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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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I VICERÉ

di Federico de Roberto

Parte prima

8.

In piedi, con le braccia levate, rosso come un pomodoro, don Blasco pareva volesse mangiarsi vivi i suoi contraddittori: «E questo si chiama vincere, ah? Con l'aiuto dei più grossi, ah? Perché hanno chiamato aiuto, allora? Perché non si sono battuti da soli, se gli bastava l'animo? E questa la chiamate vittoria? In due contro uno?» «Nossignore!» protestò Padre Rocca. «Erano ventimila di meno...» «Centosessantamila austriaci contro centoquarantamila alleati,» soggiunse Padre Dilenna. «E i piemontesi si sono battuti da soli!...» affermò Padre Grazzeri. «Come? Dove? Quando?» urlò don Blasco. «Che cosa m'andate battendo?...» «Leggete i giornali, se non sapete!» fecero gli altri, a coro. Allora egli impallidì come per un'ingiuria mortale. «Leggere i giornali?... Leggere i vostri giornali?» Balbettava, pareva cercasse le parole. «Ma dei vostri giornali io mi netto il fondamento!... Ah, no? non volete capire?... Me ne netto il fondamento, così...» e fece il gesto. Il fratello portinaio mise il capo dietro il muro della scala; dalla terrazza affacciossi Padre Pedantoni per guardare giù nel portico dove s'accendeva la lite. «Questo non si chiama rispondere!... A voi, dunque, chi dà le notizie?... Avete un servizio d'informazioni particolare, se non leggete i giornali?» «Così!...» continuava a gestire don Blasco, fuori della grazia di Dio. «A me parlate della vostra carta sporca? A me che vi farei legare tutti quanti, voi e chi l'introduce qui dentro?» «Andate a denunziarci!... Ne sarete capace!...» «Farei il mio dovere!» «Fareste la spia!» «A me?...» Padre Massei, che se la godeva seduto sopra un sedile, esclamò a un tratto, vedendo il gesto con cui don Blasco sfibbiava la sua cintola di cuoio: «Sst!... Sst!... Viene l'Abate...» ma don Blasco tonò. «Me n'infondo dell'Abate, del Priore e del Capitolo! Avanti, chi si sente da più! A me spia, manetta di carognuoli?...» Vedendo che diceva sul serio, Padre Dilenna gli si fece incontro, rabbuiato in viso. Allora Pedantoni fu costretto a mettersi in mezzo, per dividerli: «Andiamo, smettetela. È questo il modo?...» Da un pezzo le discussioni finivano così, con le grida, gli insulti e le minacce. Don Blasco era diventato un energumeno dopo che i liberali rizzavano la cresta per via degli avvenimenti di Lombardia, della cacciata del Granduca da Firenze, dell'agitazione che propagavasi per tutta l'Italia. «Questa volta è per davvero! Son sonate le ventiquattro!...» dicevano, ed egli prima si scagliava contro Napoleone III, contro quel «figlio di non so chi» al quale non bastava la propria tigna e veniva a grattare quella degli altri: poi tonava che Francesco II li avrebbe costretti ad arar dritto: «Perché è ragazzo? Perché non c'è più suo padre?... Vi farà legare dal primo all'ultimo! La vedremo!...» Ma il suo più grande furore scoppiava quando i liberali, dopo aver profetato imminenti novità in Sicilia, dopo aver parlato di moti rivoluzionari già belli e pronti, gli adducevano in prova il ritorno di suo fratello, del duca di Oragua, da Palermo. «Quello lì in galera, legato mani e piedi; quell'imbecille, pazzo, brigante e traditore!...» Poi, ridendo di se stesso, lo vituperava altrimenti: «Lui, pericoloso? Quel pezzo di coniglio? Lui congiurare? È tornato per la squacquerella che ha addosso!... Palermo è buona per bagordarvi, ma in tempo di trambusti è meglio il proprio paese, tapparsi in casa propria, ficcarsi dentro un forno!... Se tutti i sanculotti sono come lui, Francesco regnerà altri cent'anni.» Egli ripeteva quei discorsi fuori del convento, dinanzi agli estranei; dalla Sigaraia specialmente, dove andava tutti i giorni, uscendo dal refettorio. Donna Lucia, all'ora canonica, serrava la bottega e si metteva alla finestra per vederlo uscire dal portone del convento e infilare quello del palazzotto; allora gli andava incontro, fino a mezza scala, con le figlie e il marito. Le ragazze, che adesso avevano da dieci a dodici anni, erano tal e quale don Blasco: grasse e grosse come mezze botti; e gli baciavano la mano e gli davano del Vostra Eccellenza al pari di Garino, che si sbracciava per servirlo, per avanzargli la poltrona più comoda ed offrirgli i biscotti e il rosolio regalati dal monaco a spese di San Nicola. Quella era la visita pubblica che don Blasco faceva all'amica, perché poi ce n'era una seconda, quando Garino portava a spasso le ragazze, e i due restavano soli. Certe volte ce n'era una terza, nella tabaccheria. Oltre che il tabaccaio, Garino faceva il caffettiere e teneva due tavolini con sei chicchere per ciascuno, ad uso degli avventori, i quali erano la più parte spie e sbirri e sorci di polizia, giacché egli esercitava una terza professione, quella dell'orecchiante. Così, in mezzo a quel pubblico di fedeli, don Blasco si nettava la bocca contro i sanculotti in generale e il fratello in particolare, e apprendeva notizie di prima mano intorno ai movimenti dei traditori. Veramente, Garino protestava un gran rispetto pel duca d'Oragua, zio del principe di Francalanza, appartenente ad una delle prime famiglie del Regno; e a sentire i vituperi di don Blasco scrollava un poco il capo; ma, voltando pagina, Sua Paternità aveva poi tutti i torti? Il duca faceva male a frequentar troppo don Lorenzo Giulente, il quale era un liberale arrabbiato - naturalmente, non essendo signore! - e per mezzo del console inglese - la polizia sapeva ogni cosa! - faceva venire giornali, proclami e altra roba proibita; a don Lorenzo, anzi, avean fatto una visita domiciliare; ma dal duca non andavano, pel rispetto dovuto alla famiglia Uzeda... Questo appunto don Blasco non poteva soffrire: che egli godesse dell'immunità, che si parlasse di lui come d'un capo rivoluzionario senza che corresse rischi di sorta; voleva che lo trattassero come gli altri, che lo legassero più stretto degli altri. «Sono tutti cani arrabbiati! ci vuole il bastone! Ci vuole la museruola!» Garino scrollava il capo: l'Intendente Fitalia non avrebbe potuto permettere che si molestasse il duca d'Oragua, finché, beninteso, egli non si arrischiava troppo; ma questo era certo e sicuro: che un gran signore come lui aveva tutto da perdere e niente da guadagnare mettendosi coi «malpensanti» e gli arruffapopolo: il signor Intendente gliel'aveva detto a faccia a faccia!... Allora, udendo che suo fratello andava dal rappresentante del governo, don Blasco sfogava a un altro modo: «Volpone! Camaleonte! Giubba rivolta!... Come possono fidarsene? È del partito di chi vince! Li giuoca tutti! Tradirebbe suo padre che lo creò!...» E andando via dalla Sigaraia ripeteva quei discorsi in pubblico, nella farmacia di Timpa, che era il quartier generale dei fedeli, mentre in quella di Cardarella si davan convegno i rivoluzionari. Se qualcuno, scandalizzato dalla violenza del monaco, gli faceva osservare che non stava bene parlare in tal modo, agli estranei, del proprio fratello: «Fratello?» protestava egli. «Io non ho fratelli! Non ho parenti! Non ho nessuno: com'ho da cantarvelo?...» Si dava al diavolo, perché niente andava a modo suo, al palazzo. L'anno innanzi, al momento della scadenza del termine stabilito dalla principessa pel pagamento alle figlie, Chiara e Lucrezia non erano andate d'accordo; il marchese, biasimando l'amore della ragazza per Giulente, s'era riavvicinato al principe, il quale gli aveva fatto la corte, trattandolo con le molle d'oro, per propiziarselo. Ferdinando, intento a mettere insieme un museo di storia naturale alle Ghiande, non si era neppure informato di quel che avveniva; così, non solamente i legatari non avevano chiesto i conti, ma il principe, adducendo la mancanza di quattrini, aveva ottenuto dal marchese di poter ritardare il pagamento fino all'altr'anno. La scadenza era arrivata, e Giacomo non pagava ancora, scusandosi con le inquietudini pubbliche, col ristagno degli affari, con la scarsità del raccolto e l'impossibilità di venderlo. E don Blasco non si dava pace udendo che i nipoti, dimenticate le loro ragioni, accettavano perfino i continui ritardi, i pretesti furbeschi del principe. Quelle bestie di Federico e di sua moglie, specialmente, non davano più retta a nessuno, al settimo cielo per la speranza d'un figliuolo - come se dalla pancia di Chiara dovesse venir fuori il Messia! - e quel babbeo di Ferdinando riduceva il giardino un pestilente carnaio, preso a un tratto dalla smania d'imbalsamare animali - senza accorgersi che il più animale di tutti era lui stesso! Quell'altra sciagurata di Lucrezia, poi, viveva nelle nuvole, più stravagante di prima, e impallidiva quando nominavasi Giulente, lo sbarbatello petulante che anche lui discorreva di costituzione e di libertà! Finalmente c'era la quistione impegnata tra Raimondo, che non voleva muoversi, e sua moglie che voleva andar via: in odio all'intrusa don Blasco si schierava a favore del nipote aborrito. «Partire? Per andare dove? A Firenze c'è il terremoto! Questi non sono tempi da lasciare il proprio paese!» Raimondo adduceva la stessa ragione, e gli altri la ripetevano: Matilde sentiva ordirsi intorno un'altra congiura sempre più stretta; doveva adesso contentarsi di andare e venire da Milazzo ogni mese per veder le bambine, non potendo più reggere ai mali tratti che usavano loro quei parenti. Suo padre non l'aveva più con Raimondo, girava per la Sicilia col pretesto degli affari, ma per lavorare invece contro il governo: e don Blasco e donna Ferdinanda si divertivano a predire che un giorno o l'altro l'avrebbero buttato in galera, poiché quella predizione faceva piangere l'intrusa. Il duca, invece, parlava molto bene del barone, s'intratteneva a lungo con lui quando passava da Catania: adesso esaltava il genio di Cavour, i trionfi della sua politica; se gli rimproveravano le antiche critiche alla spedizione di Crimea, negava d'averne mai fatte; e giudicava che la via per la quale s'era posto Francesco II fosse sbagliata: l'alleanza bisognava farla col Piemonte, non con l'Austria, e concedere la costituzione, non inquietare i patriotti, perché Napoleone aveva parlato chiaro: l'Italia doveva esser libera dall'Alpi all'Adriatico... A don Blasco veniva di vomitare, udendo queste cose, e s'arrovellava, non potendo prendersela direttamente col fratello maggiore; ma il giorno che arrivò la notizia della pace di Villafranca, per poco non gli prese un accidente, dall'esultanza. Lungo i corridoi di San Nicola, dinanzi ai monaci dell'altro partito che tenevano, mogi mogi, la coda fra le gambe, vociava, trionfante: «Ah, il gran Cavour? Ah, il gran Piemonte? Dove sono adesso? Perché non continuano la guerra da soli? Dov'è andato l'Adriatico? Dov'è andato il Mar Tirreno? E quella bestia che sputava sentenza, empiendosi la bocca di NABBOLEONE! Napoleone aveva confidato proprio a lui quel che voleva fare! Credevano d'esserselo posto in tasca, Napoleone!...» «O non l'avevate con lui perché non si grattava la sua tigna?» «Come? Quando? So molto io!... La baldoria è finita!... Ma che Re, Francesco II? Ma che Re? Degno figlio di suo padre!...» Se avessero fatto lui Re, non avrebbe messo più boria, non avrebbe guardato la gente da tant'alto. E si sgolava anche al palazzo, vedendo che il fratello scrollava il capo, udendogli sentenziare che l'ultima parola non era detta. «Che ultima e che prima! Il gran CAVURRE ha fatto fagotto! I principi legittimi tornano tutti quanti! L'avete schiacciata male, non volete capirlo?» Ogni giorno s'informava se il duca aveva ordinato i preparativi della partenza: quel fratello gli pesava come un sasso sullo stomaco, non vedeva l'ora che se ne tornasse a Palermo, quasi in città non potesse regnar pace se colui non se n'andava. Al convento, insultava quelli che osavano ancora contraddirgli, le discussioni minacciavano di finir male; lo stesso Abate aveva dovuto pregare i Padri Dilenna e Rocca di lasciarlo dire per evitare un guaio. Il Priore, invece, non s'occupava di tutte queste cose: nessuno sapeva in qual modo egli la pensasse. Se gli parlavano di politica, stava a udire, scrollava il capo, rispondeva: «Non sono affari che mi riguardano... Date a Cesare quel che è di Cesare...» Al Noviziato la lotta fra i due partiti s'era attizzata; il principino, a cui don Blasco dava l'imbeccata, prendeva anche lui l'aria di un trionfatore, dileggiava Giovannino Radalì, capo dei rivoluzionari, dandogli del «barone senza baronia» e del «figlio del pazzo». Il duca Radalì, infatti, era morto in un accesso di delirio furioso; la duchessa vedova aveva quindi stabilito che Giovannino, come secondogenito, pronunziasse i voti. E questo era un altro argomento col quale Consalvo schiacciava il cugino: «Io andrò via, e tu resterai sempre qui!...» Giovannino, che nonostante le diverse idee politiche gli voleva bene, sopportava un poco i suoi dileggi; ma, a volte, infuriava in malo modo: il sangue gli montava alla testa, gli occhi gli s'accendevano; scagliatosi sul cugino, se lo metteva sotto, malmenandolo, finché fra' Carmelo accorreva, con le mani in testa: «Per l'amor di Dio!... Che modo è questo?... Non potete star cheti? Pensate a divertirvi!» Composte le liti, i ragazzi si divertivano, infatti. I due cugini morivano dalla voglia di fumare; Giovannino aveva ottenuto da fra' Cola, in gran segreto, poca semente di tabacco, e l'aveva piantata in un angolo del giardino; cresceva rigogliosa, e presto ne avrebbe fatto sigari. Frattanto giocavano da mattina a sera, con pochi momenti di studio svogliato, con qualche ora di funzioni religiose. Per la festa di Sant'Agata, in agosto, andarono a spasso tutti i giorni, assistettero alla processione del carro, all'oratorio cantato in piazza degli Studi, e con più piacere alle corse dei barberi, che Raimondo chiamava barbarie. Le facevano lungo la via del Corso, tra due siepi vive di curiosi, sui quali spesso i cavalli si gettavano, sparando calci ed ammaccando costole. I cavalli vincitori ripercorrevano poi la via al passo guidati dai palafrenieri che lanciavano tratto tratto un grido ai balconi:

Affacciatevi, principi e baroni, Che sta passando il re degli animali!

E la folla: «Olé...» Consalvo stava attento al cerimoniale spagnolesco di quelle feste: il Senato della città, nella berlina di gala grande quanto una casa, preceduta da mazzieri e gonfalonieri e catapani che sonavano i tamburi, andava a prendere l'Intendente, il quale doveva farsi trovare sul portone: al senatore più giovane toccava mettere il piede sulla predella, in atto di scendere; ma allora il rappresentante del governo doveva avanzarsi con le braccia distese, per impedirgli di toccar terra. Erano le prerogative della città. Il Senato aveva avuto lunghe contese con le altre autorità circa il posto da occupare nella cattedrale, durante le grandi funzioni: per evitare liti ulteriori, s'era tracciata per terra una riga di marmo che nessuno poteva varcare. Finita la festa di Sant'Agata, a San Nicola novizi e fratelli prepararono quella del Santo Chiodo, per cui ogni anno c'era grande aspettativa.

Il Re Martino, che la portava sempre al collo, aveva regalato quella reliquia ai monaci, nel 1393: era uno dei chiodi con un pezzetto del legno della croce sulla quale avevano suppliziato Gesù. Il 14 settembre la spera d'oro tutta gemmata dove serbavasi la sacra spoglia fu esposta all'adorazione dei fedeli, mentre l'Abate, circondato da tutti i Padri con la cocolla, celebrava, accompagnato dal grand'organo, il pontificale. Ma la vera festa fu quella della sera, quando la vasta piazza di San Nicola parve trasformata in un salone, dalle tante faci accese per ogni dove, dalle tante seggiole disposte per le signore che arrivavano in carrozza dalla Trinità e dai Crociferi, e venivano ad assistere alla processione. Questa usciva, a suon di banda e di campane, tra due file di soldati, dalla porta maestra della chiesa che pareva tutta una fiamma: l'Abate reggeva la spera, seguito da un lungo corteo che rientrava dopo compìto il giro della piazza: allora cominciavano i giuochi di fuoco, i razzi, le ruote, le fontane luminose, la gran macchina finale che mutava quattro volte di disegno e di colori e finiva col crepitare assordante d'un fuoco di fila mentre centinaia di serpenti luminosi si snodavano nell'aria scura... Il principino, accanto ai suoi parenti, non aveva tempo di dar retta a tutti, facendo gli onori di casa, giacché nella piazza e in tutto il quartiere la gente era ospite dei Benedettini. Tutta la città s'era riversata lassù: le signore con gli abiti estivi che portavano l'ultima volta, segnando quella solennità la fine della stagione. Donna Mara Fersa, con la nuora e i parenti di costei venuti da Palermo, stavano dalla parte opposta degli Uzeda; don Mario era in campagna. Adesso appena si salutavano, per l'occhio del mondo; a donna Isabella era stato proibito di andare più in casa di donna Ferdinanda o di altri parenti del conte; la gente, a poco a poco, aveva finito di chiacchierare su quel soggetto. Lo stesso Raimondo pareva essersi rassegnato; non lo vedevano più correre dietro alla signora, né costei litigava più con la suocera, né s'atteggiava a vittima come un tempo. Quella sera aveva un abito veramente sfarzoso, e tante gioie addosso, che tutti gli occhi si volgevano su lei. Quando la folla cominciò a diradarsi, Padre Gerbini, sempre galante, l'accompagnò alla carrozza; e come, giusto per combinazione, il cocchiere dei Fersa e quello del principe Francalanza avevano messo accanto i loro legni, Raimondo e il principe, nell'andar via, fecero una scappellata alle signore, alla quale risposero solo donna Isabella e lo zio palermitano. Ora, il domani di quella festa, una notizia straordinaria, sbalorditiva, incredibile, corse di bocca in bocca per la città: donna Mara Fersa aveva cacciato di casa la nuora!... Era vero?... Non era possibile!... Se la sera innanzi erano state insieme a San Nicola?... E come? Perché? Quando tutto pareva finito?... Ma i bene informati dicevano che non era finito niente, e che la bomba era scoppiata giusto quella notte per l'assenza di don Mario. Donna Mara, dopo avere accompagnato i parenti della nuora all'albergo ed essere tornata a casa ed aver preso sonno, aveva udito rumore nella camera di donna Isabella: entrata da lei, l'aveva trovata mezzo nuda, con la finestra aperta e il cappello d'un uomo rotolato per terra. Se avesse fatto un momento più presto, li avrebbe colti sul fatto; ma dal balcone che dava sui tetti della scuderia, egli era scappato in un lampo. Senza bisogno di nominarlo, tutti comprendevano che egli era il conte... Bisognava vedere, aggiungevasi, donna Isabella, pallida come una morta, quando la suocera, con voce strozzata, le aveva gridato: «Esci di casa mia!...» Lì per lì, senza darle neanche tempo d'infilarsi un paio di scarpe, in pantofole come si trovava! Ella se n'era andata, con la cameriera che le teneva il sacco, all'albergo dove si trovava quel suo zio provvidenzialmente piovuto da Palermo. «E se non c'era? Dove l'avrebbe mandata? E don Mario, il marito?...» Don Mario arrivò all'alba, a rotta di collo, mandato a chiamare con un espresso: il piangere che faceva! come un bambino!... Ne avea voluto del bene alla moglie! E allo stesso conte! Questo era stato lo sbaglio! Sua madre, no: l'amicizia degli Uzeda non le aveva dato alla testa; fin dal principio s'era accorta della piega che prendevano le cose. Se non fosse stata lei, il pasticcio sarebbe successo molto prima, Raimondo non avrebbe dovuto prender tante precauzioni. Egli rischiava infatti la vita, ogni volta. Quando Fersa andava in campagna, il conte entrava in casa di donna Isabella, avendo comperato tutte le persone di servizio: ma dal portone della stalla, che il cocchiere gli apriva, doveva salir sul tetto delle scuderie, scavalcarne la balconata e di lì entrare in camera dell'amica... Era stato un vero miracolo, se per tanto tempo non l'avevano sorpreso!... L'ultima notte, scappato senza cappello, gli sbirri di ronda l'avevano incontrato e stavano per arrestarlo; ma, conosciuto che era il conte Uzeda, l'avevano lasciato andare... Gl'increduli, i curiosi, fecero capo alla polizia, ma lì furono mandati a spasso. E quel giorno stesso tutti videro il contino Raimondo al Casino dei Nobili dove giocò e chiacchierò del più e del meno, come di consueto. Possibile che sfidasse fino a questo punto l'opinione pubblica? O non era piuttosto da dubitare della storia che si narrava?.. Già correvano le versioni favorevoli a donna Isabella. Era levata, a mezzanotte? Non aveva sonno! La finestra aperta? Per il gran caldo. Il cappello per terra? Un vecchio cappello del cocchiere, il quale s'era divertito, nel pomeriggio, a buttarlo per aria!... Se tutte queste cose non s'erano messe in chiaro sul momento, bisognava incolpare quella furia di donna Mara. Non poteva soffrire la nuora, tutti sapevano come l'aveva maltrattata! Chi parlava del conte? Che c'entrava il conte? Chi l'aveva visto? Era a casa sua, si era raccolto subito dopo la processione del Santo Chiodo: il principe, la principessa, tutta la famiglia, tutti i servi potevano attestarlo! Forse perché aveva fatto qualche visita, tempo addietro, alla Fersa? Ma s'era allontanato subito, visto che prendevano in mala parte un'amicizia innocente! Aveva dunque ragione di non voler stare in quel paese, di ribellarsi contro la malignità dei propri concittadini!... E a poco a poco quelle voci acquistavano credito: dicevasi perfino che Fersa l'avesse con la madre, per non aver dato tempo all'accusata di provarsi innocente... Tutta la città discuteva, commentava, giudicava ogni notizia relativa al fatto, appassionandosi più che per una caduta di Regno. Chi parteggiava pel conte, protestando che un padre di famiglia come lui non si sarebbe messo a disturbare un'altra famiglia; chi lo giudicava capace di questo e d'altro, per soddisfare un capriccio. Scapolo, non aveva fatto una vitaccia? Ammogliato, non aveva fatto tanto soffrire la povera moglie? In quella circostanza, per buona sorte, ella era in casa di suo padre, a Milazzo. Giusto, tre giorni dopo, i difensori di Raimondo trionfarono: egli partiva per Milazzo, raggiungeva la moglie e le figlie. Donna Isabella, da canto suo, era partita per Palermo con lo zio. Chi ardiva ancora affermare che ci fosse stato niente di male fra loro? Quella sconsigliata di donna Mara Fersa aveva fatta la frittata!... Gl'increduli andarono al palazzo Francalanza e all'albergo, per vedere se quelle partenze eran vere. Erano verissime: donna Isabella e Raimondo erano partiti, l'uno per Milazzo e l'altra per Palermo; il principe si apparecchiava ad andarsene al Belvedere; Fersa con la madre era già a Leonforte.

Durante la villeggiatura quei fatti furono il tema di ogni discorso. A Nicolosi, tra i Padri Benedettini, se ne fece un gran parlare: Padre Gerbini, fra gli altri, sostenne a spada tratta l'innocenza di donna Isabella, forte del fatto che Raimondo, da Milazzo, era partito definitivamente per Firenze, dove tornava a domiciliarsi con la famiglia. Don Blasco però non aprì bocca su questo soggetto. Egli pareva avesse dimenticato tutti gli affari della parentela, occupato come era ad eruttar bestemmie all'annunzio delle novità pubbliche, dei voti delle Romagne e dell'Emilia per l'annessione al Piemonte, della dittatura di Farini, specialmente del trattato di Zurigo che gli dié materia da sbraitare durante tutto l'autunno e tutto l'inverno. Coi Padri del partito liberale impegnava novamente discussioni tempestose che minacciavano di non finir bene, a proposito del ritorno di Cavour al ministero, dei plebisciti dell'Italia centrale, di tutti i sintomi d'un mutamento radicale. Ma alla cessione di Nizza e della Savoia alla Francia gongolò come se le avessero date a lui; dopo l'abortito tentativo di sommossa del 4 aprile a Palermo, cantò vittoria, gridando: «Ah, non vogliono capirla, ah! Fermi con le mani! Giuoco di mano, giuoco villano! Parlate, gridate, sbraitate finché vi pare, ma senza rompere nulla! Chi rompe paga, e neppure i cocci sono suoi!» «Siete voi che non volete capirla! Non vedete che adesso non è più come al Quarantotto?» «Eh? Ah? Oh? Non più? Di grazia, che c'è di nuovo?» «C'è di nuovo che il Piemonte è forte... che la Francia sottomano l'aiuta... che l'Inghilterra... che Garibaldi...» «Chi?... Quando?... La Francia? Bel servizio! Bell'aiuto!... Garibaldi? Chi è Garibaldi? Non lo conosco!...» Imparò a conoscerlo il 13 maggio, quando scoppiò come una bomba la notizia dello sbarco di Marsala. Ma, contro al suo solito, egli non gridò, non disse male parole: alzò le spalle affermando che al primo colpo di fucile dei napolitani i «filibustieri» si sarebbero dispersi: i Murat, i Bandiera, i Pisacane informavano. «La sonata è un'altra!» gli disse sul muso Padre Rocca, dopo lo scontro di Calatafimi. Allora egli scoppiò: «Ma razza di mangia a ufo che siete, dovete dirmi un poco perché fregate le mani? Avete vinto un terno al lotto? O credete che Garibaldi venga a crearvi Papi tutti quanti? Non capite, teste di corno, che avete tutto da perdere e niente da buscare?» Non sapeva darsi pace; l'avanzarsi vittorioso dei garibaldini lo esasperava; la formazione di squadre di ribelli, il fermento che regnava in città e nelle campagne lo mettevano fuori di sé. Ma il suo furore rovesciavasi particolarmente sul duca, che prendeva decisamente posto coi rivoluzionari, fiutando già il cadavere. Il monaco diceva contro il fratello parole tali da far arrossire un lanciere, dava del traditore a tutte le autorità perché, invece di reprimere il movimento, aspettavano di vedere, grattandosi la pancia, se Garibaldi sarebbe entrato o no a Palermo. «A Palermo? Lanza lo schiaccerà! C'è ventimila uomini a Palermo! Ma bisogna dare esempi! Rizzar la forca in piazza del Fortino!» Invece, le squadre dei rivoltosi si riunivano tutt'intorno alla città, i liberali parlavano a voce alta, gli sbirri fingevano di non udire, i «benpensanti» erano costretti a nascondersi! E quella bestia del generale Clary, con tremila uomini sotto i suoi ordini, non usciva dal castello Ursino, non faceva piazza pulita, lasciava che il panico dei «benpensanti» crescesse. La notte del 27, in mezzo al malcelato tripudio dei rivoluzionari, arrivò la notizia dell'entrata di Garibaldi a Palermo; le squadre minacciavano di scendere in città per attaccare le truppe di Clary. Il duca invece raccomandava la calma, assicurava che i napolitani sarebbero andati via senza tirare un colpo. Quantunque egli assumesse un'aria importante e protettrice in famiglia, quasi potesse far la pioggia e il bel tempo, Giacomo ad ogni buon fine prese le disposizioni per mettersi al sicuro al Belvedere. Lucrezia, vedendo quei preparativi di partenza, smaniava all'idea di lasciare Giulente, il quale le scriveva: «L'ora del cimento sta per sonare; io correrò al posto dove il dovere mi chiama, col nome d'Italia ed il tuo sulle labbra!» Ma all'annunzio che, rotto ogni indugio, le squadre stavano per scendere in città, il principe andò a San Nicola per raccomandare il bambino all'Abate, al Priore e a don Blasco e, fatte attaccar le carrozze, partì con tutti i suoi, da Ferdinando in fuori, il quale né per pestilenze né per rivoluzioni lasciava le sue Ghiande. Allora il duca, per non restar solo nel palazzo deserto, se ne venne al convento, dove il nipote Priore gli dette una camera della foresteria. Don Blasco, vistolo lì dentro, parve uno spiritato; sulle prime non poté articolar parola; poi, corso fra i Padri della sua camarilla, vociferò: «L'eroe! L'eroe! L'eroe! Quel grande eroe!... Quel fulmine di guerra!... S'è ficcato qui per la paura! Finta che a casa non c'è più nessuno! Gli treman le chiappe, invece!...» Il convento infatti cominciava a popolarsi di paurosi, di preti fuggiaschi, di spie borboniche, di gente invisa ai liberali; lo stesso castello non era giudicato altrettanto sicuro. Pei novizi, quantunque alcuni di essi fossero stati portati via dai parenti inquieti, era una festa: tante facce nuove, un incessante andirivieni, la continua aspettativa di non si sapeva che cosa. I ragazzi liberali avean formato anch'essi la loro squadra, a similitudine di quelle accampate fuori la città: Giovannino Radalì la capitanava, maturando il piano di sollevare il convento, di scendere in piazza e di unirsi ai rivoltosi grandi. Mancavano però di bandiere, e col pretesto di apparare un altarino mandarono il cameriere a comprar carta variamente colorata. Il cameriere, con la bianca e la rossa, ne portò dell'azzurra invece della verde; quello sbaglio fu causa che si perdesse un giorno. Il principino, al quale naturalmente, nella sua qualità di sorcio, i rivoluzionari non avevano detto niente, subodorata nondimeno qualche cosa per aria, aveva deliberato di scoprir paese. Una circostanza straordinaria lo aiutò. Il tabacco piantato insieme col cugino era maturo; le foglie, strappate, poste da qualche giorno al sole, cominciavano già ad accartocciarsi; gli bastò arrotolarle con le mani per ottenerne tre o quattro sigari che Giovannino giudicò pronti ad esser fumati. Allora, nascosti insieme in un angolo del giardino, perché, tolta la politica, erano amici, dettero fuoco ai fiammiferi e cominciarono a tirare le prime boccate. Usciva un fumo acre, amaro, pestifero, che bruciava gli occhi e la gola; Giovannino, pallidissimo, respirava a stento, ma continuava a tirare poiché Consalvo dichiarava: «Sono eccellenti!... Tutti tabacco vero!... Non ti piace?» «Sì. Un bicchier d'acqua... Mi gira il capo...» Improvvisamente si fece bianco come la carta, gli si rovesciarono gli occhi e cominciò a vaneggiare: «Il maestro... acqua... le bandiere...» Consalvo, sul quale il veleno agiva più lentamente, domandò: «Quali bandiere?... Dove sono?...» «Sotto il letto... la rivoluzione... Malannaggia!... Mi viene di vomitare...» Il principino buttò il suo sigaro e rientrò. Sentiva un principio di nausea, aveva il piè malfermo, la vista un po' annebbiata; ma si trascinò fino dal maestro: «Han fatto le bandiere... per la rivoluzione... sotto il letto...» «Chi?» «Quelli... Giovannino... il complotto...» La nausea saliva, saliva, gli stringeva la gola; le mani gli si diacciavano, ogni cosa gli girava intorno vorticosamente. «Ma di che complotto parli?... Che hai?» «Giovan... la ri...» Stese le mani e cadde per terra come morto. Quando riacquistò i sensi si trovò a letto, con fra' Carmelo che lo vegliava. La luce era fioca, non si capiva se fosse l'alba oppure il tramonto; né una voce né un rumor di passi nel convento; solo il cinguettìo dei passeri sugli aranci in fiore. «Come si sente?» domandò il fratello, premurosamente. «Bene... Che è successo? Che ora è?» «Spunta adesso il sole!... Ci ha fatto una bella paura!... Non si rammenta?...» Allora, confusamente, egli ripensò ai sigari, alla nausea, alla denunzia. Era dunque passata tutta una notte?... E Giovannino? «Anche lui!... Adesso sta meglio... Il maestro ha frugato in tutte le camere, sotto i letti... ha trovato tante bandiere... Sua Paternità se l'è presa con me... So molto, io, di queste diavolerie!...» I congiurati, vistisi scoperti, erano disperati, non comprendendo donde venisse il colpo. Ma Giovannino, ristabilito anche lui, s'alzava in quel momento e passava tra i compagni costernati: «Com'è stato?... Sei stato tu?...» «Io?... Ah, quel giuda di mio cugino!...» E il sangue gli montò al viso con un impeto selvaggio di collera, da vero «figlio del pazzo». «Aspetta! Aspetta!» Appostati in attesa che Consalvo uscisse, lo circondarono nel giardino; Giovannino gli si fece incontro, domandandogli: «Sei stato tu, pezzo di sbirro, che hai detto al maestro?...» Consalvo capì. Pallido e tremante, cominciò a protestare... «Maria Santissima!... Il maestro... Non sono stato...» Ma il cerchio gli si strinse intorno: «Negalo, anche?... Hai coraggio solo per mentire, sbirro schifoso? pezzo di boia?» «Vi giuro...» «Ah, spia fetente!...» e il primo pugno gli piovve sulle spalle. Tutti gli furono addosso, ed egli cominciò a gridare; ma nessuno poteva udir le sue grida, perché, a un tratto, a quell'ora insolita, tutte le campane di San Nicola si misero a stormeggiare formando un concerto così strano, che i ragazzi smisero di picchiare il delatore, guardandosi turbati. A un tratto Giovannino esclamò: «La rivoluzione!...» e rientrò di corsa. Le squadre erano finalmente scese in città, per dar l'attacco ai napolitani. Tutti i monaci erano tappati dentro; l'Abate aveva fatto serrare i portoni dopo che tutta una popolazione spaventata s'era venuta a rifugiare nel convento. Solo il campanile era rimasto aperto ai rivoltosi, i quali continuavano a sonare a stormo mentre s'udiva il rombo delle prime cannonate del castello Ursino. Don Blasco, nonostante il coltello che portava sotto la tonaca, verde dalla bile e dalla paura, era venuto a rifugiarsi, insieme coi borbonici più sospettati, al Noviziato, come in un cantone più sicuro, dove, per via dei bambini, nessuno sarebbe entrato; nondimeno diceva ira di Dio di quel vigliacco di suo fratello che era rimasto dentro col pretesto dei portoni chiusi, ma complottando ancora con quell'altro «porco» di don Lorenzo Giulente. «Perché non scende in piazza? Perché non va a battersi? Gli apro io stesso, se vuole!... Carogna! Traditore!...» Il duca, in confabulazione con l'Abate e col nipote Priore, disapprovava invece l'attacco, riferiva il savio e prudente ultimatum del generale Clary: «Clary mi disse ieri: "Aspettiamo quel che fa Garibaldi: se resta a Palermo, m'imbarco coi miei soldati e me ne vado; se no, avrete pazienza voialtri: resterò io." Mi pare che dicesse bene! Che bisogno c'era d'attaccarlo?... Le sorti della Sicilia non si decidono qui!... Ma non vogliono ascoltarmi! Che posso farci? Io me ne lavo le mani...» «Non vogliono ascoltarlo?» tempestava don Blasco. «Dopo che li ha scatenati?... E adesso fa il Gesuita? Per restar bene col Clary, se la ciurmaglia ha la peggio?...» Il cannone tonava di rado; gente arrivata dalla Botte dell'Acqua, cercando rifugio, diceva che la mischia più forte era impegnata ai Quattro Cantoni, ma che del resto i ribelli tiravano sulle truppe alla spicciolata, nascosti dietro gli angoli delle case, o dalle terrazze. Le spie borboniche, pallide, esterrefatte, andavano ficcandosi nelle celle dei fratelli; Garino, venuto dei primi a chiudersi a San Nicola, s'attaccava alla tonaca di don Blasco e pareva più di là che di qua. Anche il principino stava al fianco dello zio, non osando neppure lagnarsi delle busse ricevute, mentre Giovannino Radalì e gli altri ragazzi liberali, attorniato fra' Carmelo, gli dicevano: «Adesso arriva Garibaldi!... Andremo tutti via!... Non ci torneremo più!...» Prima di sera cessò lo scampanìo e il cannoneggiamento; don Blasco, andato a interrogare i passanti dai muri della Flora, tornò agitando le braccia e smascellandosi dalle risa: «La gran rivoluzione è finita!... Sono usciti i lancieri, hanno nettato le strade!... Evviva!... Evviva!...» La notizia venne confermata da tutte le parti, ma il duca, prudentemente, restò dentro pel momento. La gioia di don Blasco fu però di corta durata: il domani, avuti gli ordini da Napoli, Clary si preparò alla partenza e, consegnata la città a una Giunta provvisoria, s'imbarcò il giorno appresso con tutti i suoi soldati.

Don Lorenzo Giulente col nipote, saliti a San Nicola, invitarono il duca al Municipio, dove i migliori cittadini attendevano a disciplinare la rivoluzione. Già, partita la truppa, nella prima ebbrezza della liberazione, nel primo impeto della vendetta, torme di popolani avevano dato la caccia ad uno dei più tristi e odiati sorci di polizia, e uccisolo ne avevano portato in giro la testa. Tremava il cuore al duca, all'idea di lasciare il sicuro asilo del monastero e di scendere nella città in fermento; ma i due Giulente lo assicurarono che adesso tutto era cheto e che gli amici lo aspettavano. Così traversarono insieme le vie deserte peggio che in tempo di peste, con tutte le botteghe e le finestre sbarrate e un silenzio pauroso. Don Gaspare Uzeda, a dispetto delle assicurazioni dei Giulente, nonostante la prova della popolarità acquistata tra i liberali, temeva che qualcuno non gli rimproverasse il suo rimpiattamento a San Nicola, nel giorno dell'azione; che i rivoluzionari del Quarantotto non gli rammentassero le storie antiche; le gambe, pertanto, gli vagellavano nell'entrare al Municipio, nel traversar la corte piena di gente, nel salir su dove deliberavano; ma a poco a poco il sorriso gli spuntava sulle labbra pallide e chiuse, il sangue tornava a circolargli liberamente nelle vene, poiché da tutte le parti lo salutavano rispettosamente o cordialmente: i popolani s'inchinavano, gli amici stringevangli la mano, esclamando: «Finalmente!... Ci siamo!... Non abbiamo più padroni!... Adesso finalmente i padroni siamo noi!...» La cosa più urgente era l'ordinamento d'una qualunque forza pubblica, d'una milizia civica che prestasse servizio sino alla formazione della Guardia nazionale. Occorrevano quattrini per l'armamento della milizia e della Guardia: aperta una sottoscrizione per raccogliere i primi fondi, il duca offerse trecent'onze. Nessuno aveva dato tanto, la cifra produsse grande effetto; quando la riunione si sciolse, parecchie dozzine di persone riaccompagnarono don Gaspare a San Nicola. Il domani mattina egli aggiunse altre cent'onze per l'acquisto delle munizioni. Il favore universale gli crebbe intorno. Mancava lavoro, poiché la città era tuttavia un deserto: egli non lasciò andare a mani vuote nessuno di quelli che gli si rivolsero per sussidio. Preso coraggio, andò tutti i giorni al Gabinetto di lettura, dove i liberali commentavano con tripudio le notizie dei progressi della rivoluzione; si mise a capo delle dimostrazioni che andavano a prendere la musica dell'Ospizio di Beneficenza e al suono dell'inno garibaldino giravano per la città. A poco a poco, sempre più rassicurato, quasi domiciliossi al Municipio, dove chiedevano i suoi consigli. Mentre tutti parlavano di libertà e d'eguaglianza, nessuno pensava a prendere un provvedimento che dimostrasse al popolo come i tempi fossero cangiati e i privilegi distrutti e tutti i cittadini veramente ed assolutamente uguali. Egli propose e fece decretare l'abolizione del pane sopraffino. Allora diventò un grand'uomo. Don Blasco, rimpiattato al convento, schiumava: non tanto, forse, per la rovina del suo partito e pel trionfo dell'eresia, quanto per sapere suo fratello considerato a un tratto come uno degli eroi della libertà: il Governatore non faceva nulla senza del duca, lo metteva in tutte le commissioni, un codazzo d'ammiratori lo accompagnava al palazzo Francalanza, che egli aveva fatto riaprire e riabitava perché la chiusura non s'imputasse al borbonismo della famiglia: e la gente minuta, gli operai, tutti quelli che non sapevano che cosa sarebbe successo, convertivansi al nuovo partito udendo che un gran signore come il duca d'Oragua, uno dei Francalanza, ne faceva parte: le dimostrazioni patriottiche, di giorno e di notte, con musiche e fiaccole e bandiere si succedevano sotto il palazzo come sotto le case dei vecchi liberali, di quelli che erano stati in galera o tornavano dall'esilio. Adesso tutti parlavano in piazza, dai balconi, per eccitare il popolo, o per discutere il da fare nei circoli che si venivano costituendo; ma il duca, incapace di dire due parole di seguito in pubblico, atterrito dall'idea di dover parlare dinanzi alla folla, scendeva giù a incontrarla al portone, se la cavava gridando con essa: «Viva Garibaldi! Viva Vittorio Emanuele! Viva la libertà!...» conducendo al caffè i volontari garibaldini, pagando loro gelati, sigari e liquori. Formata la Guardia nazionale, lo fecero maggiore: tutti i giorni egli mandava ai corpi di guardia bottiglioni di vino, focacce, pacchi di sigari, regali di ogni genere. E la sua fama cresceva, cresceva; nelle dimostrazioni il grido di «Viva Oracqua» - come pronunziavano i più - era altrettanto frequente quanto «Viva Garibaldi» o «Vittorio Emanuele!...» Queste enormità ridussero don Blasco a un cupo silenzio, più terribile delle grida; il monaco non era però alla fine delle prove. I forusciti, i briganti che s'arrolavano per seguire l'anticristo dove furono alloggiati? A San Nicola!... All'annunzio che la colonna di Nino Bixio e di Menotti Garibaldi sarebbe giunta a Catania, il Governatore aveva mandato un ufficio all'Abate comunicandogli di aver disposto che i soldati della libertà fossero ospitati nel convento dei Padri Benedettini. L'Abate, borbonico fino alle ciglia, voleva fare qualche difficoltà; ma il Priore don Lodovico lo persuase che non era il caso di opporsi. Il 27 luglio la Guardia nazionale andò incontro, fuori le porte, alla colonna che entrò in città fra un uragano d'applausi; e i volontari s'acquartierarono a San Nicola, nei corridoi del primo piano e in quello dell'Orologio: la paglia sparsa per terra, le rastrelliere, i fucili, le giberne, le baionette, le canne di pipa ridussero il convento un assedio. Per andare al refettorio, don Blasco doveva traversare due volte il giorno quell'inferno; egli passava muto, pallido, fremente, mentre i soldati gridavano evviva al Priore don Lodovico che faceva distribuire vino e focacce! Tutto il giorno, giù nei cortili esterni, essi eseguivano esercizi; Bixio stava a invigilare con un frustino in mano, accarezzando tratto tratto le spalle dei più restii. «In nome della libertà! In odio all'antica tirannide!..» facevano osservare i Padri sorci a don Blasco; ma questi neanche rispondeva, pareva non interessarsi più a nulla, come alla vigilia del finimondo. Bixio e Menotti erano alloggiati alla foresteria; l'Abate li evitava, ma il Priore, per prudenza - diceva - usava agli ospiti tutti i riguardi, s'informava premurosamente se avevano bisogno di nulla, metteva la Flora a disposizione del figlio dell'anticristo, che passava i suoi momenti d'ozio coltivando rose. Un giorno, tra i novizi che erano scemati di numero perché molte famiglie avevano ritirato i loro ragazzi in quel trambusto, vi fu grande aspettativa: Menotti veniva da loro. Giovannino Radalì, Pedantoni, tutti i liberali lo guardarono con gli occhi spalancati, come uno piovuto dalla luna, senza saper dire una parola, mentre egli li accarezzava. Ma, nel giardino, Giovannino corse a cogliere la più bella rosa e gliel'offerse, chiamandolo: «Generale!...» Consalvo se ne stette in disparte, aggrottato come lo zio don Blasco, con la coda tra le gambe. «Adesso non fai più il sorcio?» gli dissero i compagni quando Menotti andò via. «Hai paura che ti taglino la coda?» Egli non rispose. Suo padre, rassicurato sull'andamento della cosa pubblica, scese un giorno a trovarlo. «Non ci voglio più stare,» gli disse il ragazzo; «tanti se ne sono andati...» «Voglio?...» rispose il principe, con voce dura. «Chi t'ha insegnato a dire voglio?... Per ora hai da star qui!» E il duca non solo approvò quella decisione, ma indusse il nipote a tornarsene definitivamente con la famiglia in città, giacché non c'era pericolo di sorta, e quell'ostinata lontananza, quelle dimostrazioni di paura potevano esser prese in mala parte dal popolo. Arrivarono tutti dopo qualche giorno, il marchese e la marchesa soli e gongolanti nella loro carrozza che andava al passo, per riguardo della gravidanza di Chiara finalmente confermata ed arrivata al sesto mese; Lucrezia che metteva il capo ogni minuto allo sportello quando i posti di guardia facevano sostare la vettura, parendole di riconoscere Giulente in ogni soldato. Ma Benedetto non era più in Sicilia. Nei primi giorni aveva aiutato lo zio Lorenzo e il duca a ordinare la rivoluzione, arringando il popolo, parlando nei circoli con una eloquenza che tutti ammiravano, scrivendo articoli nell'Italia risorta, fondata dallo zio per propugnare l'annessione al Piemonte; poi, nonostante l'opposizione del padre e della madre, s'era ingaggiato garibaldino, nel reggimento delle Guide, ed era partito pel continente. Arrivando in città, Lucrezia trovò una lettera del giovane, il quale le annunziava che andava a raggiungere Garibaldi per compiere il proprio dovere verso la patria e le raccomandava di non piangerlo se gli fosse toccata la grande sorte di morire per l'Italia. Ella cominciò a leggere tutti i giornali e tutti i bollettini per sapere che cosa avveniva di lui, ma ne capì meno di prima, incapace di farsi un'idea intorno alle mosse dell'esercito meridionale. Don Blasco, all'arrivo dei parenti, eruttò finalmente la bile accumulata in tre mesi. Ogni giorno, venendo al palazzo, vomitava improperi contro il fratello, colmava di male parole lo stesso principe perché permetteva che dal balcone di centro sventolasse l'aborrito tricolore, che mettessero fuori i lumi per festeggiare le vittorie dei «briganti». Il principe si faceva tutto umile, gli dava ragione, esclamava: «Che posso farci? È mio zio! Posso mandarlo via?» Ma si guardava bene di fare rimostranze al duca, troppo lieto che la popolarità del gran patriotta garantisse anche lui, la sua persona e la sua casa. Però dava un colpo al cerchio e uno alla botte; parlava contro il duca a don Blasco, contro don Blasco al duca, sicuro di non essere scoperto, poiché quei due s'evitavano come la peste. Gli toccava poi tenere a bada anche donna Ferdinanda, la quale era diventata una versiera, dopo la caduta del governo legittimo, e ne invocava il ritorno e andava fino a promettere una lampada a Santa Barbara perché questa saettasse tutti i suoi fulmini contro i traditori. Chiedeva che il principino fosse tolto dal convento infestato dai rivoluzionari; ingiungeva al nipotino, quando costui veniva a casa in permesso: «Non t'arrischiar di parlare con quei nemici di Dio o non ti guarderò più in faccia!» Consalvo le rispondeva: «Eccellenza sì!» come al duca quando costui, tutt'al contrario, gli diceva «Che bei soldati, i garibaldini?...» Dolevano ancora le spalle al ragazzo, dalle busse toccate per lo spionaggio; e adesso egli faceva come vedeva fare allo zio Priore, che godeva la fiducia dell'Abate borbonico di tre cotte, e intanto era portato in palma di mano dai rivoluzionari... Che importava al principino di borbonici e di savoiardi? Egli voleva andar via dal Noviziato; perciò serbava un segreto rancore contro il padre che non l'aveva contentato. Del resto, con tutta la rivoluzione e la libertà e Vittorio Emanuele e l'abolizione del pane sopraffino, a San Nicola non si scherzava, articolo privilegi. Giusto in quei giorni i Giulente avevano raccomandato all'Abate un giovanetto, loro lontano parente, rimasto orfano a Siracusa e venuto a Catania per farsi Benedettino. Era tutto il contrario del cugino Benedetto, questo Luigi; non solo avversava la rivoluzione; ma aveva, col timor di Dio, una grande vocazione per lo stato monastico. E l'Abate, ritenendo provata la nobiltà della famiglia, l'aveva preso a proteggere e fatto entrare al Noviziato. Lì, i nobili compagni, senza distinzione di partito, se ne prendevano giuoco, lo beffavano, gliene facevano di tutti i colori, giudicandolo indegno di stare fra loro; e tra i monaci gli stessi liberali torcevano il muso: Vittorio Emanuele andava bene; l'annessione e la costituzione meglio ancora; ma rinunziare ai loro privilegi, fare d'ogni erba un fascio, questo era un po' troppo!...

La quistione dell'annessione, del miglior modo di votarla, appassionava in quel momento la pubblica opinione: alcuni volevano affidarne il mandato ad un'assemblea da eleggere, altri predicavano il suffragio diretto. Ogni giorno, col Governatore della città, e con don Lorenzo Giulente e i capi liberali, il duca sosteneva il plebiscito: «Il popolo dev'essere lasciato libero di pronunziarsi. Si tratta delle sue sorti! Vedete come han fatto nel resto d'Italia!...» Questo consiglio, mentre accresceva a mille doppi la sua popolarità, gli scatenava addosso più violento l'odio di don Blasco e di donna Ferdinanda, la critica dello stesso don Eugenio. Il cavaliere, adesso, perduta la speranza degli scavi di Massa Annunziata, aveva concepito un nuovo disegno: farsi nominare professore all'Università. Non v'erano stati parecchi signori pubblici lettori? L'impiego era decoroso e nobile; la cattedra di storia, specialmente, gli faceva gola. Le sue conoscenze archeologiche, l'opuscolo sulla Pompei Sicola, erano buoni titoli: per averne ancora di migliori, egli scriveva una Istoria cronologica dei Viceré Uzeda, luogotenenti dei Regi Aragonesi nella Trinacria. Come Gentiluomo di Camera, non si lasciava molto vedere; ma certo che la rivoluzione sarebbe stata schiacciata da un momento all'altro, anche lui se la prendeva col duca. «Chi parla di popolo! Se tornassero i Viceré dall'altro mondo! Se sentissero di queste eresie, se vedessero un loro pronipote unirsi alla ciurmaglia!...» Don Cono, don Giacinto, don Mariano, tutti i lavapiatti scrollavano il capo, addolorati anch'essi da quel tralignamento; però tentavano placare il giusto sdegno dei puri, giudicando il liberalismo del duca un liberalismo di parata, una necessità politica del momento; era impossibile che, in cuor suo, il figlio del principe di Francalanza, uno di quegli Uzeda che dovevano tutto alle legittime dinastie, potesse godere dell'anarchia e dell'usurpazione! «Tanto peggio!» urlava don Blasco. «Capirei un fedifrago risoluto, che avesse il coraggio del tradimento! Ma se tornano i napolitani, colui andrà a baciar loro il preterito!... Vedrete, quando torneranno!...» Ma non tornavano. Arrivavano invece, una dopo l'altra, le notizie della partenza di Francesco II da Napoli, dell'ingresso trionfale di Garibaldi, dell'avanzarsi dei piemontesi incontro ai volontari. Al Belvedere, dove il principe tornò alla fine di settembre, per la villeggiatura, Lucrezia lesse i bollettini della battaglia del Volturno che portavano Benedetto Giulente tra i feriti. Ella non pianse, ma si chiuse in camera rifiutando il cibo, sorda ai conforti di Vanna la quale le prometteva che avrebbe cercato di aver notizie dalla famiglia di lui. Il Governatore però s'era già rivolto ai comandanti, al direttore dell'ospedale militare di Napoli; e la risposta, prima che sui bollettini, fu resa di pubblica ragione in un manifesto affissato al Municipio. Il volontario Giulente era ferito d'arma bianca alla coscia destra e si trovava nell'ospedale di Caserta; il suo stato era soddisfacente e la guarigione assicurata. Egli arrivò quindici giorni dopo, la vigilia del plebiscito, con altri volontari siciliani reduci dal Volturno: lo zio Lorenzo, il duca di Oragua, il Governatore e la Guardia nazionale andarono loro incontro. Il giovane s'appoggiava a un bastone e sventolava il fazzoletto con la sinistra, rispondeva agli evviva della folla. Suo padre e sua madre piangevano, dalla commozione: il duca, facendo loro dolce violenza, prese il ferito nella propria carrozza che s'avviò al Municipio fra un'onda di popolo acclamante. Dal balcone del palazzo di città, gremito di guardie nazionali, di reduci, di patriotti, di cittadini ragguardevoli, Benedetto girò uno sguardo sulla piazza dove non sarebbe cascato un grano di miglio, poi levò la sinistra. La sua fama d'oratore era già stabilita; tacquero a quel gesto. «Cittadini!» cominciò con voce chiara e ferma. «Noi non possiamo e non dobbiamo ringraziarvi di questa trionfale accoglienza, sapendo come i vostri applausi non siano diretti alle nostre persone, ma all'idea generosa e sublime che guidò il Dittatore da Quarto a Marsala.» Scoppiò un uragano d'applausi in mezzo al quale la voce dell'oratore si perdé. «...sogno di Dante e Machiavelli, sospiro di Petrarca e Leopardi, palpito di venti secoli... ad essa, alla gran patria comune... alla nazione risorta... all'Italia una... gli evviva, gli applausi, il trionfo...» Ad ogni periodo, un gran clamore veniva su dalla piazza; la gente pigiata nel balcone sventolava i fazzoletti, il duca esclamava all'orecchio dei vicini: «Come parla bene!... Che giovane d'ingegno!...» «Noi abbiamo fatto il dover nostro,» continuava l'oratore, «come voi il vostro. Non poche gocce di sangue, ma la vita stessa avremmo voluto immolare alla gran causa... degni d'invidia, non di rimpianto, sono quelli che poteron dire morendo: "Alma terra natia, la vita che mi desti ecco ti rendo..." Onore ai forti che caddero!... A voi toccò ufficio non meno superbo: dare all'Europa ammirata l'esempio d'un popolo che, spezzate le sue catene, lasciato in balìa di se stesso, già mostrasi degno di quelle libere istituzioni che furono suo secolare retaggio... che un potere aborrito e spergiuro osò cancellare... ma che splenderanno di più vivido raggio!... Cittadini! Applaudite voi stessi... applaudite i vostri reggitori... applaudite questi guerrieri fratelli che, dolenti di non poter pugnare con noi, tutelarono i vostri focolari... applaudite questo insigne patrizio che alle glorie dell'avito blasone accoppia quelle del patriottismo più puro...» Egli additava alla folla il duca maestoso e marziale nella divisa di maggiore. Ma questi, all'idea di dover rispondere, si sentì a un tratto serrar la gola, vide a un tratto la piazza trasformata in un mare terribile, vorticoso e ululante, le cui ondate saettavano sguardi; e lo spasimo della paura fu tale ch'egli dovette afferrarsi alla balaustrata. Però Giulente riprendeva, nella stretta finale, tra applausi assordanti: «Cittadini! Prodigioso è il cammino da noi fatto in cinque mesi; ma un ultimo passo ci resta... L'entusiasmo dal quale vi veggo animati mi dà guanto che sarà fatto... Il sole di domani saluti la Sicilia unita per sempre alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele!»

Già i colossali erano tracciati sui muri, sugli usci, per terra; al portone del palazzo il duca ne aveva fatto scrivere uno gigantesco, col gesso; e il domani, in città, nelle campagne, frotte di persone li portavano al cappello, stampati su cartellini di ogni grandezza e d'ogni colore. Donna Ferdinanda, al Belvedere, scorgendo i contadini che, per non saper leggere, avevano messo le schede sottosopra, esclamava: «Is! Is!» e pronunziando chis, chis, che è la voce con la quale si mandan via i gatti, commentava: «Ma non dicono , dicono is, chis, chis! Fuori, chis!...» Lucrezia gonfiava, eccitata dalle notizie del trionfo di Giulente, impaziente di tornare in città per rivederlo, irritata dagli sconvenienti motteggi della zia. Il principe aveva fatto tracciare anche lui un gran sul muro della villa, per precauzione, e la folla dei contadini scioperati, giù in istrada, batteva le mani, gridava: «Viva il principe di Francalanza!...» mentre, dentro, don Eugenio dimostrava, con la storia alla mano, che la Sicilia era una nazione e l'Italia un'altra; e donna Ferdinanda sgolavasi: «Ah, se torna Francesco!» «Zia, non tornerà...» esclamò alla fine Lucrezia. Allora la zitellona parve volesse mangiarsela viva. «Anche tu, scioccona e bestiaccia? Sentite chi parla adesso! E non lo sai il nome che porti, pazza bestiona? Credi anche tu agli eroismi di questi rifiuti di galera? o dei bardassa sguaiati e ciarloni?» La botta era tirata a Giulente; Lucrezia s'alzò e andò via sbattendo gli usci. Ma il furore di donna Ferdinanda passò il segno quando, fattasi alla finestra ad uno scoppio più nutrito di applausi, vide passare i novizi Benedettini, che venivano da Nicolosi a cavallo agli asini, tutti con gran ai tricorni. Cominciò a gridare così forte contro quel vituperio, che il principe accorse: «Zia, per carità, vuol farci ammazzare?» «È stato quel Gesuita di Lodovico!...» fiottava la zitellona, coi denti stretti, quasi per mordere. «Anche i ragazzi! Anche Consalvo!» E come il principino salì un momento a salutare i suoi, ella gli strappò quel cartellino e lo fece in mille pezzi: «Così!...»

9.

«Bello!... Bello!... E questi bavagli, sono graziosi!... Le calzettine, le scarpette: avete pensato a tutto!» La cugina Graziella esaminava, capo per capo, sotto gli occhi di Chiara e del marchese, il corredo del nascituro: sei grandi ceste piene di tanta roba da bastare a un intero ospizio di lattanti; e trovava parole d'ammirazione per tutte le fasce, per tutte le cuffie, per tutti i corpettini: ma ogni tanto si fermava, tirando forte il respiro, passandosi la lingua sulle labbra, gravida anche lei di qualche cosa che voleva dire, ma che né il marchese né Chiara si decidevano a domandarle. «E le vesticciuole, non l'avete viste ancora? Guardate, guardate!» «Oh, che bella cosa!... Dove hai trovato questi merletti?... Belle tutte, belle!... Ma più la bianca coi nastri celesti! Un amore!... Lucrezia ci ha lavorato?» «No, nessuno: ho voluto far tutto con le mie mani.» «Ce n'è spesi quattrini, eh?... Il Signore possa benedirveli!... Avete aspettato un bel pezzo, ora la vostra felicità è assicurata!... Vi volete tanto bene!... Per me, mi gode l'animo quando vedo le famiglie tanto affiatate!... Così vorrei che anche Lucrezia fosse contenta... Voialtri non sapete?» «Che cosa?» Ella abbassò un poco la voce per dire, con aria di mistero: «Giulente l'ha chiesta allo zio duca!» Ma Chiara continuò a piegare la biancheria sulle ginocchia, quasi non avesse udito o non avesse compreso che si parlava di sua sorella: e solo il marchese domandò, distrattamente, riponendo con bell'ordine la roba nelle ceste: «Chi ve l'ha detto?» Allora la cugina sfilò la corona: «Me l'ha detto mio marito, iersera: certo e sicuro com'è certo che siamo qui! La domanda è stata fatta da don Lorenzo, amichevolmente. Il duca vuol esser deputato, e il giovanotto sostiene la sua elezione scrivendo nell'Italia risorta, e discorrendo ogni sera al Circolo Nazionale in favore di lui, perché ha già preso la laurea d'avvocato. Quelli della Nazione Italiana gli oppongono l'avvocato Bernardelli, perché è stato in galera; non par vero, a che siamo ridotti!... Ma Giulente si batte come un leone... pel futuro zio... mi capite?... Lucrezia non entra nei panni, dalla contentezza; però gli zii don Blasco, donna Ferdinanda e don Eugenio le daranno da fare... e il cugino Giacomo anche... Un Giulente sposare un'Uzeda? Ci voleva la rivoluzione, il mondo sottosopra, perché si vedesse una cosa simile! Lo zio duca, mi dispiace, ha perduta la testa, dacché s'è messo nella politica; hanno ragione i suoi fratelli!... Voi che cosa ne dite?» Chiara continuava a maneggiare la bella roba, bianca, fine e odorosa, del nascituro; e il marchese, temendo che quei movimenti, a lungo andare, potessero affaticarla, le disse: «Basta, adesso... lascia fare a me... Che cosa ne dico, cugina? Non dico niente: sono cose che non mi riguardano. Mio cognato è padrone di dare sua sorella a chi gli pare... Io non mi mescolo negli affari altrui.» «Se Lucrezia lo vuole,» rincarò Chiara, «se lo prenda! In fin dei conti, dobbiamo sposarlo noi?» domandò ridendo a Federico. «Sicuro!... Io, cara cugina, sapete se ho sempre rispettato la famiglia di mia moglie. Se essi dicono di sì, e Lucrezia è contenta! Per conto mio, ringrazio il Signore che finalmente mi sta concedendo una gran consolazione; del resto, facciano quel che vogliono...» E la cugina restò con tanto di naso, avendo fatto assegnamento sopra uno scoppio d'indignazione; ma, torta la bocca quasi per inghiottire un boccone amaro, esclamò: «Certamente! Sono cose che riguardano la sua coscienza!... E anche Lucrezia! Contenta lei!... È quel che dico anch'io!...» Da quei due non c'era da cavar nient'altro, fuori del mondo com'erano per via della nascita del figliuolo ormai prossima: la cugina, che per trascorrer di tempo non dimenticava di mostrare il suo interesse per gli Uzeda, corse difilato in casa del principe. Sul portone, una comitiva di dieci o dodici individui, fra i quali c'erano i due Giulente, zio e nipote, cercavano del duca. Ella si fermò, sorridendo a don Lorenzo e a Benedetto, facendo loro segno con la mano per chiamarli. «Che ordite, in tanti rivoluzionari? Volete dar fuoco al palazzo?» «Veniamo ad offrire la candidatura al signor duca,» rispose don Lorenzo, «in nome delle società patriottiche.» «Bravo! Mi rallegro della scelta!...» E la commissione stava per salire dal grande scalone quando Baldassarre, spuntato dal secondo cortile, e fatta strada a donna Graziella, avvertì: «Nossignori!... Favoriscano da questa parte...» Il principe, infatti, approvando il liberalismo dello zio e godendo dei vantaggi della sua popolarità, non aveva potuto permettere che tutti gli scalzacani dai quali era circondato entrassero nel nobile quartiere della Sala Rossa e Gialla: aveva quindi destinato due stanze dell'amministrazione, a destra dell'entrata, perché il duca vi ricevesse anche i lustrastivali, se così gli era a grado. Mentre i delegati giravano dunque dalla parte delle stalle, donna Graziella saliva pomposamente il sontuoso scalone ed era introdotta presso la principessa. Il principe, in compagnia della moglie, gridava qualche cosa, quando, all'apparir della cugina, tacque subitamente. «Non sapete che ci sono visite?» disse costei, entrando. «La commissione delle società... per offrire la candidatura al duca... Una bella commedia, giacché tutto fu combinato prima... E solo i Giulente, di persone conosciute; tutto il resto, certe facce!...» «Mio zio è padrone di ricevere chi vuole,» rispose il principe. «Adesso i tempi sono mutati, e non si posson fare tante difficoltà... È quel che dicevo anche a mia moglie...» E voltati i tacchi, stava per andarsene, quando la voce di donna Ferdinanda, che sopravveniva, lo fece fermare. La zitellona, più gialla del solito, sudava fiele, con una ciera arcigna e dura da mettere spavento. «Dunque è vero?» domandò a denti stretti, senza neppure accorgersi di donna Graziella. «Me l'ha detto lui stesso,» rispose il principe. «Dinanzi alla cugina possiamo parlare... Gli pare una cosa bellissima, un partito vantaggioso, un terno al lotto...» «E tu non gli hai detto nulla, tu?» «Io? Gli ho detto che dovrebbe tornare nostra madre dall'altro mondo, per sentire una cosa simile! Per vedere ciò che succede in questa casa! in qual modo si rispettano le sue volontà!... Questo gli ho detto; ma è lo stesso che dirlo al muro... Vostra Eccellenza sa come siamo fatti, in famiglia... Ma la colpa non è dello zio... Se Lucrezia non avesse dato retta a quel bardassa, crede Vostra Eccellenza che le cose sarebbero arrivate a tanto? I Giulente sono stati sempre presuntuosi, hanno avuto sempre la smania di giocare a pari con tutti; ma un'idea simile non sarebbe loro passata pel capo, senza la stramberia di mia sorella...» La principessa non fiatava, donna Graziella non parlava neppur lei, ma guardando ora il principe ora donna Ferdinanda scrollava il capo, come per dire che era così, proprio così. La zitellona si mordicchiava le labbra sottili, torcendo il grifo, fiutando l'aria con le narici dischiuse. «Se mia sorella non fosse stravagante,» continuava il principe, «non penserebbe a maritarsi, con quella salute; non darebbe retta a quel rompicollo che le dice di volerle bene per vanità, facendo il repubblicano; e rispetterebbe invece i consigli di nostra madre, non darebbe motivo di dispiacere a noi, non si preparerebbe tanti guai... Perché, speriamo pure che si ravveda e lo zio muti opinione; ma se questo matrimonio dovesse farsi, la prima sacrificata sarebbe lei!... Crede di trovare in casa di quella gente quel che ha nella propria? Crede che potranno andare d'accordo, con tanta diversità d'educazione e di...» A un tratto comparve Lucrezia. Il principe tacque come per incanto; la principessa si fece ancora più piccola sulla sua poltrona, la cugina spalancò meglio gli occhi e l'orecchie. «Buon giorno, zia...» cominciò la ragazza; ma donna Ferdinanda, levatasi da sedere e presala per mano, le disse brevemente: «Vieni con me.» Passò di là e chiuse l'uscio. La cugina, che le aveva accompagnate con gli occhi, quando si voltò vide che il principe era scomparso da un'altra parte. Allora, rimasta sola con la principessa, cominciò a dimenarsi sulla sua seggiola. Sarebbe andata ad origliare, se avesse potuto, se avesse osato farne proposta; invece le toccava contenersi e chiacchierare, mentre udivasi tratto tratto la voce di donna Ferdinanda alzarsi tanto che le parole arrivavano intere: «Voglio? Voglio?... Prima creperai!... L'avvocato?... Crepa, piuttosto!...» «Santo Dio, mi dispiace!... È una cosa, cugina...» «La vedremo, ti dico!...» gridava donna Ferdinanda; subito dopo la voce si spense; la cugina riprese: «Lucrezia dovrebbe pensare... dare ascolto a chi parla pel suo...» «Non vuoi sentirla, bestiaccia?...» Queste parole furono gridate così forte, che la cugina e la principessa tesero tutt'e due le orecchie. Passò qualche minuto di silenzio profondo; di botto, s'udì il rumore d'una seggiola rovesciata e subito dopo quello secco e brusco di un violento ceffone. La principessa levossi in piedi, giungendo le mani; la cugina corse all'uscio ad origliare. Più nulla: né voci, né pianto. Donna Ferdinanda ricomparve sola e venne a sedersi tranquillamente vicino alla nipote, stirandosi la palma della mano arrossata. Parlò del più e del meno, volle sapere che cosa avevano a desinare e domandò notizie di Teresina, che giusto quel giorno era a San Placido, dalla zia Crocifissa. Poi si alzò per andarsene; la cugina l'accompagnò. Intanto giù nell'amministrazione i delegati delle società, ammessi in presenza del duca, erano stati da costui invitati a sedersi in giro; Giulente nipote, prendendo a parlare in qualità d'oratore, diceva: «Signor duca, in nome dei sodalizi patriottici il Circolo Nazionale, L'Unione Civica, la Lega Operaia, il Riscatto Italiano, i Figli della Nazione, dei quali le presento le rappresentanze... veniamo a compiere il mandato affidatoci, di pregarla affinché ella accetti la candidatura al Parlamento italiano. Il paese ben conosce di chiederle un sacrifizio, e un sacrifizio non lieve; ma il patriottismo di cui ella ha dato tante e sì splendide prove ci dà guanto che anche una volta vorrà rispondere all'appello del paese...» I tre o quattro popolani tenevano il cappello con tutt'e due le mani, stretto come se qualcuno volesse portarlo loro via; Giulente zio guardava per terra. Il duca, finito il discorsetto del giovane, rispose, cercando le parole una dopo l'altra, con voce strozzata: «Cittadini, son confuso... e vi ringrazio, veramente... Sono stato felice... orgoglioso anzi direi... di aver potuto contribuire, come ho potuto, al riscatto nazionale... e alla grand'opera dell'unificazione della nazione... Ma, veramente, ciò che voi mi domandate... è superiore alle mie povere forze... È un mandato... Permettete!...» soggiunse con altro tono di voce, vedendo far gesti di diniego, «che non saprei come disimpegnarlo... al quale è d'uopo attitudini speciali che io non possiedo... E non vi mancheranno patriotti che assai meglio di me... potranno rispondere agli interessi... della tutela degli interessi... del nostro paese!» «Perdoni!» riprese il giovanotto. «Noi apprezziamo il delicato sentimento che le fa dire così: la sua modestia non le poteva dettare diversa risposta. Ma della capacità di lei dev'essere giudice, perdoni!, lo stesso paese. Se ella avesse altre ragioni per rifiutare, ragioni private o di affari, noi c'inchineremmo, non potendo permettere che il suo sacrificio vada troppo oltre. Ma se l'unica obiezione consiste nella sua incapacità, ci permetta di dirle che non tocca a lei riconoscere se è capace o pur no!» Tacendo Giulente, il sarto Bellia, dei Figli della Nazione, disse: «Duca, l'operaio vuole a Vostra Eccellenza... Ci sono tanti che brigano il voto, ma non ci abbiamo fiducia. Vogliamo un buon patriotta e un signore come Vostra Eccellenza...» Allora, rivolto ai compagni, Giulente zio disse, con tono di bonarietà scherzosa, accarezzandosi la barba: «Non abbiate paura: il duca vuol farsi pregare...» «Farmi pregare?» esclamò il candidato, ridendo. «Mi prendete forse per un dilettante di pianoforte?» Tutti sorrisero e il ghiaccio si ruppe. Smessi la dignità grave e il linguaggio fiorito dell'ambasceria, ognuno disse la sua, in dialetto, alla buona, per indurre il duca ad accettare. Sul nome di lui si sarebbero messi d'accordo; in caso di rifiuto, i voti si sarebbero sperperati sopra tre o quattro persone; e poiché era quella la prima elezione alla quale chiamavasi il paese, bisognava che essa riuscisse l'affermazione unanime della volontà del collegio. Questo risultato non poteva ottenersi se non per mezzo dell'accettazione del duca; dinanzi a lui tutti gli altri si sarebbero ritirati; il suo rifiuto avrebbe fatto pullulare altre ambizioncelle di patriotti dell'ultim'ora. A quell'insistenza, il duca esclamava: «Signori miei... mi confondete!... Siete troppo buoni... Non so che rispondere!...» «Risponda sì... accetti! Ci vuol tanto?... Se lo vogliamo!» «Ma io non sono adatto... Sento tutta la responsabilità del mandato... Non si scherza! Altro è dare qualche consiglio in Municipio, confortato da tutti voi; altro è sedere tra i rappresentanti del Parlamento!» «Signori miei,» fece a un tratto Giulente zio, mettendo fine al cortese contrasto. «Sapete che vi dico? La nostra commissione è compita: il duca sa qual è il desiderio di tutti; per ora egli non ci dice né sì né no; lasciamo che ci dorma sopra: domani, dopo domani, quando avrà ben ponderato, quando si sarà consigliato con i suoi amici, ci darà una risposta, e speriamo che sarà la desiderata...» «Ecco! Grazie, così...» rispose il duca. «Benissimo; vi prometto che ci penserò, che farò il possibile... Ma intanto grazie a tutti! Ringraziate per me le società; verrò poi io stesso a fare il mio dovere!...» Egli li trattenne ancora, discorrendo delle notizie del giorno, interessandosi alla cosa pubblica, toccando di sfuggita i provvedimenti che bisognava reclamare dal governo di Torino pel bene del paese, per il migliore assestamento del nuovo regime. Prese da un cassetto della scrivania una scatola di sigari: sigari d'Avana, color d'oro, dolci e profumati, e ne fece larga distribuzione, stringendo la mano a tutti, ma più forte ai due Giulente. Il domani, l'Italia risorta portava un articolo di fondo di Benedetto sulle imminenti elezioni, nel quale era detto: «Due soltanto i criteri ai quali possono ispirarsi i votanti: l'intemerato patriottismo che sia arra dell'italianità dell'eletto e la cospicuità sociale che gli permetta di svolgere la propria missione con l'indipendenza che dà guanto di disinteresse e di sincerità. Ora allorquando il paese ha la fortuna di possedere un Uomo che risponde al nome di duca GASPARE UZEDA D'ORAGUA, noi crediamo che ogni discussione si riduca un fuor d'opera, e che tutti i voti dei cittadini, giustamente gelosi del bene pubblico, debbano concentrarsi sul nome dell'illustre patrizio!» La gran maggioranza del collegio era per lui e nel coro degli adepti le voci discordi rimanevano soffocate. I più infervorati erano i popolani, gli operai, la Guardia nazionale, la gente spicciola che non godeva del voto, ma trascinava con sé i votanti. Se qualcuno tentava addurre argomenti contro quella candidatura, era subito ridotto al silenzio. Gli Uzeda erano tutti borbonici fin sopra i capelli? Tanto maggior merito da parte del duca nell'aver abbracciato a dispetto della parentela la fede liberale! Al Quarantotto egli non aveva preso un partito? Ma non aveva tradito, come tant'altri!... Però quelle voci parevano ridotte al silenzio, e risorgevano a un tratto più insistenti. Fin dall'estate, fin da quando i napolitani erano andati via, di tanto in tanto si trovavano attaccati alle cantonate o circolavano pei caffè e le farmacie certi fogli anonimi dove si leggevano brutte notizie, giudizi inquietanti, oscure minacce; questa roba era divenuta più rara, ma adesso ricominciava a circolare e conteneva, oltre che funesti pronostici sull'avvenire della rivoluzione, allusioni maligne contro le persone più in veduta, e specialmente contro il duca. Erano poche parole, in forma dubitativa o interrogativa, ma trovavasi sempre qualcuno che le spiegava. Che cosa aveva fatto il Patriotta nella giornata del 31 maggio? S'era nascosto a San Nicola, diceva il commento. E il cannocchiale del Quarantotto? