detto il Bachiacca, il quale o sí veramente se l'era immaginato, o gli era stato detto.
Somissamente mi chiamò compare (che cosí ci chiamavamo per burla); e mi pregò per
l'amor di Dio, dicendo queste parole quasi che piangendo: - Compar mio, io vi priego che
voi non facciate dispiacere a quella poverina, perché lei non ha una colpa al mondo -. A
il quale io dissi: - Se a questa prima parola voi non mi vi levate dinanzi, io vi darò di
questa spada in sul capo -. Spaventato questo mio povero compare, subito se li mosse il
corpo, e poco discosto possette andare, che bisognò che gli ubbidissi. Gli era uno
stellato, che faceva un chiarore grandissimo: in un tratto io sento un romore di piú
cavagli e da l'un canto e dall'altro venivano inanzi: questi si erano il ditto Luigi e la
ditta Pantassilea accompagnati da un certo misser Benvegnato perugino, cameriere di papa
Clemente, e con loro avevano quattro valorosissimi capitani perugini, con altri bravissimi
giovani soldati: erano in fra tutti piú che dodici spade. Quando io viddi questo,
considerato che io non sapevo per qual via mi fuggire, m'attendevo a ficcare in quella
siepe; e perché quelle pungente marmerucole mi facevano male, e mi aissavo come si fa il
toro, quasi risolutomi di fare un salto e fuggire; in questo, Luigi aveva il braccio al
collo alla ditta Pantassilea, dicendo: - Io ti bacerò pure un tratto, al dispregio di
quel traditore di Benvenuto -. A questo, essendo molestato dalle ditte marmerucole e
sforzato dalle ditte parole del giovine, saltato fuora, alzai la spada, e con gran voce
dissi: - Tutti siate morti -. In questo il colpo della spada cadde in su la spalla al
detto Luigi: e perché questo povero giovine que' satiracci l'avevano tutto inferrucciato
di giachi e d'altre cose tali, il colpo fu grandissimo; e voltasi la spada, dette in sul
naso e in su la bocca alla ditta Pantassilea. Caduti tutti a dua in terra, il Bachiacca
con le calze a mezza gamba gridava e fuggiva. Vòltomi agli altri arditamente con la
spada, quelli valorosi uomini, per sentire un gran romore che aveva mosso l'osteria,
pensando che quivi fossi l'esercito di cento persone, se bene valorosamente avevano messo
mano alle spade, due cavalletti infra gli altri ispaventati gli missono in tanto
disordine, che gittando dua di quei migliori sottosopra, gli altri si missono in fuga: e
io veduto uscirne a bene, con velocissimo corso e onore usci' di tale impresa, non volendo
tentare piú la fortuna che il dovere. In quel disordine tanto smisurato s'era ferito con
le loro spade medesime alcun di quei soldati e capitani, e misser Benvegnato ditto,
camerier del papa, era stato urtato e calpesto da un suo muletto; e un servitore suo,
avendo messo man per la spada, cadde con esso insieme, e lo ferí in una mana malamente.
Questo male causò, che piú che tutti li altri quel misser Benvegnato giurava in quel lor
modo perugino, dicendo: - Per lo... di Dio, che io voglio che Benvegnato insegni vivere a
Benvenuto - e commesse a un di quei sua capitani, forse piú ardito che gli altri, ma per
esser giovane aveva manco discorso. Questo tale mi venne a trovare dove io mi ero
ritirato, in casa un gran gentiluomo napoletano, il quale avendo inteso e veduto alcune
cose della mia professione, apresso a quelle la disposizione de l'animo e del corpo atta a
militare, la qual cosa era quella a che il gentiluomo era inclinato; in modo che, vedutomi
carezzare, e trovatomi ancora io nella propria beva mia, feci una tal risposta a quel
capitano, per la quale io credo che molto si pentissi di essermi venuto inanzi. Apresso a
pochi giorni, rasciutto alquanto le ferite e a Luigi e alla puttana e a quelli altri,
questo gran gentiluomo napoletano fu ricerco da quel misser Benvegnato, al cui era uscito
il furore, di farmi far pace con quel giovane detto Luigi, e che quelli valorosi soldati,
li quali non avevano che far nulla con esso meco, solo mi volevano cognoscere. La qual
cosa quel gentiluomo disse attutti, che mi merrebbe dove e' volevano, e che volontieri mi
farebbe far pace; con questo, che non si dovessi né dall'una parte né dall'altra
ricalcitrar parole, perché sarebbon troppo contra il loro onore; solo bastava far segno
di bere e baciarsi, e che le parole le voleva usar lui, con le quale lui volontieri li
salveria. Cosí fu fatto. Un giovedí sera il detto gentiluomo mi menò in casa al ditto
misser Benvegnato, dove era tutti quei soldati che s'erano trovati a quella isconfitta, ed
erano ancora a tavola. Con il gentiluomo mio era piú di trenta valorosi uomini, tutti ben
armati; cosa che il ditto misser Benvegnato non aspettava. Giunti in sul salotto, prima il
detto gentiluomo, e io apresso, disse queste parole: - Dio vi salvi, signori: noi siamo
giunti a voi, Benvenuto e io, il quale io lo amo come carnal fratello; e siamo qui
volentieri a far tutto quello che voi avete volontà di fare -. Misèr Benvegnato, veduto
empiersi la sala di tante persone, disse: - Noi vi richiedemo di pace e non d'altro -.
Cosí misèr Benvegnato promisse, che la corte del governator di Roma non mi darebbe noia.
Facemmo la pace: onde io subito mi ritornai alla mia bottega, non potendo stare una ora
sanza quel gentiluomo napoletano, il quale o mi veniva a trovare o mandava per me. In
questo mentre guarito il ditto Luigi Pulci, ogni giorno era in quel suo cavallo morello,
che tanto bene si maneggiava. Un giorno in fra gli altri, essendo piovegginato, e lui
atteggiava il cavallo a punto in su la porta di Pantassilea, isdrucciolando cadde, e il
cavallo addòssogli; rottosi la gamba dritta in tronco, in casa la ditta Pantassilea ivi a
pochi giorni morí, e adempié il giuro che di cuore lui a Dio aveva fatto. Cosí si vede
che Idio tien conto de' buoni e de' tristi, e a ciascun dà il suo merito. |
XXXIV. |
Era di già tutto il mondo in arme. Avendo papa Clemente mandato a
chiedere al signor Giovanni de' Medici certe bande di soldati, i quali vennono, questi
facevano tante gran cose in Roma, che gli era male stare alle botteghe pubbliche. Fu causa
che io mi ritirai in una buona casotta drieto a Banchi; e quivi lavoravo a tutti quelli
guadagnati mia amici. I mia lavori in questo tempo non furno cose di molta importanza;
però non mi occorre ragionar di essi. Mi dilittai in questo tempo molto della musica e di
tal piaceri simili a quella. Avendo papa Clemente, per consiglio di misser Iacopo
Salviati, licenziato quelle cinque bande che gli aveva mandato il signor Giovanni, il
quale di già era morto in Lombardia, Borbone, saputo che a Roma non era soldati,
sollecitissimamente spinse l'esercito suo alla volta di Roma. Per questa occasione tutta
Roma prese l'arme; il perché, essendo io molto amico di Alessandro, figliuol di Piero del
Bene, e perché a tempo che i Colonnesi vennono in Roma mi richiese che io gli guardassi
la casa sua: dove che a questa maggior occasione mi pregò, che io facessi cinquanta
compagni per guardia di detta casa, e che io fussi lor guida, sí come avevo fatto a tempo
de' Colonnesi; onde io feci cinquanta valorosissimi giovani, e intrammo in casa sua ben
pagati e ben trattati. Comparso di già l'esercito di Borbone alle mura di Roma, il detto
Alessandro del Bene mi pregò che io andassi seco a farli compagnia: cosí andammo un di
quelli miglior compagni e io; e per la via con esso noi si accompagnò un giovanetto
addomandato Cechino della Casa. Giugnemmo alle mura di Campo Santo, e quivi vedemmo quel
maraviglioso esercito, che di già faceva ogni suo sforzo per entrare. A quel luogo delle
mura, dove noi ci accostammo, v'era molti giovani morti da quei di fuora: quivi si
combatteva a piú potere: era una nebbia folta quanto immaginar si possa. Io mi vuolsi a
Lessandro e li dissi: - Ritiriamoci a casa il piú presto che sia possibile, perché qui
non è un rimedio al mondo; voi vedete, quelli montano e questi fuggono -. Il ditto
Lessandro spaventato, disse: - Cosí volessi Idio che venuti noi non ci fussimo! - e cosí
vòltosi con grandissima furia per andarsene, il quale io ripresi, dicendogli: - Da poi
che voi mi avete menato qui, gli è forza fare qualche atto da uomo -. E vòlto il mio
archibuso, dove io vedevo un gruppo di battaglia piú folta e piú serrata, posi la mira
innel mezzo apunto a uno che io vedevo sollevato dagli altri; per la qual cosa la nebbia
non mi lasciava discernere se questo era a cavallo o a piè. Vòltomi subito a Lessandro e
a Cechino, dissi loro che sparassino i loro archibusi, e insegnai loro il modo, acciocché
e' non toccassino una archibusata da que' di fuora. Cosí fatto dua volte per uno, io mi
affacciai alle mura destramente, e veduto in fra di loro un tumulto istrasordinario, fu
che da questi nostri colpi si ammazzò Borbone; e fu quel primo che io vedevo rilevato da
gli altri, per quanto da poi s'intese. Levatici di quivi, ce ne andammo per Campo Santo,
ed entrammo per San Piero; e usciti là drieto alla chiesa di Santo Agnolo, arrivammo al
portone di Castello con grandissime difficultà, perché il signor Renzo da Ceri e il
signor Orazio Baglioni davano delle ferite e ammazzavono tutti quelli che si spiccavano
dal combattere alle mura. Giunti al detto portone, di già erano entrati una parte de'
nimici in Roma, e gli avevamo alle spalle. Volendo il Castello far cadere la saracinesca
del portone, si fece un poco di spazio, di modo che noi quattro entrammo drento. Subito
che io fui entrato, mi prese il capitan Pallone de' Medici, perché, essendo io della
famiglia del Castello, mi forzò che io lasciassi Lessandro; la qual cosa molto contra mia
voglia feci. Cosí salitomi su al mastio, innel medesimo tempo era entrato papa Clemente
per i corridori innel Castello; perché non s'era voluto partire prima del palazzo di San
Piero, non possendo credere che coloro entrassino. Da poi che io mi ritrovai drento a quel
modo, accosta' mi a certe artiglierie, le quali aveva a guardia un bonbardiere chiamato
Giuliano fiorentino. Questo Giuliano affacciatosi lí al merlo del castello, vedeva la sua
povera casa saccheggiare, e straziare la moglie e' figliuoli; in modo che, per non dare ai
suoi, non ardiva sparare le sue artiglierie; e gittato la miccia da dar fuoco per terra,
con grandissimo pianto si stracciava il viso; e 'l simile facevano certi altri
bonbardieri. Per la qual cosa io presi una di quelle miccie, faccendomi aiutare da certi
ch'erano quivi, li quali non avevano cotai passione: volsi certi pezzi di sacri e
falconetti dove io vedevo il bisogno, e con essi ammazzai di molti uomini de' nemici; che
se questo non era, quella parte che era intrata in Roma quella mattina, se ne veniva
diritta al Castello; ed era possibile che facilmente ella entrassi, perché l'artiglierie
non davano lor noia. Io seguitavo di tirare; per la qual cosa alcun cardinali e signori mi
benedivano e davonmi grandissimo animo. Il che io baldanzoso, mi sforzavo di fare quello
che io non potevo; basta che io fu' causa di campare la mattina il Castello, e che quelli
altri bonbardieri si rimessono a fare i loro uffizii. Io seguitai tutto quel giorno:
venuto la sera, in mentre che l'esercito entrò in Roma per la parte di Tresteveri, avendo
papa Clemente fatto capo di tutti e' bonbardieri un gran gentiluomo romano, il quale si
domandava misser Antonio Santa Croce, questo gran gentiluomo la prima cosa se ne venne a
me, faccendomi carezze: mi pose con cinque mirabili pezzi di artiglieria innel piú
eminente luogo del Castello, che si domanda da l'Agnolo a punto: questo luogo circunda il
Castello atorno atorno e vede inverso Prati e in verso Roma: cosí mi dette tanti sotto a
di me a chi io potessi comandare, per aiutarmi voltare le mie artiglierie; e fattomi dare
una paga innanzi, mi consegnò del pane e un po' di vino, e poi mi pregò, che in quel
modo che io avevo cominciato seguitassi. Io, che tal volta piú era inclinato a questa
professione che a quella che io tenevo per mia, la facevo tanto volentieri, che la mi
veniva fatta meglio che la ditta. Venuto la notte, e i nimici entrati in Roma, noi che
eramo nel Castello, massimamente io, che sempre mi son dilettato veder cose nuove, istavo
considerando questa inestimabile novità e 'ncendio; la qual cosa quelli che erano in ogni
altro luogo che in Castello, nolla possettono né vedere né inmaginare. Per tanto io non
mi voglio mettere a descrivere tal cosa; solo seguiterò descrivere questa mia vita che io
ho cominciato, e le cose che in essa a punto si appartengono. |
XXXV. |
Seguitando di esercitar le mie artiglierie continuamente, per mezzo di
esse in un mese intero che noi stemmo nel Castello assediati, mi occorse molti grandissimi
accidenti degni di raccontargli tutti; ma per non voler essere tanto lungo, né volermi
dimostrare troppo fuor della mia professione, ne lascierò la maggior parte, dicendone
solo quelli che mi sforzano, li quali saranno i manco e i piú notabili. E questo è il
primo: che avendomi fatto quel ditto misser Antonio Santa Croce discender giú de
l'Agnolo, perché io tirassi a certe case vicino al Castello, dove si erano veduti entrare
certi dell'inimici di fuora, in mentre che io tiravo, a me venne un colpo di artiglieria,
il qual dette in un canton di un merlo, e presene tanto, che fu causa di non mi far male:
perché quella maggior quantità tutta insieme mi percosse il petto; e, fermatomi
l'anelito, istavo in terra prostrato come morto, e sentivo tutto quello che i circustanti
dicevano; in fra i quali si doleva molto quel misser Antonio Santa Croce, dicendo: -
Oimè, che noi abiàn perso il migliore aiuto che noi ci avessimo -. Sopragiunto a questo
rumore un certo mio compagno, che si domandava Gianfrancesco, piffero, questo uomo era
piú inclinato alla medicina che al piffero, e subito piangendo corse per una caraffina di
bonissimo vin greco: avendo fatto rovente una tegola, in su la quale e' messe su una buona
menata di assenzio, di poi vi spruzzò su di quel buon vin greco; essendo inbeuto bene il
ditto assenzio, subito me lo messe in sul petto, dove evidente si vedeva la percossa. Fu
tanto la virtú di quello assenzio, che resemi subito quelle ismarrite virtú. Volendo
cominciare a parlare, non potevo, perché certi sciocchi soldatelli mi avevano pieno la
bocca di terra, parendo loro con quella di avermi dato la comunione, con la quale loro
piú presto mi avevano scomunicato, perché non mi potevo riavere, dandomi questa terra
piú noia assai che la percossa. Pur di questa scampato, tornai a que' furori delle
artiglierie, seguitandoli con tutta quella virtú e sollecitudine migliore che inmaginar
potevo. E perché papa Clemente aveva mandato a chiedere soccorso al duca di Urbino, il
quale era con lo esercito de' Veniziani, dicendo all'imbasciadore, che dicessi a Sua
Eccellenzia, che tanto quanto il detto Castello durava a fare ogni sera tre fuochi in cima
di detto Castello, accompagnati con tre colpi di artiglieria rinterzati, che insino che
durava questo segno, dimostrava che il Castello non saria areso; io ebbi questa carica di
far questi fuochi e tirare queste artiglierie: avvenga che sempre di giorno io le
dirizzava in quei luoghi dove le potevan fare qualche gran male; la qual cosa il Papa me
ne voleva di meglio assai, perché vedeva che io facevo l'arte con quella avvertenza che a
tal cose si promette. Il soccorso de il detto duca mai non venne; per la qual cosa io, che
non son qui per questo, altro non descrivo. |
XXXVI. |
In mentre che io mi stavo su a quel mio diabolico esercizio, mi veniva
a vedere alcuni di quelli cardinali che erano in Castello, ma piú ispesso il cardinale
Ravenna e il cardinal de' Gaddi, ai quali io piú volte dissi ch'ei non mi capitassino
innanzi, perché quelle lor berrettuccie rosse si scorgevano discosto; il che da que'
palazzi vicini, com'era la Torre de' Bini, loro e io portavomo pericolo grandissimo; di
modo che per utimo io gli feci serrare, e ne acquistai con loro assai nimicizia. Ancora mi
capitava spesso intorno il signor Orazio Baglioni, il quale mi voleva molto bene. Essendo
un giorno in fra gli altri ragionando meco, lui vidde certa dimostrazione in una certa
osteria, la quale era fuor della porta di Castello, luogo chiamato Baccanello. Questa
osteria aveva per insegna un sole dipinto immezzo dua finestre, di color rosso. Essendo
chiuse le finestre, giudicò il detto signor Orazio, che al dirimpetto drento di quel sole
in fra quelle due finestre fussi una tavolata di soldati a far gozzoviglia; il perché mi
disse: - Benvenuto, s'e' ti dessi il cuore di dar vicino a quel sole un braccio con questo
tuo mezzo cannone, io credo che tu faresti una buona opera, perché colà si sente un gran
romore, dove debb'essere uomini di molta importanza -. Al qual signor io dissi: - A me
basta la vista di dare in mezzo a quel sole - ma sí bene una botte piena di sassi, ch'era
quivi vicina alla bocca di detto cannone, el furore del fuoco e di quel vento che faceva
il cannone, l'arebbe mandata atterra. Alla qual cosa il detto signore mi rispose: - Non
mettere tempo in mezzo, Benvenuto: imprima non è possibile che, innel modo che la sta, il
vento de il cannone la faccia cadere; ma se pure ella cadessi e vi fussi sotto il Papa,
saria manco male che tu non pensi, sicché tira, tira -. Io, non pensando piú là, detti
in mezzo al sole, come io avevo promesso a punto. Cascò la botte, come io dissi, la qual
dette a punto in mezzo in fra il cardinal Farnese e misser Iacopo Salviati, che bene gli
arebbe stiacciati tutti a dui: che di questo fu causa che il ditto cardinal Farnese a
punto aveva rimproverato, che il ditto misser Iacopo era causa del sacco di Roma; dove
dicendosi ingiuria l'un l'altro, per dar campo alle ingiuriose parole, fu la causa che la
mia botte non gli stiacciò tutt'a dua. Sentito il gran rimore che in quella bassa corte
si faceva, il buon signor Orazio con gran prestezza se ne andò giú; onde io fattomi
fuora, dove era caduta la botte, senti' alcuni che dicevano: - E' sarebbe bene ammazzare
quel bonbardieri -; per la qual cosa io volsi dua falconetti alla scala che montava su,
con animo risoluto, che il primo che montava, dar fuoco a un de' falconetti. Dovetton que'
servitori del cardinal Farnese aver commessione dal cardinale di venirmi a fare
dispiacere; per la qual cosa io mi feci innanzi, e avevo il fuoco in mano. Conosciuto
certi di loro, dissi: - O scannapane, se voi non vi levate di costí, e se gli è nessuno
che ardisca entrar drento a queste scale, io ho qui dua falconetti parati, con e' quali io
farò polvere di voi; e andate a dire al cardinale, che io ho fatto quello che dai mia
maggiori mi è stato commesso, le qual cose si sono fatte e fannosi per difension di lor
preti, e non per offenderli -. Levatisi e' detti, veniva su correndo il ditto signor
Orazio Baglioni, al quale io dissi che stessi indrieto, se non che io l'ammazzerei,
perché io sapevo benissimo chi egli era. Questo signore non sanza paura si fermò
alquanto, e mi disse: - Benvenuto, io son tuo amico -. Al quale io dissi: - Signore,
montate pur solo, e venite poi in tutti i modi che voi volete -. Questo signore, ch'era
superbissimo, si fermò alquanto, e con istizza mi disse: - Io ho voglia di non venire
piú su e di far tutto il contrario che io avevo pensato di far per te -. A questo io gli
risposi, che sí bene come io ero messo in quello uffizio per difendere altrui, che cosí
ero atto a difendere ancora me medesimo. Mi disse che veniva solo; e montato ch'e' fu,
essendo lui cambiato piú che 'l dovere nel viso, fu causa che io tenevo la mana in su la
spada, e stavo in cagnesco seco. A questo lui cominciò a ridere, e ritornatogli il colore
nel viso, piacevolissimamente mi disse: - Benvenuto mio, io ti voglio quanto bene io ho, e
quando sarà tempo che a Dio piaccia, io te lo mostretrò. Volessi Idio che tu gli avessi
ammazzati que' dua ribaldi, ché uno è causa di sí gran male, e l'altro talvolta è per
esser causa di peggio -. Cosí mi disse, che se io fussi domandato che io non dicessi che
lui fussi quivi da me quando io detti fuoco a tale artiglieria; e del restante che io non
dubitassi. I romori furno grandissimi, e la cosa durò un gran pezzo. In questo io non mi
voglio allungare piú inanzi: basta che io fu' per fare le vendette di mio padre con
misser Iacopo Salviati, il quale gli aveva fatto mille assassinamenti (secondo che detto
mio padre se ne doleva). Pure disavedutamente gli feci una gran paura. Del Farnese non vo'
dir nulla, perché si sentirà al suo luogo quanto gli era bene che io l'avessi ammazzato. |
XXXVII. |
Io mi attendevo a tirare le mie artiglierie, e con esse facevo ognindí
qualche cosa notabilissima; di modo che io avevo acquistato un credito e una grazia col
papa inistimabile. Non passava mai giorno, che io non ammazzassi qualcun degli inimici di
fuora. Essendo un giorno in fra gli altri, il Papa passeggiava per il mastio ritondo, e
vedeva in Prati un colonello spagnuolo, il quale lui lo conosceva per alcuni contrassegni,
inteso che questo era stato già al suo servizio; e in mentre che lo guardava, ragionava
di lui. Io che ero di sopra a l'Agnolo, e non sapevo nulla di questo, ma vedevo uno uomo
che stava là a fare aconciare trincee con una zagaglietta in mano, vestito tutto di
rosato, disegnando quel che io potessi fare contra di lui, presi un mio gerifalco che io
avevo quivi, il qual pezzo si è maggiore e piú lungo di un sacro, quasi come una mezza
colubrina: questo pezzo io lo votai, di poi lo caricai con una buona parte di polvere fine
mescolata con la grossa; di poi lo dirizzai benissimo a questo uomo rosso, dandogli un
arcata maravigliosa, perché era tanto discosto, che l'arte non prometteva tirare cosí
lontano artiglierie di quella sorta. Dèttigli fuoco e presi apunto nel mezzo quel uomo
rosso, il quali s'aveva messo la spada per saccenteria dinanzi, in un certo suo modo
spagnolesco: che giunta la mia palla della artiglieria, percosso in quella spada, si vidde
il ditto uomo diviso in dua pezzi. Il Papa, che tal cosa non aspettava, ne prese assai
piacere e maraviglia, sí perché gli pareva inpossibile che una artiglieria potessi
giugnere tanto lunge di mira, e perché quello uomo esser diviso in dua pezzi, non si
poteva accomodare e come questo caso star potessi; e mandatomi a chiamare, mi domandò.
