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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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I VICERÉ

di Federico de Roberto

Parte terza

1.

«Signore onorandissimo, «L'origini nommenché l'istoria della patria nobiltà sapere, tornar'in mente non dev'a ciascuni, specie in ta' tempi che la vengon stimando da sezzo, in quella vece che tuttosì dagli esteri ammirando si viene. Da ricapo narrarla, dopocché il Mugnos, il Villabianca ed altri famosi a sé recarono immortalità sbrancandone quel denso velo, chiarirsi potrebbe un fuor'opera; se quei valentuomini, per legge di natura, arrestati non fossers' ai tempi che vissero. Ma, senzaché il proseguiment'insin'a nostri ultimi giorni, un altr'oggetto ne rischiara la convenienza; vogliam dir la rarezza di quell'oper'insigni, cui non a tutt'è dat'acquistare. Quind'è perciò, all'oggettocché tra le mani dell'universale una nuov'opera messa in giornata ne gisse, abbiam divisato dettarla. E attalché non ci s'imputi in superbia a tant'impres'azzardarci, non vogliamo far senza di porre qui bocca sulla scienza che dell'araldiche discipline noi succhiammo una col latte, sì come quelle ch'a discendente di non ultima, tra le sicole blasonate famiglie, famiglia, più convenissero. Lusingarci da indi possiamo che, la mercé d'uno studio indefesso, nommenché la paziente compulsione d'archivi importanti e zeppati di documenti solo noi dato esaminare, saracci dato fornire l'assunto come disse il Poeta, senza infamia sicuro, forse con lode. «Comecché cultore d'istoric'istudii ed amante delle patrie glorie, Vostra Signoria Onorandissima, echeggiando al nostro proposito, negar non vorrane il suo ambito concorso; laonde viviamo fidenti della sua firma nella scheda dove le soscrizioni si ammozzolano. Bassa idea di guadagno non spronaci, laddiomercé not'essendo non averne poi uopo; nonperoddimanco onde coprire in parte le pure semplici spese, abbisognamo il suo appoggio. Delché dormiam'in guanciali.

SCHEDA DI SOSCRIZIONE ALL'OPERA

del cavaliere don Eugenio Uzeda dei principi di Francalanza e Mirabella, duchi d'Oragua, conti della Lumera, etc., etc.; già Gentiluomo di Camera (con esercizio) di Sua Maestà il Re Ferdinando II; medagliato dell'ordine ottomano del Nisciam-Ifitkar da Sua Altezza il Bey di Tunisi, membro di varie Accademie, etc., etc., intitolata:

L'ARALDO SICOLO

consistente nell'istoria documentata dell'origini, sort'e vicende delle Nobili Famiglie Siciliane da' tempi più oscuri infino al giorno d'oggi: ben tre volumi, di cui il primo testo, il secondo alberi genealogici, il terzo stemmi. Usciranno una dispensa ogni mese. Prezzo d'ogni dispensa: lire due. Associazione all'opera completa, lire cinquanta. - N.B. Chi procura sei soscrizioni avrà diritto a pubblicare il proprio albero genealogico. Chi ne procura dodici avrà tuttosì lo stemma colorato.» Questa circolare, diffusa a centinaia e centinaia di copie, provò ai concittadini del cavaliere don Eugenio che egli era ancora tra i vivi. Nessuna notizia di lui arrivava più da anni; sulle prime aveva scritto ai parenti chiedendo quattrini in prestito per grandi e sicure speculazioni; ma poiché gli rispondevano picche, aveva finalmente smesso. Che cosa avesse fatto tanto tempo, dove fosse stato, non seppe nessuno. Nessuno di quelli che andavano a Palermo lo vide mai, nessuno udì parlare di lui, e insomma l'ignoranza dei fatti suoi fu così grande, che molti avevano supposto fosse passato zitto zitto al mondo di là. La posta non aveva finito di distribuire il manifesto dell'Araldo sicolo, che arrivò l'autore in persona. Mancava da tanti anni, ed era naturalmente invecchiato, toccando ormai la sessantina; ma stranamente imbruttito, anche, e quasi irriconoscibile. Sul viso dimagrito ed emaciato il naso sembrava essersi allungato, come una tromba, una proboscide, un'appendice flessibile atta a frugare in mezzo al letame; la caduta dei denti, affossando la bocca, aveva contribuito anch'essa a quell'apparente crescenza che dava a tutto il viso un aspetto basso, ignobile e quasi animalesco. Indosso, la sordidezza della camicia e dell'abito a coda, troppo lungo e troppo largo, con un panciotto che era stato bianco e l'untume del cappello che pareva sudasse dal troppo caldo, lo facevano prendere per un servitore di trattoria o per un bigliardiere di bisca; la gotta che gli tormentava i piedi lo costringeva ad un'andatura storta e strisciante. Prese alloggio in un albergo d'infimo ordine; ma alle prime persone alle quali si diede a conoscere - giacché nessuno lo riconosceva - egli disse che non aveva trovato camere disponibili al Grand Hotel e che, partito improvvisamente da Palermo, non aveva potuto portare con sé i bauli... i bàuli, come pronunziava. La sua prima visita fu pel capo della famiglia; ma, giunto dinanzi al portone del palazzo, vide con stupore che era chiuso, col solo sportello aperto. Datosi a conoscere come zio del padrone al nuovo portinaio che lo squadrava da capo a piedi, sentì rispondersi che non c'era nessuno: né il principe, né la principessa, né Consalvo: partiti tutti: il signorino in viaggio da quasi un anno, i padroni per togliere dal collegio la signorina e farle vedere un po' di mondo. Non bene persuaso, come uno avvezzo ad esser mandato via, il cavaliere alzava gli occhi alle finestre, pareva voler guardare a traverso i muri, quando s'udì salutare: «Eccellenza?... Vostra Eccellenza qui?» Era Pasqualino Riso, il cocchiere. Anche lui era andato giù, non sfoggiava gli abiti eleganti, gli anelli e le catene d'oro d'un tempo. «Tutti partiti, Eccellenza... La casa è vuota!» «Quando torneranno?» «Non sappiamo, Eccellenza; forse per le vendemmie, i padroni...» «E il principino?» «Ah, il principino non per ora...» Don Eugenio, i cui occhietti luccicavano di curiosità sul viso affamato, s'accomodò sulla seggiola senza spalliera che il portinaio teneva dinanzi all'uscio del suo stanzino, domandando: «Perché? Che c'è di nuovo?» E a poco a poco, Pasqualino rivelò la verità. Il signorino non poteva più stare in casa, almeno per un certo tempo, a cagione dell'urto continuo col padre. Dai tanti dispiaceri, il signor principe era caduto ammalato. Quanto a don Consalvo, non si poteva dire che s'affliggesse tanto da farne una malattia, ma neanche lui doveva ingrassare a furia di dissapori e di diverbi; il meglio perciò era che se ne stesse un pezzo lontano... Così il principe avrebbe trovato tempo di placarsi, di persuadersi che, in fin dei conti, il figliuolo non aveva ammazzato nessuno! L'accusavano di non interessarsi alle faccende dell'amministrazione, di trattar male la madrigna? «Ma Vostra Eccellenza sa com'è fatto il signor principe: piuttosto che dare ad altri i registri dei conti o le chiavi della cassa, si lascerebbe tagliare tutt'e due le mani!... Alla principessa il signorino non vuol bene come una madre, questo è vero: madre però ce n'è una sola: dico bene, cavaliere? La madrigna basta che la rispetti; e rispettarla, la rispetta...» La ragione vera del dissenso era pertanto un'altra: che il signor principe non voleva metter fuori quattrini, e il principino invece spendeva da signore... Perciò il signorino aveva firmato qualche cambialetta; e ogni volta che i creditori ne presentavano una al signor principe, pareva, Dio ne scampi e liberi tutti quanti, che gli pigliasse un accidente secco. E voleva perfino farlo arrestare, come se una cosa simile potesse dirsi per puro semplice scherzo, in casa Francalanza! Fatto un gesto d'indignazione, Pasqualino prese un'altra seggiola nel bugigattolo, e sedette accanto al cavaliere, il quale, scrollando gravemente il capo, trasse di tasca mezzo sigaro spento e chiese un cerino al cocchiere. «Allora, Vostra Eccellenza permette?...» E accesa la sua pipa riprese il filo del discorso. Per chi dunque aveva ammassato tante ricchezze, il signor principe? Per se stesso, no; giacché non ne godeva; per la figlia, neppure; perché, una volta maritata, la signorina Teresa avrebbe preso la sua dote e buona notte; dunque, pel figlio. Allora, perché tenerlo a corto di quattrini? Un giovanotto come il principino di Mirabella aveva bisogno di tante cose; doveva, per necessità, far tante spese!... Il padrone non lo capiva, lui che, giovane, era vissuto da monaco. «Ma siamo tutti fatti ad un modo?» E poi, i tempi erano mutati: i signori dovevano spendere, se volevano essere considerati; se no, il primo ciabattino arricchito si reputava da più di loro!... E nel rammarico di non poter più guadagnare come un tempo sulle spese intime del padroncino, Pasqualino qualificava arditamente di porcherie le lesinerie del principe: diceva che per una lira colui avrebbe rinnegato il figliuolo; lasciava intendere, per trarre dalla sua il cavaliere, che il capo della casa, se fosse stato un altro, avrebbe dovuto aiutare i parenti che non erano ricchi quanto lui... Don Eugenio, fumando e sputando, con le gambe magre da don Chisciotte accavalciate, chinava il capo, dava ragione al cocchiere, si dava ragione da sé: «Io l'avevo detto... così non poteva durare... mio nipote ha un certo modo!...» Al fresco del vestibolo la conversazione si prolungava: padrone e servo discorrevano intimamente, da pari a pari, mescolando il fumo della pipa e del sigaro; anzi, quantunque Pasqualino non fosse elegante come un tempo, pure sembrava il padrone, e don Eugenio il creato. Il guardaportone, tra scandalizzato ed invidioso della confidenza che il cavaliere accordava al cocchiere, spasseggiava dignitosamente dinanzi all'entrata, con le mani sul dorso del soprabitone gallonato. «Chi è quel pezzo di straccione?» gli domandavano i commessi dell'amministrazione, uscendo dopo il lavoro. «Uno zio del signor principe, dice!»

E, tutto sommato, fu la miglior accoglienza che ebbe il povero don Eugenio. Il domani egli cominciò il giro dei parenti che erano in città: andò prima di tutti dal fratello don Blasco. Il monaco pareva sul punto di scoppiare: il pancione gli s'era imbottito di lardo e la testa ingrossata; il mento si confondeva con la massa gelatinosa del collo. Non poteva muoversi, per l'enormezza della persona, per la fiacchezza delle gambe; e accanto a lui donna Lucia, la moglie di Garino, sembrava svelta e leggiera. «Perché sei tornato?» disse al fratello, appena lo vide entrare ed a modo di saluto. Aveva infatti ricevuto la circolare dell'Araldo sicolo, e comprendendo da quella che l'autore doveva aver l'acqua alla gola metteva le mani avanti, per evitare richieste di sussidi. «Sono venuto per poco,» rispose don Eugenio; «prima di tutto per rivedervi, e poi per fare associati all'opera di cui ti ho mandato il manifesto...» E cominciò a enumerare gl'insigni sottoscrittori: Sua Altezza il Bey di Tunisi, i vizir della reggenza, i più gran signori palermitani; il principe d'Alì, il marchese di Lojacomo, il duca tale e il conte tal altro. «E?...» fece il monaco, quasi per dire: «Perché vieni a contarmi queste storie?» senza neppur domandare al fratello: «Sei stato a Tunisi? Che sei stato a farci?» «Ho pure le firme di venti municipi, di trenta società, di otto biblioteche. L'affare è magnifico. A conti fatti, dedotte le spese di stampa, carta, posta, etc. con le sole soscrizioni sinora raccolte il guadagno è assicurato. Ma debbo ancora girare mezza Sicilia per fare associati. Se arriveremo a trecento, resteranno diecimila lire nette.» «E?...» «Io ti vorrei proporre di stampare insieme il libro.» Il monaco lo guardò fisso nel bianco degli occhi. «Sei pazzo?» «Perché? O non credi forse che ci sia da guadagnare? Ti faccio i conti in quattro e quattr'otto, ti faccio vedere le firme raccolte...» «Non voglio veder niente! Credo benissimo e ti ringrazio tanto. Tieni per te le diecimila lire.» Il cavaliere ebbe un bell'insistere, col tono persuasivo e insinuante d'un sensale o d'un mezzano, e un bello sgolarsi per dimostrare a luce meridiana l'eccellenza della sua proposta; don Blasco continuava a rifiutare, dapprima seccamente, poi alzando la voce, poi gridando perché quel seccatore gli si togliesse dai piedi. «Allora... se non vuoi correre i rischi dell'affare... fammi un favore... I soscrittori non pagano anticipatamente; m'occorre una somma per cominciare la stampa. Prestami un migliaio di lire...» «Non le ho.» «Ti cederò le firme più sicure, le sceglierai tu stesso...» «Non le ho.» Il cavaliere non si scoraggiava neppure adesso. Ridusse la domanda da mille a ottocento e poi a cinquecento lire; poiché il monaco continuava a rispondere, cantilenando dall'impazienza: «Non le ho, non-ho-de-na-ri... come debbo dirtelo?...» don Eugenio concluse, pacatamente: «Allora aspetterò finché sarai comodo... Non ho fretta: prima debbo compire la soscrizione... poi ti porterò a veder le schede, le domande, i manifesti...» Sperando di riuscir meglio con la sorella, il cavaliere andò a rinnovare il tentativo con donna Ferdinanda. Asciutta e verde come un aglio, la zitellona pareva sfidare il tempo, gli anni le passavano addosso senza mutarla: ne aveva oramai sessantadue e non ne mostrava più di cinquanta. Solo le mani le si coprivano di rughe e si spolpavano e s'irruvidivano a contar denari, come a lavorare il ferro od a zappar la terra. Anche lei aveva ricevuto la circolare dell'Araldo sicolo: ma, vedendo il fratello, cominciò a chiedergli notizie della sua salute, di Palermo, delle persone che conosceva in quella città; ascoltando con interesse i discorsi interminabili del cavaliere che, incoraggiato da quelle buone disposizioni, nominava un mondo di persone colle quali era come «fratello», ne narrava i casi con tanto interesse come se fossero occorsi a lui in persona: «la separazione del duca Proti, tanto amico mio... quella pazza della baronessa non mi volle dar retta... io al principe l'avevo detto: caro Emanuele, pensaci bene...» Le chiacchiere tiravano in lungo, perché donna Ferdinanda gli dava la corda, ed il cavaliere non ne aveva neppur bisogno, felice di mentovare le sue grandi relazioni palermitane. «E non sai la più bella notizia? La figlia della Palmi è sposa!» «Sì? E con chi?» «Col mio amico Memmo Duffredi, Duffredi di Casàura, il nipote di Ciccio Lojacomo: la prima nobiltà di Palermo e parecchi milioncini di proprietà...» «Ma davvero?» «Una gran fortuna per la ragazza! Quell'intrigante del barone ha combinato ogni cosa ed ha preso Memmo in trappola... Naturalmente, come parente, non potevo dir questo, altrimenti sarei andato da Ciccio per avvertirlo: "Tuo figlio può trovare un partito migliore..." E poi, quella ragazza ha un certo fare... Basta; io non ho parlato, tanto più che giusto quando si combinava la cosa, ero a Tunisi...» «Ah, sei stato a Tunisi? E per fare che cosa?» «Che cosa?... Niente!... Per diporto...» egli tossicchiava un poco, tuttavia, imbarazzato, quasi confuso. E poiché donna Ferdinanda continuava a fargli domande, per sapere se Tunisi era una bella città, quanto tempo c'era stato e via discorrendo, il cavaliere, quasi risolvendosi, disse finalmente: «Ci fui anche per raccogliere soscrizioni alla mia opera, sai...» «Opera?» fece la zitellona, con atto di meraviglia. «Qual opera?» «Come, non hai ricevuto il manifesto?» «Io non ho ricevuto niente...» «L'Araldo sicolo?... la storia della nobiltà?...» «Tu?... Tu stampi un'opera?... Ah! ah! ah!...» E scoppiò in una di quelle sue rare risate che pungevano nel vivo. Don Eugenio, che aveva sostenuto imperterrito tutti i rifiuti del monaco, si sconcertò all'ilarità della sorella. «Perché?» domandò, tentando di rialzare la propria dignità di cui donna Ferdinanda faceva ludibrio con quelle rise indecenti. «Non sono forse buono a scriverla, come tanti altri?...» «Ah! ah! ah!..» E la risata non finiva. Quando il vecchio spiegò che libro aveva scritto, essa divenne più fine, più ironica, più tagliente. Una storia della nobiltà dopo il Mugnòs e, il Villabianca? Per ficcarci dentro gli arricchiti che si facevano dare del cavaliere e del marchese? La nobiltà autentica era tutta scritta nei libri antichi!... E il cavaliere tentava almeno di dimostrare la bontà della speculazione: ma la zitellona non gli dava quartiere: guadagnare con la carta sporca? Per chi mai la carta sporca ha avuto valore, fuorché pei pizzicagnoli? E chi avrebbe comprato un libro di lui? Si sarebbero messi a ridere, come rideva lei! Le firme? Le avevano date per levarselo di torno! Bisognava vedere quanti avrebbero poi pagato!... «Almeno, mi presti qualche centinaio di lire?» «No, perché non me le restituiresti.» E ogni altra insistenza fu inutile. Andato a ripetere il tentativo dalla nipote Chiara, don Eugenio non poté neppure vederla: la cameriera gli disse che il marchese era fuori e la marchesa chiusa in camera col dolor di capo. «Dille che c'è suo zio.» «Vostra Eccellenza scusi; ma quando ha il dolor di capo, nessuno può parlare alla signora marchesa.» E facendo il cavaliere un atto d'impazienza, la donna mormorò, guardandosi attorno: «Eccellenza, c'è guai!» «Che guai?» «La marchesa... ma signor cavaliere, per carità, non mi faccia perdere il pane!... Pazza pel marito, è vero, Eccellenza? Tutt'una cosa; quello che voleva il signor marchese era legge per lei... Né il padrone ne abusava: d'amore e d'accordo in tutto e per tutto... Adesso? Adesso non c'è più pace, per quel figlio di... chi so io! Un diavolo dell'Inferno, Eccellenza; e la padrona, che non ci vede dagli occhi, dal tanto bene che gli vuole, lo lascia fare, lo difende contro il padrone... Litigano tutti i giorni, perché il signor marchese vorrebbe correggerlo, insegnargli l'educazione, obbligarlo a studiare; e invece la nipote di Vostra Eccellenza se la prende col padrone perché le maltratta il ragazzo... Ieri vennero alle grosse; non si parlano da ventiquattr'ore... Il signor marchese è uscito di casa all'alba... chi sa se torna!» E, per quanto insistesse, don Eugenio non poté persuadere la cameriera ad affrontare il malumore della padrona portandole l'ambasciata. Allora egli andò a battere alla porta dei Giulente. Arrivò da loro sull'annottare, dopo una giornata di corse. Benedetto non c'era e Lucrezia non si riconosceva più, tanto s'era trasformata ed imbruttita. Il corpo era diventato un sacco di carne, dove non si distinguevano piu né seno, né vita, né fianchi; il viso, dalla continua acrimonia che la animava, dall'inguaribile scontento della propria condizione, era divenuto duro, arcigno, inaspettatamente rassomigliante a quello del principe. E il primo discorso che tenne allo zio, rivedendolo dopo tanti anni, fu giusto contro Benedetto. «Non c'è; non sta mai in casa. Adesso che non è più sindaco, s'è fatto nominare presidente del Consiglio provinciale. Per amor della patria, Vostra Eccellenza mi capisce!... Più invecchia, e più bestia diventa. È un pazzo! Ma la disgrazia è che fa impazzire anche me. Dopo vent'anni,» ella calcolava il tempo a modo suo, «un altro che non fosse tanto bestia avrebbe capito l'inutilità di fare il servitore a questo e a quello. Invece, pare l'uovo al fuoco: più sta e più indurisce! Vuol essere deputato; per che cosa, domando io? Dopo che sarà deputato. che cosa avrà buscato? A fare il sindaco ha guadagnato questo: che nessuno lo può vedere, neppur quelli ai quali ebbe la stupidaggine di rendere servizio! Bene gli sta!...» Verso la propria famiglia ella aveva ancora quel misto d'astio, di invidia e di premura, secondo che il vanto di farne parte, il dolore d'averla lasciata o il sospetto d'esserne ripudiata predominavano nel suo cervello. Anche ora, parlando del viaggio del principe, ella ripeteva con insistenza che il fratello e la cognata le scrivevano ogni due giorni, e riferiva il contenuto delle loro lettere, annunziava il loro ritorno per l'autunno; poi cominciava a criticare ed a malignare: «Hanno fatto bene a prender essi stessi Teresina dal collegio, e a farla viaggiare... Mia cognata è un'altra madre per questa figliastra!... Dal tanto amore, l'ha tenuta due anni più del bisogno in collegio, per farne una letterata. Graziella s'intende molto di letteratura!...» Però, subito dopo soggiunse: «Vostra Eccellenza non ha visto l'ultimo ritratto di Teresina?.. No?... Aspetti... vedrà che bellezza; me l'hanno mandato due mesi addietro... Di Consalvo però,» riprese dopo che ebbe mostrato il ritratto allo zio, «né nuova né vecchia... come se non fosse loro figlio anche lui... Senza le lettere che scrive alla zia, non sapremmo se è vivo o se è morto... Adesso dice che è a Parigi. È stato a Berlino, a Londra, a Vienna...» Il cavaliere non l'udiva, rimuginando il discorso da tenerle. Appena la nipote fece una pausa, egli espose la speculazione ideata, che riuniva l'immancabile riuscita finanziaria alla nobiltà dello scopo. Ma Lucrezia: «Storia della nobiltà?» replicò. «Dov'è più la nobiltà? Che storia vuole scrivere Vostra Eccellenza? Adesso sono in favore i lustrascarpe, non i nobili! Per esser considerati, bisogna venire dal niente! Scriva piuttosto la storia dei villani e dei mastri notari; in quella sì che c'è da guadagnare!...»

Imperturbabile, don Eugenio ricominciò il giorno seguente. Dai Radalì-Uzeda trovò il duca Michele e il barone Giovannino; la duchessa era fuori di casa. Michele, a venticinque anni, perdeva i capelli e pareva vecchio del doppio; Giovannino era invece più grazioso di prima, fine, elegante. Udita la richiesta del parente, entrambi risposero che solo la madre gli avrebbe potuto dare risposta. Il giorno dopo il cavaliere tornò a parlare con la duchessa, e questa cadde dalle nuvole: «Io stampar libri? E come mai vi viene in testa una cosa simile? So molto di queste cose, io!» E don Eugenio ci rimise le pedate. Ma egli non si perdette d'animo. Dai lontani parenti passò agli amici, ai semplici conoscenti, alle persone che incontrava per istrada e che fermava col pretesto di rivederle e salutarle. Cominciava a riferire, come se le avesse avute direttamente, le notizie del principe e di Consalvo apprese da Lucrezia, s'addolorava per la lite fra padre e figliuolo, annunciava il ritorno della principessina, che diceva d'aver visto a Firenze: «una bellezza da sbalordire!...», e poi parlava del suo soggiorno di Palermo, descriveva l'appartamento di dieci stanze che aveva abitato sul Cassaro, drappeggiandosi maestosamente nell'abito lercio e sdrucito che diceva la miseria, la fame, le ignobili promiscuità; riferiva ancora il viaggio di Tunisi, l'onorificenza beilicale ma senza spiegare a qual titolo l'avesse ottenuta, che cosa avesse precisamente fatto alla corte di Sua Altezza; e quando aveva bene intontito la gente con tutti quei discorsi, domandava a bruciapelo: «Avete ricevuto il mio manifesto?» E riesponeva il concetto dell'opera, enumerava le adesioni ricevute: ogni volta, queste crescevano di numero: le firme dei privati salivano da duecento a trecento, a quattro, a cinquecento; quelle dei municipi sommavano a cinquanta, a settanta, a novanta; le biblioteche si moltiplicavano da un momento all'altro. Mille sottoscrittori erano già sicuri, un altro migliaio non potevano mancare. E offriva la compartecipazione, si restringeva all'anticipo, da ultimo dichiarava di contentarsi di dodici firme, di sei, anche di una. Per levarselo di torno la gente prometteva ambiguamente; ma egli prendeva nota dei nomi in un suo portafogli unto e squarciato, unicamente imbottito di circolari e di schede, delle quali faceva nuove distribuzioni, ficcandole in tasca a chi rifiutava col gesto, raccomandando di diffonderle, di riempirle al più presto... Dopo una giornata di lavoro, nel momento che stava per rientrare nell'albergo, incontrò Benedetto che ne usciva. «Eccellenza!... Come sta?... Ero venuto a trovarla; mi dispiacque tanto, ieri, di non essere in casa...» Un poco imbarazzato, don Eugenio lo invitò a salir su in camera. Una camera col pavimento affossato, due strisce di tela bianca a guisa di tendine dinanzi alla finestra, una catinella sopra una seggiola e una brocca per terra. «Ho dovuto venir qui perché al Grand Hôtel era tutto pieno. Come si sta male in questa città! A Palermo avevo un appartamento di dodici stanze... bisognava vedere che scale!...» E, nonostante il rifiuto oppostogli da Lucrezia, egli cavò di tasca le circolari ed entrò subito in materia. «Tua moglie non t'ha detto?... Sono venuto per stampare la mia opera... Per ventimila lire non la cederei a nessuno... Ma non ho quattrini da cominciare la stampa. Vogliamo farla insieme? Spartiremo i guadagni, da buoni parenti ed amici.» Giulente esitò un poco, poi domandò: «Che ha detto Lucrezia?» «Tua moglie? Ha detto di sì, solo che tu ti persuada della convenienza della cosa. Guarda un po'...» E non capendo nei panni dalla gioia d'aver trovato finalmente uno che non rifiutava, gli sciorinò dinanzi alcune schede con qualche firma. «Va bene, va bene, giacché Lucrezia approva...» «Se anche mutasse parere, in fin dei conti, potremmo fare a meno del suo consenso!...» Benedetto esitò un poco, poi disse: «Nossignore, è necessario... perché adesso i denari li tiene lei...» «Come! I denari? Tu non puoi disporre di qualche migliaio di lire?» «Eccellenza no... Gli affari pubblici mi portavano via molto tempo... Ho ceduto a lei l'amministrazione...»

2.

Il ritorno del principe, con lo zio duca, la moglie e la figlia, al principio dell'inverno, diede nuovo alimento alla pubblica curiosità. Aspettavano tutti di vedere in viso questa famosa principessina della cui bellezza si parlava tanto, ma quantunque l'esagerazione delle lodi anticipate avesse disposto la gente alla diffidenza, pure la realtà lasciò molto indietro ogni immaginazione. La bellezza bianca e bionda, fine, delicata, quasi vaporosa della fanciulla non aveva riscontri nella famiglia dei Viceré. La vecchia razza spagnuola mescolatasi nel corso dei secoli con gli elementi isolani, mezzo greci, mezzo saracini, era venuta a poco a poco perdendo di purezza e di nobiltà corporea: chi avrebbe potuto distinguere, per esempio, don Blasco da un fratacchione uscito da lavoratori della gleba, o donna Ferdinanda da una vecchia tessitrice? Ma come, nella generazione precedente, s'era vista l'eccezione del conte Raimondo, così adesso anche Teresa pareva fosse venuta fuori da una vecchia cellula intatta del puro sangue castigliano. Alta, magra di spalle, con una vita che le sue due mani quasi arrivavano ad accerchiare e che rendeva più vistosa la curva dei fianchi, Teresa possedeva una istintiva eleganza, una nobile grazia di portamento, ancora non del tutto liberata dall'impaccio della collegiale, fino a qualche mese addietro costretta nella goffa uniforme. Nei primi giorni, quando cominciò ad uscire in carrozza, accanto alla madrigna, la gente si fermava sui marciapiedi, l'aspettava al varco, dinanzi al portone del palazzo, per figgerle gli occhi addosso, a bocca aperta: ella pareva non accorgersi di quella curiosità indiscreta, non guardare anzi nessuno. In casa, naturalmente, erano venute a trovarla prima di tutte le zie, e Lucrezia s'era quasi attaccata alle gonne della nipote, l'accompagnava per ogni dove, le dava consigli, non parendole vero di poter esercitare su qualcuno la sua smania d'autorità. La principessa la lasciava fare; ma a Chiara non restituì neppure la visita, per via del bastardello. Una ragazza come Teresa, appena uscita dal collegio, poteva andare in una casa dove c'erano di quei pasticci? Ella diceva a tutti, cameriere, parenti e conoscenze, con grandi gesti e torcimenti di sguardo: «Posso permettere che mia figlia sappia di queste cose, eh? Tanto peggio se Chiara se ne adonta.» E Chiara se ne adontò in malo modo. Aveva rotto con tutti i parenti, ormai, per amore del figlio della cameriera, il quale, guastato da tanti vizi, la comandava a bacchetta, le dava del tu, all'occorrenza le alzava le mani addosso. Ma ella lo lasciava fare, e se il marchese diceva mezza parola, grida, minacce, un inferno. Uditi gli scrupoli della cognata-cugina, si nettò la bocca contro di lei, tanto più che, per ordine di Giacomo, donna Graziella condusse Teresa a baciar la mano allo zio don Blasco. Dal monaco sì, che teneva la Sigaraia e le tre figlie in casa, e da lei no? «Sicuro, perché dal monaco aspettano l'eredità...» Don Blasco, adesso, era un signore: oltre la casa e i due poderi, aveva messo di bei quattrini da canto; il principe gli faceva la corte per questo. Il Cassinese se la lasciava fare da lui come da Lucrezia e da Chiara; non andava più in casa di nessuno, non potendo più salire scale; ma dettava legge ai nipoti, se ne serviva in tutti i modi, e se qualcuno di costoro lo faceva andare in collera, egli cavava fuori, come donna Ferdinanda, un suo foglio di carta e lo stracciava in mille pezzi: «Neanche un soldo da me!...» La visita della nipote Teresa gli fece piacere; le figliuole non si lasciarono vedere, e la principessa spiegò alla ragazza che donna Lucia era «governante» dello zio. Del resto, queste precauzioni erano inutili per Teresa. Ella non aveva curiosità sconvenienti, e quando comprendeva che le più grandi avevano da dirsi qualcosa, s'allontanava, andava ad ordinare la sua cameretta o a badare alle sue cosucce. Non era soltanto bella da far strabiliare, ma piena d'ingegno, istruita da dar punti a tanti uomini. Disegnava e dipingeva, parlava il francese e l'inglese come la sua propria lingua, sapeva far versi e comporre musica; e modesta, con questo, semplice, buona, affettuosa da non si dire. Rientrando nella casa dove, bambina, aveva lasciato la sua mamma, e adesso non la trovava più, avevano dovuto sorreggerla e i suoi occhi eran parsi due vive fonti, dal tanto pianto; ma il culto per la santa memoria non le impediva di rispettare e di amare il padre e la madrigna. E timorata di Dio, sempre con qualche libro di preghiere tra le mani, quando non lavorava ai suoi ricami, ai suoi disegni, alla sua musica: certi libri dorati, ricoperti di velluto o di pelle odorosa: mesi di Maria, coroncine della Beata Vergine, vite di Santi, pieni ad ogni pagina d'imagini divine, tutti premi riportati quand'era all'Annunziata. Ma questi sentimenti pii, questo timor di Dio non le impedivano di amare, come conveniva ad una fanciulla della sua età, gli svaghi mondani, le eleganze della moda. Quando aveva da vestirsi per far visite o per riceverne, o per andare al passeggio o al teatro, ella s'indugiava come le altre, dinanzi allo specchio; e aveva un certo modo tutto suo di portare gli abitini più semplici che la faceva parer vestita come per andare a un ballo. Quando passavano dalla modista o dalla sarta, se dovevano sceglier stoffe o guarnizioni o minuti oggetti d'ornamento ella dava prova di gran gusto, scegliendo le cose più belle e più eleganti, persuadendo con buone maniere la zia Lucrezia, la quale, dacché teneva le chiavi della cassa, si faceva un abito ogni quindici giorni preferendo ogni volta quel che c'era di più disgraziato, ed imbronciandosi se non lodavano la sua scelta. Invece la principessa lasciava che la figliastra facesse a modo suo e scegliesse quel che le piaceva; anzi, si rimetteva a lei per le cose sue proprie. «Che gusto, quello della mia figliuola!... Che figliuola modello!...» La lodava specialmente per la dolcezza del carattere e la bontà del cuore; la baciava e l'abbracciava dinanzi a tutti, anche in conversazione; vegliava su lei come una vera mamma. Era gelosa e scrupolosissima; non permetteva che oltre i libri di religione la figliastra leggesse cose capaci di guastarle la testa; né che, dinanzi alla giovane, tenessero certi discorsi, per paura che le stesse parole le contaminassero il pensiero. Stava perciò sulle spine quando la cognata Lucrezia narrava certe storie di concubinaggi, di separazioni coniugali, di nascite illegittime. Cominciava allora a tossire per dar sulla voce a quella stravagante malaccorta; e se la tosse non bastava, mutava discorso bruscamente, con un certo modo tutto suo, fatto apposta per richiamare l'attenzione sulle cose dalle quali voleva invece stornarla. Ma Lucrezia non si accorgeva di nulla; e non commetteva anzi la sconvenienza di dire spesso alla nipotina, a proposito ed a sproposito, ma più spesso quando si lagnava di Benedetto: «Bada a chi piglierai per marito»? Oppure: «Apri gli occhi, quando sarai maritata»? La principessa diventava di mille colori, alzava gli occhi al soffitto, facendo sforzi straordinari per contenersi, per non dire il fatto suo a quella matta a cui il Signore aveva fatto bene di non dar figlie, se intendeva così l'educazione delle ragazze. «Cognata!... Lucrezia!...» ma nulla serviva, tanto che una volta la principessa mise carte in tavola: «Scusa, cugina; ma questi discorsi mi sembrano fuor di luogo. Teresa si mariterà quando sarà tempo, e ci penserà suo padre, non dubitare: a me non piace la moda d'oggi, di parlar di queste cose alle signorine...» Teresa, con gli occhi bassi e le mani in grembo, pareva non ascoltare; Lucrezia ammutolì e andò via dopo un poco, senza salutar nessuno. Ma un altro parlava spesso di cose scabrose e la principessa doveva tenerlo in riga: il cavaliere don Eugenio. Appena saputo l'arrivo del fratello e del nipote, era corso da loro per ricominciare il discorso dell'Araldo sicolo. Il duca, senza le grida di don Blasco e le commedie di donna Ferdinanda, gli aveva risposto chiaro: «Coi libri, caro mio, nessuno ha mai fatto quattrini; tu ne farai meno degli altri perché non hai saputo far nulla mai. Se vuoi stampar l'opera, nessuno te lo impedisce; ma io non ho denari da buttar via in queste imprese.» Don Eugenio accettava a capo chino il predicozzo, come riconoscendo di meritarlo, ossequiente ed umile dinanzi a quell'imbroglione che sputava sentenze, e come s'era arricchito? a spese delle casse pubbliche, manipolando gli appalti, facendo ogni sorta d'imbrogli!... «Almeno,» don Eugenio insisteva, «farai comprare il libro alle biblioteche dello Stato? A te non costa nulla, sei tanto influente!... Basterà che tu dica una parola...» Il deputato ascoltava la lode a occhi socchiusi, beatamente. Infatti i bei giorni erano tornati per lui; dopo l'atteggiamento preso nella questione romana aveva rimesso il tallo; l'elezione del novembre Settanta era stata un altro trionfo. Sì, gli sarebbe bastato dire una parola per aiutare il fratello; tuttavia, alle insistenze di costui, rispondeva che avrebbe visto, che ci avrebbe pensato, preso da uno scrupolo: «Che cosa si potrà dire? Che mi giovo del mio credito per procurar favori alla mia famiglia?...» Don Eugenio allora s'era rivolto al principe. Questi aveva negato sulle prime, come meglio aveva potuto, ma in fin dei conti gli riusciva difficile insistere in un rifiuto crudo crudo, poiché egli non aveva tanta confidenza con lo zio da mandarlo a spasso, e nemmeno poteva addurre ragionevolmente la mancanza di quattrini; perciò s'era lasciato strappar la promessa d'una anticipazione d'un par di migliaia di lire, aspettando a sborsarle che la sottoscrizione fosse a buon punto. Frattanto don Eugenio, allettato dalla promessa, veniva al palazzo quasi ogni sera, con grande mortificazione della principessa che non poteva soffrire la vista della famelica faccia e dei miserabili indumenti del cavaliere e stava poi sui carboni ardenti, come un'anima del Purgatorio, quando egli cominciava a raccontare tutti i fatti della società palermitana: «Sasà marita le sue figlie... La moglie di Cocò ne ha fatta un'altra delle sue... Il figlio di Nenè è scappato con una ballerina...» Cocò era il principe di Alì, Sasà il duca di Realcastro, Nenè il barone Mortara; e nessuno nominava qualche persona di Palermo senza che egli assicurasse d'essere con questa persona «come fratello...» Tutte le volte che descriveva il suo appartamento il numero delle stanze cresceva: adesso era arrivato a quindici e, non potendolo più ragionevolmente aumentare, aggiungeva: «oltre la stalla e la rimessa...» Il principe lo lasciava dire, ma gli faceva pagare l'attenzione prestatagli e la promessa dei quattrini, giovandosi di lui come di un servo, mandandolo di qua e di là a portar lettere od ambasciate, che gli affidava dandogli tuttavia, per un certo rispetto umano, dell'Eccellenza. Neppure lo metteva a giorno dei propri affari, né gli faceva confidenze di sorta; curioso, il cavaliere voleva sapere a chi pensavano di dare in moglie Teresa, che cosa faceva Consalvo, quando sarebbe tornato, ma non riusciva ad appurar nulla, specialmente circa il principino, il quale non scriveva se non a donna Ferdinanda. Le notizie del giovane, al palazzo, venivano per mezzo di Baldassarre, il quale ogni due giorni scriveva al signor principe per riferirgli minutamente la vita del padroncino. Quelle lettere facevano fare schiette risate a Teresina, scritte com'erano in una lingua fantastica, di particolare composizione del maestro di casa. «So Eccellenza sta bene e s'addiverte... Oggi abbiamo stato al Buà di Bologna, che ci era grande passeggio di carrozze e cavalli e signori e signore accavallo...» Il maestro di casa annunziava ogni giorno il programma del successivo: «Domani andiamo all'Ussaburgo... domani partiamo per Fontana Bu, vedere il palazzo reale...» ma donna Ferdinanda aspettava la narrazione d'una visita ben altrimenti importante: quella a Sua Maestà Francesco II. Prima che Consalvo partisse, ella gli aveva fatto un obbligo, quando sarebbe passato da Parigi, di «baciare la mano al Re», e appena saputo il nipote nella metropoli francese, gli aveva rammentato di mantener subito la promessa. Padre Gerbini, che a Parigi era cappellano della Maddalena e andava in casa di tutta la nobiltà legittimista, ed era ammesso, insieme con gli intimi, presso l'ex Re, aveva chiesto l'udienza pel giovanotto siciliano, facendo opportunamente valere la fede serbata dalla più gran parte degli Uzeda alla causa borbonica. In una lunga lettera, della quale donna Ferdinanda diede lettura in mezzo al circolo dei parenti, Consalvo riferiva l'accoglienza affettuosa dell'antico sovrano, la premura con la quale s'era informato di tutta la famiglia e il dono che gli aveva fatto, prima di congedarlo, dopo un lungo colloquio: il proprio ritratto con dedica autografa. «Sua Maestà la Regina» era sofferente, e perciò non aveva potuto riceverlo anche lei; ma il «Re», gli aveva detto che voleva rivederlo prima della sua partenza!... Venne anche la lettera di Baldassarre che riferiva la visita «a So Maistà Francisco secundo, inseme con So Paternità don Placito Gerbini. So Maistà abbia parlato a So Eccellenza della Siggilia e dei signori sigiliani che abbia conosciuto in Napoli e in Pariggi. So Eccellenza ci ha baciato le mani, e So Maistà gli arregalato il suo ritratto, dicendoci che ci deve tornare un'altra volta, per appresentarlo a So Maistà la Regina». Infatti prima che padrone e servo partissero da Parigi, tutt'e due annunziarono la seconda udienza, ma questa volta la lettera del maestro di casa al padrone conteneva un particolare del quale non era parola in quella di Consalvo alla zia. «So Maistà abbia fatto una grande festa a So Eccellenza, e quando ci abbia stretto la mano ci ha addomandato chi sa quando ci arrivedremo; e So Eccellenza mi ha contato So Paternità che ci abbia risposto: "Maistà, ci arrivedremo in Napoli, nel palazzo reale di Vostra Maistà!..."»

Da Parigi il giovanotto tornò finalmente in Italia, e fermatosi un poco a Torino e a Milano passò a Roma, che era l'ultima tappa del suo viaggio. Lì si fermò un pezzo; ma, dopo aver scritto un paio di lettere alla zia, non si fece più vivo. Donna Ferdinanda gli aveva anche raccomandato di «baciare il piede al Papa» e Baldassarre infatti, da principio, annunziava che «Monsignori don Lotovico» doveva condurre in Vaticano il nipote, ma poi non disse se la visita era stata fatta; anzi un giorno inaspettatamente, annunziò per telegrafo l'imminente ritorno. Aspettato alla stazione da donna Ferdinanda e da Teresa - perché il principe era rimasto ed aveva ordinato alla moglie di rimanere al palazzo -, Consalvo fece una specie d'ingresso trionfale, tra le persone di servizio e gl'impiegati dell'amministrazione schierati su due file, che ammiravano la bellissima ciera del signorino e gli davano il bentornato e si facevano in quattro per aiutare Baldassarre a scaricare la gran quantità di bauli, valige, portamantelli e cappelliere di cui era piena la carrozza e un carrozzino da nolo. Il principe, con aria tra dignitosa ed affabile, si fece trovare nella Sala Rossa e gli dette la mano a baciare; altrettanto fece la principessa, ma con maggiori dimostrazioni d'affettuosa premura: «Ti sei divertito?... Avesti buon tempo di mare?... C'è tutta la tua roba?... Le tue camere sono già pronte!...» La stanchezza del viaggio, lo stordimento dell'arrivo spiegavano naturalmente la poca loquacità di Consalvo in quelle prime ore; infatti la sera, dopo aver mandato in camera del padre, della sorella e della madrigna una quantità di regali, egli cicalò moltissimo, riferì una quantità d'impressioni, narrò certi aneddoti comici su Baldassarre che, all'estero, sconoscendo le lingue, s'era spesso smarrito, aveva attaccato lite con gente alla quale diceva male parole siciliane; e una volta, anzi, a Vienna, aveva corso rischio di dormire al posto di guardia. Il giorno dopo continuò il discorso del viaggio, specialmente di Parigi; ma a poco a poco, e secondo che quell'argomento si esauriva, il giovanotto non prendeva più parte alla conversazione. Se la principessa narrava qualche cosa, o se il principe discorreva degli affari di casa, si contentava di stare a sentire e rispondeva qualche Eccellenza o qualche Eccellenza no di tanto in tanto. A tavola, col muso sul piatto, non guardava nessuno e spesso non pronunziava due parole una dopo l'altra. Il principe cominciava a soffiare e ammutoliva anche lui, facendo però certi versacci che non annunziavano niente di buono; la principessa alzava gli occhi al soffitto dalla costernazione, e Teresa, angustiata da quella freddezza, perdeva sin l'appetito. Levandosi di tavola, quando il figlio andava via: «Cominciamo da capo!» sfogavasi il principe. «State a vedere che cominciamo da capo! Che gli hanno fatto, a cotesta bestia? S'è divertito più d'un anno a viaggiare, non gli è mancato niente, e mi ringrazia così, tenendomi il broncio, avvelenandomi tutti i giorni il desinare!...» Né era da dire che quella bestia stesse muto per poca voglia di parlare; giacché, in presenza di estranei, non la finiva più di narrare le sue avventure di viaggio, le grandi cose che aveva viste, le novità di cui in Sicilia non v'era neppur sentore. Con Benedetto Giulente, specialmente, e con la gente più o meno mescolata nelle cose pubbliche, teneva certi discorsi stupefacenti in bocca sua, sull'ordinamento delle guardie di città, sulla manutenzione dei giardini, intorno ai sistemi d'inaffiamento delle vie o d'illuminazione dei teatri. Perché diamine s'occupava di quelle cose? Per far sapere che era stato fuori via?... Ma nossignore; non solo teneva discorsi diversi dagli usati, mutava anche sistema di vita. Riveduti appena gli antichi compagni di bagordo, non li aveva più cercati, anzi li evitava; la passione dei cavalli pareva gli fosse interamente passata; non scendeva più nelle stalle, non teneva conversazione coi cocchieri. Non più donne, non più giuoco; passava il suo tempo chiuso nella propria stanza, dove non si sapeva che diamine ordisse. Quando andava fuori, faceva frequenti visite allo zio duca, col quale parlava di cose serie, o si vedeva in compagnia di gente che prima soleva evitare come la peste: parrucconi, politicanti del Gabinetto di lettura, sorci di farmacie, persone occupanti pubbliche cariche, tutto il codazzo del deputato. La posta gli portava ogni giorno una quantità di giornali italiani e francesi, e il libraio, ogni settimana, gli mandava grossi pacchi di libri che egli stesso andava a scegliere e ad ordinare. «Qual altra pazzia adesso gli salta in capo?» diceva il principe, con tono sempre più acre, alla moglie; ma questa: «Di che ti lagni?» rispondeva, conciliante. «Non si riconosce più; pare davvero un altro: benedetto questo viaggio, se lo ha fatto cambiare di nero in bianco!» Certi giorni, Consalvo non veniva a tavola; al cameriere che andava a chiamarlo rispondeva, dietro l'uscio, che aveva da fare; e allora il principe buttava via il tovagliolo, stringeva i denti, quasi scoppiava dinanzi ai lavapiatti che assistevano al pranzo. Teresa, a un segno della principessa, andava a cercare il fratello e insisteva tanto, con voce dolce, con persuasioni amorevoli, finché egli apriva. «Perché non vieni? Sai che al babbo dispiace...» «Perché ho da fare, sto scrivendo, non posso perdere il filo...» «Lascia di scrivere, contentalo, fratellino!... Hai tanto tempo per studiare! Altrimenti, potrebbe parere che tu lo faccia apposta, che tu l'abbia con lui... o con la mamma...» «Io non l'ho con nessuno. Vedi che sto scrivendo?...» infatti la scrivania era piena di carte e di libri aperti. E quando finalmente veniva a tavola, il principe gonfiava, gonfiava, gonfiava, vedendo il figliuolo taciturno e ponzante come un nuovo Archimede. «Mangerò solo, se debbo vedere quella faccia da funerale! Tutto il giorno quella faccia ingrugnita! È una iettatura! il cibo non mi fa buon sangue! Piglierò una malattia...» Allora Teresa, come la sola capace d'esercitare un'influenza sull'animo del fratello, tornava da lui, gli prendeva le mani, lo scongiurava d'esser buono, gli parlava dei suoi doveri di figlio; e Consalvo la lasciava dire, muto ed immobile. Ma una volta che ella, fra gli altri argomenti, addusse quello della gratitudine che dovevano al padre e alla madrigna, egli rispose, con ironia fredda e tagliente: «Molta, in verità... Mio padre m'ha voluto sempre bene, fin da quando mi tenne dieci anni chiuso al Noviziato, come ha tenuto in collegio sei anni te! Gli dobbiamo essere molto grati entrambi, perché non lasciò passare sei mesi dalla morte di nostra madre, che mise un'altra al posto di lei... Anche lei, dal Paradiso, deve essergli grata pel rispetto, per l'amore, per le cure di cui la circondò...» «Taci! Taci!...» esclamò Teresa. «Ho da tacere?... Lo sai dunque quel che fecero soffrire a quella poveretta?... Ma tu eri a Firenze, tu non puoi saper niente...» «Taci, Consalvo!» «Allora, che vuoi? Dimmi tu che debbo fare per contentarlo! Quando stavo tutto il giorno fuori casa, a divertirmi a modo mio, spendendo quattrini: nossignore, bisognava cambiar vita! Adesso che sto sempre dentro, a studiare, continua a rompermi la testa?»

Consalvo studiava economia politica, diritto costituzionale, scienza dell'amministrazione. La gente che non sapeva di che cosa s'occupava, ma che vedeva il radicale mutamento operatosi in lui, lo attribuiva al lungo viaggio, al senno che tutti i giovani, o presto o tardi, hanno pure da mettere. E il viaggio, infatti, era stato l'origine della conversione del principino, la sua grande lezione. La lotta col padre lo aveva disgustato della sua casa ed anche del suo paese, dove la mancanza di quattrini e la pesante autorità paterna non gli consentivano di fare tutto ciò che voleva; pertanto egli aveva accettato con gioia d'andar via, di girare un poco il mondo; ma la prima impressione da lui provata, appena fuori di Sicilia, fu quella che proverebbe un vero Re in cammino per l'esilio. Il giorno prima, quantunque non potesse sbizzarrirsi a modo suo, era nondimeno un pezzo grosso, il pezzo più grosso del suo paese, dove tutta la gente, in alto e in basso, gli faceva di cappello e s'occupava di lui e delle cose sue; a un tratto egli si svegliava uno qualunque in mezzo alla folla che non gli badava. E se neppur egli avesse visto nessuno, meno male: ma le lettere di presentazione di cui era fornito lo avevano messo in rapporto, a Napoli, a Roma, a Firenze, a Torino, con altra gente, coi signori di lassù; e allora aveva compreso che c'eran pezzi grossi più grossi di lui. Il nome di principino di Mirabella aveva perduto la sua virtù, era diventato quello di un signore come ce n'erano a migliaia. Il lusso vero, e non quello mediocre di suo padre, il gusto fastoso, lo sfarzo elegante di cui non s'aveva idea in quell'angolo di Sicilia, fuori delle grandi vie del mondo, dov'egli era vissuto, lo costringevano a riconoscere la propria inferiorità. Al club di Catania erano quasi in famiglia ed egli troneggiava; a Napoli e a Firenze otteneva per favore un biglietto per pochi giorni; se fosse rimasto a lungo avrebbe dovuto esporsi ad una votazione, farsi raccomandare, correre, chi sa, il rischio d'essere respinto! Nella sua testa avveniva una rivoluzione. Soffrendo realmente nell'orgoglio, nella vanità di «Viceré» quando andava a fare qualche visita in certi palazzi grandi quattro volte l'avito, nei quali invece di botteghe da affittare c'erano gallerie vaste quanto musei, con dentro tesori d'arte, egli smise di frequentare le sue conoscenze, rinunziò a farne di nuove. Per affermare in qualche modo la propria ricchezza, buttava via i quattrini a carrozze di rimessa, o nei caffè, nei teatri, nei negozi dove comprava una quantità di cose inutili, col solo scopo di lasciare il suo indirizzo: principe di Mirabella, albergo tale... Il più caro della città. E meno male ancora a Napoli, dove le tradizioni d'uno spagnolismo in tutto eguale al siciliano gli facevano dare dell'Eccellenza dagli sconosciuti che gli si professavano servi; ma a Firenze, a Milano, gli toccava il semplice signore; e invano Baldassarre, che gli stava sempre a fianco, prodigava il Sua Eccellenza e il Voscenza paesano: la gente sorrideva o restava a bocca aperta alle espressioni stravaganti del maestro di casa. Così, per evitare queste mortificazioni, il principino passò all'estero più presto del tempo stabilito. In paesi stranieri, la maggior ricchezza e autorità della gente della sua casta non lo feriva tanto, ma un altro impaccio lo aspettava: col suo povero e mal digerito francese, si sentì come fuori del mondo a Vienna, a Berlino, a Londra: a Parigi fece sorridere, come in Italia Baldassarre. Ma frattanto la Sicilia, il suo paese nativo, la sua casa dove la considerazione ed il primato d'un tempo lo aspettavano, erano divenuti per lui sempre più piccoli e meschini. Come rassegnarsi a tornare laggiù, dopo aver visto la gran vita nelle grandi città? E come tenere un posto mediocre in una capitale? Bisognava dunque essere il primo tra i primi!... E una volta entratagli in testa quest'idea, Consalvo si mise a considerare il modo di attuarla. Suo padre avrebbe consentito a lasciarlo andar via per sempre? La cosa era dubbia, ma immancabilmente, articolo quattrini, ne avrebbe assegnati il meno possibile; e con vincoli umilianti, come durante quel viaggio, tutte le spese del quale dovevano esser fatte personalmente dal maestro di casa! Vivendo il padre, egli non avrebbe dunque potuto conseguire il suo scopo; e il principe poteva vivere cent'anni, come tanti di quegli Uzeda che avevano il cuoio duro, se il vecchio sangue non si scomponeva prima del tempo... E Consalvo che, ragionando freddamente, mettendo a calcolo tutto, faceva i suoi conti sulla morte del padre come sopra un avvenimento necessario alla propria felicità, considerava anche un altro lato della quistione: l'insufficienza di tutta la sostanza paterna, il giorno in cui egli ne sarebbe stato unico padrone, a dargli le soddisfazioni che andava cercando. Grande laggiù, e anche da per tutto, per uno che non avesse voglie smodate, il patrimonio del principe di Francalanza era per Consalvo poco più che la mediocrità, a Roma. La morte del padre era dunque inutile; egli doveva cercare un altro mezzo. E lì alla capitale, quando vi passò di ritorno, egli lo trovò. Lo zio duca, fra le altre lettere, gliene aveva date parecchie per i colleghi del Parlamento. All'andata, egli aveva visto un momento l'onorevole Mazzarini, giovane avvocato della provincia di Messina, il quale faceva la politica continuando ad esercitare la professione. Di ritorno, Consalvo pensava a tutti fuorché a costui, pel quale sentiva un profondo disprezzo di razza, quando una sera si vide accostato per via dall'onorevole. «Di nuovo a Roma, principino? Di ritorno, naturalmente? Ma perché non m'avete avvertito del vostro arrivo? Sarei venuto a trovarvi, m'avreste fatto tanto piacere! E vi siete divertito certamente, non c'è bisogno di domandarlo!» Colui parlava a vapore, gestendo, dandogli confidenzialmente del voi, mettendogli le mani addosso. E Consalvo, che alle dimostrazioni d'intimità restava freddissimo, si tirava indietro, schifando ogni contatto. L'onorevole però, quantunque accusasse un gran da fare, e avesse infatti lasciato un crocchio di gente che lo attorniava, lo trattenne un pezzo; prima di lasciarlo gli disse: «Ci vedremo domani; verrò a trovarvi all'albergo...» Consalvo fu tanto stupito che non ebbe tempo di levarselo dai piedi. Ed il domani Mazzarini, venuto a prenderlo, lo invitò a desinare con lui, trascinandolo al Morteo. V'erano molti altri deputati, una quantità di clienti li circondava; Mazzarini stesso, prima di potersi sedere a tavola, dovette sbarazzarsi di quattro o cinque persone che lo aspettavano, e per tutta la durata del pranzo parlò della moltitudine delle sue faccende, delle combinazioni politiche, degli affari pubblici; un fattorino del telegrafo gli portò due dispacci, dei quali egli firmò la ricevuta masticando a due palmenti, macchiando d'inchiostro il tovagliolo che teneva appeso al collo. Le persone che traversavano il caffè lo salutavano, egli rispondeva loro, interrompendosi con un «cavaliere!...» o un «caro commendatore!...» Alle frutta, aveva una piccola corte d'intorno alla quale parlava, con grande animazione, di Roma, di quel che bisognava fare per renderla degna dei suoi destini, per affermarne l'italianità, per tenere a segno il Vaticano. Finito il pranzo, un po' alticcio, prese a braccio Consalvo il quale fremè a quel contatto; ma il deputato, con un sorriso che voleva essere discreto ed era beato, esclamò: «È dura la via della politica, specialmente quando bisogna lavorare per vivere; ma, in fin dei conti, procura anch'essa qualche soddisfazione!... E voi, principino, non pensate di mettervi nella vita pubblica?» Parole dette così, sbadatamente, per continuare a parlare; ma Consalvo ne fu abbagliato. Stanco, infastidito, disgustato dalle chiacchiere dell'onorevole, dalla confidenza con la quale lo trattava, da quell'ignobile pranzo che aveva dovuto ingozzare per forza, egli si vide in un momento schiuder dinanzi, diritta ed agevole, la via che andava cercando, quella che d'un umile faccendiere come Mazzarini faceva un uomo importante, riverito e corteggiato; quella che permetteva di raggiungere la notorietà e la supremazia non in una sola regione o sopra una sola casta ma in tutta la nazione e su tutti. Deputato, ministro - Eccellenza! - presidente del Consiglio, Viceré per davvero; che cosa occorreva per ottenere quei posti? Nulla, o ben poco. Mazzarini aveva parlato delle aspre lotte sostenute nel proprio collegio; ma il duca di Oragua non possedeva un feudo elettorale che, naturalmente, sarebbe passato al nipote? Per farsi conoscere, l'avvocato aveva dovuto crearsi pazientemente, accortamente, una clientela: il principino di Mirabella l'aveva già bell'e pronta. Alla cultura, alla competenza, egli non pensava: se aveva potuto fare il deputato un ignorante come suo zio, egli si credeva capace di reggere i destini della nazione. La forza della memoria, la facilità della parola, la sicurezza dinanzi alla folla che erano mancate al duca e lo avevano tormentato per tutta la vita accrescendo la sua miseria intellettuale, Consalvo le possedeva: a San Nicola, dinanzi ai monaci che s'empivano il buzzo di cibo o al cospetto della folla che veniva ad ascoltar le prediche di Natale; più tardi nelle vie della città, nelle taverne, attorniato da gente d'ogni risma, egli aveva fatto sfoggio d'eloquenza: gli sguardi fissi su lui, il silenzio dell'uditorio aspettante non lo avevano mai sgomentato. Che altro occorreva? Aveva promesso alla zia di baciare, oltreché le mani a Francesco II, anche i piedi al Santo Padre: egli soppresse questa seconda visita, poiché gli conveniva mutare non solo le abitudini ma anche le idee. Fin quel momento era stato borbonico nell'anima e clericale per conseguenza, quantunque non credente, anzi scettico sulle cose della religione al punto di non andare a sentire la messa: altro capo d'accusa mossogli da quel bigotto di suo padre. Adesso, per mettersi e riuscire nella nuova via, egli doveva essere liberale e mangiapreti come Mazzarini. Andò tuttavia a visitare lo zio Lodovico. Monsignore l'accolse con l'untuosità consueta, con le fredde espressioni d'un sentimento preso ad imprestito per la circostanza. L'antico Priore di San Nicola pareva conservato sott'aceto; asciutto, senza un pelo bianco, con la faccia liscia, nessuno lo avrebbe giudicato sulla cinquantina. Ed i suoi occhi sfavillarono quando, richiesto dal nipote se sarebbe tornato in Sicilia, rispose piano, modestamente: «No, pel momento. E i miei nuovi doveri mi tratterranno ancora più a Roma...» «Che doveri, zio?» Egli abbassò le ciglia, dicendo: «Il Beatissimo Padre vuole, senza merito mio, destinarmi alla sacra porpora...» Furbo, quello lì: arrivato a furia di furberia!... Consalvo se lo propose a modello. Frattanto, invece di fuggire Mazzarini, lo andò cercando, si fece guidare da lui alla Camera ed al Senato per esaminar subito il campo della sua azione futura. Allora comprese che, se ad occupare un posto di deputato gli mancava soltanto l'età, gli occorreva qualche altra cosa per salire più in alto. Pertanto, tornato a casa, nessuno lo riconosceva. Persuaso che gli conveniva studiare, cominciò comprare libri su libri, d'ogni genere e d'ogni grossezza: li divorava da cima a fondo o li spilluzzicava prendendo note, pieno di buoni propositi, sul principio, disposto a fare sul serio. Tutte quelle materie eran tali che non occorreva l'opera del maestro: bastavan la preparazione superficiale che egli possedeva e la naturale intelligenza. Il latino dei monaci, quello studio detestato, adesso gli giovava a qualche cosa. Più tardi, col fervore d'un neofita, con la presunzione degli Uzeda che non conoscevano ostacoli, comperò grammatiche e libri di lettura spagnoli, inglesi e tedeschi per apprendere da sé quelle lingue. La fama della sua conversione si diffuse subito. Stupiti, sospettosi o rallegrati, i parenti, gli antichi amici, gli stessi servi dissero che stava tutto il giorno a tavolino. Associatosi al Gabinetto di lettura, lui, fondatore del club aristocratico, vi andava a discutere di politica e d'amministrazione, a criticare o lodare uomini e cose, a nominare autori e citar opere. Una sera che Giulente e il duca, in casa di quest'ultimo, discutevano a proposito dei dazi di consumo se convenisse meglio al Comune appaltarli o riscuoterli per conto proprio, Consalvo disse la sua, con grande sfoggio di erudizione. Uscendo di lì, Benedetto esclamò con tono scherzoso di protezione: «Ti faremo consigliere comunale, appena avrai l'età!...» «Perché? No!...» esclamò egli. «E poi come si fa?» «Perché? Per avere un posto nella rappresentanza del tuo paese. Quanto al modo, è semplicissimo.» Innanzi tutto lo presentò al Circolo Nazionale. Alcuni soci fecero qualche difficoltà. Era degli Uzeda liberali o dei retrivi? Più d'uno assicurò che era borbonico come la zia Ferdinanda; che anzi, a Parigi, era andato a far visita a Francesco II. Ma Giulente si portò garante dei liberi sensi del nipote: all'ex Re aveva fatto, era vero, una visita, ma costretto dai parenti; una visita di pura forma, del resto, che non lo impegnava a niente. Fino a quel momento era stato un ragazzo irresponsabile delle idee che aveva potuto esprimere; adesso, se chiedeva di far parte del circolo, significava che ne approvava il programma. Né conveniva rifiutarlo, perché altrimenti egli avrebbe potuto gettarsi in braccio ai reazionari... Gli scrupolosi si contentarono di quelle assicurazioni, mormorando tuttavia che, secondo una certa versione, il principino aveva augurato al Re spodestato di rivederlo nella reggia di Napoli... Quando Consalvo seppe che correva questa voce, protestò con tutte le sue forze che era una menzogna sfacciata, della quale non capiva l'origine. Ma, preso a quattr'occhi il maestro di casa, che solo poteva averla messa in giro, gli gridò sul muso: «Tu, bestione, hai scritto che io ho detto a Francesco II che voglio rivederlo a Napoli e il diavolo che ti porti?» Imbarazzato e confuso, Baldassarre rispose: «Eccellenza, sì...» «E chi t'ha detto una simile bestialità?» «Me lo disse Padre Gerbini, che l'udì dire a Vostra Eccellenza...» Alzato il braccio in atto di minaccia, Consalvo ingiunse: «Un'altra volta che ripeterai simili corbellerie, ti piglierò a scapaccioni, hai capito?» E fu ammesso al circolo a pieni voti. Allora bisognò sentire donna Ferdinanda! Già ella, subodorato qualcosa dell'apostasia, aveva afferrato pel braccio il nipote, gridandogli: «Bada che non ti guarderò più in faccia! Bada che non avrai un soldo da me!» E Consalvo le aveva risposto facendo l'indiano, protestando la propria innocenza: «Che hanno dato a intendere a Vostra Eccellenza?» Ma Lucrezia le andò un bel giorno a portar la notizia dell'ammissione del nipote al circolo. Schiumava anche lei dall'indignazione; ma, in fondo, andava a denunziare Consalvo alla zia per farglielo cader dal cuore, gliene parlava male per entrar ella nelle sue buone grazie, per vendicarsi della principessa. «Ah, mala razza!... Ah, Gesuiti!... Ed a me diceva che non era vero!...» La vecchia non poteva tollerare singolarmente che quel mariuolo avesse tentato d'infinocchiarla spudoratamente. «Ma vorranno star freschi tutti quanti!... Voglio vederli crepare, tutti quanti!...» E andata a prendere, come dieci anni addietro, pel matrimonio di Lucrezia, la solita carta che teneva nell'armadio, la lacerò in mille pezzi dinanzi alla nipote. «Neanche un soldo! Così!» Anche Chiara, poiché suo marito s'era venuto a poco a poco accostando alle idee liberali, fiottò contro il nipote e contro il marito. Don Blasco, invece, liberale di data oramai quasi antica, approvò la conversione del nipote; il quale, lasciando che ciascuno di quei pazzi dicesse la sua, fece il suo esordio al circolo, una sera che l'assemblea discuteva intorno ai trattati di commercio. Nella sala, angusta, la gente era stipata e le seggiole si toccavano. Per evitare contatti, Consalvo aveva tirato la sua fuori della fila, distruggendone l'ordine; e, mordendosi i baffetti, stava a sentire con aria di grave attenzione. Ma quando il presidente annunziò: «Se nessuno domanda la parola, metto ai voti le conclusioni della commissione», il principino s'alzò. «Domando la parola.» Immediatamente si fece un profondo silenzio, e tutti gli sguardi si diressero su Consalvo. Rivolte le spalle al muro, guardando da un lato l'assemblea, dall'altro la presidenza, egli cominciò: «Signori, io vi debbo innanzi tutto chieder venia dell'ardimento di cui potrete accusarmi vedendomi, ultimo arrivato fra voi, osare di prender la parola intorno a una grave materia, oggetto di così accurato esame da parte di soci ai quali, volendo ma non potendo dare i nome di colleghi, debbo e voglio dare quello di maestri.» Il laborioso periodo fu detto con tanta sicurezza, uscì così filato, era così abile ed opportuno, sollecitava tanto l'amor proprio dei precedenti oratori, riusciva così inaspettato sulla bocca d'un giovanotto conosciuto fino a quel momento solo per le sue prodigalità ed i suoi vizi che molti mormorarono: «Bravo!... Bene!...» Egli continuò. Disse che se il suo ardimento poteva giudicarsi grande, egli sapeva che non meno grande era l'indulgenza del suo uditorio. Qualificò come «modello del genere» la relazione della commissione, la disse «degna veramente d'un Parlamento». Ne citò due o tre paragrafi quasi letteralmente; quel prodigio di memoria sollevò un lungo mormorio ammirativo. Ma forse l'indulgente assemblea aspettavasi che egli esprimesse la propria opinione? E questa egli esprimeva «con peritanza di discepolo ma saldezza di apostolo». Egli era per la libertà; per la libertà «che è la più grande conquista dei nostri tempi»; della quale «non si può mai abusare», perché essa è «correttivo di se stessa». I vantaggi del libero regime erano infiniti, perché «come dice il celebre Adamo Smith nella sua grande opera...» e infatti «opina anche il grande Proudhon...» ma quantunque «il famoso Bastiat non ammetta», pure «la scuola inglese è del parere...» Lo stupore e il piacere erano propriamente grandi, tutt'intorno; Benedetto godeva come d'un personale trionfo, pareva dicesse: «Avete visto? E quand'io vi garentivo?...» Salve d'applausi interrompevano tratto tratto quel discorso che tutti credevano improvvisato con tanta disinvoltura era detto; ma un vero trionfo successe all'argomentazione finale: la necessaria corrispondenza tra la libertà economica e la politica: «le più grandi garanzie di benessere e di felicità, le ragioni d'essere di questa giovane Italia, ricomposta ad unità di nazione libera e forte per virtù di popolo e Re!...»

3.

Una notte, mentre al palazzo tutti dormivano, tranne Consalvo curvo sui volumi di Spencer, fu picchiato con grande fracasso al portone: Garino, il marito della Sigaraia, chiamava il principe a rotta di collo perché a don Blasco era venuto un accidente. Il monaco, floscio come un otre sgonfiato, rantolava. La vigilia aveva fatto una solenne scorpacciata e cioncato largamente: spogliato e messo a letto da donna Lucia, s'era addormentato di botto; ma, nel mezzo della notte, un sordo tonfo aveva fatto accorrere tutti quanti, e allora s'era visto il Cassinese disteso, quant'era lungo, in terra, senza più sentimento. La Sigaraia, le figliuole, la serva non la finivano di raccontar la disgrazia; ma Garino, che, lasciata l'ambasciata al principe e chiamato un dottore, era tornato di corsa a casa, aveva la ciera rannuvolata e non diceva verbo. Mentre il medico dichiarava di non poter fare nulla, perché il colpo era fulminante, e le donne ricominciavano a contristarsi, e ad invocare la Bella Madre Maria e tutti i santi del Paradiso, Garino prese per un braccio il principe appena arrivato e lo trascinò in una stanza remota. «Eccellenza, siamo rovinati! Ho frugato da per tutto, e non c'è niente! Rovinata Vostra Eccellenza e rovinati noi! Dopo tanti anni che l'abbiamo servito! E quelle creature anch'esse! Sua Paternità non doveva farci un simile tradimento!» «Avete cercato bene?» «La casa sottosopra, Eccellenza; che appena successe la disgrazia presi le chiavi e frugai da per tutto... nell'interesse di Vostra Eccellenza.. Ma potevo credere a una cosa simile? Dopo che Sua Paternità aveva promesso dodici tarì al giorno alle ragazze? È un tradimento! Sono rovinato! E Vostra Eccellenza pure... Io credevo che il testamento fosse scritto da anni, dall'altra volta che gli prese il capogiro... «L'avrà forse dato al notaro?» «Ma che notaro! Sua Paternità non voleva sentirne, e anzi quando il notaro Marco gli parlò in proposito... per amicizia a noi... gli rispose brusco che il testamento l'avrebbe fatto da sé e chiuso nella sua cassa!... Ma non c'è niente in tutta la casa... Se avessi saputo una cosa simile!...» E tacque, guardando il principe. «Che avreste fatto?» «Avrei scritto io il testamento, secondo le sue intenzioni... per darglielo a firmare... La firma ce l'avrebbe messa in mezzo minuto... Potevo anche...» Ma in quel punto chiamarono di là. Il dottore, tanto per contentare «la famiglia», aveva ordinato che si cavasse sangue al fulminato e gli s'attaccasse qualche mignatta alle tempie; Garino scappò per eseguire gli ordini del dottore, e il principe si mise a girare per la casa. Faceva giorno quando venne il salassatore. L'operazione non giovò quasi a nulla; solo gli occhi del moribondo s'aprirono un momento; ma né un muscolo si scosse, né una parola uscì dalla bocca serrata. Col giorno venne la principessa. Gli altri parenti non sapevano ancora nulla, e cominciarono ad arrivare più tardi, uno dopo l'altro; entravano un momento nella camera dell'agonizzante e poi passavano nella stanza attigua, girellonando, cercando il momento di prendere a parte il principe, per dirgli in un orecchio: «C'è testamento?» «Non so... non credo...» rispondeva il principe. «Chi pensa a queste cose per ora?» Invece non pensavano ad altro, divorati dalla curiosità, dalla cupidigia dei quattrini del monaco. Dopo la vecchia principessa, don Blasco era il primo Uzeda danaroso che se ne andava; Ferdinando non era contato: aveva poca roba e quella poca era stata carpita dal principe. Il Cassinese, invece, tra i due poderi, la casa e i risparmi lasciava quasi trecentomila lire, e tutti speravano di rasparne qualcosa. Se non c'era testamento i due fratelli Gaspare ed Eugenio e la sorella Ferdinanda avrebbero ereditato; e la zitellona, dopo una vita d'inimicizia, aspettava d'arraffar la sua parte. Tutti gli altri, al contrario, aspettavano un testamento che li nominasse. Il principe dichiarava piano all'orecchio dello zio duca che non sperava nulla per sé, ma qualcosa per Consalvo, e di mezz'ora in mezz'ora spediva al palazzo qualcuno dei camerieri della parentela, accorsi coi padroni, perché chiamassero suo figlio. Ma il principino dapprima aveva risposto che era a letto, poi che dovevano dargli il tempo di vestirsi, poi che stava per venire, e finalmente gli ultimi messi non lo trovarono più. Se n'era andato al Circolo Nazionale per assistere all'adunanza d'una commissione incaricata di studiare il piano regolatore della città. Arrivò finalmente quando attaccavano le mignatte all'agonizzante. Il principe non gli rivolse neppure la parola e prese invece in disparte Garino che in quel momento tornava per la quarta o la quinta volta. Poi il marito della Sigaraia entrò nella camera del moribondo, che sua moglie e le ragazze non lasciavano un momento. Invece di giovare, le sanguisughe affrettarono la catastrofe; Garino affacciossi sull'uscio, annunziando: «Il Signore l'ha chiamato con sé!» Tutti entrarono nella camera del morto. Era immobile, stecchito, con gli occhi chiusi, con le tempie butterate dai morsi delle mignatte. L'odore nauseante del sangue appestava la camera, come una beccheria; e c'era per terra e sui mobili una confusione straordinaria: panni disseminati qua e là, catinelle piene d'acqua, caraffe di aceto. La Sigaraia, dischiusa immediatamente la finestra perché l'anima del Cassinese potesse volarsene difilata in Paradiso, disponeva, singhiozzando, due candele sul comodino. Le ragazze piangevano come due fontane e Lucrezia pareva avesse perduto il suo secondo padre; ma i pianti e le preci a poco a poco cessarono; e allora, asciugatisi gli occhi, Lucrezia disse, molto tranquillamente: «Adesso che lo zio è in Paradiso potremmo vedere se c'è testamento.» Nel silenzio di tutti, il principe, come capo della casa, fece un gesto di consenso. Ma donna Lucia, che finiva d'accendere le candele, si voltò e disse: «C'è testamento, Eccellenza. La sant'anima, per sua bontà, me lo diede a serbare. Vado a prenderlo subito.» Si potevano udir volare le mosche mentre la donna consegnava al principe una busta aperta, e questi, per deferenza, la passava allo zio duca. Il duca diede un'occhiata al foglio dove c'erano poche righe di scritto, e senza leggere, annunziando il contenuto dei brevi periodi a mano a mano che li scorreva, disse: «Erede universale Giacomo... esecutore testamentario... un legato di duecent'onze l'anno a don Matteo Garino...» «Nient'altro?... E nient'altro?...» domandarono tutt'intorno. «Non c'è altro.» Donna Ferdinanda s'alzò e si mise a leggere il foglio prendendolo dalle mani del principe a cui il duca l'aveva passato; ma Lucrezia, venendo a metterlesi a fianco, le disse: «Vostra Eccellenza mi lasci vedere.» Il principe pareva del tutto disinteressato. Le due donne che stavano chine sul documento scambiarono sottovoce qualche parola; poi Lucrezia annunziò, forte: «Questo testamento è falso.» Tutti si voltarono. Il principe, con estremo stupore, esclamò: «Come falso?» «Falso?» saltò su Garino, che se ne stava nel vano d'un uscio. «Ho detto che è falso,» ripeté Lucrezia, dando uno spintone a suo marito che voleva leggere anche lui il foglio. «Questa non è scrittura dello zio; la scrittura dello zio la conosco.» «Lasciami vedere!...» e Giacomo considerò attentamente i caratteri, mentre tutti gli altri gli s'affollavano intorno, esaminandoli anch'essi. «T'inganni,» disse il principe freddamente; «è scrittura dello zio.» Degli altri nessuno espresse un'opinione. Con tono di fine ironia, Lucrezia replicò: «Allora, vorrei sapere quando l'ha scritto. Stanotte? C'è ancora la sabbia attaccata!» La Sigaraia intervenne: «Eccellenza, Sua Paternità scrisse il testamento ieri l'altro, perché, poveretto, il cuore gli parlava e gli diceva che la sua fine era prossima...» «E perché non ne avete detto nulla?» domandò allora donna Ferdinanda. «Eccellenza...» «Io ne fui avvertito,» affermò il principe. «Ma a noi dicesti che non credevi ci fosse testamento...» «Avresti potuto farcelo sapere,» ribatté donna Ferdinanda. «Ma che!» riprese Lucrezia, dando un altro spintone a Benedetto, il quale le faceva qualche osservazione prudente all'orecchio. «È un testamento falso, si vede dalla freschezza della scrittura e anche dalla firma. Lo zio firmava "Blasco Placido Uzeda", col secondo nome preso in religione...» Garino allora credette di dover dire la sua: «Eccellenza, allora Vostra Eccellenza crede...» «Voi state zitto!» esclamò Lucrezia, sprezzantemente, superba di fare atto d'autorità dinanzi a tutta la parentela. «Vostra Eccellenza è la padrona...» continuava nondimeno il Sigaraio, con aria dignitosa, «ma non può offendere un galantuomo. Allora l'ho fatto io, il testamento falso?» E a un tratto la Sigaraia scoppiò in pianto: «Quest'affronto!... Maria Santissima!...» Il duca, il marchese, Benedetto intervennero tutti insieme: «Chi ha detto questo?... State zitta, in un momento simile... Silenzio, vi dico: che è questo modo?» «Tu accetti il testamento?» insisteva Lucrezia, rivolta al fratello. «Sicuro che l'accetto!» «Allora ce la vedremo in tribunale! Intanto chiamate l'autorità per mettere i suggelli...» E la Sigaraia che si strappava i capelli, di là, inginocchiata dinanzi al morto: «Parlate voi!... Ditelo voi se è vero!... Una simile ingiuria!... Dopo tant'anni che v'abbiamo servito!... Parlate voi dal Paradiso, con la bocca della verità!...» E la lite scoppiò, più feroce di tutte le precedenti. Donna Ferdinanda non scherzava, all'idea che le avevano tolto la sua parte della successione; ma Lucrezia era implacabile per la rivincita da prendere su Graziella che l'aveva trattata male e anche un po' perché sperava sull'eredità dello zio come un mezzo di mettere in piano l'amministrazione della propria casa: dacché la teneva lei, non c'erano quattrini che bastassero. Il marchese, bonaccione, voleva evitare lo scandalo; ma Chiara, per fare il contrario di ciò che egli voleva, si schierò contro Giacomo con la zia. A poco a poco tutto l'amor suo pel marito s'era rivolto al bastardo; e poiché Federico era sempre vergognoso della paternità clandestina e non voleva riconoscerla, l'odio antico per il marito che le avevano imposto s'era venuto ridestando in lei. La sua testa di Uzeda sterile aveva concepito e maturato un disegno: lasciare Federico, adottare il bastardello e portarselo via; avendo bisogno di quattrini, sperava nella sua parte dell'eredità di don Blasco. Ella, Lucrezia e donna Ferdinanda si nettavano quindi la bocca contro quel falsario di Giacomo, contro quel ladro che voleva la roba del monaco come aveva carpito le Ghiande alla felice memoria di Ferdinando: contro quello sbirro di Garino, anche, che aveva proposto ed eseguito il colpo, ché al tempo in cui esercitava l'onorato mestiere di spia s'era provato ad imitare le scritture dei galantuomini, per rovinarli dinanzi alla polizia. Ma il più bello che era? Che un ladro aveva rubato l'altro; giacché Garino, il quale doveva farsi lasciare dodici tarì al giorno, soltanto, aveva calcato la mano, mentre c'era, portando il legato a duecento onze l'anno! Né il principe poteva fiatare, perché altrimenti si sarebbe dato la zappa sui piedi!... Garino e la Sigaraia giuravano e spergiuravano che era tutta un'infamia inventata dalla parentela, la quale non aveva mai potuto andare d'accordo. A chi volevano dunque che la buon'anima lasciasse? Alla sorella ed ai fratelli, che aveva amato come il cane i gatti? L'erede naturale era il principe, il capo della casa! Quanto ad essi, niente di più naturale che la sant'anima si fosse disobbligata dei loro buoni servigi; anzi, per dire la verità, chi si sarebbe aspettata quella miseria di duecento onze, dopo quanto avevano fatto per lui?... O fatto o non fatto, donna Ferdinanda spedì la prima carta bollata in cui impugnava il testamento e domandava una perizia al tribunale. Il principe si strinse nelle spalle, ricevendola. Per lui, niente era più «doloroso» delle liti in famiglia; e a tutte le persone che incontrava esprimeva il suo profondo rammarico per la condotta della zia e delle sorelle. Ma che poteva farci? Poteva rinunziare all'eredità? Eran esse le ostinate, le prepotenti e le pazze!... In casa, però, egli era divenuto più irascibile di prima. Contegnoso in presenza di estranei, sfogava dinanzi alla moglie, ai figli ed ai servi la contrarietà e l'acredine. Teresa, veramente, non gli dava nessun appiglio, sempre docile e obbediente; la principessa anche lei chinava il capo al soffio della bufera; ma egli se la prendeva tutti i momenti col figliuolo, attribuendo all'apostasia politica di costui l'inasprimento di donna Ferdinanda. «S'è messo in urto con sua zia che gli voleva tanto bene, cotesto imbecille, cotesto buffone! Perderà l'eredità, per andare a dir buffonate al circolo e al quadrato! E mi fa piovere una lite sulle spalle! Io domando e dico se mi poteva capitare maggior disgrazia d'avere un figlio così bestia e birbante!...» Ma, oltre quella, egli aveva tante altre ragioni di cruccio. Più che mai infervorato nelle sue nuove idee, deciso colla cocciutaggine di famiglia a percorrere la strada prefissa, Consalvo spendeva adesso a libri un occhio del capo. Ne faceva venire ogni giorno, intorno ad ogni soggetto, dietro una semplice indicazione del libraio, senz'altro criterio fuorché quello della quantità, con la stessa smania di sfoggiare e di far le cose in grande che, prima, quando l'eleganza degli abiti era il suo unico pensiero, gli faceva comperare i bastoni a dozzine e le cravatte a casse. Era umanamente impossibile, non che studiare, ma neppur leggere tutta quella carta stampata che pioveva al palazzo, le opere in associazione, le voluminose enciclopedie, i dizionari universali; e ad ogni nuovo arrivo il principe montava peggio in bestia. «Vedi?...» rispondeva Consalvo a Teresa, quando la sorella andava a parlargli il linguaggio della pace e dell'amore. «Vedi? S'è proprio messo in capo di contrariarmi in tutto e per tutto. Che faccio di male? C'è cosa che più raccomandano, oggi: lo studio? il sapere? No: neppur questo!...» E quando il principe se la pigliava direttamente con lui, e gli rimproverava il dissidio con la zia e lo sciupio dei quattrini: «Io penso con la mia testa,» rispondeva freddamente il figlio. «Ciascuno è libero di pensarla come crede. Mia zia non può impormi le sue idee... e se spendo qualche cosa a libri, domando altro?...» Ogni domenica c'era un'altra lite per la messa. Consalvo si seccava di andare a sentirla, sorrideva d'un ambiguo sorriso allo zelo religioso del padre: costretto a confessarsi, recitava al vecchio Domenicano una filastrocca di bislacchi peccati. Punzecchiava anche la sorella pel fervore che ella metteva nelle devozioni; voltava le spalle alle tonache nere che bazzicavano per la casa. Il principe aveva fatto costruire, nel camposanto del Milo, un monumento di marmo e bronzo sulla sepoltura della prima moglie: negli anniversari della morte andava lassù con la principessa e Teresa, faceva dire molte messe pel riposo dell'anima della defunta, portava grandi corone di fiori sulla tomba. Consalvo non andava mai insieme con la famiglia: o un giorno prima, o un giorno dopo. Ad ogni pretesto addotto dal figlio, il principe lo guardava fisso; poi si lasciava condurre via dalla moglie, la quale lavorava a mettere pace, ad evitar liti. E adesso l'urto era più tra figlio e padre che tra figliastro e madrigna; Consalvo si piegava piuttosto ad una buona parola della principessa che alle ingiunzioni del principe. Un giorno annunziò che aveva preso un professore di tedesco e d'inglese. Il padre, dopo averlo guardato bene in viso, gli domandò: «Mi spiegherai una volta che diamine vuoi fare?» Consalvo, dopo averlo guardato anche lui: «Quel che mi pare,» rispose. A un tratto il principe diventò rosso come un gambero e, levatosi da sedere, quasi una molla lo avesse spinto, si precipitò contro il figliuolo, gridando: «Così rispondi, facchino?» Se la principessa e Teresa non si fossero slanciate a trattenerlo, e se Consalvo non fosse andato subito via, sarebbe finita male. Da quel momento la rottura fu totale. Per ordine del principe, il giovanotto non venne più a prender i pasti con la famiglia: cosa che, se dispiacque alla principessa e più alla sorella, fece a lui grandissimo piacere. Egli vide il padre un momento ogni giorno, per dargli il buon giorno o la buona sera; né costui lagnossi più del mutismo e della solitudine in cui si chiudeva il figliuolo, anzi evitò egli stesso d'incontrarlo. Prima del famoso viaggio, quando i vizi e i debiti del giovanotto procuravano al principe stravasi di bile, moti nervosi e vere malattie, un dubbio era sorto nella testa di quest'ultimo: suo figlio era forse iettatore? E il dubbio adesso facevasi strada, quantunque egli non osasse manifestarlo. Ma perché, dunque, tutte le volte che egli affrontava una discussione col figliuolo, gli veniva il mal di capo o gli si guastava lo stomaco? Perché, durante la lunga assenza di Consalvo, egli era stato benissimo? In un altro ordine d'idee, quella conversione politica che aveva acceso il furore di donna Ferdinanda e coonestata l'impugnazione del testamento, non era un'altra prova di malefico influsso? Rivangando nella propria memoria, il principe trovava altre ragioni di credere a quel funesto potere: una vendita andatagli male quando il figliuolo aveva detto: «Sarà difficile ottenere buoni prezzi»; una scossa di terremoto prodottasi dopo che il giovanotto aveva osservato: «L'Etna fuma!...» Pertanto egli era adesso contento di non averlo più vicino; se lo incontrava per le scale, o traversando le stanze, rispondeva con un cenno del capo al suo saluto e tirava via; se c'era una necessità qualunque di stargli da presso, in salotto, quando venivano visite, gli parlava il meno possibile, scappava appena poteva. L'unico mezzo di rimetter la pace in famiglia era che il giovane prendesse moglie e andasse a far casa da sé. Tanto e tanto, aveva ventitrè anni, e tra gli Uzeda gli eredi del principato s'ammogliavano presto. I lavapiatti, i pettegoli, i curiosi, tutti coloro che s'occupavano dei fatti dei Francalanza come se fossero i propri, aspettavano con impazienza il matrimonio di lui e di Teresa, discutevano i partiti possibili. Per Consalvo c'era l'imbarazzo della scelta: il barone Currera, il barone Requense, il marchese Corvitini, i Cùrcuma, tanti altri avevano figliuole straricche in età d'andare a marito; per Teresa la cosa era più difficile. Giovani a un tempo ricchi e nobili tanto da poterla sposare, non c'erano altri che i due figli della duchessa Radalì. La duchessa, sacrificati i suoi più begli anni per amor del primogenito, gelosa di lui, non gli aveva ancora dato moglie, non trovando buono nessun partito e se lo teneva cucito alle gonne, quasi potessero rubarglielo; invece lasciava libero Giovannino, perché al giovane non venisse voglia d'ammogliarsi. L'eredità dello zio lo aveva fatto ricco quanto il fratello maggiore, ma tra loro due c'erano differenze che andavano considerate. Michele non era di fisico molto vantaggioso, a ventisei anni aveva pochi capelli ed una corporatura troppo pingue; ma era il primogenito, possedeva tutti i titoli della casa; il secondo, che godeva solo di quello non trasmissibile di barone, era fra i giovani più graziosi ed eleganti. Quantunque andassero poco dagli Uzeda dacché c'era una ragazza da marito - anzi a causa di ciò - , le voci d'un possibile matrimonio trovavano credito; ma il principe, se gli domandavano che cosa ci fosse di vero, dichiarava che prima doveva ammogliarsi Consalvo, e la principessa si guastava addirittura. «Queste ciarle mi dispiacciono, non per niente, ma perché potrebbero venire all'orecchio di Teresina, e io sono molto gelosa: il mio sistema è che le ragazze non debbano saper certe cose né udire certi discorsi!...» Teresa pareva non udire né questi né altri discorsi, e sognare tuttodì ad occhi aperti. Divorava i pochi libri di versi e i romanzi che la principessa le consentiva di leggere, dipingeva quadretti dove si vedevano castelli merlati sorgenti in mezzo a laghi di cobalto, trovatori con la chitarra ad armacollo, o più spesso castellane inginocchiate ed oranti, Madonne col divino Figliuolo tra le braccia. Le composizioni austere e più le sacre erano le preferite dalla principessa; e la figliuola lasciava perciò da canto i soggetti futili. Questa costante remissione ai voleri altrui, questo senso di doverosa obbedienza erano sempre vivi in lei; più Consalvo dava motivi di cruccio in famiglia, più ella credeva suo obbligo di evitare ai parenti ogni più piccolo dispiacere. Le finzioni poetiche dei libri le accendevano la fantasia e le facevano battere il cuore, ma se la principessa giudicava troppo lungo il tempo da lei dedicato alle letture frivole, le smetteva addirittura. Spesso udiva lodare un romanzo, un dramma, un volume di versi, e si struggeva di leggerli, immaginando quanto dovevano esser belli, che piacere le avrebbero procurato; non ci pensava più se la madrigna le diceva: «No, Teresina, non sono per te.» Certe volte quei libri erano posseduti da Consalvo, il quale, benché s'occupasse solo di studi positivi, pure comprava anche la roba amena per far vedere che era a giorno di tutto; e allora sarebbe bastato a Teresa farsi prestare il volume dal fratello per leggerlo di nascosto; ma quest'idea non le passava neppure pel capo, per la stessa ragione che, in collegio, aveva rifiutato di leggere i libri che qualche sua compagna era riuscita a procurarsi, e non aveva dato ascolto ai discorsi proibiti delle amiche sventate. Il confessore, la direttrice le avevano detto che non bisognava neppur parlare di certe cose, ed ella se ne asteneva, rigorosamente. Come quando era bambina, l'idea delle lodi e del premio da ottenere, l'ambizione di vedersi additata come esempio alle altre, vincevano le tentazioni della curiosità, non le facevano sentire le privazioni che s'infliggeva. Adesso la conducevano spesso al teatro: d'estate alla commedia, d'inverno al melodramma; ed ella non sapeva veramente dire quale dei due spettacoli le piacesse di più. Ella stessa componeva di tanto in tanto un valzer, una mazurca, oppure notturni, sinfonie, fantasie senza parole che portavano per titolo: Vorrei!, Incanti, Storia mesta, Ognor..., e conoscenze, parenti, amici, tutti andavano in visibilio udendole; lo stesso maestro, un vecchietto scelto apposta dalla principessa per non mettere «l'esca accanto al fuoco», prodigava grandi lodi: don Cono, il vecchio lavapiatti, le dava del «Bellini in gonne» ed anzi una volta esclamò: «Opino che al concerto bellico convenga appararle onde eseguirle in pubblico!» Il concerto bellico era la musica militare, che godeva la fama d'essere una delle migliori d'Italia. Teresa si schermì; la principessa, tra il piacere di far conoscere a tutti il talento di «mia figlia» e la repulsione per la pubblicità, non sapeva risolversi; il principe, poiché non ne andavan quattrini di mezzo, era del tutto indifferente; ma don Cono, incaponito nella sua idea, venne un giorno a dire che aveva già parlato al capobanda. Il maestro venne al palazzo, in compagnia del lavapiatti; era un giovane così bello che pareva San Michele Arcangelo: bruno di capelli, biondo di baffi, roseo di carnagione. La principessa, appena lo vide, cominciò a torcere il muso e a far segni a don Cono per dirgli che non s'aspettava da lui quella parte: condurle in casa un tipo simile?... Intanto il maestro eseguiva al pianoforte le composizioni della signorina, con un colorito, un'espressione, un'anima da renderle irriconoscibili alla stessa autrice; e ad ogni pezzo le esprimeva una crescente ammirazione, e quando non ce ne furono più, disse che non sceglieva perché erano uno più bello dell'altro: non potendoli prender tutti, lasciava che la stessa «principessa» scegliesse. Teresa gli diede Storia mesta; ma quando, finito di cavar la partitura, una settimana dopo, il maestro si presentò al portone del palazzo, per far vedere il suo lavoro, il portiere disse che i padroni non ricevevano. «Condurmi in casa quel tipo? Non m'aspettavo un simile tiro da voi! Si vede bene che non avete figliuole!» aveva detto donna Graziella al vecchio lavapiatti, non riuscendo a darsi pace; ma ella esagerava, come in ogni cosa: la principessina di Francalanza poteva forse gettare gli occhi sopra un capobanda? Storia mesta fu eseguita una domenica, alla Marina, dalla musica del reggimento: il concerto era veramente uno dei migliori, e la composizione di Teresa parve un vero pezzo d'opera, con certi cantabili affidati ad un corno inglese dolce come una voce umana, e certi effetti d'organo da far credere alla gente d'essere a San Nicola, dinanzi allo strumento di Donato del Piano. Teresa, in carrozza chiusa, sotto i platani, stava a udire, col cuore che le batteva come se volesse schiantarsi, con un nodo di pianto alla gola e pallida in viso come una rosa bianca, e poi a un tratto di porpora quando, al finire del pezzo, s'udì uno scroscio d'applausi... La musica sua, quella degli altri, i drammi, la poesia l'inebbriavano, la rapivano, la sollevavano in alto, in cielo, nell'etere azzurro, dove ella non sentiva più il suo corpo, dove aspirava e beveva, anche tra le lacrime, la pura felicità. Ma niente delle commozioni ora dolci, ora ardenti, or tristi, or soavi, or disparate, ineffabili sempre, che gonfiavano il suo cuore di gioia o lo serravano dall'angoscia, era noto al mondo. Ella non si tradiva: mentre l'anima sua era più turbata, al pensiero dell'amore, nell'attesa dell'amore, dinanzi agli uomini, ai giovani belli come il cugino Giovannino Radalì; mentre la fantasia le rappresentava con maggior evidenza il proprio avvenire, piaceri e dolori, fortune e sciagure, ella rimaneva tranquilla e composta e serena. Non le costava farsi forza, disperdere quelle fantasie per attendere alle minute o ingrate bisogne reali. La conoscenza del maestro del reggimento, le sue lodi, l'esecuzione della musica avevano scatenato una tempesta in lei; ma quando il giovane, per divieto della principessa, non tornò più al palazzo, ella non pensò più a lui. Don Cono, incaponito nella sua idea, incoraggiato dal lieto successo, parlò un giorno all'assessore dei pubblici spettacoli, perché desse ordine al direttore della musica cittadina di concertare anche lui le composizioni della principessina. Questo assessore degli spettacoli era Giuliano Biancavilla, figliuolo di don Antonio e della Bivona, un giovanotto sulla trentina, bruno di carnagione e nero di capelli come un arabo, ma fine, elegante e con gli occhi dolcissimi. Appena udì la proposta di don Cono, diede immediatamente gli ordini opportuni, e la principessa acconsentì che la figliuola avesse tutte le conferenze occorrenti col maestro, che era sulla sessantina. Ma quando il diavolo ha da ficcarci la coda! Donna Graziella, con tutte le sue precauzioni, non poté impedire che il giovane assessore mettesse, da lontano, gli occhi addosso a Teresa! Al teatro la guardava fisso, senza lasciarla un istante; al passeggio, la sua carrozza seguiva sempre quella degli Uzeda; perfino in chiesa si faceva trovare sul loro passaggio. Appena accortasi di quella commedia, la principessa riferì ogni cosa al principe, il quale lasciò cadere tre sole parole: «È pazzo, poveretto.» E la lingua della moglie cominciò a lavorare. Un Biancavilla pretendere alla principessina di Francalanza? Forse perché una Uzeda aveva sposato un Giulente? Poveretto, credeva d'avere a fare con un'altra Lucrezia, quell'assessore!... Nobili, sissignori: i Biancavilla erano nobili, ricchi anche; ma la loro ricchezza e la loro nobiltà non li faceva eguali ai Viceré. «Guardate frattanto che ardimento e che petulanza! Far ciarlare la gente intorno alla mia figliuola!...» E con tutti i suoi discorsi, non s'accorgeva di diffondere più rapidamente la nuova. In breve non si parlò d'altro in città. «Gliela daranno?... Non gliela daranno?...» Ma tutti riconoscevano che Biancavilla aveva posto gli occhi troppo in alto. Baldassarre, specialmente, non sapeva darsi pace. Egli voleva naturalmente che la principessina sposasse uno fatto per lei, un barone, a dir poco, ricco da mantenerla come una Regina; e, pure aspettando che il principe facesse la sua scelta, in cuor suo aveva destinato alla padroncina il cugino don Giovannino. Questo frattanto era per lui certo: che la signorina non si sarebbe neppure accorta dell'esistenza di Biancavilla. Invece, alla lunga, gli sguardi del giovane avevano attirato quelli di lei quasi per virtù magnetica, e le facevano adesso affrettare e mancare tutt'in una volta il respiro. Anch'ella lo guardava, di tanto in tanto, senza vederlo bene, dal turbamento; ma tornava a casa felice e ridente quando lo aveva scorto anche da lontano, e si metteva a improvvisare al pianoforte, tremando da capo a piedi, come se egli potesse udire tutti i segreti pensieri d'amore confidati allo strumento, le divine speranze d'eterna felicità... In collegio, ella aveva composto talvolta qualche verso, per le feste delle maestre, per gli onomastici delle amiche: voleva adesso scriverne per lui, metterli in musica unicamente per lui...

Se fossi il pallido raggio di luna che a notte bruna ti posa in fronte; se fossi il zeffiro, la lieve brezza che t'accarezza...

Non riuscì ad andare più innanzi, ma si pose a comporre una romanza su quel tema, intitolato Se!... piangendo di dolcezza quando non la vedevano, mentre le note appassionate s'involavano dal pianoforte. In inverno, il barone Cùrcuma diede alcuni balli. Donna Graziella non aveva ancora condotto Teresa in società; prima di tutto perché non intendeva che i giovanotti avvicinassero sua «figlia», e poi anche perché non aveva giudicato nessuna casa degna d'esser frequentata dalla principessina. Quella dei Cùrcuma, veramente, poteva passare; e poi il principe volle che tutta la famiglia vi andasse. Ma il cuore le parlava, a donna Graziella: giusto la prima sera, chi ci trovò? Giuliano Biancavilla!... Se quel petulante avesse conosciuto un poco il mondo, sarebbe rimasto quieto al suo posto; invece pensò di farsi presentare e di ballare con la sua Teresa!... Costei tremava, nelle sue braccia; egli non le disse altro che qualche parola: «È stanca?... Grazie!...» ma pareva a lei d'essere in cielo, mentre la principessa stava sulle spine e faceva segni al marito per dargli segno del pericolo. Ma il principe era in istretto colloquio col padrone di casa; e a un tratto quel petulante si ripresentò per chiedere alla signorina una mazurca. Allora donna Graziella intervenne: «Scusate, cavaliere; mia figlia è stanca.» Con una gran stretta al cuore Teresa s'accorse dell'opposizione della madre. Infiammato per averla tenuta un momento fra le braccia, Biancavilla cominciò a seguirla per le vie, come l'ombra: la principessa gonfiava, smaniava, soffiava: una volta, sulla porta della chiesa dei Minoriti, passandogli innanzi, esclamò piano, ma in modo che i vicini potessero udirla: «Che seccatore!...» Teresa pianse a lungo, nascondendo le proprie lacrime, prevedendo che tutte le sue speranze si sarebbero infrante, se i suoi non volevano. Anche i Biancavilla sapevano che gli Uzeda non avrebbero mai consentito a quel matrimonio; ma il giovane, che era proprio cotto, insisteva giorno e notte presso la madre e il padre perché facessero la richiesta; tanto che un giorno Biancavilla padre prese il suo coraggio a due mani e andò a parlare col duca. Questi, con grande consumo di «molto onorati» e di «figuratevi con quanto piacere, per me!» gli rispose che ne avrebbe parlato al principe; Giacomo ripetè allo zio le stesse tre parole dette alla moglie, con una piccola variante: «Sono pazzi, poveretti!» Quindi il duca rispose a don Antonio, con molte belle parole, che non se ne poteva far niente, «perché il principe voleva prima accasare Consalvo». Non era un pretesto. Il principe aveva iniziato pratiche coi Cùrcuma ed era andato in casa loro per combinare il matrimonio della baronessina col figlio. Il partito era stato accettato a occhi chiusi, e l'assiduità di Consalvo ai balli del barone fu appresa come l'inizio della sua corte alla signorina. Ma egli non sapeva niente di quanto aveva ordito suo padre, e andava ora in società per parlare di politica e di filosofia. Tutto l'oro del mondo non lo avrebbe piegato a fare un giro di valzer: teneva cattedra nel cerchio degli uomini, e se avvicinava le signore o le signorine, le metteva a parte del bilancio comunale, del regolamento scolastico e del gettito dei dazi consumo, con molte citazioni statistiche e proverbi latini. Ripetuta di bocca in bocca, la notizia del suo matrimonio arrivò anche a lui; e allora egli scoppiò in una risata cordiale, dicendo, più laconico del padre: «Sono pazzi!» Prender moglie, sposare una bambola carica d'oro come quella baronessina, legarsi ancora più strettamente a quel paese dal quale voleva andar via, crearsi gli avvincenti doveri della famiglia, quando aveva bisogno d'essere libero come l'aria, di dedicare tutte le proprie energie al conseguimento dello scopo prefissosi? Matti, davvero! E la cosa gli parve sì buffa, che neppur volle smettere le visite al barone. Giusto in quel torno, perduta ogni speranza, Giuliano Biancavilla partì. Chi diceva che sarebbe andato a Roma, chi a Parigi, chi aggiungeva che non sarebbe mai più tornato a casa, senza riguardo al dolore dei suoi. Il duca, per incarico del principe che aveva paura di parlare direttamente col figliuolo, annunziò a Consalvo che era tempo di prender moglie e che tutta la famiglia era d'accordo per dargli la baronessina. «Benissimo, Eccellenza,» rispose il giovane. «C'è però una difficoltà.» «Cioè?» «Che io non la voglio!» «E perché non la vuoi?» «Perché no! Si tratta di me o di Vostra Eccellenza? Si tratta di me! Dunque tocca a me manifestare la mia volontà. Io non la voglio.» Quando il duca riferì al principe questa risposta, Giacomo era già fuori della grazia di Dio, per aver saputo che il perito, incaricato dal tribunale di esaminare il testamento del fu don Blasco, s'era pronunziato contro l'autenticità della scrittura. Udendo il decisivo rifiuto del figlio, egli scoppiò, gridando con voce rauca: «Ah, iettatore! Lo fa apposta! Per farmi crepare! Ma voglio far crepare lui, prima! Ditegli dunque che si scelga chi diavolo vuole: sposi, sposi la prima sgualdrina che gli piace, una di quelle ciarpe con le quali andava bagordando quando ancora non s'era fitto in capo di divenire letterato! Sposi chi gli piace e vada al diavolo, perché io non voglio più trovarmelo fra i piedi, cotesto iettatore!» «Eccellenza,» rispose il principino allo zio che gli riferiva la seconda ambasciata, «io non voglio sposare né la Cùrcuma, né nessun'altra. Sono ancora giovane e ci sarà sempre tempo di mettermi la catena al collo. La cosa certa è che per ora non bisogna parlarmi di matrimonio. Non sono una donna come la zia Chiara, che la nonna fece sposare per forza...» E la nuova tempesta si veniva addensando sordamente; i lampi guizzavano negli sguardi irosi del principe, i tuoni rumoreggiavano nella sua voce cupa. «Santo Dio d'amore!...» diceva la principessa a Teresa. «Che dispiacere, questa guerra; che scandalo! E chi sa come e quando finirà... Ma tu!... Tu no, non hai dato a nessuno il minimo motivo di dolore!... Benedetta!... Sempre santa così!..» Teresa si lasciava abbracciare e baciare dalla madrigna, assaporando la lode, dolendosi della guerra tra il padre e il fratello, votandosi alla Madonna affinché la facesse cessare. Che cosa poteva offrire alla Vergine, per ottenere tanta grazia? L'amor suo per Giuliano?... No, era troppo, era la cosa che più le stava a cuore... Ella non vedeva più il giovane, non aveva notizia della richiesta e del rifiuto; sapeva nondimeno che i suoi non vedevano bene quel partito; ma la speranza era in lei viva ancora: un giorno o l'altro il padre e la madrigna avrebbero potuto ricredersi, consentire alla sua felicità... Un giorno, invece, scoppiò la tempesta fra il padre e il fratello. Questi aveva ordinato, di suo capo, senza dirne niente a nessuno, quattro grandi scaffali per disporvi i suoi libri; quando il principe vide arrivare quei mobili, fece chiamare Consalvo e gli domandò concitato: «Chi t'ha permesso d'ordinar nulla, in casa mia?» Il giovane rispose con la studiata freddezza che faceva imbestialire suo padre: «Avevo bisogno di questi mobili.» «Qui comando io, t'ho detto molte volte,» ribatté l'altro, facendo sforzi violenti per contenersi. «Non s'ha da piantare un chiodo senza mio permesso! Se vuoi far da padrone, vattene via! Nessuno ti trattiene!... Prendi moglie e rompiti il collo.» «Ho già detto,» rispose Consalvo più freddo che mai, «ho già detto allo zio che non voglio ammogliarmi...» «Ah, non vuoi?... Non vuoi?... Ed io ti butterò via a pedate, bestione, facchino, animale!...» «Tanto meglio,» soggiunse il principino freddo come la neve. «Mi farete piacere...» A un tratto il principe impallidì come se stesse per svenire, poi diventò paonazzo come per un colpo apoplettico, e finalmente proruppe, abbaiando come un cane: «Fuori di qui!... Fuori di casa mia!... Ora, all'istante, cacciatelo fuori!...» Accorsero, pallidi ed impauriti, la principessa, Teresa e Baldassarre: con la bava alla bocca, il principe fu trascinato via dalla moglie e dal servo. Teresa, giunte le mani tremanti dinanzi al fratello, esclamò con voce d'angosciosa rampogna: «Consalvo!... Consalvo!... Come puoi fare così?» «Tu lo difendi?» rispose il giovane, sempre calmo, ma con voce un po' stridula. «Difendilo, difendili, gli assassini di nostra madre.» «Ah!» Ella nascose la faccia tra le mani. Quando si guardò intorno, era sola. Un andirivieni di servi, per la casa: chiamavano un dottore, applicavano vesciche di ghiaccio alla fronte del principe. Ella andò a cadere dinanzi all'immagine di Maria Santissima. Un rimorso, dopo la scena disgustosa, dopo le terribili parole del fratello, le serrava il cuore, per non aver voluto offrire in olocausto l'amor suo, le sue speranze di gioia, pur di evitare la lite violenta e la tremenda accusa. Ella chiedeva perdono alla Vergine di tanto egoismo, le chiedeva conforto ed aiuto, tremante di paura, malferma come se il suolo oscillasse sotto le sue ginocchia. Ed era ancora in ginocchio, quando fu sorpresa dalla principessa che la chiamava al capezzale del padre. «Figlia mia! Figlia mia!... Che cuore di figlia!... Sì, prega la Madonna Santa che torni la pace: Ella sola oramai può fare questo miracolo... Tuo padre non vuole più vederlo, non lo vuole più in casa; ed egli non cede!... Tu no! Tu no!...» E tra i baci e le lacrime, le parlò di qualcuno, di lui, dandole la notizia che era partito: «Era il meglio che potesse fare. Tu forse lo guardavi con simpatia: non te ne incolpo: siamo tutte state ragazze e so come vanno queste cose. Ma non avresti potuto esser felice con lui, e tuo padre, il cui unico scopo è la tua felicità, non voleva... Non ti avrei parlato di tutto ciò senza i dolori che soffriamo, e se non sapessi che tu sei tanto buona, tanto giudiziosa da comprendere che tuo padre non può voler altro che il tuo bene. È vero, figlia mia?...» La prima volta, dopo quella scena, che il principe udì nominare il figliuolo, gridò: «Non parlate più di cotesto iettatore! Non lo nominate più! O mando via tutti...» La rottura fu definitiva. Il duca, messo a giorno dell'accaduto, venne a prendersi Consalvo e lo condusse per alcune settimane in campagna. Di ritorno, fu deciso che il principino sarebbe andato ad abitare la casa che il padre possedeva alla Marina. Il giovane non chiedeva di meglio. Arredò il quartiere a modo suo, e passò a starci contento come una pasqua. Faceva adesso da padrone, non andava più alla messa, riceveva chi voleva, invitava a casa sua i pezzi grossi del circolo, ai quali mostrava due stanzoni tutti pieni di carta stampata. I vantaggi erano infiniti. Al palazzo, non aveva ancora potuto significar bene i suoi sentimenti liberali, mettendo fuori lumi e bandiere per le feste patriottiche; qui il 14 marzo e il giorno dello Statuto inalberava un bandierone grande quanto una tenda, e disponeva ai balconi una fila di lampioncini che splendevano malinconicamente nelle tenebre del quartiere deserto. Poi, restava nel suo studio quanto voleva, e prendeva i suoi pasti nelle ore più stravaganti. Studiava l'Enciclopedia popolare, ne mandava a memoria gli articoli riguardanti le quistioni del giorno, e poi sbalordiva l'assemblea con la propria erudizione, dicendo: «Su questa materia hanno scritto Tizio, Caio, Sempronio, Martino, etc., etc.» Come un tempo aveva gettato sulla folla il suo tiro a quattro, così la schiacciava con tutto il peso della sua dottrina, e la gente che si tirava da canto, un tempo, per non restar sotto i suoi cavalli, esclamando tuttavia: «Che bell'equipaggio!» adesso lo stava a udire, intronata della sua loquela, dicendo: «Quante cose sa!» La nativa spagnolesca albagia della razza ignorante e prepotente, e la necessità d'adattarsi ai tempi democratici si contemperavano così in lui, a sua insaputa. Pur di arrivare all'intento, niente lo arrestava, le imprese più ardue non lo sgomentavano; leggeva i libri più grevi come se fossero romanzi; come un romanzo avrebbe letto un trattato di calcolo sublime. Cavava da quello studio il mediocre profitto che era solo possibile: acquistava una infarinatura di tutto, immagazzinava cognizioni disparate, idee contraddittorie, una scienza farraginosa e indigesta. Ma, in mezzo alla massa ignorante della nobiltà paesana, si guadagnava la riputazione di «istruito», e quando la gente minuta udiva nominare il principino di Mirabella, tutti dicevano: «Quello che ora fa il letterato?» Una bella mattina, tra le stampe che la posta gli portava a cataste, ricevette da Palermo il primo fascicolo dell'Araldo sicolo, opera istorico-nobiliare del cavaliere don Eugenio Uzeda di Francalanza e Mirabella. Come lui, tutti i parenti, i sottoscrittori, i circoli ne ebbero un esemplare. L'opera storico-nobiliare cominciava con Brevi cenni amplificati sulle dinastie che avevano regnato nell'isola: Real Casa Normanna, Real Casa Sveva, Real Casa d'Angiò e così via discorrendo fino alla Real Casa Sabauda: ché il cavaliere aveva riconosciuto la nuova monarchia per vender copie del libro alle biblioteche dello Stato. I brevi appunti amplificati fecero ridere Consalvo, la Real Casa Sabauda fece imbestialire donna Ferdinanda, benché del resto la vecchia adesso fosse in un immutabile stato di furore per via della lite ancora indecisa. Ma la sua collera contro la famiglia del principe s'accrebbe naturalmente, poiché la stampa di quelle «porcherie» era stata possibile per l'anticipazione fatta dal principe a don Eugenio!... Dopo aver promesso duemila lire, il principe però non ne aveva date più di cinquecento, per le quali lo zio aveva dovuto rilasciargli una cambiale con la data in bianco; ma, dopo la morte di don Blasco, i rapporti finanziari tra zio e nipote avevano preso una piega pericolosa. Don Eugenio, dapprima con le buone, poi con le minacce, scriveva al nipote chiedendo altri quattrini, perché, in caso contrario, egli avrebbe fatto lega con Ferdinanda per impugnare il testamento del fratello; il principe, da canto suo, con la cambiale in mano, pretendeva tenere in riga lo zio. Avviata la stampa dell'opera, il cavaliere piovve un giorno da Palermo: era più sordido di prima, aveva l'aria più affamata che mai. Dopo una lunga serie di trattative, il principe sborsò altre duemila lire, mediante le quali don Eugenio rinunziò con apposito atto a tutto quel che avrebbe potuto eventualmente toccargli nella spartizione dell'eredità del monaco, e riconobbe il nipote proprietario di mille esemplari dell'opera. Il principe aveva capito che l'impresa di quella pubblicazione non era poi l'affare sballato che tutti credevano. I fascicoli successivi, dove s'iniziava la storia delle singole famiglie, andavano a ruba. Don Eugenio, in verità, si restringeva a trascrivere il Mugnòs e il Villabianca, infiorandoli di locuzioni di sua particolare fattura; ma, da una parte, quei libri erano introvabili, o costavano caro e si prestavano poco alla lettura, coi loro vecchi tipi, con la loro carta secca, gialla e polverosa, mentre l'edizione di don Eugenio era veramente bella, e i fascicoli degli stemmi colorati fiammeggiavano dal tanto minio e dal tanto oro; da un altro canto, poi, il compilatore usava l'innocente artifizio di sopprimere le indicazioni troppo precise, talché tre, quattro, cinque famiglie che portavano per caso lo stesso nome senza nessuna relazione di parentado potevano credere che la storia della sola autenticamente nobile fosse anche la propria. A Palermo, a Messina, in tutta la Sicilia, egli trovava così una quantità di «gentilesche genti» e quindi di associati. Certuni volevano dire che prendesse altri quattrini per aggiungere qua e là: «Una branca di cotanto blasonata famiglia fiorisce tuttosì nella vetusta città di Caropepe...» Donna Ferdinanda, pertanto, diventava paonazza dall'indignazione; e anche Consalvo nutriva un profondo disprezzo per quel parente che non solo prostituiva in tal modo se stesso, ma discreditava tutta la casata. Il principino però, al contrario della zia, teneva per sé i propri sentimenti, e manifestava solo quelli che gli giovavano. Sentiva di dover fare in politica come aveva visto fare a suo padre, in casa, quando si teneva bene con tutti e assecondava le pazzie di tutti quanti, salvo a dare un calcio a chi non poteva più nuocergli. Adesso adoperava anch'egli quel metodo, piaggiando tutti i partiti. Quello dello zio duca aveva sempre il mestolo in mano. Veramente nei quattro anni passati dallo scioglimento della questione romana, il favor popolare aveva a poco a poco ricominciato ad abbandonare il deputato, poiché questi, dimentico del pericolo corso, persuaso d'aver consolidato stabilmente la propria posizione, non temendo più sommosse e rivolgimenti, aveva ripreso a mostrarsi partigiano, a badare agli affari propri e degli amici piuttosto che a quelli del paese, a trattare il collegio come un feudo; ma, se la gente spicciola incominciava a mormorare, i pezzi grossi, invece, i capi della camarilla si lasciavano ammazzare per l'onorevole, non giuravano per altro che per lui, per i suoi sani princìpi di moderazione: nel novembre di quell'anno Settantaquattro, egli fu rieletto, senza dimostrazioni, ma senza opposizioni: alla unanimità. Così Consalvo dinanzi allo zio ed ai suoi amici celebrava la saldezza della loro fede, l'eccellenza del principio conservatore «da cui dipende la salute dell'Italia»; ma, trovandosi dinanzi a qualcuno degli avversari, affermava la necessità del progresso, la convenienza che anche la sinistra facesse la prova del governo, perché «come dice il celebre Tal dei Tali, i partiti debbono alternarsi al potere». E se gli stavano di fronte due che la pensavano in modo contrario, taceva o dava ragione ad entrambi e torto a nessuno. Tranne che nel grande principio aristocratico, nel profondo sentimento di sprezzo verso la ciurmaglia, nella ferma opinione d'esser fatto veramente d'un'altra pasta, nell'ardente bisogno di comandare al gregge umano come avevano comandato i suoi maggiori, egli era disposto a concedere tutto. Non aveva neppure scrupolo di sostenere a parole il contrario di quel che pensava, se era necessario nascondere il proprio pensiero ed esprimerne un altro. Le parole «repubblica» e «rivoluzione» gli facevano passare brividi di paura per la schiena; ma, per secondare la corrente democratica, per farsi perdonare la sua nascita, s'ingraziava il partito estremo. Al Circolo Nazionale buona parte dei soci, pure accettando le istituzioni, onoravano, sopra tutti gli uomini del Risorgimento, Mazzini e Garibaldi; altre società, specialmente le popolari, festeggiavano il 19 marzo, giorno di San Giuseppe, in loro onore; egli ripeté l'esposizione del bandierone e dei lumi anche in quell'occasione, cercò apposta i più noti repubblicani per dir loro: «Io non capisco l'esclusivismo di certuni: senza Mazzini il fuoco sacro si sarebbe spento; e senza Garibaldi, chi sa, Francesco II sarebbe ancora a Napoli.» Né credeva alla sincerità della fede altrui. Monarchia o repubblica, religione o ateismo, tutto era per lui quistione di tornaconto materiale o morale, immediato o avvenire. Al Noviziato aveva avuto l'esempio della sfrenata licenza dei monaci che avevano fatto voto dinanzi al loro Dio di rinunziare a tutto; in casa, nel mondo, aveva visto che ciascuno tirava a fare il proprio comodo sopra ogni cosa. Non c'era dunque nient'altro fuorché l'interesse individuale; per soddisfare il suo amor proprio egli era disposto a giovarsi di tutto. Del resto, il sentimento ereditario della propria superiorità non gli permetteva di riconoscere il male di questo scettico egoismo: gli Uzeda potevano fare ciò che loro piaceva. Il conte Raimondo aveva distrutto due famiglie; il duca d'Oragua s'era arricchito a spese del pubblico, il principe Giacomo spogliando i propri parenti; le donne avevano fatto stravaganze che confinavano con la pazzia: se egli dunque s'accorgeva talvolta d'essere in fallo, secondo la morale dei più, pensava che in fin dei conti faceva meno male di tutti costoro.

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.47.33