Per la qual cosa io gli dissi tutta la diligenza che io avevo osato al modo del tirare; ma
per esser l'uomo in dua pezzi, né lui né io non sapevamo la causa. Inginocchiatomi, lo
pregai che mi ribenedissi dell'omicidio, e d'altri che io ne avevo fatti in quel Castello
in servizio della Chiesa. Alla qual cosa il Papa, alzato le mane e fattomi un patente
crocione sopra la mia figura, mi disse che mi benediva, e che mi perdonava tutti gli
omicidii che io avevo mai fatti e tutti quelli che mai io farei in servizio della Chiesa
appostolica. Partitomi, me ne andai su, e sollecitando non restavo mai di tirare; e quasi
mai andava colpo vano. Il mio disegnare e i mia begli studii e la mia bellezza di sonare
di musica, tutte erano in sonar di quelle artiglierie, e s'i' avessi a dire
particularmente le belle cose che in quella infernalità crudele io feci, farei
maravigliare il mondo; ma per non essere troppo lungo me le passo. Solo ne dirò qualcuna
di quelle piú notabile, le quale mi sono di necessità; e questo si è, che pensando io
giorno e notte quel che io potevo fare per la parte mia in defensione della Chiesa,
considerato che i nimici cambiavano le guardie e passavano per il portone di Santo
Spirito, il quale era tiro ragionevole, ma, perché il tiro mi veniva in traverso, non mi
veniva fatto quel gran male che io desiderava di fare; pure ogni giorno se ne ammazzava
assai bene: in modo che, vedutosi e' nimici impedito cotesto passo, messono piú di trenta
botti una notte in su una cima di un tetto, le quali mi impedivano cotesta veduta. Io, che
pensai un po' meglio a cotesto caso che non avevo fatto prima, volsi tutti a cinque i mia
pezzi di artiglieria dirizzandogli alle ditte botti; e aspettato le ventidua ore in sul
bel di rimetter le guardie; e perché loro, pensandosi esser sicuri, venivano piú adagio
e piú folti che 'l solito assai, il che, dato fuoco ai mia soffioni, non tanto gittai
quelle botti per terra che m'inpedivano, ma in quella soffiata sola ammazzai piú di
trenta uomini. Il perché, seguitando poi cosí dua altre volte, si misse i soldati in
tanto disordine che, infra che gli eran pieni del latrocinio del gran sacco, desiderosi
alcuni di quelli godersi le lor fatiche, piú volte si volsono abottinare per andarsene.
Pure, trattenuti da quel lor valoroso capitano, il quale si domandava Gian di Urbino, con
grandissimo lor disagio furno forzati pigliare un altro passo per il rimettere delle lor
guardie; il qual disagio importava piú di tre miglia, dove quel primo non era un mezzo.
Fatto questa impresa, tutti quei signori ch'erano in Castello mi facevano favori
maravigliosi. Questo caso tale, per esser di tanta importanza seguito, lo ho voluto
contare per far fine a questo, perché non sono nella professione che mi muove a scrivere;
che se di queste cose tale io volessi far bello la vita mia, troppe me ne avanzeria da
dirle. Èccene sola un'altra che al suo luogo io la dirò. |
XXXVIII. |
Saltando innanzi un pezzo, dirò come papa Clemente, per salvare i
regni con tutta la quantità delle gran gioie della Camera apostolica, mi fece chiamare, e
rinchiusesi con il Cavalierino e io in una stanza soli. Questo Cavalierino era già stato
servitore della stalla di Filippo Strozzi: era franzese, persona nata vilissima; e per
essere gran servitore, papa Clemente lo aveva fatto ricchissimo, e se ne fidava come di
sé stesso: in modo che il Papa detto, e il Cavaliere e io rinchiusi nella detta stanza,
mi messono innanzi li detti regni con tutta quella gran quantità di gioie della Camera
apostolica; e mi comisse che io le dovessi sfasciare tutte dell'oro, in che le erano
legate. E io cosí feci; di poi le rinvolsi in poca carta ciascune e le cucimmo in certe
farse adosso al Papa e al detto Cavalierino. Dipoi mi dettono tutto l'oro, il quale era in
circa dugento libbre, e mi dissono che io lo fondessi quanto piú segretamente che io
poteva. Me ne andai a l'Agnolo, dove era la stanza mia, la quale io poteva serrare, che
persona non mi dessi noia: e fattomi ivi un fornelletto a vento di mattoni e acconcio
innel fondo di detto fornello un ceneràcciolo grandotto a guisa di un piattello, gittando
l'oro di sopra in su' carboni, a poco a poco cadeva in quel piatto. In mentre che questo
fornello lavorava, io continuamente vigilavo come io potevo offendere gli inimici nostri;
e perché noi avevamo sotto le trincee degli inimici nostri a manco di un trar di mano, io
facevo lor danno innelle dette trincee con certi passatoiacci antichi, che erano parecchi
cataste, già munizione del Castello. Avendo preso un sacro e un falconetto, i quali erano
tutti a dui rotti un poco in bocca, questi io gli empievo di quei passatoiacci; e dando
poi fuoco alle dette artiglierie, volavano già alla impazzata facendo alle dette trincee
molti inaspettati mali: in modo che, tenendo questi continuamente in ordine, in mentre che
io fondevo il detto oro, un poco innanzi all'ora del vespro veddi venire in su l'orlo
della trincea uno a cavallo in sun un muletto. Velocissimamente andava il detto muletto: e
costui parlava a quelli delle trincee. Io stetti avvertito di dar fuoco alla mia
artiglieria innanzi che egli giugnessi al mio diritto: cosí col buon iudizio dato fuoco,
giunto, lo investi' con un di quelli passatoi innel viso a punto: quel resto dettono al
muletto, il quale cadde morto: nella trincea sentissi un grandissimo tumulto: detti fuoco
a l'altro pezzo, non sanza lor gran danno. Questo si era il principe d'Orangio, che per di
dentro delle trincee fu portato a una certa osteria quivi vicina, dove corse in breve
tutta la nobilità dello esercito. Inteso papa Clemente quello che io avevo fatto, subito
mandò a chiamarmi, e dimandatomi del caso, io gli contai il tutto, e di piú gli dissi
che quello doveva essere uomo di grandissima importanza, perché in quella osteria, dove
e' l'avevano portato, subito vi s'era ragunato tutti e' caporali di quello esercito, per
quel che giudicar si poteva. Il Papa di bonissimo ingegno fece chiamare misser Antonio
Santa Croce, il qual gentiluomo era capo e guida di tutti e' bombardieri, come ho ditto:
disse che comandassi a tutti noi bombardieri, che noi dovessimo dirizzare tutte le nostre
artiglierie a quella detta casa, le quali erano un numero infinito, e che a un colpo di
archibuso ogniuno dessi fuoco; in modo che ammazzando quei capi, quello esercito, che era
quasi in puntelli, tutto si metteva in rotta; e che talvolta Idio arebbe udite le loro
orazione, che cosí frequente e' facevano, e per quella via gli arebbe liberati da quelli
impii ribaldi. Messo noi in ordine le nostre artiglierie, sicondo la commissione del Santa
Croce aspettando il segno, questo lo intese il cardinal Orsino, e cominciò a gridare con
il Papa, dicendo che per niente non si dovessi far tal cosa, perché erano in sul
concludere l'accordo, e se que' ci si ammazzavano, il campo sanza guida sarebbe per forza
entrato in Castello, e gli arebbe finiti di rovinare a fatto: pertanto non volevano che
tal cosa si facessi. Il povero Papa disperato, vedutosi essere assassinato drento e fuora,
disse che lasciava il pensiero alloro. Cosí, levatoci la commessione, io che non potevo
stare alle mosse, quando io seppi che mi venivano a dare ordine che io non tirassi, detti
fuoco a un mezzo cannone che io avevo, il qual percosse in un pilastro di un cortile di
quella casa, dove io vedevo appoggiato moltissime persone. Questo colpo fece tanto gran
male ai nimici, che gli fu per fare abandonare la casa. Quel cardinale Orsino ditto mi
voleva fare o impiccare o ammazzare in ogni modo; alla qual cosa il Papa arditamente mi
difese. Le gran parole che occorson fra loro, se bene io le so, non facendo professione di
scrivere istorie, non mi occorre dirle: solo attenderò al fatto mio. |
XXXIX. |
Fonduto che io ebbi l'oro, io lo portai al Papa, il quale molto mi
ringraziò di quello che io fatto avevo, e commesse al Cavalierino che mi donasse
venticinque scudi, scusandosi meco che non aveva piú da potermi dare. Ivi a pochi giorni
si fece l'accordo. Io me ne andai col signor Orazio Baglioni insieme con trecento compagni
alla volta di Perugia; e quivi il signor Orazio mi voleva consegnare la compagnia, la
quale io per allora non volsi, dicendo che volevo andare a vedere mio padre in prima, e
ricomperare il bando che io avevo di Firenze. Il detto signore mi disse, che era fatto
capitano de' Fiorentini; e quivi era ser Pier Maria di Lotto, mandato dai detti
Fiorentini, a il quale il detto signor Orazio molto mi raccomandò come suo uomo. Cosí me
ne venni a Firenze con parecchi altri compagni. Era la peste inistimabile, grande. Giunti
a Firenze, trovai il mio buon padre, il quale pensava o che io fussi morto in quel Sacco,
o che allui ignudo io tornassi. La qual cosa avenne tutto il contrario: ero vivo, e con di
molti danari, con un servitore, e bene a cavallo. Giunto al mio vecchio, fu tanto
l'allegrezza che io gli viddi, che certo pensai, mentre che mi abbracciava e baciava, che
per quella e' morissi subito. Raccòntogli tutte quelle diavolerie del Sacco, e datogli
una buona quantità di scudi in mano, li quali soldatescamente io me avevo guadagnati,
apresso fattoci le carezze, il buon padre e io, subito se ne andò agli Otto a
ricomperarmi il bando; e s'abbatté per sorte a esser degli Otto un di quegli che me
l'avevan dato, ed era quello che indiscretamente aveva detto quella volt'a mio padre, che
mi voleva mandare in villa co' lanciotti; per la qual cosa mio padre usò alcune accorte
parole in atto di vendetta, causate dai favori che mi aveva fatto il signor Orazio
Baglioni. Stando cosí, io dissi a mio padre come il signor Orazio mi aveva eletto per
capitano, e che e' mi conveniva cominciare a pensare di fare la compagnia. A queste parole
sturbatosi subito il povero padre, mi pregò per l'amor di Dio, che io non dovessi
attendere a tale impresa, con tutto che lui cognoscessi che io saria atto a quella e a
maggior cosa; dicendomi apresso, che aveva l'altro figliuolo, e mio fratello, tanto
valorosissimo alla guerra, e che io dovessi attendere a quella maravigliosa arte, innella
quale tanti anni e con sí grandi studi io mi ero affaticato di poi. Se bene io gli
promessi ubidirlo, pensò come persona savia, che se veniva il signor Orazio, sí per
avergli io promesso e per altre cause, io non potrei mai mancare di non seguitare le cose
della guerra; cosí con un bel modo pensò levarmi di Firenze, dicendo cosí: - O caro mio
figliuolo, qui è la peste inistimabile, grande, e mi par tuttavia di vederti tornare a
casa con essa; io mi ricordo, essendo giovane, che io me ne andai a Mantova, nella qual
patria io fui molto carezzato, e ivi stetti parecchi anni. Io ti priego e comando, che per
amor mio, piú presto oggi che domani, di qui ti lievi e là te ne vada. |
XL. |
Perché sempre m'è dilettato di vedere il mondo, e non essendo mai
stato a Mantova, volentieri andai, preso que' danari che io avevo portati; e la maggior
parte di essi ne lasciai al mio buon padre, prommettendogli di aiutarlo sempre dove io
fussi, lasciando la mia sorella maggiore a guida del povero padre. Questa aveva nome Cosa,
e non avendo mai voluto marito, era accettata monaca in Santa Orsola, e cosí soprastava
per aiuto e governo del vecchio padre e per guida de l'altra mia sorella minore, la quale
era maritata a un certo Bartolomeo scultore. Cosí partitomi con la benedizione del padre,
presi il mio buon cavallo, e con esso me ne andai a Mantova. Troppe gran cose arei da
dire, se minutamente io volessi scrivere questo piccol viaggio. Per essere il mondo
intenebrato di peste e di guerra, con grandissima difficultà io pur poi mi condussi alla
ditta Mantova; innella quale giunto che io fui, cercai di cominciare a lavorare; dove io
fui messo in opera da un certo maestro Nicolò milanese, il quale era orefice del Duca di
detta Mantova. Messo che io fui in opera, di poi dua giorni appresso io me ne andai a
visitare misser Iulio Romano pittore eccellentissimo, già ditto, molto mio amico, il
quale misser Iulio mi fece carezze inestimabile ed ebbe molto per male che io non ero
andato a scavalcare a casa sua; il quale vivea da signore, e faceva una opera pel Duca
fuor della porta di Mantova, luogo detto a Te. Questa opera era grande e maravigliosa,
come forse ancora si vede. Subito il ditto misser Iulio con molte onorate parole parlò di
me al Duca; il quale mi commesse che io gli facessi un modello per tenere la reliquia del
sangue di Cristo, che gli hanno, qual dicono essere stata portata quivi da Longino; di poi
si volse al ditto misser Iulio, dicendogli che mi facessi un disegno per detto reliquiere.
A questo, misser Iulio disse: - Signore, Benvenuto è un uomo che non ha bisogno delli
disegni d'altrui, e questo Vostra Eccellenzia benissimo lo giudicherà, quando la vedrà
il suo modello -. Messo mano a far questo ditto modello, feci un disegno per il ditto
reliquiere da potere benissimo collocare la ditta ampolla: di poi feci per di sopra un
modelletto di cera. Questo si era un Cristo assedere, che innella mana mancina levata in
alto teneva la sua Croce grande, con atto di appoggiarsi a essa; e con la mana diritta
faceva segno con le dita di aprirsi la piaga del petto. Finito questo modello, piacque
tanto al Duca, che li favori furno inistimabili, e mi fece intendere, che mi terrebbe al
suo servizio con tal patto, che io riccamente vi potrei stare. In questo mezzo, avendo io
fatto reverenzia al Cardinale suo fratello, il detto Cardinale pregò il Duca, che fussi
contento di lasciarmi fare il suggello pontificale di Sua Signoria reverendissima; il
quale io cominciai. In mentre che questa tal opera io lavoravo, mi sopraprese la febbre
quartana; la qual cosa, quando questa febbre mi pigliava, mi cavava de' sentimenti; onde
io maledivo Mantova e chi n'era padrone, e chi volentieri vi stava. Queste parole furono
ridette al Duca da quel suo orefice milanese ditto, il quale benissimo vedeva che 'l Duca
si voleva servir di me. Sentendo il detto Duca quelle mie inferme parole, malamente meco s
'adirò; onde, io essendo adirato con Mantova, della stizza fummo pari. Finito il mio
suggello, che fu un termine di quattro mesi, con parecchi altre operette fatte al Duca
sotto nome del Cardinale, da il ditto Cardinale io fui ben pagato; e mi pregò che io me
ne tornassi a Roma in quella mirabil patria, dove noi ci eramo conosciuti. Partitomi con
una buona somma di scudi di Mantova, giunsi a Governo, luogo dove fu ammazzato quel
valorosissimo signor Giovanni. Quivi mi prese un piccol termine di febbre, la quale non
m'impedí punto il mio viaggio, e restata innel ditto luogo, mai piú l'ebbi. Di poi
giunto a Firenze, pensando trovare il mio caro padre, bussando la porta, si fece alla
finestra una certa gobba arrabbiata, e mi cacciò via con assai villania, dicendomi che io
l'avevo fradicia. Alla qual gobba io dissi: - Oh dimmi, gobba perversa, ècc'elli altro
viso in questa casa che 'l tuo? - No, col tuo malanno -. Alla qual io dissi forte: - E
questo non ci basti dua ore -. A questo contrasto si fece fuori una vicina, la qual mi
disse che mio padre con tutti quelli della casa mia erano morti di peste: onde che io
parte me lo indovinavo, fu la cagione che il duolo fu minore. Di poi mi disse che solo era
restata viva quella mia sorella minore, la quale si chiamava Liperata, che era istata
raccolta da una santa donna, la quale si domandava monna Andrea de' Bellacci. Io mi parti'
di quivi per andarmene all'osteria. A caso rincontrai un mio amicissimo: questo si
domandava Giovanni Rigogli. Iscavalcato a casa sua, ce ne andammo in piazza, dove io ebbi
nuove che 'l mio fratello era vivo, il quale io andai a trovare a casa di un suo amico,
che si domandava Bertino Aldobrandi. Trovato il fratello, e fattoci carezze e accoglienze
infinite, il perché si era, che le furno istrasordinarie, che a lui di me e a me di lui
era stato dato nuove della morte di noi stessi, di poi levato una grandissima risa, con
maraviglia presomi per la mano, mi disse: - Andiamo, fratello, che io ti meno in luogo il
quale tu mai non immagineresti: questo si è, che io ho rimaritata la Liperata nostra
sorella, la quale certissimo ti tiene per morto -. In mentre che a tal luogo andavamo,
contammo l'uno all'altro di bellissime cose avvenuteci; e giunti a casa, dov'era la
sorella, gli venne tanta stravaganza per la novità inaspettata ch'ella mi cadde in
braccio tramortita; e se e' non fossi stato alla presenza il mio fratello, l'atto fu tale
sanza nessuna parola, che il marito cosí al primo non pensava che io fossi il suo
fratello. Parlando Cechin mio fratello e dando aiuto alla svenuta, presto si riebbe; e
pianto un poco il padre, la sorella, il marito, un suo figliuolino, si dette ordine alla
cena; e in quelle piacevol nozze in tutta la sera non si parlò piú di morti, ma sí bene
ragionamenti da nozze. Cosí lietamente e con grande piacere finimmo la cena. |
XLI. |
Forzato dai prieghi del fratello e della sorella, furno causa che io mi
fermai a Firenze, perché la voglia mia era volta a tornarmene a Roma. Ancora quel mio
caro amico - che io dissi prima in alcune mie angustie tanto aiutato da lui, questo si era
Piero di Giovanni Landi - ancora questo Piero mi disse che io mi doverrei per alquanto
fermare a Firenze; perché essendo i Medici cacciati di Firenze, cioè il signore Ipolito
e signore Alessandro, quali furno poi un Cardinale e l'altro Duca di Firenze, questo Piero
ditto mi disse, che io dovessi stare un poco a vedere quel che si faceva. Cosí cominciai
a lavorare in Mercato Nuovo, e legavo assai quantità di gioie e guadagnavo bene. In
questo tempo capitò a Fiorenza un sanese chiamato Girolamo Marretti: questo sanese era
stato assai tempo in Turchia, ed era persona di vivace ingegno. Capitommi a bottega, e mi
dette a fare una medaglia d'oro da portare in un cappello; volse in questa medaglia che io
facessi uno Ercole che sbarrava la bocca a il lione. Cosí mi missi a farlo; e in mentre
che io lo lavorava, venne Michelagnolo Buonaarroti piú volte a vederlo; e perché io mi
v'ero grandemente affaticato, l'atto della figura e la bravuria de l'animale molto diversa
da tutti quelli che per insino allora avevano fatto tal cosa; ancora per esser quel modo
del lavorare totalmente incognito a quel divino Michelagnolo, lodò tanto questa mia
opera, che a me crebbe tanto l'animo di far bene, che fu cosa inistimabile. Ma perché io
non avevo altra cosa che fare se non legare gioie, che se bene questo era il maggior
guadagno che io potessi fare, non mi contentavo, perché desideravo fare opere d'altra
virtú che legar gioie; in questo accadde un certo Federigo Ginori, giovane di molto
elevato spirito. Questo giovane era stato a Napoli molti anni, e perché gli era molto
bello di corpo e di presenza, se era innamorato in Napoli di una principessa; cosí,
volendo fare una medaglia innella quale fussi un Atalante col mondo addosso, richiese il
gran Michelagnolo, che gne ne facessi un poco il disegno. Il quale disse al ditto
Federigo: - Andate a trovare un certo giovane orefice, che ha nome Benvenuto; quello vi
servirà molto bene, e certo che non gli accade mio disegno; ma perché voi non pensiate
che di tal piccola cosa io voglia fuggire le fatiche, molto volentieri vi farò un poco di
disegno: intanto parlate col detto Benvenuto, che ancora esso ne faccia un poco di
modellino; di poi il meglio si metterà in opera -. Mi venne a trovare questo Federigo
Ginori, e mi disse la sua voluntà, appresso quanto quel maraviglioso Michelagnolo mi
aveva lodato; e che io ne dovessi fare ancora io un poco di modellino di cera, in mentre
che quel mirabile uomo gli aveva promesso di fargli un poco di disegno. Mi dette tanto
animo quelle parole di quel grande uomo, che io subito mi messi con grandissima
sollecitudine a fare il detto modello; e finito che io l'ebbi, un certo dipintore molto
amico di Michelagnolo, chiamato Giuliano Bugiardini, questo mi portò il disegno de
l'Atalante. Innel medesimo tempo io mostrai al ditto Giuliano il mio modellino di cera: il
quali era molto diverso da quel disegno di Michelagnolo; talmente che Federigo ditto e
ancora il Bugiardino conclusono che io dovessi farlo sicondo il mio modello. Cosí lo
cominciai, e lo vidde lo eccellentissimo Michelagnolo, e me lo lodò tanto, che fu cosa
inistimabile. Questo era una figura, come io ho detto, cesellata di piastra; aveva il
cielo addosso, fatto una palla di cristallo, intagliato in essa il suo zodiaco, con un
campo di lapislazzuli: insieme con la ditta figura faceva tanto bel vedere, che era cosa
inistimabile. Era sotto un motto di lettere, le quali dicevano "Summa tulisse
juvat". Sadisfattosi il ditto Federigo, me liberalissimamente pagò. Per essere
in questo tempo misser Aluigi Alamanni a Firenze, era amico de il detto Federigo Ginori,
il quale molte volte lo condusse a bottega mia, e per sua grazia mi si fece molto
domestico amico. |
XLII. |
Mosso la guerra papa Clemente alla città di Firenze, e quella
preparatasi alla difesa, fatto la città per ogni quartiere gli ordini delle milizie
populare, ancora io fui comandato per la parte mia. Riccamente mi messi in ordine:
praticavo con la maggior nobiltà di Firenze, i quali molto d'accordo si vedevano voler
militare a tal difesa, e fecesi quelle orazioni per ogni quartiere, qual si sanno. Di piú
si trovavano i giovani piú che 'l solito insieme, né mai si ragionava d'altra cosa che
di questa. Essendo un giorno in sul mezzodí in su la mia bottega una quantità di
omaccioni e giovani, e' primi della città, mi fu portato una lettera di Roma, la qual
veniva da un certo chiamato in Roma maestro Iacopino della Barca. Questo si domandava
Iacopo dello Sciorina, ma della Barca in Roma, perché teneva una barca che passava il
Tevero infra Ponte Sisto e Ponte Santo Agnolo. Questo maestro Iacopo era persona molto
ingegnosa, e aveva piacevoli e bellissimi ragionamenti: era stato in Firenze già maestro
di levare opere a' tessitori di drappi. Questo uomo era molto amico di papa Clemente, il
quale pigliava gran piacere di sentirlo ragionare. Essendo un giorno in questi cotali
ragionamenti, si cadde in proposito e del Sacco e dell'azione del Castello: per la qual
cosa il Papa, ricordatosi di me, ne disse tanto bene quanto immaginar si possa; e
aggiunse, che se lui sapeva dove io fussi, arebbe piacere di riavermi. Il detto maestro
Iacopo disse che io ero a Firenze; per la qual cosa il Papa gli commesse che mi scrivessi
che io tornassi allui. Questa ditta lettera conteneva che io dovessi tornare al servizio
di Clemente, e che buon per me. Quelli giovani che eran quivi alla presenza, volevano pur
sapere quel che quella lettera conteneva; per la qual cosa, il meglio che io potetti, la
nascosi: dipoi iscrissi al ditto maestro Iacopo pregandolo, che né per bene né per male
in modo nessuno lui non mi scrivessi. Il ditto, cresciutogli maggior voglia, mi scrisse
un'altra lettera, la quale usciva tanto de' termini, che se la si fussi veduta, io sarei
capitato male. Questa diceva che, da parte del Papa, io andassi subito, il quali mi voleva
operare a cose di grandissima importanza; e che, se io volevo far bene, che io lasciassi
ogni cosa subito, e non istessi a far contro a un papa, insieme con quelli pazzi
arrabbiati. Vista la lettera, la mi misse tanta paura, che io andai a trovare quel mio
caro amico, che si domandava Pier Landi; il quale vedutomi, subito mi domandò che cosa di
nuovo io avevo, che io dimostravo essere tanto travagliato. Dissi al mio amico che, quel
che io avevo che mi dava quel gran travaglio, in modo nessuno non gliel potevo dire; solo
lo pregavo che pigliassi quelle tali chiave che io gli davo, e che rendessi le gioie e
l'oro al terzo e al quarto, che lui in sun un mio libruccio troverebbe scritto; di poi
pigliassi la roba della mia casa, e ne tenessi un poco di conto con quella sua solita
amorevolezza, e che infra brevi giorni lui saprebbe dove io fussi. Questo savio giovane,
forse a un dipresso imaginatosi la cosa, mi disse: - Fratel mio, va' via presto, di poi
scrivi, e delle cose tue non ti dare un pensiero -. Cosí feci. Questo fu il piú fedele
amico, il piú savio, il piú da bene, il piú discreto, il piú amorevole che mai io
abbia conosciuto. Partitomi di Firenze, me ne andai a Roma, e di quivi scrissi. |
XLIII. |
Subito che io giunsi in Roma, ritrovato parte delli mia amici, dalli
quali io fui molto ben veduto e carezzato, e subito mi messi a lavorare opere tutte da
guadagnare e non di nome da descrivere. Era un certo vecchione orefice, il quale si
domandava Raffaello del Moro. Questo era uomo di molta riputazione ne l'arte, e nel resto
era molto uomo da bene. Mi pregò che io fussi contento andare a lavorare nella bottega
sua, perché aveva da fare alcune opere d'importanza, le quali erano di bonissimo
guadagno: cosí andai volentieri. Era passato piú di dieci giorni, che io non m'ero fatto
vedere a quel detto maestro Iacopino della Barca; il quale, vedutomi a caso, mi fece
grandissima accoglienza, e domandatomi quant'egli era che io ero giunto, gli dissi che gli
era circa quindici giorni. Questo uomo l'ebbe molto per male, e mi disse che io tenevo
molto poco conto d'un papa, il quale con grande istanzia di già gli aveva fatto scrivere
tre volte per me: e io, che l'avevo aùto molto piú per male di lui, nulla gli risposi
mai, anzi mi ingozzavo la stizza.Questo uomo, ch'era abundantissimo di parole, entrò in
sun una pesta e ne disse tante, che pur poi, quando io lo viddi stracco, non gli dissi
altro, se non che mi menassi dal Papa a sua posta; il qual rispose, che sempre era tempo;
onde io gli dissi: - E io ancora son sempre parato -. Cominciatosi a 'vviare verso il
palazzo, e io seco (questo fu il Giovedí santo), giunti alle camere del Papa lui che era
conosciuto e io aspettato, subito fummo messi drento. Era il Papa innel letto un poco
indisposto e seco era misser Iacopo Salviati e l'arcivescovo di Capua. Veduto che m'ebbe
il Papa, molto strasordinariamente si rallegrò; e io, baciatogli e' piedi, con quanta
modestia io potevo me li accostavo appresso, mostrando volergli dire alcune cose
d'importanza. Subito fatto cenno con la mana, il ditto missere Iacopo e l'arcivescovo si
ritirorno molto discosto da noi. Subito cominciai, dicendo: - Beatissimo Padre, da poi che
fu il Sacco in qua, io non mi son potuto né confessare né comunicare, perché non mi
vogliono assolvere. Il caso è questo, che quando io fonde' l'oro e feci quelle fatiche a
scior quelle gioie, Vostra Santità dette commessione al Cavalierino che donasse un certo
poco premio delle mie fatiche, il quale io non ebbi nulla, anzi mi disse piú presto
villania. Andatomene su, dove io avevo fonduto il detto oro, levato le ceneri trovai in
circa una libra e mezzo d'oro in tante granellette come panico; e perché io non avevo
tanti danari da potermi condurre onorevolmente a casa mia, pensai servirmi di quelli, e
rendergli da poi quando mi fusse venuto la comodità. Ora io son qui a' piedi di Vostra
Santità, la quali è 'l vero confessoro: quella mi faccia tanto di grazia di darmi
licenzia acciò che io mi possa confessare e comunicare, e mediante la grazia di Vostra
Santità, io riabbia la grazia del mio signor Idio -. Allora il Papa con un poco di
modesto sospiro, forse ricordandosi de' sua affanni, disse queste parole: - Benvenuto, io
sono certissimo quel che tu di' il quale, ti posso assolvere d'ogni inconveniente che tu
avessi fatto, e di piú voglio, sí che liberissimamente e con buono animo di' su ogni
cosa, ché, se tu avessi aùto il valore di un di quei regni interi, io son dispostissimo
a perdonarti -. Allora io dissi: - Altro non ebbi, beatissimo Padre, che quanto io ho
detto; e questo non arrivò al valore di cento quaranta ducati, che tanto ne ebbi dalla
zecca di Perugia, e con essi n'andai a confortare il mio povero vecchio padre -. Disse il
Papa: - Tuo padre è stato cosí virtuoso, buono e dabbene uomo, quanto nascessi mai, e tu
punto non traligni: molto m'incresce che i danari furno pochi; però questi, che tu di'
che sono, io te ne fo un presente, e tutto ti perdono; fa di questo fede al confessoro, se
altro non c'è che attenga a me; di poi, confessato e comunicato che tu sia, lascerai' ti
rivedere, e buon per te -. Spiccato che io mi fui dal Papa, accostatosi il ditto misser
Iacopo e l'arcivescovo, il Papa disse tanto ben di me, quanto d'altro uomo che si possa
dire al mondo; e disse che mi aveva confessato e assoluto; di poi aggiunse, dicendo a
l'arcivescovo di Capua, che mandassi per me e che mi domandassi se sopra a quel caso
bisognava altro, che di tutto mi assolvessi, che gnene dava intera autorità, e di piú mi
facessi quante carezze quanto e' poteva. Mentre che io me ne andavo con quel maestro
Iacopino, curiosissimamente mi domandava che serrati e lunghi ragionamenti erano stati
quelli che io avevo aúti col Papa: la qualcosa come e' m'ebbe dimandato piú di dua
volte, gli dissi che non gnene volevo dire, perché non eran cose che s'attenessino allui;
però non me ne dimandassi piú. Andai a fare tutto quello che ero rimasto col Papa; di
poi, passato le due feste, lo andai a visitare: il quale, fattomi piú carezze che prima,
mi disse: - Se tu venivi un poco prima a Roma, io ti facevo rifare quella mia dua regni,
che noi guastammo in Castello; ma perché e' le son cose, dalle gioie di fuora, di poca
virtú, io ti adopererò a una opera di grandissima importanza, dove tu potrai mostrare
quel che tu sai fare. E questo si è il bottone del peviale (il quale si fa tondo a foggia
di un tagliere, e grande quanto un taglieretto, di un terzo di braccio): in questo io
voglio che si faccia un Dio Padre di mezzo rilievo, e in mezzo al detto voglio accomodare
questa bella punta del diamante grande con molte altre gioie di grandissima importanza.
Già ne cominciò uno Caradosso, e non lo finí mai; questo io voglio che si finisca
presto, perché me lo voglio ancora io godere qualche poco; sí che va', e fa' un bel
modellino -. E mi fece mostrare tutte le gioie; onde io affusolato subito andai. |
XLIV. |
In mentre che l'assedio era intorno a Firenze, quel Federigo Ginori, a
chi io avevo fatto la medaglia de l'Atalante, si morí di tisico, e la ditta medaglia
capitò alle mane di misser Luigi Alamanni, il quale in ispazio di breve tempo la portò
egli medesimo a donare a re Francesco, re di Francia, con alcuni sua bellissimi scritti.
Piacendo oltramodo questa medaglia al Re, il virtuosissimo misser Luigi Alamanni parlò di
me con Sua Maestà alcune parole di mia qualità, oltra l'arte, con tanto favore, che il
Re fece segno di aver voglia di conoscermi. Con tutta la sollecitudine che io potevo
sollecitando quel detto modelletto, il quale facevo della grandezza apunto che doveva
essere l'opera, risentitosi ne l'arte degli orefici molti di quelli, che pareva loro
essere atti a far tal cosa; e perché gli era venuto a Roma un certo Micheletto, molto
valente uomo per intagliare corniuole, ancora era intelligentissimo gioielliere, ed era
uomo vecchio e di molta riputazione: erasi intermesso alla cura de' dua regni del Papa:
faccendo io questo detto modello, molto si maravigliò che io non avevo fatto capo allui,
essendo pure uomo intelligente e in credito assai del Papa. A l'ultimo, veduto che io non
andavo dallui, lui venne da me domandandomi quello che io facevo: - Quel che m'ha comisso
il Papa - gli risposi. Allora e' disse: - Il Papa m'ha comisso che io vegga tutte queste
cose che per Sua Santità si fanno -. Al quale io dissi che ne dimanderei prima il Papa,
di poi saprei quel che io gli avessi a rispondere. Mi disse che io me ne pentirei; e
partitosi da me adirato, si trovò insieme con tutti quelli dell'arte, e ragionando di
questa cosa, dettono il carico al detto Michele tutti; il quale, con quel suo buono
ingegno fece fare da certi valenti disegnatori piú di trenta disegni tutti variati l'uno
dall'altro, di questa cotale impresa. E perché gli aveva a sua posta l'orecchio del Papa,
accordatosi con un altro gioielliere, il quale si chiamava Pompeo, milanese (questo era
molto favorito dal Papa, ed era parente di misser Traiano primo cameriere del Papa),
cominciorno questi dua, cioè Michele e Pompeo, a dire al Papa che avevano visto il mio
modello, e che pareva loro che io non fossi strumento atto a cosí mirabile impresa. A
questo il Papa disse che l'aveva a vedere anche lui; di poi, non essendo io atto, si
cercherebbe chi fussi. Dissono tutt'a dua, che avevano parecchi disegni mirabili sopra tal
cosa: a questo il Papa disse che l'aveva caro assai, ma che non gli voleva vedere prima
che io avessi finito il mio modello; di poi vedrebbe ogni cosa insieme. Infra pochi giorni
io ebbi finito il mio modello, e portatolo una mattina su dal Papa, quel misser Traiano mi
fece aspettare, e in questo mezzo mandò con diligenzia per Micheletto e per Pompeo,
dicendo loro che portassino i disegni. Giunti che e' furno, noi fummo messi drento; per la
qual cosa subito Michele e Pompeo cominciorno a squadernare i lor disegni, e il Papa a
vedergli. E perché i disegnatori fuor de l'arte del gioiellare non sanno la situazione
delle gioie, ne manco coloro che erano gioiellieri non l'avevano insegnata loro: perché
è forza a un gioielliere, quando infra le sue gioie intervien figure, ch'egli sappia
disegnare, altrimenti non gli vien fatto cosa buona; di modo che tutti que' disegni
avevano fitto quel maraviglioso diamante nel mezzo del petto di quel Dio Padre. Il Papa,
che pure era di bonissimo ingegno, veduto questa cosa tale, non gli finiva di piacere; e
quando e' n'ebbe veduto insino a dieci, gittato el resto in terra, disse a me, che mi
stavo là da canto: - Mostra un po' qua, Benvenuto, il tuo modello, acciò che io vegga se
tu sei nel medesimo errore di costoro -. Io fattomi innanzi e aperto una scatoletta tonda,
parve che uno splendore dessi proprio negli occhi del Papa; e disse con gran voce: - Se tu
mi fussi stato in corpo, tu non l'aresti fatto altrimenti come io veggo: costoro non
sapevano altro modo a vituperarsi -. Accostatisi molti gran signori, il Papa mostrava la
differenza che era dal mio modello a' lor disegni. Quando l'ebbe assai lodato, e coloro
spaventati e goffi alla presenza, si volse a me e disse; - Io ci cognosco apunto un male
che è d'importanza grandissima. Benvenuto mio, la cera è facile da lavorare; il tutto è
farlo d'oro -. A queste parole io arditamente risposi dicendo: - Beatissimo Padre, se io
non lo fo meglio dieci volte di questo mio modello, sia di patto che voi non me lo
paghiate -. A queste parole si levò un gran tomulto fra quei signori, dicendo che io
promettevo troppo. V'era un di questi signori, grandissimo filosofo, il quale disse in mio
favore: - Di quella bella finnusumia e simitria di corpo, che io veggo in questo giovane,
mi prometto tutto quello che dice, e da vantaggio -. Il Papa disse: - È per che io lo
credo ancora io -. Chiamato quel suo cameriere misser Traiano, gli disse che portassi
quivi cinquecento ducati d'oro di Camera. In mentre che i danari si aspettavano, il Papa
di nuovo piú adagio considerava in che bel modo io avevo accomodato il diamante con quel
Dio Padre. Questo diamante l'avevo apunto messo in mezzo di questa opera, e sopra d'esso
diamante vi avevo accomodato a sedere il Dio Padre in un certo bel modo svolto che dava
bellissima accordanza, e non occupava la gioia niente: alzando la man diritta dava la
benedizione. Sotto al detto diamante avevo accomodato tre puttini, che co le braccia
levate in alto sostenevano il ditto diamante. Un di questi puttini di mezzo era di tutto
rilievo; gli altri dui erano di mezzo. A l'intorno era assai quantità di puttini diversi,
accomodati con l'altre belle gioie. Il resto de Dio Padre aveva uno amanto che svolazzava,
dil quale usciva di molti puttini, con molti altri belli ornamenti, li quali facevano
bellissimo vedere. Era questa opera fatta di uno stucco bianco sopra una pietra negra.
Giunto i danari, il Papa di sua mano me gli dette, e con grandissima piacevolezza mi
pregò, che io facessi di sorte che lui l'avessi a' sua dí, e che buon per me. |
XLV. |
Portatomi via i danari e il modello, mi parve mill'anni di mettervi le
mane. Cominciato subito con gran sollecitudine a lavorare, in capo di otto giorni il Papa
mi mandò a dire per un suo cameriere, grandissimo gentiluomo bolognese, che io dovessi
andar da lui, e portare quello che io avevo lavorato. Mentre che io andavo, questo ditto
cameriere, che era la piú gentil persona che fussi in quella Corte, mi diceva che non
tanto il Papa volessi veder quell'opera, ma me ne voleva dare un'altra di grandissima
importanza; e questa si era le stampe delle monete della zecca di Roma; e che io mi
armassi a poter rispondere a Sua Santità: che per questo lui me ne aveva avvertito.
Giunsi dal Papa, e squadernatogli quella piastra d'oro, dove era già isculpito Idio Padre
solo, il quale cosí bozzato mostrava piú virtú che quel modelletto di cera; di modo che
il Papa stupefatto disse: - Da ora innanzi tutto quello che tu dirai, ti voglio credere -
e fattomi molti sterminati favori, disse: - Io ti voglio dare un'altra impresa, la quale
mi sarebbe cara quant'è questa e piú, se ti dessi il cuor di farla -; e dittomi che
arebbe caro di far le stampe delle sue monete, e domandandomi se io n'avevo piú fatte, e
se me ne dava il cuore di farle, io dissi che benissimo me ne dava il cuore, e che io
avevo veduto come le si facevano; ma che io no n'avevo mai fatte. Essendo alla presenza un
certo misser Tommaso da Prato, il quale era datario di sua Santità, per essere molto
amico di quelli mia nimici, disse: - Beatissimo Padre, gli favori che fa Vostra Santità a
questo giovane, e lui per natura arditissimo, son causa che lui vi prometterebbe un mondo
di nuovo; perché, avendogli dato una grande impresa, e ora aggiugnendognene una maggiore,
saranno causa di dar l'una noia a l'altra -. Il Papa adirato se gli volse e disse, gli
badassi all'uffizio suo; e a me impose che io facessi un modello d'un doppione largo d'oro
innel quale voleva che fussi un Cristo ignudo con le mane legate, con lettere che
dicessino "Ecce Homo"; e un rovescio dove fussi un papa e uno imperatore,
che dirizzassino d'accordo una croce, la quale mostrassi di cadere, con lettere che
dicessino "Unus spiritus et una fides erat in eis". Commessomi il Papa questa
bella moneta, sapragiunse il Bandinello scultore, il quale non era ancor fatto cavaliere,
e con la sua solita prosunzione vestita d'ignoranzia disse: - A questi orafi, di queste
cose belle bisogna lor fare e' disegni -. Al quale io subito mi volsi e dissi che io non
avevo bisogno di sua disegni per l'arte mia; ma che io speravo bene con qualche tempo, che
con i mia disegni io darei noia all'arte sua. Il Papa mostrò aver tanto caro queste
parole, quanto immaginar si possa, e voltosi a me, disse: - Va', pur, Benvenuto mio, e
attendi animosamente a servirmi, e non prestare orecchio alle parole di questi pazzi -.
Cosí partitomi, e con gran prestezza feci dua ferri; e stampato una moneta in oro,
portato una domenica doppo desinare la moneta e' ferri al Papa, quando la vidde, restato
maravigliato e contento, non tanto della bella opera che gli piaceva oltramodo, ancora
piú lo fe' maravigliare la prestezza che io avevo usata. E per accrescere piú
satisfazione e maraviglia al Papa, avevo meco portato tutte le vecchie monete che s'erano
fatte per l'adietro da quei valenti uomini che avevano servito papa Iulio e papa Lione; e
veduto che le mie molto piú satisfacevano, mi cavai di petto un moto proprio per il quale
io domandavo quel detto uffizio del maestro delle stampe della zecca; il quale uffizio
dava sei scudi d'oro di provisione il mese, sanza che i ferri poi erano pagati dal
zecchiere, che se ne dava tre al ducato. Preso il Papa il mio moto proprio e voltosi, lo
dette in mano al datario, dicendogli che subito me lo spedissi. Preso il datario il moto
proprio e volendoselo mettere innella tasca, disse: - Beatissimo Padre, Vostra Santità
non corra cosí a furia; queste son cose che meritano qualche considerazione -. Allora il
Papa disse: - Io v'ho inteso; date qua quel moto proprio - e presolo, di sua mano subito
lo segnò; poi datolo allui disse: - Ora non c'è piú replica; speditegne voi ora,
perché cosí voglio, e val piú le scarpe di Benvenuto che gli occhi di tutti questi
altri balordi -. E cosí ringraziato Sua Santità, lieto oltremodo me ne andai a lavorare. |
XLVI. |
Ancora lavoravo in bottega di quel Raffaello del Moro sopraditto.
Questo uomo da bene aveva una sua bella figlioletta, per la quale lui mi aveva fatto
disegno adosso; e io, essendomene in parte avveduto, tal cosa desideravo, ma in mentre che
io avevo questo desiderio, io non lo dimostravo niente al mondo; anzi istavo tanto
costumato, che i' gli facevo maravigliare. Accadde, che a questa povera fanciulletta gli
venne una infermità innella mana ritta, la quale gli aveva infradiciato quelle dua
ossicina che seguitano il dito mignolo e l'altro accanto al mignolo. E perché la povera
figliuola era medicata per la inavvertenza del padre da un medicaccio ignorante, il quale
disse che questa povera figliuola resterebbe storpiata di tutto quel braccio ritto, non
gli avvenendo peggio; veduto io il povero padre tanto sbigottito, gli dissi che non
credessi tutto quel che diceva quel medico ignorante. Per la qual cosa lui mi disse non
avere amicizia di medici nissuno cerusici, e che mi pregava, che se io ne conoscevo
qualcuno, gnene avviassi. Subito feci venire un certo maestro Iacomo perugino uomo molto
eccellente nella cerusia; e veduto che egli ebbe questa povera figlioletta, la quale era
sbigottita perché doveva avere presentito quello che aveva detto quel medico ignorante,
dove questo intelligente disse che ella non arebbe mal nessuno e che benissimo si
servirebbe della sua man ritta, se bene quelle dua dita ultime fussino state un po' piú
debolette de l'altre, per questo non gli darebbe una noia al mondo. E messo mano a
medicarla, in ispazio di pochi giorni volendo mangiare un poco di quel fradicio di quelli
ossicini, il padre mi chiamò, che io andassi anch'io a vedere un poco quel male, che a
questa figliuola si aveva a fare. Per la qual cosa preso il ditto maestro Iacopo certi
ferri grossi, e veduto che con quelli lui faceva poca opera e grandissimo male alla ditta
figliuola, dissi al maestro che si fermassi e che mi aspettassi uno ottavo d'ora. Corso in
bottega feci un ferrolino d'acciaio finissimo e torto; e radeva. Giunto al maestro,
cominciò con tanta gentilezza a lavorare, che lei non sentiva punto di dolore, e in breve
di spazio ebbe finito. A questo, oltra l'altre cose, questo uomo da bene mi pose tanto
amore, piú che non aveva a dua figliuoli mastii, e cosí attese a guarire la bella
figlioletta. Avendo grandissima amicizia con un certo misser Giovanni Gaddi, il quale era
cherico di camera; questo misser Giovanni si dilettava grandemente delle virtú, con tutto
che in lui nessuna non ne fussi. Istava seco un certo misser Giovanni, greco, grandissimo
litterato; un misser Lodovico da Fano simile a quello, litterato; messer Antonio
Allegretti; allora misser Annibal Caro giovane. Di fuora eramo misser Bastiano veniziano,
eccellentissimo pittore, e io; e quasi ogni giorno una volta ci rivedevamo col ditto
misser Giovanni: dove che per questa amicizia quell'uomo da bene di Raffaello orefice
disse al ditto misser Giovanni: - Misser Giovanni mio, voi mi cognoscete, e perché io
vorrei dare quella mia figlioletta a Benvenuto, non trovando miglior mezzo che Vostra
Signoria, vi prego che me ne aiutate, e voi medesimo delle mie facultà gli facciate
quella dota che allei piace -. Questo uomo cervellino non lasciò a pena finir di dire
quel povero uomo da bene, che sanza un proposito al mondo gli disse: - Non parlate piú,
Raffaello, di questo perché voi ne siete piú discosto che il gennaio dalle more -. Il
povero uomo, molto isbattuto, presto cercò di maritarla; e meco istavano la madre d'essa
e tutti ingrognati, e io non sapevo la causa: e parendomi che mi pagassin di cattiva
moneta di piú cortesie, che io avevo usato loro, cercai di aprire una bottega vicino a
loro. Il ditto misser Giovanni non disse nulla in sin che la ditta figliuola non fu
maritata, la qual cosa fu in ispazio di parecchi mesi. Attendevo con gran sollecitudine a
finire l'opera mia e servire la zecca, ché di nuovo mi commisse il Papa una moneta di
valore di dua carlini, innella quale era il ritratto della testa di Sua Santità, e da
rovescio un Cristo in sul mare, il quale porgeva la mana a San Pietro, con lettere intorno
che dicevano: "Quare dubitasti?". Piacque questa moneta tanto oltramodo,
che un certo segretario del Papa, uomo di grandissima virtú, domandato il Sanga, disse: -
Vostra Santità si può gloriare d'avere una sorta di monete, la quale non si vede negli
antichi, con tutte le lor pompe -. A questo il Papa rispose: - Ancora Benvenuto si può
gloriare di servire uno imperatore par mio, che lo cognosca -. Seguitando la grande opera
d'oro, mostrandola spesso al Papa, la qual cosa lui mi sollecitava di vederla, e ogni
giorno piú si maravigliava. |
XLVII. |
Essendo un mio fratello in Roma al servizio del duca Lessandro, al
quale in questo tempo il Papa gli aveva procacciato il ducato di Penna; stava al servizio
di questo Duca moltissimi soldati, uomini da bene, valorosi, della scuola di quello
grandissimo signor Giovanni de' Medici, e il mio fratello in fra di loro, tenutone conto
dal ditto Duca quanto ciascuno di quelli altri piú valorosi. Era questo mio fratello un
giorno doppo desinare in Banchi in bottega d'un certo Baccino della Croce, dove tutti quei
bravi si riparavano: erasi messo in su una sedia e dormiva. In questo tanto passava la
corte del bargello, la quale ne menava prigione un certo capitan Cisti, lombardo, anche
lui della scuola di quel gran signor Giovannino, ma non istava già al servizio del Duca.
Era il capitano Cattivanza degli Strozzi in su la bottega del detto Baccino della Croce.
Veduto il ditto capitan Cisti il capitan Cattivanza degli Strozzi. gli disse: - Io vi
portavo quelli parecchi scudi che io v'ero debitore; se voi gli volete, venite per essi
prima che meco ne vadino in prigione -. Era questo capitano volentieri a mettere al punto,
non si curando sperimentarsi, per che, trovatosi quivi alla presenza certi bravissimi
giovani piú volonterosi che forti a sí grande impresa, disse loro che si accostassino al
capitan Cisti, e che si facessin dare quelli sua danari, e che, se la corte faceva
resistenza, loro a lei facessin forza, se a loro ne bastava la vista. Questi giovani erano
quattro solamente, tutti a quattro sbarbati; e il primo si chiamava Bertino Aldobrandi,
l'altro Anguillotto dal Lucca: degli altri non mi sovviene il nome. Questo Bertino era
stato allevato e vero discepolo del mio fratello, e il mio fratello voleva allui tanto
smisurato bene, quanto immaginar si possa. Eccoti i quattro bravi giovani accostatisi alla
corte del bargello, i quali erano piú di cinquanta birri in fra picche, archibusi e
spadoni a dua mane. In breve parole si misse mano a l'arme, e quei quattro giovani tanto
mirabilmente strignevano la corte, che se il capitano Cattivanza solo si fussi mostro un
poco, sanza metter mano all'arme, quei giovani mettevano la corte in fuga; ma soprastati
alquanto, quel Bertino toccò certe ferite d'importanza, le quale lo batterno per terra:
ancora Anguillotto nel medesimo tempo toccò una ferita innel braccio dritto, che non
potendo piú sostener la spada, si ritirò il meglio che potette; gli altri feciono il
simile; Bertino Aldobrandi fu levato di terra malamente ferito. |
XLVIII. |
In tanto che queste cose seguivano, noi eramo tutti a tavola. Perché
la mattina s'era desinato piú d'un'ora piú tardi che 'l solito nostro. Sentendo questi
romori, un di quei figliuoli, il maggiore, si rizzò da tavola per andare a vedere questa
mistia. Questo si domandava Giovanni, al quale io dissi: - Di grazia non andare, perché a
simili cose sempre si vede la perdita sicura sanza nullo di guadagno -: il simile gli
diceva suo padre: - Deh, figliuol mio, non andare -. Questo giovane, senza udir persona,
corse giú pella scala. Giunto in Banchi, dove era la gran mistia, veduto Bertino levar di
terra, correndo, tornando adrieto, si riscontrò in Cechino mio fratello, il quali lo
domandò che cosa quella era. Essendo Giovanni da alcuni accennato che tal cosa non
dicessi al ditto Cecchino, disse a la 'npazzata come gli era che Bertino Aldobrandi era
stato ammazzato dalla corte. Il mio povero fratello misse sí grande il mugghio, che dieci
miglia si sarebbe sentito; di poi disse a Giovanni: - Oimè, saprestimi tu dire chi di
quelli me l'ha morto? - Il ditto Giovanni disse che sí, e che gli era un di quelli che
aveva uno spadone a dua mane, con una penna azzurra nella berretta. Fattosi innanzi il mio
povero fratello e conosciuto per quel contrassegno lo omicida, gittatosi con quella sua
maravigliosa prestezza e bravuria in mezzo a tutta quella corte, e sanza potervi rimediare
punto, messo una stoccata nella trippa, e passato dall'altra banda il detto, cogli elsi
della spada lo spinse in terra, voltosi agli altri con tanta virtú e ardire, che tutti
lui solo metteva in fuga: se non che, giratosi per dare a uno archibusiere, il quale per
propia necessità sparato l'archibuso, colse il valoroso sventurato giovane sopra il
ginocchio della gamba dritta; e posto in terra, la ditta corte mezza in fuga sollecitava a
'ndarsene, acciò che un altro simile a questo sopraggiunto non fossi. Sentendo continuare
quel tomulto, ancora io levatomi da tavola, e messomi la mia spada accanto, che per
ugniuno in quel tempo si portava, giunto al ponte Sant'Agnolo viddi un ristretto di molti
uomini: per la qual cosa fattomi innanzi, essendo da alcuni di quelli conosciuto, mi fu
fatto largo e mostromi quel che manco io arei voluto vedere, se bene mostravo grandissima
curiosità di vedere. In prima giunta nol cognobbi, per essersi vestito di panni diversi
da quelli che poco innanzi io l'avevo veduto; di modo che, conosciuto lui prima me, disse:
- Fratello carissimo, non ti sturbi il mio gran male, perché l'arte mia tal cosa mi
prometteva; fammi levare di qui presto, perché poche ore ci è di vita -. Essendomi conto
il caso in mentre che lui mi parlava, con quella brevità che cotali accidenti promettono,
gli risposi: - Fratello, questo è il maggior dolore e il maggior dispiacere che
intervenir mi possa in tutto il tempo della vita mia: ma istà di buona voglia, che
innanzi che tu perda la vista, di chi t'ha fatto male vedrai le tua vendette fatte per le
mia mane -. Le sue parole e le mie furno di questa sustanzia, ma brevissime. |
XLIX. |
Era la corte discosto da noi cinquanta passi, perché Maffio, ch'era
lor bargello, n'aveva fatto tornare una parte per levar via quel caporale che il mio
fratello aveva ammazzato; di modo che, avendo camminato prestissimo quei parecchi passi
rinvolto e serrato nella cappa, ero giunto a punto accanto a Maffio, e certissimo
l'ammazzavo, perché i populi erano assai, e io m'ero intermesso fra quelli. Di già con
quanta prestezza immaginar si possa avendo fuor mezza la spada, mi si gettò per di drieto
alle braccia Berlinghier Berlinghieri, giovane valorosissimo e mio grande amico, e seco
era quattro altri giovani simili a lui, e' quali dissono a Maffio: - Lévati, ché questo
solo t'ammazzava -. Dimandato Maffio - chi è questo? - dissono: - Questo è fratello di
quel che tu vedi là, carnale -. Non volendo intendere altro, con sollecitudine si ritirò
in Torre di Nona, e a me dissono: - Benvenuto, questo impedimento che noi ti abbiamo dato
contra tua voglia, s'è fatto a fine di bene: ora andiamo a soccorrere quello che starà
poco a morire -. Cosí voltici, andammo dal mio fratello, il quale io lo feci portare in
una casa. Fatto subito un consiglio di medici, lo medicorno, non si risolvendo a
spiccargli la gamba affatto, che talvolta sarebbe campato. Subito che fu medicato,
comparse quivi il duca Lessandro, il quale faccendogli carezze (stava ancora il mio
fratello in sé), disse al duca Lessandro: - Signor mio, d'altro non mi dolgo, se none che
Vostra Eccellenzia perde un servitore, del quale quella ne potria trovare forse de' piú
valenti di questa professione, ma non che con tanto amore e fede vi servissino, quanto io
faceva -. Il Duca disse che s'ingegnasse di vivere; de' resto benissimo lo cognosceva per
uomo da bene e valoroso. Poi si volse a certi sua, dicendo loro che di nulla si mancasse a
quel valoroso giovane. Partito che fu il Duca, l'abundanzia del sangue, qual non si poteva
stagnare, fu causa di cavarlo del cervello; in modo che la notte seguente tutta
farneticò, salvo che volendogli dare la comunione, disse: - Voi facesti bene a
confessarmi dianzi: ora questo sacramento divino non è possibile che io lo possa ricevere
in questo di già guasto istrumento: solo contentatevi che io lo gusti con la divinità
degli occhi per i quali sarà ricevuto dalla immortale anima mia; e quella sola allui
chiede misericordia e perdono -. Finite queste parole, levato il Sacramento, subito tornò
alle medesime pazzie di prima, le quali erano composte dei maggiori furori, delle piú
orrende parole che mai potessimo immaginare gli uomini; né mai cessò in tutta notte
insino al giorno. Come il sole fu fuora del nostro orizzonte si volse a me e mi disse: -
Fratel mio, io non voglio piú star qui, perché costoro mi farebbon fare qualche gran
cosa, di che e' s'arebbono a pentire d'avermi dato noia -, e scagliandosi con l'una e
l'altra gamba, la quale noi gli avevamo messo in una cassa molto ben grave, la tramutò in
modo di montare a cavallo: voltandosi a me col viso disse tre volte: - Adio, adio - e
l'ultima parola se ne andò con quella bravosissima anima. Venuto l'ora debita, che fu in
sul tardi a ventidua ore, io lo feci sotterrare con grandissimo onore innella chiesa de'
Fiorentini, e di poi gli feci fare una bellissima lapida di marmo, innella quale vi si
fece alcuni trofei e bandiere intagliate. Non voglio lasciare in drieto, che domandandolo
un di quei sua amici, chi gli aveva dato quell'archibusata, se egli lo ricognoscessi,
disse di sí, e dettegli e' contrassegni; e' quali, se bene il mio fratello s'era guardato
da me che tal cosa io non sentissi, benissimo lo avevo inteso, e al suo luogo si dirà il
seguito. |
L. |
Tornando alla ditta lapida, certi maravigliosi litterati, che
conoscevano il mio fratello, mi dettono una epigramma dicendomi che quella meritava quel
mirabil giovane, la qual diceva cosí: "Francisco Cellino Fiorentino, qui quod in
teneris annis ad Ioannem Medicem ducem plures victorias retulit et signifer fuit, facile
documentum dedit quantae fortitudinis et consilii vir futurus erat, ni crudelis fati
archibuso transfossus quinto aetatis lustro jaceret, Benvenutus frater posuit. Obiit die
XXVII Maii MDXXIX".Era dell'età di venticinque anni; e perché domandato in fra
i soldati Cecchino del Piffero, dove il nome suo proprio era Giovanfrancesco Cellini, io
volsi fare quel nome propio, di che gli era conosciuto, sotto la nostra arme. Questo nome
io l'avevo fatto intagliare di bellissime lettere antiche; le quali avevo fatto fare tutte
rotte, salvo che la prima e l'ultima lettera. Le quali lettere rotte, io fui domandato per
quel che cosí avevo fatto da quelli litterati, che mi avevano fatto quel bello epigramma.
Dissi loro quelle lettere esser rotte, perché quello strumento mirabile del suo corpo era
guasto e morto; e quelle dua lettere intere, la prima e l'ultima, si erano, la prima,
memoria di quel gran guadagno di quel presente che ci dava Idio, di questa nostra anima
accesa dalla sua divinità: questa non si rompeva mai; quella altra ultima intera si era
per la gloriosa fama delle sue valorose virtú. Questo piacque assai e di poi qualcuno
altro se n'è servito di questo modo. Appresso feci intagliare in detta lapida l'arme
nostra de' Cellini, la quale io l'alterai da quel che l'è propia; perché si vede in
Ravenna, che è città antichissima, i nostri Cellini onoratissimi gentiluomini, e' quali
hanno per arme un leone rampante, di color d'oro in campo azzurro, con un giglio rosso
posto nella zampa diritta, e sopra il rastrello con tre piccoli gigli d'oro. Questa è la
nostra vera arme de' Cellini. Mio padre me la mostrò, la quale era la zampa sola, con
tutto il restante delle ditte cose; ma a me piú piacerebbe che si osservassi quella dei
Cellini di Ravenna sopra detta. Tornando a quella che io feci nel sepulcro del mio
fratello, era la branca del lione, e in cambio del giglio gli feci una accetta in mano,
col campo di detta arme partito in quattro quarti; e quell'accetta che io feci, fu solo
perché non mi si scordassi di fare le sue vendette. |
LI. |
Attendevo con grandissima sollecitudine a finire quell'opera d'oro a
papa Clemente, la quale il ditto Papa grandemente desiderava, e mi faceva chiamare dua e
tre volte la settimana, volendo vedere detta opera, e sempre gli cresceva di piacere: e
piú volte mi riprese quasi sgridandomi della gran mestizia che io portavo di questo mio
fratello; e una volta in fra l'altre, vedutomi sbattuto e squallido piú che 'l dovere, mi
disse: - Benvenuto, oh! i' non sapevo che tu fussi pazzo; non hai tu saputo prima che ora,
che alla morte non è rimedio? Tu vai cercando di andargli drieto -. Partitomi dal Papa
seguitava l'opera e i ferri della zecca, e per mia innamorata mi avevo preso il
vagheggiare quello archibusieri, che aveva dato al mio fratello. Questo tale era già
stato soldato cavalleggieri, di poi s'era messo per archibusieri nel numero de' caporali
col bargello; e quello che piú mi fece crescere la stizza, fu che lui s'era vantato in
questo modo, dicendo: - Se non ero io, che ammazzai quel bravo giovane, ogni poco che si
tardava, che egli solo con nostro gran danno tutti ci metteva in fuga -. Cognoscendo io
che quella passione di vederlo tanto ispesso mi toglieva il sonno e il cibo e mi conduceva
per il mal cammino, non mi curando di far cosí bassa impresa e non molto lodevole, una
sera mi disposi a volere uscire di tanto travaglio. Questo tale istava a casa vicino a un
luogo chiamato Torre Sanguigna accanto a una casa dove stava alloggiato una cortigiana
delle piú favorite di Roma, la quali si domandava la signora Antea. Essendo sonato di
poco le ventiquattro ore, questo archibusieri si stava in su l'uscio suo con la spada in
mano, e aveva cenato. Io con gran destrezza me gli acostai con un gran pugnal pistolese e
girandogli un marrovescio, pensando levargli il collo di netto, voltosi anche egli
prestissimo, il colpo giunse innella punta della spalla istanca; e fiaccato tutto l'osso,
levatosi sú, lasciato la spada smarrito dal gran dolore, si messe a corsa; dove che
seguitandolo, in quattro passi lo giunsi, e alzando il pugnale sopra la sua testa, lui
abassando forte il capo, prese il pugnale apunto l'osso del collo e mezza la collottola, e
innell'una e nell'altra parte entrò tanto dentro il pugnale, che io, se ben facevo gran
forza di riaverlo, non possetti; perché della ditta casa de l'Antea saltò fuora quattro
soldati con le spade inpugnate in mano, a tale che io fui forzato a metter mano per la mia
spada per difendermi da loro. Lasciato il pugnale mi levai di quivi, e per paura di non
essere conosciuto me ne andai in casa il duca Lessandro, che stava in fra piazza Navona e
la Ritonda. Giunto che io fui, feci parlare al Duca, il quale mi fece intendere che, se io
ero solo, io mi stessi cheto e non dubitassi di nulla, e che io me ne andassi a lavorare
l'opera del Papa, che la desiderava tanto, e per otto giorni io mi lavorassi drento;
massimamente essendo sopraggiunto quei soldati che mi avevano impedito, li quali avevano
quel pugnale in mano, e contavano la cosa come l'era ita, e la gran fatica che egli
avevano durato a cavare quel pugnale dell'osso del collo e del capo di colui, il quale
loro non sapevano chi quel si fussi. Sopraggiunto in questo Giovan Bandini, disse loro: -
Questo pugnale è il mio, e l'avevo prestato a Benvenuto, il quale voleva far le vendette
del suo fratello -. I ragionamenti di questi soldati furno assai, dolendosi d'avermi
impedito, se bene la vendetta s'era fatta a misura di carboni. Passò piú di otto giorni:
il Papa non mi mandò a chiamare come e' soleva. Da poi mandatomi a chiamare per quel
gentiluomo bolognese suo cameriere, che già dissi, questo con gran modestia mi accennò
come il Papa sapeva ogni cosa, e che Sua Santità mi voleva un grandissimo bene, e che io
attendessi a lavorare e stessi cheto. Giunto al Papa, guardatomi cosí coll'occhio del
porco, con i soli sguardi mi fece una paventosa bravata; di poi atteso a l'opera,
cominciatosi a rasserenare il viso, mi lodò oltra modo, dicendomi che io avevo fatto un
gran lavorare in sí poco tempo; da poi guardatomi in viso, disse: - Or che tu se'
guarito, Benvenuto, attendi a vivere - e io, che lo 'ntesi, dissi che cosí farei. Apersi
una bottega subito bellissima in Banchi, al dirimpetto a quel Raffaello, e quivi fini' la
detta opera in pochi mesi a presso. |
LII. |
Mandatomi il Papa tutte le gioie, dal diamante in fuora, il quale per
alcuni sua bisogni lo aveva impegnato a certi banchieri genovesi, tenevo tutte l'altre
gioie, e di questo diamante avevo solo la forma. Tenevo cinque bonissimi lavoranti, e
fuora di questa opera facevo di molte faccende; in modo che la bottega era carica di molto
valore d'opere e di gioie, d'oro e di argento. Tenendo in casa un cane peloso, grandissimo
e bello, il quale me lo aveva donato il duca Lessandro, se bene questo cane era buono per
la caccia, perché mi portava ogni sorta di uccelli e d'altri animali che ammazzato io
avessi con l'archibuso, ancora per guardia d'una casa questo era maravigliosissimo. Mi
avenne in questo tempo, promettendolo la stagione innella quale io mi trovava, innell'età
di ventinove anni, avendo preso per mia serva una giovane di molta bellissima forma e
grazia, questa tale io me ne servivo per ritrarla, a proposito per l'arte mia: ancora mi
compiaceva alla giovinezza mia del diletto carnale. Per la qual cosa, avendo la mia camera
molto apartata da quelle dei mia lavoranti, e molto discosto alla bottega, legata con un
bugigattolo d'una cameruccia di questa giovane serva; e perché molto ispesso io me la
godevo; (e se bene io ho aùto il piú legger sonno che mai altro uomo avessi al mondo, in
queste tali occasioni de l'opere della carne egli alcune volte si fa gravissimo e
profondo); sí come avvenne, che una notte in fra l'altre, essendo istato vigilato da un
ladro, il quale sott'ombra di dire che era orefice, aocchiando quelle gioie disegnò
rubarmele, per la qual cosa sconfittomi la bottega, trovò assai lavoretti d'oro e
d'argento: e soprastando a sconficcare alcune cassette per ritrovare le gioie che gli
aveva vedute, quel cane ditto se gli gettava a dosso, e lui con una spada malamente da
quello si difendeva; di modo che piú volte il cane corse per la casa, entrato innelle
camere di quei lavoranti, che erano aperte per esser di state. Da poi che quel suo gran
latrare quei non volevan sentire, tirato lor le coperte da dosso, ancora non sentendo,
pigliato per i bracci or l'uno or l'altro, per forza gli svegliò, e latrando con quel suo
orribil modo, mostrava loro il sentiero avviandosi loro inanzi. E' quali veduto che lor
seguitare non lo volevano, venuto a questi traditori a noia, tirando al detto cane sassi e
bastoni, (e questo lo potevano fare, perché era di mia commessione che loro tutta la
notte tenessimo il lume), per ultimo serrato molto ben le camere, il cane, perso la
speranza de l'aiuto di questi ribaldi, da per sé solo si messe all'impresa; e corso giú,
non trovato il ladro in bottega, lo raggiunse; e combattendo seco, gli aveva di già
stracciata la cappa e tolta; e se non era che lui chiamò l'aiuto di certi sarti, dicendo
loro che per l'amor di Dio l'aiutassimo difendere da un cane arrabiato, questi credendo
che cosí fussi il vero, saltati fuora iscacciorno il cane con gran fatica. Venuto il
giorno, essendo iscesi in bottega, la vidono sconfitta e aperta, e rotto tutte le
cassette. Cominciorno ad alta voce a gridare - oimè, oimè! - onde io resentitomi,
ispaventato da quei romori mi feci fuora. Per la qual cosa fattimisi innanzi, mi dissono:
- Oh sventurati a noi, che siamo stati rubati da uno che ha rotto e tolto ogni cosa! -
Queste parole furno di tanta potenzia, che le non mi lasciorno andare al mio cassone a
vedere se v'era drento le gioie del Papa: ma per quella cotal gelosia ismarrito quasi
affatto il lume degli occhi, dissi che loro medesimi aprissino il cassone, vedendo quante
vi mancava di quelle gioie del Papa. Questi giovani si erano tutti in camicia; e quando di
poi aperto il cassone videro tutte le gioie e l'opera d'oro insieme con esse,
rallegrandosi mi dissono: - E' non ci è mal nessuno, da poi che l'opera e le gioie son
qui tutte; se bene questo ladro ci ha lasciati tutti in camicia, causa che iersera per il
gran caldo noi ci spogliammo tutti in bottega e ivi lasciammo i nostri panni -. Subito
ritornatomi le virtú al suo luogo, ringraziato Idio, dissi: - Andate tutti a rivestirvi
di nuovo, e io ogni cosa pagherò, intendendo piú per agio il caso come gli è passato -.
Quello che piú mi doleva, e che fu causa di farmi smarrire e spaventare tanto fuor della
natura mia, si era che talvolta il mondo non avessi pensato che io avessi fatto quella
finzione di quel ladro sol per rubare io le gioie; e perché a papa Clemente fu detto da
un suo fidatissimo e da altri, e' quali furno Francesco del Nero, il Zana de' Biliotti suo
computista, il vescovo di Vasona e molti altri simili: - Come fidate voi, beatissimo
Padre, tanto gran valor di gioie a un giovine, il quale è tutto fuoco, ed è piú ne
l'arme inmerso che ne l'arte, e non ha ancora trenta anni? - La qual cosa il Papa rispose,
se nessun di loro sapeva che io avessi mai fatto cose da dare loro tal sospetto. Francesco
del Nero, suo tesauriere, presto rispose dicendo. - No, beatissimo Padre, perché e' non
ha aùto mai una tale occasione -. A questo il Papa rispose: - Io l'ho per intero uomo da
bene, e se io vedessi un mal di lui, io non lo crederrei -. Questo fu quello che mi dette
il maggior travaglio, e che subito mi venne a memoria. Dato che io ebbi ordine a' giovani
che fussino rivestiti, presi l'opera insieme con le gioie, accomodandole meglio che io
potevo a' luoghi loro, e con esse me ne andai subito dal Papa, il quale da Francesco del
Nero gli era stato detto parte di quei romori, che nella bottega mia s'era sentito; e
subito messo sospetto al Papa. Il Papa piú presto immaginato male che altro, fattomi uno
sguardo adosso terribile, disse con voce altiera: - Che se' tu venuto a far qui? che c'è?
- Ècci tutte le vostre gioie e l'oro, e non manca nulla -. Allora il Papa, rasserenato il
viso, disse: - Cosí sia tu il benvenuto -. Mostratogli l'opera, e in mentre che la
vedeva, io gli contavo tutti gli accidenti del ladro e de' mia affanni, e quello che m'era
di maggior dispiacere. Alle qual parole molte volte si volse a guardarmi in viso fiso, e
alla presenza era quel Francesco del Nero, per la qual cosa pareva che avessi mezzo per
male non si essere aposto. All'ultimo il Papa, cacciatosi a ridere di quelle tante cose
che io gli avevo detto, mi disse: - Va', e attendi a essere uomo da bene, come io mi
sapevo. |
LIII. |
Sollecitando la ditta opera e lavorando continuamente per la zecca, si
cominciò a vedere per Roma alcune monete false istampate con le mie proprie stampe.
Subito furno portate dal Papa; e datogli sospetto di me, il Papa disse a Iacopo Balducci
zecchiere: - Fa' diligenza grandissima di trovare il malfattore, perché sappiamo che
Benvenuto è uomo da bene -. Questo zecchiere traditore, per esser mio nimico, disse: -
Idio voglia, beatissimo Padre, che vi riesca cosí qual voi dite; perché noi abbiamo
qualche riscontro -. A questo il Papa si volse al governatore di Roma, e disse che lui
facessi un poco di diligenza di trovare questo malfattore. In questi dí il Papa mandò
per me; di poi con destri ragionamenti entrò in su le monete, e bene a proposito mi
disse: - Benvenuto, darebbet'egli il cuore di far monete false? - Alla qual cosa io
risposi, che le crederrei far meglio che tutti quanti gli uomini, che a tal vil cosa
attendevano; perché quelli che attendono a tal poltronerie non sono uomini che sappin
guadagnare, né sono uomini di grande ingegno; e se io col mio poco ingegno guadagnavo
tanto che mi avanzava, perché quando io mettevo ferri per la zecca, ogni mattina inanzi
che io desinassi mi toccava guadagnare tre scudi il manco; (che cosí era stato sempre
l'usanza del pagare i ferri delle monete, e quello sciocco del zecchiere mi voleva male,
perché e' gli arebbe voluti avere a miglior mercato); a me mi bastava assai questo che io
guadagnavo con la grazia di Dio e del mondo; che a far monete false non mi sarebbe tocco a
guadagnar tanto. Il Papa attinse benissimo le parole; e dove gli aveva dato commessione
che con destrezza avessin cura che io non mi partissi di Roma, disse loro che cercassino
con diligenza, e di me non tenessin cura, perché non arebbe voluto isdegnarmi, qual fussi
causa di perdermi. A chi e' commesse caldamente, furno alcuni de' chierici di Camera, e'
quali, fatto quelle debite diligenze, perché a lor toccava, subito lo trovorno. Questo si
era uno istampatore della propia zecca, che si domandava per nome Céseri Macheroni,
cittadin romano; e insieme seco fu preso uno ovolatore di zecca. |
LIV. |
In questo dí medesimo, passando io per piazza Naona, avendo meco quel
mio bello can barbone, quando io sono giunto dinanzi alla porta del bargello, il mio cane
con grandissimo impito forte latrando si getta dentro alla porta del bargello addosso a un
giovane, il quale aveva fatto cosí un poco sostenere un certo Donnino, orefice, da Parma
già discepol di Caradossa, per aver aùto indizio che colui l'avessi rubato. Questo mio
cane faceva tanta forza di volere sbranare quel giovane, che, mosso i birri a compassione,
massimamente il giovane audace difendeva bene le sue ragione, e quel Donnino non diceva
tanto che bastassi, maggiormente essendovi un di quei caporali de' birri, ch'era genovese
e conosceva il padre di questo giovane; in modo che, fra il cane e quest'altre occasione,
facevan di sorte che volevan lasciar andar via quel giovane a ogni modo. Accostato che io
mi fui, il cane, non cognoscendo paura né di spada né di bastoni, di nuovo gittatosi
adosso a quel giovane, coloro mi dissono che se io non rimediavo al mio cane, me lo
ammazzerebbono. Preso il cane il meglio che io potevo, innel ritirarsi il giovane in su la
cappa, gli cadde certe cartuzze della capperuccia; per la qual cosa quel Donnino
ricognobbe esser cose sue. Ancora io vi ricognobbi un piccolo anellino; per la qual cosa
subito io dissi: - Questo è il ladro che mi sconfisse e rubò la mia bottega; però il
mio cane lo ricognosce - e lasciato il cane, di nuovo si gli gettò adosso; dove che il
ladro mi si raccomandò, dicendomi che mi renderebbe quello che aveva di mio. Ripreso il
cane, costui mi rese d'oro e di argento e di anelletti quel che gli aveva di mio, e
venticinque scudi da vantaggio; di poi mi si raccomandò. Alle quali parole io dissi, che
si raccomandassi a Dio, perché io non gli farei né ben né male. E tornato alle mie
faccende, ivi a pochi giorni quel Céseri Macherone delle monete false fu impiccato in
Banchi dinanzi alla porta della zecca; il compagno fu mandato in galea; il ladro genovese
fu impiccato in Campo di Fiore; e io mi restai in maggior concetto di uomo da bene che
prima non ero. |
LV. |
Avendo presso a fine l'opera mia, sopravenne quella grandissima
inundazione, la quale traboccò d'acqua tutta Roma. Standomi a vedere quel che tal cosa
faceva, essendo di già il giorno logoro, sonava ventidua ore, e l'acque oltramodo
crescevano. E perché la mia casa e bottega el dinanzi era in Banchi e il di drieto saliva
parecchi braccia, perché rispondeva in verso Monte Giordano, di modo che, pensando prima
alla salute della vita mia, di poi all'onore, mi missi tutte quelle gioie adosso e lasciai
quell'opera d'oro a quelli mia lavoranti in guardia, e cosí scalzo discesi per le mie
finestre di drieto, e il meglio che io potessi passai per quelle acque tanto che io mi
condussi a Monte Cavallo, dove io trovai misser Giovanni Gaddi cherico di Camera, e
Bastiano Veniziano pittore. Accostatomi a misser Giovanni, gli detti tutte le ditte gioie,
che me le salvassi; il quale tenne conto di me, come se fratello gli fussi stato. Di poi a
pochi giorni, passati i furori dell'acqua, ritornai alla mia bottega, e fini' la ditta
opera con tanta buona fortuna, mediante la grazia de Dio e delle mie gran fatiche, che
ella fu tenuta la piú bella opera che mai fussi vista a Roma; di modo che, portandola al
Papa, egli non si poteva saziare di lodarmela; e disse: - Se io fussi uno imperatore
ricco, io donerei al mio Benvenuto tanto terreno, quanto il suo occhio scorressi; ma
perché noi dal dí d'oggi siamo poveri imperatori falliti, ma a ogni modo gli darem tanto
pane, che basterà alle sue piccole voglie -. Lasciato che io ebbi finire al Papa quella
sua smania di parole, gli chiesi un mazzieri ch'era vacato. Alle qual parole il Papa disse
che mi voleva dar cosa di molta maggiore importanza. Risposi a Sua Santità, che mi dessi
quella piccola, intanto, per arra. Cacciandosi a ridere, disse che era contento, ma che
non voleva che io servissi, e che io mi convenissi con li compagni mazzieri di non
servire, dando loro qualche grazia, che già gli avevano domandato al Papa, qual era di
potere con autorità riscuotere le loro entrate. Ciò fu fatto. Questo mazziere mi rendeva
poco manco di dugento scudi l'anno di entrata. |
LVI. |
Seguitando appresso di servire il Papa or di un piccolo lavoro or di un
altro, m'impose che io gli facessi un disegno di un calice ricchissimo; il quale io feci
il ditto disegno e modello. Era questo modello di legno e di cera; in luogo del bottone
del calice avevo fatto tre figurette di buona grandezza tonde, le quale erano la Fede, la
Speranza, e la Carità; innel piede poi avevo fatto a conrispondenza tre storie in tre
tondi di basso rilievo: che innell'una era la natività di Cristo, innell'altra la
resurressione di Cristo, innella terza si era San Pietro crocifisso a capo di sotto; che
cosí mi fu commesso che io facessi. Tirando inanzi questa ditta opera, il Papa molto
ispesso la voleva vedere; in modo che, avvedutomi che Sua Santità non s'era poi mai piú
ricordato di darmi nulla, essendo vacato un frate del Piombo, una sera io gnene chiesi. Al
buon Papa non sovvenendo piú di quella ismania che gli aveva usato in quella fine di
quella altra opera, mi disse: - L'ufizio del Piombo rende piú di ottocento scudi, di modo
che se io te lo dessi, tu ti attenderesti a grattare il corpo, e quella bell'arte che tu
hai alle mane si perderebbe, e io ne arei biasimo -. Subito risposi che le gatte di buona
sorte meglio uccellano per grassezza che per fame: - Cosí quella sorte degli uomini
dabbene che sono inclinati alle virtú, molto meglio le mettono in opera quando egli hanno
abundantissimamente da vivere; di modo che quei principi che tengono abundantissimi questi
cotali uomini, sappi Vostra Santità che eglino annaffiano le virtú: cosí per il
contrario le virtú nascono ismunte e rognose; e sappi Vostra Santità, che io non lo
chiesi con intenzione di averlo. Pur beato che io ebbi qual povero mazziere! Di questo
tanto m'immaginavo. Vostra Santità farà bene, non l'avendo voluto dar a me, a darla a
qualche virtuoso che lo meriti, e non a qualche ignorantone che si attenda a grattare il
corpo come disse Vostra Santità. Pigliate esemplo dalla buona memoria di papa Iulio, che
un tale ufizio dette a Bramante, eccellentissimo architettore -. Subito fattogli reverenza
infuriato mi parti'. Fattosi innanzi Bastiano Veniziano, pittore, disse: - Beatissimo
padre, Vostra Santità sia contenta di darlo a qualcuno che si affatica ne l'opere
virtuose; e perché, come sa Vostra Santità, ancora io volentieri mi affatico in esse, la
priego che me ne faccia degno -. Rispose il Papa: - Questo diavolo di Benvenuto non
ascolta le riprensioni. Io ero disposto a dargnene, ma e' none sta bene essere cosí
superbo con un Papa; pertanto io non so quel che io mi farò -. Subito fattosi innanzi il
vescovo di Vasona, pregò per il ditto Bastiano, dicendo: - Beatissimo padre, Benvenuto è
giovane e molto meglio gli sta la spada accanto che la vesta da frati: Vostra Santità sia
contenta di darlo a questo virtuoso uomo di Bastiano; e a Benvenuto talvolta potrete dare
qualche cosa buona, la quale forse sarà piú a proposito che questa -. Allora il Papa,
voltosi a messer Bartolomeo Valori, gli disse: - Come voi scontrate Benvenuto, ditegli da
mia parte che lui stesso ha fatto avere il Piombo a Bastiano dipintore; e che stia
avvertito, che la prima cosa migliore che vaca, sarà la sua; e che intanto attenda a far
bene, e finisca l'opere mie -. L'altra sera seguente a dua ore di notte, scontrandomi in
messer Bartolomeo Valori in sul cantone della zecca: lui aveva due torcie innanzi e andava
in furia, domandato dal Papa; faccendogli riverenza, si fermò e chiamommi, e mi disse con
grandissima affezione tutto quello che gli aveva ditto il Papa che mi dicessi. Alle qual
parole io risposi, che con maggiore diligenzia e istudio finirei l'opera mia, che nessuna
mai de l'altre; ma sí bene senza punto di speranza d'avere nulla mai dal Papa. Il detto
misser Bartolomeo ripresemi, dicendomi che cosí non si doveva rispondere a le offerte
d'un Papa. A cui io dissi, che ponendo isperanza a tal parole, saputo che io non l'arei a
ogni modo, pazzo sarei a rispondere altrimenti; e partitomi, me ne andai a 'ttendere alle
mie faccende. Il ditto messer Bartolomeo dovette ridire al Papa le mie ardite parole, e
forse piú che io non dissi, di modo che il Papa stette piú di dua mesi a chiamarmi, e io
in questo tempo non volsi mai andare al palazzo per nulla. Il Papa, che di tale opera si
struggeva, commesse a messer Ruberto Pucci che attendessi un poco a quel che io facevo.
Questo omaccion da bene ogni dí mi veniva a vedere, e sempre mi diceva qualche amorevol
parola, e io allui. Appressandosi il Papa a voler partirsi per andare a Bologna, a
l'ultimo poi, veduto che da per me io non vi andavo, mi fece intendere dal ditto misser
Roberto, che io portassi sú l'opera mia, perché voleva vedere come io l'avevo innanzi.
Per la qual cosa io la portai, mostrando detta opera esser fatto tutta la importanza, e lo
pregavo che mi lasciassi cinquecento scudi, parte a buon conto, e parte mi mancava assai
bene de l'oro da poter finire detta opera. Il Papa mi disse: - Attendi, attendi a finirla
-. Risposi partendomi, che io la finirei, se mi lasciava danari. Cosí me ne andai. |
LVII. |
Il Papa andato alla volta di Bologna lasciò il cardinale Salviati
legato di Roma, e lasciògli commessione che mi sollecitassi questa ditta opera, e li
disse: - Benvenuto è persona che stima poco la sua virtú, e manco Noi; sí che vedete di
sollecitarlo, in modo che io la truovi finita -. Questo Cardinal bestia mandò per me in
capo di otto dí, dicendomi che io portassi sú l'opera; a il quale io andai allui senza
l'opera. Giunto che io fui, questo Cardinale subito mi disse: - Dov'è questa tua
cipollata? ha' la tu finita? - Al quale io risposi: - O Monsignor reverendissimo, io la
mia cipollata non ho finita, e non la finirò, se voi non mi date delle cipolle da finirla
-. A queste parole il ditto Cardinale, che aveva piú viso di asino che di uomo, divenne
piú brutto la metà; e venuto al primo a mezza spada, disse: - Io ti metterò in una
galea, e poi arai di grazia di finir l'opera -. Ancora io con questa bestia entrai in
bestia, e gli dissi: - Monsignore, quando io farò peccati che meritino la galea, allora
voi mi vi metterete: ma per questi peccati io non ho paura di vostra galea: e di piú vi
dico, a causa di Vostra Signoria, io non la voglio mai piú finire; e non mandate mai piú
per me, perché io non vi verrò mai piú inanzi, se già voi non mi facessi venir co'
birri -. Il buon Cardinale provò alcune volte amorevolmente a farmi intendere che io
doverrei lavorare e che i' gnene doverrei portare a mostrare; in modo che a quei tali io
dicevo: - Dite a Monsignore che mi mandi delle cipolle, se vuol che io finisca la
cipollata - né mai gli risposi altre parole; di sorte che lui si tolse da questa
disperata cura. |
LVIII. Tornò il Papa da Bologna, e subito domandò di me, perché quel
Cardinale di già gli aveva scritto il peggio che poteva de' casi mia. Essendo il Papa
innel maggior furore che immaginar si possa, mi fece intendere che io andassi con l'opera.
Cosí feci. In questo tempo che il Papa stette a Bologna, mi si scoperse una scesa con
tanto affanno agli occhi, che per il dolore io non potevo quasi vivere, in modo che questa
fu la prima causa che io non tirai innanzi l'opera: e fu sí grande il male, che io pensai
certissimo rimaner cieco; di modo che io avevo fatto il mio conto, quel che mi bastassi a
vivere cieco. Mentre che io andavo al Papa, pensavo il modo che io avevo a tenere a far la
mia scusa di non aver potuto tirare innanzi l'opera. Pensavo che in quel mentre che il
Papa la vedeva e considerava, poterli dire i fatti: la qual cosa non mi venne fatta,
perché giunto dallui, subito con parole villane disse: - Da' qua quell'opera; è ella
finita? - Io la scopersi: subito con maggior furore disse: - In verità de Dio dico a te,
che fai professione di non tener conto di persona, che se e' non fussi per onor di mondo
io ti farei insieme con quell'opera gittar da terra quelle finestre -. Per la qual cosa,
veduto io il Papa diventato cosí pessima bestia, sollecitavo di levarmigli dinanzi. In
mentre che lui continuava di bravare, messami l'opera sotto la cappa, borbottando dissi: -
Tutto il mondo non farebbe che un cieco fussi tenuto a lavorare opere cotali -.
Maggiormente alzato la voce, il Papa disse: - Vien qua; che di' tu? - Io stetti infra dua
di cacciarmi a correre giú per quelle scale; di poi mi risolsi, e gettatomi in
ginocchioni, gridando forte, perché lui non cessava di gridare, dissi: - E se io sono per
una infirmità divenuto cieco, sono io tenuto a lavorare? - A questo e' disse: - Tu hai
pur veduto lume a venir qui, né credo che sia vero nessuna di queste cose che tu di'-. Al
quale io dissi, sentendogli alquanto abbassar la voce: - Vostra Santità ne dimandi il suo
medico, e troverrà il vero -. Disse: - Piú all'agio intenderemo se la sta come tu di'-.
Allora, vedutomi prestare audienza, dissi: - Io non credo che di questo mio gran male ne
sia causa altri che il cardinal Salviati, perché e' mandò per me subito che Vostra
Santità fu partito, e giunto allui, pose alla mia opera nome una cipollata, e mi disse
che me la farebbe finire in una galea; e fu tanto la potenzia di quelle inoneste parole,
che per la estrema passione subito mi senti' infiammare il viso, e vennemi innegli occhi
un calore tanto ismisurato, che io non trovavo la via a tornarmene a casa: di poi a pochi
giorni mi cadde dua cataratti in su gli occhi; per la qual cosa io non vedevo punto di
lume, e da poi la partita di Vostra Santità io non ho mai potuto lavorare nulla -.
Rizzatomi di ginocchioni, mi andai con Dio; e mi fu ridetto che il Papa disse: - Se e' si
dà gli ufizi, non si può dare la discrezione con essi. Io non dissi al Cardinale che
mettessi tanta mazza: che se gli è il vero che abbia male innegli occhi, quale intenderò
dal mio medico, sarebbe da 'vergli qualche compassione -. Era quivi alla presenza un gran
gentiluomo molto amico del Papa e molto virtuosissimo. Domandatogli il Papa che persona io
ero, dicendo: - Beatissimo Padre, io ve ne domando, perché m'è parso che voi siete
venuto in un tempo medesimo nella maggior còllora che io vedessi mai, e innella maggiore
compassione; sí che per questo io domando Vostra Santità chi egli è; che se è persona
che meriti essere aiutato, io gli insegnerei un segreto da farlo guarire di quella
infermità - a queste parole disse il Papa: - Quello è il maggiore uomo che nascessi mai
della sua professione; e un giorno che noi siamo insieme vi farò vedere delle
maravigliose opere sue, e lui con esse; e mi sarà piacere che si vegga se si gli può
fare qualche benifizio -. Di poi tre giorni il Papa mandò per me un dí doppo desinare,
ed eraci questo gentiluomo alla presenza. Subito che io fui giunto, el Papa si fece
portare quel mio bottone del piviale. In questo mezzo io avevo cavato fuora quel mio
calice; per la qual cosa quel gentiluomo diceva di non aver mai visto un'opera tanto
maravigliosa. Sopraggiunto il bottone, gli accrebbe molto piú maraviglia; guardatomi in
viso disse: - Gli è pur giovane a saper tanto, ancora molto atto a 'cquistare -. Di poi
me domandò del mio nome. Al quale io dissi: - Benvenuto è il mio nome -. Rispose: -
Benvenuto sarò io questa volta per te; piglia de' fioralisi con il gambo, col fiore e con
la barba tutto insieme, di poi gli fa stillare con gentil fuoco, e con quell'acqua ti
bagna gli occhi parecchi volte il dí, e certissimamente guarrai di cotesta infirmità; ma
fatti prima purgare, e poi continua la detta acqua -. Il Papa mi usò qualche amorevol
parola: cosí me ne andai mezzo contento. |
LIX. |
La infirmità gli era il vero che io l'avevo, ma credo che io l'avessi
guadagnata mediante quella bella giovane serva che io tenevo nel tempo che io fui rubato.
Soprastette quel morbo gallico a scoprirmisi piú di quattro mesi interi, di poi mi
coperse tutto tutto a un tratto: non era innel modo de l'altro che si vede, ma pareva che
io fussi coperto di certe vescichette, grandi come quattrini, rosse. I medici non mel
volson mai battezzare mal franzese: e io pure dicevo le cause che credevo che fussi.
Continuavo di medicarmi a lor modo, e nulla mi giovava; pur poi a l'ultimo, risoltomi a
pigliare il legno contra la voglia di quelli primi medici di Roma, questo legno io lo
pigliavo con tutta la disciplina e astinenzia che immaginar si possa, e in brevi giorni
senti' grandissimo miglioramento; a tale che in capo a cinquanta giorni io fui guarito e
sano come un pesce. Da poi, per dare qualche ristoro a quella gran fatica che io avevo
durato, entrando innel inverno, presi per mio piacere la caccia dello scoppietto, la quale
mi induceva a andare a l'acqua e al vento, e star pe' pantani; a tale che in brevi giorni
mi tornò l'un cento maggior male di quel che io avevo prima. Rimessomi nelle man de'
medici, continuamente medicandomi, sempre peggioravo. Saltatomi la febbre adosso, io mi
disposi di ripigliare il legno: gli medici non volevano, dicendomi che se io vi entravo
con la febbre, in otto dí morrei. Io mi disposi di far contro la voglia loro; e tenendo i
medesimi ordini che all'altra volta fatto avevo, beuto che io ebbi quattro giornate di
questa santa acqua de il legno, la febbre se ne andò afatto. Cominciai a pigliare
grandissimo miglioramento, e in questo che io pigliavo il detto legno sempre tiravo inanzi
i modelli di quella opera; e' quali in cotesta astinenzia io feci le piú belle cose e le
piú rare invenzione che mai facessi alla vita mia. In capo di cinquanta giorni io fui
benissimo guarito, e di poi con grandissima diligenzia io mi attesi a 'ssicurare la
sanità adosso. Di poi che io fui sortito di quel gran digiuno, mi trovai in modo netto
dalle mie infirmità, come se rinato io fussi. Se bene io mi pigliavo piacere ne
l'assicurare quella mia desiderata sanità, non mancavo ancora di lavorare; tanto che
innell'opera detta e innella zecca, ad ogniona di loro certissimo davo la parte del suo
dovere. |
LX. |
Abbattessi ad essere fatto legato di Parma quel ditto cardinale
Salviati, il quale aveva meco quel grande odio sopraditto. In Parma fu preso un certo
orefice milanese falsatore di monete, il quali per nome si domandava Tobbia. Essendo
giudicato alla forca e al fuoco, ne fu parlato al ditto Legato, messogli innanzi per gran
valente uomo. Il ditto Cardinale fece sopratenere la eseguizione della giustizia, e
scrisse a papa Clemente, dicendogli essergli capitato in nelle mane uno uomo il maggior
del mondo della professione de l'oreficeria, e che di già gli era condennato alle forche
e al fuoco, per essere lui falsario di monete; ma che questo uomo era simplice e buono,
perché diceva averne chiesto parere da un suo confessoro, il quale, diceva, che
gneneaveva dato licenzia che le potessi fare. Di piú diceva: - Se voi fate venire questo
grande uomo a Roma, Vostra Santità sarà causa di abbassare quella grande alterigia del
vostro Benvenuto, e sono certissimo che le opere di questo Tobbia vi piaceranno molto piú
che quelle di Benvenuto -. Di modo che il Papa lo fece venire subito a Roma. E poi che fu
venuto, chiamatici tutti a dua, ci fece fare un disegno per uno a un corno di liocorno il
piú bello che mai fusse veduto: si era venduto diciassette mila ducati di Camera.
Volendolo il Papa donare a il re Francesco, lo volse in prima guarnire riccamente d'oro, e
commesse a tutti a dua noi che facessimo i detti disegni. Fatti che noi gli avemmo,
ciascun di noi il portò al Papa. Era il disegno di Tubbia affoggia di un candegliere,
dove, a guisa della candela, si imboccava quel bel corno, e del piede di questo ditto
candegliere faceva quattro testoline di liocorno con semplicissima invenzione: tanto che
quando tal cosa io vidi, non mi potetti tenere che in un destro modo io non sogghignassi.
Il Papa s'avvide e subito disse: - Mostra qua il tuo disegno, - il quale era una sola
testa di liocorno, a conrispondenza di quel ditto corno. Avevo fatto la piú bella sorte
di testa che veder si possa; il perché si era, che io avevo preso parte della fazione
della testa del cavallo e parte di quella del cervio, arricchita con la piú bella sorte
di velli e altre galanterie, tale che, subito che la mia si vide, ogniuno gli dette il
vanto. Ma perché alla presenza di questa disputa era certi milanesi di grandissima
autorità, questi dissono: - Beatissimo Padre, Vostra Santità manda a donare questo gran
presente in Francia: sappiate che i Franciosi sono uomini grossi, e non cognosceranno
l'eccellenzia di questa opera di Benvenuto; ma sí bene piacerà loro questi ciborii, li
quali ancora saranno fatti piú presto; e Benvenuto vi attenderà a finire il vostro
calice, e verravi fatto dua opere in un medesimo tempo; e questo povero uomo, che voi
avete fatto venire, verrà ancora lui ad essere adoperato -. Il Papa, desideroso di avere
il suo calice, molto volentieri s'appiccò al consiglio di quei milanesi: cosí l'altro
giorno dispose quella opera a Tubbia di quel corno di liocorno, e a me fece intendere per
il suo guardaroba che io dovessi finirgli il suo calice. Alle qual parole io risposi, che
non desideravo altro al mondo che finire quella mia bella opera; ma che se la fossi
d'altra materia che d'oro, io facilissimamente da per me la potrei finire; ma per essere a
quel modo d'oro, bisognava che Sua Santità me ne dessi, volendo che io la potessi finire.
A questo parole questo cortigiano plebeo disse: - Oimè, non chiedere oro al Papa, che tu
lo farai venire in tanta còllora, che guai, guai a te -. Al quale io dissi: - O misser
voi, la Signoria vostra, insegnatemi un poco come sanza farina si può fare il pane? cosí
sanza oro mai si finirà quell'opera -. Questo guardaroba mi disse, parendogli alquanto
che io lo avessi uccellato, che tutto quello che io avevo ditto riferirebbe al Papa; e
cosí fece. Il Papa, entrato in un bestial furore, disse che voleva stare a vedere se io
ero un cosí pazzo che io non la finissi. Cosí si stette dua mesi passati e se bene io
avevo detto di non vi voler dar su colpo, questo non avevo fatto, anzi continuamente io
avevo lavorato con grandissimo amore. Veduto che io non la portavo, mi cominciò a
disfavorire assai, dicendo che mi gastigherebbe a ogni modo. Era alla presenza di queste
parole uno milanese suo gioielliere. Questo si domandava Pompeo, il quale era parente
stretto di un certo misser Traiano, il piú favorito servitore che avessi papa Clemente.
Questi dua d'accordo dissono al Papa: - Se Vostra Santità gli togliessi la zecca, forse
voi gli faresti venir voglia di finire il calice -. Allora il Papa disse: - Anzi sarebbon
dua mali: l'uno, che io sarei mal servito della zecca che m'importa tanto; e l'altro, che
certissimo io non arei mai il calice -. Questi dua detti milanesi, veduto il Papa mal
voIto inverso di me, a l'ultimo possetton tanto, che pure mi tolse la zecca, e la dette a
un certo giovane perugino, il quale si domandava Fagiuolo per soprannome. Venne quel
Pompeo a dirmi da parte del Papa, come Sua Santità mi aveva tolto la zecca, e che se io
non finivo il calice mi torrebbe de l'altre cose. A questo io risposi: - Dite a Sua
Santità che la zecca e' l'ha tolta a sé e non a me, e quel medesimo gli verrebbe fatto
di quell'altre cose; e che quando Sua Santità me la vorrà rendere, io in modo nessuno
non la rivorrò -. Questo isgraziato e sventurato gli parve mill'anni di giungere dal Papa
per ridirgli tutte queste cose, e qualcosa vi messe di suo di bocca. Ivi a otto giorni
mandò il Papa per questo medesimo uomo dirmi che non voleva piú che io gli finissi quel
calice, e che lo rivoleva appunto in quel modo e a quel termine che io l'avevo condotto. A
questo Pompeo io risposi: - Questa non è come la zecca, che me la possa tòrre; ma sí
ben e' cinquecento scudi, che io ebbi, sono di Sua Santità, i quali subito gli renderò:
e l'opera è mia, e ne farò quanto m'è di piacere -. Tanto corse a riferir Pompeo, con
qualche altra mordace parola, che a lui stesso con giusta causa io avevo detto. |
LXI. |
Di poi tre giorni appresso, un giovedí, venne a me dua camerieri di
Sua Santità favoritissimi, che ancora oggi n'è vivo uno di quelli, ch'è vescovo, il
quale si domandava misser Pier Giovanni, ed era guardaroba di Sua Santità; l'altro si era
ancora di maggior lignaggio di questo, ma non mi sovviene il nome. Giunti a me mi dissono
cosí: - Il Papa ci manda. Benvenuto: da poi che tu non l'hai voluta intendere per la via
piú agevole, dice, o che tu ci dia l'opera sua, o che noi ti meniamo prigione -. Allora
io li guardai in viso lietissimamente, dicendo: - Signori, se io dessi l'opera a Sua
Santità, io darei l'opera mia e non la sua; e poi tanto l'opera mia io non gnene vo'
dare; perché avendola condotta molto innanzi con le mia gran fatiche, non voglio che la
vada in mano di qualche bestia ignorante, che con poca fatica me la guasti -. Era alla
presenza, quando io dicevo questo, quell'orefice chiamato Tobbia ditto di sopra, il quale
temerariamente mi chiedeva ancora i modelli di essa opera: le parole, degne di un tale
sciagurato che io gli dissi, qui non accade riplicarle. E perché quelli signori camerieri
mi sollecitavano che io mi spedissi di quel che io volevo fare, dissi a loro che ero
spedito: preso la cappa, e innanzi che io uscissi della mia bottega, mi volsi a una
immagine di Cristo con gran riverenza e con la berretta in mano, e dissi: - O benigno e
immortale, giusto e santo Signor nostro, tutte le cose che tu fai sono secondo la tua
giustizia, quale è sanza pari: tu sai che appunto io arrivo all'età de' trenta anni
della vita mia, né mai insino a qui mi fu promesso carcere per cosa alcuna: da poi che
ora tu ti contenti che io vadia al carcere, con tutto il cuor mio te ne ringrazio -. Di
poi vòltomi ai dua camerieri, dissi cosí con un certo mio viso alquanto rabbuffato: -
Non meritava un par mio birri di manco valore che voi Signori; sí che mettetemi in mezzo,
e come prigioniero mi menate dove voi volete -. Quelli dua gentilissimi uomini, cacciatisi
a ridere, mi messono in mezzo, e sempre piacevolmente ragionando mi condussono dal
Governatore di Roma, il quale era chiamato il Magalotto. Giunto allui, insieme con esso si
era il Procurator fiscale, li quali mi attendevano, quelli signor camerieri ridendo pure
dissono al Governatore: - Noi vi consegnamo questo prigione, e tenetene buona cura. Ci
siamo rallegrati assai, che noi abbiamo tolto l'uffizio alli vostri secutori, perché
Benvenuto ci ha detto, che essendo questa la prima cattura sua, non meritava birri di
manco valore che noi ci siamo -. Subito partitisi giunsono al Papa; e dettogli
precisamente ogni cosa, in prima fece segno di voler entrare in furia, appresso si sforzò
di ridere, per essere alla presenza alcuni Signori e Cardinali amici mia, li quali
grandemente mi favorivano. Intanto il Governatore e il Fiscale parte mi bravavano, parte
mi esortavano, parte mi consigliavano, dicendomi che la ragione voleva, che uno che fa
fare una opera a un altro, la può ripigliare a sua posta, e in tutti i modi che allui
piace. Alle quali cose io dissi, che questo non lo prometteva la giustizia, né un papa
non lo poteva fare; perché e' non era un papa di quella sorte che sono certi signoretti
tirannelli, che fanno a' lor popoli il peggio che possono, non osservando né legge né
giustizia: però un Vicario di Cristo non può far nessuna di queste cose. Allora il
Governatore con certi sua birreschi atti e parole disse: - Benvenuto, Benvenuto, tu vai
cercando che io ti faccia quel che tu meriti. - Voi mi farete onore e cortesia, volendomi
fare quel che io merito -. Di nuovo disse: - Manda per l'opera subito, e fa di non
aspettar la siconda parola -. A questo io dissi: - Signori, fatemi grazia che io dica
ancora quattro parole sopra le mie ragione -. Il Fiscale, che era molto piú discreto
birro che non era il Governatore, si volse a il Governatore, e disse: - Monsignore,
facciàngli grazia di cento parole; pur che dia l'opera, assai ci basta -. Io dissi: - Se
e' fussi qualsivoglia sorte di uomo che facessi murare un palazzo o una casa, giustamente
potrebbe dire a il maestro che la murassi: "Io non voglio che tu lavori piú in su la
mia casa o in su 'l mio palazzo": pagandogli le sue fatiche giustamente ne lo può
mandare. Ancora se fossi un signore che facessi legare una gioia di mille scudi, veduto
che il gioielliere non lo servissi sicondo la voglia sua, può dire: "Dammi la mia
gioia perché io non voglio l'opera tua". Ma a questa cotal cosa non c'è nessuno di
questi capi; perché la non è né una casa, né una gioia; altro non mi si può dire, se
non che io renda e' cinquecento scudi che io ho aúti. Sí che, Monsignori, fate tutto
quel che voi potete, ché altro non arete da me, che e' cinquecento scudi. Cosí direte al
Papa. Le vostre minaccie non mi fanno una paura al mondo; perché io sono uomo da bene, e
non ho paura de' mia peccati -. Rizzatosi il Governatore e il Fiscale, mi dissono che
andavano dal Papa, e che tornerebbono con commessione, che guai a me. Cosí restai
guardato. Mi passeggiavo per un salotto: e gli stettono presso a tre ore a tornare dal
Papa. In questo mezzo mi venne a visitare tutta la nobiltà della nazion nostra di
mercanti, pregandomi strettamente che io non la volessi stare a disputare con un Papa,
perché potrebbe essere la rovina mia. Ai quali io risposi, che m'ero risoluto benissimo
di quel che io volevo fare. |
LXII. |
Subito che il Governatore insieme col Fiscale furono tornati da
Palazzo, fattomi chiamare, disse in questo tenore: - Benvenuto, certamente e' mi sa male
d'esser tornato dal Papa con una commessione tale, quale io ho; sí che o tu trova l'opera
subito, o tu pensa a' fatti tua -. Allora io risposi che, da poi che io non avevo mai
creduto insino a quell'ora che un santo Vicario di Cristo potessi fare un'ingiustizia -
però io lo voglio vedere prima che io lo creda; sí che fate quel che voi potete -.
Ancora il Governatore replicò, dicendo: - Io t'ho da dire dua altre parole da parte del
Papa, dipoi seguirò la commessione datami. Il Papa dice che tu mi porti qui l'opera, e
che io la vegga mettere in una scatola e suggellare; di poi io l'ho apportare al Papa, il
quale promette per la fede sua di non la muovere dal suo suggello chiusa, e subito te la
renderà; ma questo e' vuol che si faccia cosí per averci anch'egli la parte dell'onor
suo -. A queste parole io ridendo risposi, che molto volentieri gli darei l'opera mia in
quel modo che diceva, perché io volevo saper ragionare come era fatta la fede di un Papa.
E cosí mandato per l'opera mia, suggellata in quel modo che e' disse, gliene detti.
Ritornato il Governatore dal Papa con la ditta opera innel modo ditto, presa la scatola il
Papa, sicondo che mi riferí il Governatore ditto, la volse parecchi volte; dipoi domandò
il Governatore, se l'aveva veduta; il qual disse che l'aveva veduta e che in sua presenza
in quel modo s'era suggellata; di poi aggiunse, che la gli era paruta cosa molto mirabile.
Per la qual cosa il Papa disse: - Direte a Benvenuto, che i Papi hanno autorità di
sciorre e legare molto maggior cosa di questa - e in mentre che diceva queste parole, con
qualche poco di sdegno aperse la scatola, levando le corde e il suggello con che l'era
legata: di poi la guardò assai, e per quanto io ritrassi, e' la mostrò a quel Tubbia
orefice, il quale molto la lodò. Allora il Papa lo domandò se gli bastava la vista di
fare una opera a quel modo; il Papa gli disse che lui seguitassi quell'ordine apunto; di
poi si volse al Governatore e gli disse: - Vedete se Benvenuto ce la vuol dare; che
dandocela cosí, se gli paghi tutto quel che l'è stimata da valenti uomini; o sí
veramente, volendocela finir lui, pigli un termine: e se voi vedete che la voglia fare,
díesigli quelle comodità che lui domanda giuste -. Allora il Governatore disse: -
Beatissimo Padre, io che cognosco la terribil qualità di quel giovane, datemi autorità
che io glie ne possa dare una sbarbazzata a mio modo -. A questo il Papa disse che facessi
quel che volessi con le parole, benché gli era certo che e' farebbe il peggio; di poi
quando e' vedessi di non poter fare altro, mi dicessi che io portassi li sua cinquecento
scudi a quel Pompeo suo gioielliere sopraditto. Tornato il Governatore, fattomi chiamare
in camera sua, e con un birresco sguardo, mi disse: - E' papi hanno autorità di sciorre e
legare tutto il mondo, e tanto subito si afferma in Cielo per ben fatto: eccoti là la tua
opera sciolta e veduta da Sua Santità -. Allora subito io alzai la voce e dissi: - Io
ringrazio Idio, che io ora so ragionare com'è fatta la fede de' papi -. Allora il
Governatore mi disse e fece molte sbardellate braverie; e da poi veduto che lui dava in
nunnulla, affatto disperatosi dalla impresa, riprese alquanto la maniera piú dolce, e mi
disse: - Benvenuto, assai m incresce che tu non vuoi intendere il tuo bene; però va',
porta i cinquecento scudi, quando tu vuoi, a Pompeo sopra ditto -. Preso la mia opera, me
ne andai, e subito portai li cinquecento scudi a quel Pompeo. E perché talvolta il Papa,
pensando che per incomodità o per qualche altra occasione io non dovessi cosí presto
portare i dinari, desideroso di rattaccare il filo della servitú mia; quando e' vedde che
Pompeo gli giunse innanzi sorridendo con li dinari in mano, il Papa gli disse villania, e
si condolse assai che tal cosa fussi seguita in quel modo: di poi gli disse: - Va', truova
Benvenuto a bottega sua, e fagli piú carezze che può la tua ignorante bestialità; e
digli, che se mi vuol finire quell'opera per farne un reliquiere per portarvi drento il Corpus
Domini, quando io vo con esso a pricissione, che io gli darò le comodità che vorrà
a finirlo; purché egli lavori -. Venuto Pompeo a me, mi chiamò fuor di bottega, e mi
fece le piú isvenevole carezze d'asino, dicendomi tutto quel che gli aveva commesso il
Papa. Al quale io risposi subito, che il maggior tesoro che io potessi desiderare al
mondo, si era l'aver riauto la grazia d'un cosí gran Papa, la quale si era smarrita da
me, e non per mio difetto, ma sí bene per difetto della mia smisurata infirmità, e per
la cattività di quelli uomini invidiosi che hanno piacere di commetter male; - e perché
il Papa ha 'bundanzia di servitori, non mi mandi piú intorno, per la salute vostra; ché
badate bene al fatto vostro. Io non mancherò mai né dí né notte di pensare e fare
tutto quello che io potrò in servizio del Papa; e ricordatevi bene, che detto che voi
avete questo al Papa di me, in modo nessuno non vi intervenire in nulla de' casi mia,
perché io vi farò cognoscere gli errori vostri con la penitenzia che meritano -. Questo
uomo riferí ogni cosa al Papa in molto piú bestial modo che io non gli aveva porto.
Cosí si stette la cosa un pezzo, e io m'attendevo alla mia bottega e mie faccende. |
LXIII. |
Quel Tubbia orefice sopra ditto attendeva a finire quella guarnitura e
ornamento a quel corno di liocorno; e di piú il Papa gli aveva detto che cominciassi il
calice in su quel modo che gli aveva veduto il mio. E cominciatosi a farsi mostrare dal
ditto Tubbia quel che lui faceva, trovatosi mal sodisfatto, assai si doleva di aver rotto
con esso meco, e biasimava l'opere di colui, e chi gnene aveva messe inanzi; e parecchi
volte mi venne a parlare Baccino della Croce da parte del Papa, che io dovessi fare quel
reliquiere. Al quale io dicevo, che io pregavo Sua Santità, che mi lasciassi riposare
della grande infirmità che io avevo aùto, della quale io non ero ancor ben sicuro; ma
che io mostrerrei a Sua Santità, di quelle ore ch'io potevo operare, che tutte le
spenderei in servizio suo. Io m'ero messo a ritrarlo, e gli facevo una medaglia
segretamente; e quelle stampe di acciaio per istampar detta medaglia, me le facevo in
casa; e alla mia bottega tenevo un compagno, che era stato mio garzone, il qual si
domandava Felice. In questo tempo, sí come fanno i giovani, m'ero innamorato d'una
fanciulletta siciliana, la quale era bellissima; e perché ancor lei dimostrava volermi
gran bene, la madre sua accortasi di tal cosa, sospettando di quello che gli poteva
intervenire (questo si era che io avevo ordinato per un anno fuggirmi con detta fanciulla
a Firenze, segretissimamente dalla madre), accortasi lei di tal cosa, una notte
segretamente si partí di Roma e andossene alla volta di Napoli; e dette nome d'esser ita
da Civitavecchia, e andò da Ostia. Io l'andai drieto a Civitavecchia, e feci pazzie
inistimabile per ritrovarla. Sarebbon troppo lunghe a dir tal cose per l'apunto: basta che
io stetti in procinto o d'impazzare o di morire. In capo di dua mesi lei mi scrisse che si
trovava in Sicilia molto mal contenta. In questo tempo io avevo atteso a tutti i piaceri
che immaginar si possa, e avevo preso altro amore, solo per istigner quello. |
LXIV. |
Mi accadde per certe diverse stravaganze, che io presi amicizia di un
certo prete siciliano, il quale era di elevatissimo ingegno e aveva assai buone lettere
latine e grece. Venuto una volta in un proposito d'un ragionamento, in el quale
s'intervenne a parlare dell'arte della negromanzia; alla qual cosa io dissi: - Grandissimo
desiderio ho avuto tutto il tempo della vita mia di vedere o sentire qualche cosa di
quest'arte -. Alle qual parole il prete aggiunse: - Forte animo e sicuro bisogna che sia
di quel uomo che si mette a tale impresa -. Io risposi che della fortezza e della sicurtà
dell'animo me ne avanzerebbe, pur che i' trovassi modo a far tal cosa. Allora rispose il
prete: - Se di cotesto ti basta la vista, di tutto il resto io te ne satollerò -. Cosí
fummo d'acordo di dar principio a tale impresa. Il detto prete una sera in fra l'altre si
messe in ordine, e mi disse che io trovassi un compagno, insino in dua. Io chiamai
Vincenzio Romoli mio amicissimo, e lui menò seco un Pistolese, il quale attendeva ancora
lui alla negromanzia. Andaticene al Culiseo, quivi paratosi il prete a uso di negromante,
si misse a disegnare i circuli in terra con le piú belle cirimonie che immaginar si possa
al mondo; e ci aveva fatto portare profummi preziosi e fuoco, ancora profummi cattivi.
Come e' fu in ordine, fece la porta al circulo; e presoci per mano, a uno a uno ci messe
drento al circulo; di poi conpartí gli uffizii; dette il pintàculo in mano a quell'altro
suo compagno negromante, agli altri dette la cura del fuoco per e' profummi; poi messe
mano agli scongiuri. Durò questa cosa piú d'una ora e mezzo; comparse parecchi legione,
di modo che il Culiseo era tutto pieno. Io che attendevo ai profummi preziosi, quando il
prete cognobbe esservi tanta quantità, si volse a me e disse: - Benvenuto, dimanda lor
qualcosa -. Io dissi che facessino che io fussi con la mia Angelica siciliana. Per quella
notte noi non avemmo risposta nessuna; ma io ebbi bene grandissima satisfazione di quel
che io desideravo di tal cosa. Disse il negromante che bisognava che noi ci andassimo
un'altra volta, e che io sarei satisfatto di tutto quello che io domandavo, ma che voleva
che io menassi meco un fanciulletto vergine. Presi un mio fattorino, il quale era di
dodici anni in circa, e meco di nuovo chiamai quel ditto Vincenzio Romoli; e, per essere
nostro domestico compagno un certo Agnolino Gaddi, ancora lui menammo a questa faccenda.
Arrivati di nuovo a il luogo deputato, fatto il negromante le sue medesime preparazione
con quel medesimo e piú ancora maraviglioso ordine, ci mise innel circulo, qual di nuovo
aveva fatto con piú mirabile arte e piú mirabil cerimonie; di poi a quel mio Vincenzio
diede la cura de' profummi e del fuoco; insieme la prese il detto Agnolino Gaddi; di poi a
me pose in mano il pintàculo, qual mi disse che io lo voltassi sicondo e' luoghi dove lui
m'accennava, e sotto il pintàculo tenevo quel fanciullino mio fattore. Cominciato il
negromante a fare quelle terrebilissime invocazioni, chiamato per nome una gran quantità
di quei demonii capi di quelle legioni, e a quelli comandava per la virtú e potenzia di
Dio increato, vivente ed eterno, in voce ebree, assai ancora greche e latine; in modo che
in breve di spazio si empié tutto il Culiseo l'un cento piú di quello che avevan fatto
quella prima volta. Vincenzio Romoli attendeva a fare fuoco insieme con quell'Agnolino
detto, e molta quantità di profummi preziosi. Io per consiglio del negromante di nuovo
domandai potere essere con Angelica. Voltosi il negromante a me, mi disse: - Senti che gli
hanno detto? Che in ispazio di un mese tu sarai dove lei - e di nuovo aggiunse, che mi
pregava che io gli tenessi il fermo, perché le legioni eran l'un mille piú di quel che
lui aveva domandato, e che l'erano le piú pericolose; e poi che gli avevano istabilito
quel che io avevo domandato, bisognava carezzargli, e pazientemente gli licenziare. Da
l'altra banda il fanciullo, che era sotto il pintàculo, ispaventatissimo diceva che in
quel luogo si era un milione di uomini bravissimi, e' quali tutti ci minacciavano: di piú
disse, che gli era comparso quattro smisurati giganti, e' quali erano armati e facevan
segno di voler entrar da noi. In questo il negromante, che tremava di paura, attendeva con
dolce e suave modo el meglio che poteva a licenziarli. Vincenzio Romoli, che tremava a
verga a verga, attendeva ai profummi. Io, che avevo tanta paura quant'e loro, mi ingegnavo
di dimostrarla manco, e a tutti davo maravigliosissimo animo; ma certo io m'ero fatto
morto, per la paura che io vedevo nel negromante. Il fanciullo s'era fitto il capo in fra
le ginocchia, dicendo: - Io voglio morire a questo modo, ché morti siàno -. Di nuovo io
dissi al fanciullo: - Queste creature son tutte sotto a di noi, e ciò che tu vedi si è
fummo e ombra; sí che alza gli occhi -. Alzato che gli ebbe gli occhi, di nuovo disse: -
Tutto il Culiseo arde, e 'l fuoco viene adosso a noi - e missosi le mane al viso, di nuovo
disse che era morto, e che non voleva piú vedere. Il negromante mi si raccomandò,
pregandomi che io gli tenessi il fermo, e che io facessi fare profummi di zaffetica:
cosí, voltomi a Vincenzio Romoli, dissi che presto profumassi di zaffetica. In mentre che
io cosí diceva, guardando Agnolino Gaddi, il quale si era tanto ispaventato che le luce
degli occhi aveva fuor del punto, ed era piú che mezzo morto, al quale io dissi: -
Agnolo, in questi luoghi non bisogna aver paura, ma bisogna darsi da fare e aiutarsi; sí
che mettete sú presto di quella zaffetica -. Il ditto Agnolo, in quello che lui si volse
muovere, fece una strombazzata di coreggie con tanta abundanzia di merda, la qual potette
piú che la zaffetica. Il fanciullo, a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il
viso, sentendomi ridere alquanto, assicurato un poco la paura, disse che se ne
cominciavano a 'ndare a gran furia. Cosí soprastemmo in fino a tanto che e' cominciò a
sonare i mattutini. Di nuovo ci disse il fanciullo che ve n'era restati pochi, e discosto.
Fatto che ebbe il negromante tutto il resto delle sue cerimonie, spogliatosi e riposto un
gran fardel di libri, che gli aveva portati, tutti d'accordo seco ci uscimmo del circulo,
ficcandosi l'un sotto l'altro; massimo il fanciullo, che s'era messo in mezzo, e aveva
preso il negromante per la veste e me per la cappa; e continuamente, in mentre che noi
andavamo inverso le case nostre in Banchi, lui ci diceva che dua di quelli, che gli aveva
visti nel Culiseo, ci andavano saltabeccando innanzi, or correndo su pe' tetti e or per
terra. Il negromante diceva, che di tante volte quante lui era entrato innelli circuli,
non mai gli era intervenuto una cosí gran cosa, e mi persuadeva che io fussi contento di
volere esser seco a consacrare un libro; da il quale noi trarremmo infinita ricchezza,
perché noi dimanderemmo li demonii che ci insegnassino delli tesori, i quali n'è pien la
terra, e a quel modo noi diventeremmo ricchissimi; e che queste cose d'amore si erano
vanità e pazzie, le quale non rilevavano nulla. Io li dissi, che se io avessi lettere
latine, che molto volentieri farei una tal cosa. Pur lui mi persuadeva, dicendomi, che le
lettere latine non mi servivano a nulla, e che se lui avessi voluto, trovava di molti con
buone lettere latine; ma che non aveva mai trovato nessuno d'un saldo animo come ero io, e
che io dovessi attenermi al suo consiglio. Con questi ragionamenti noi arrivammo alle case
nostre, e ciascun di noi tutta quella notte sognammo diavoli. |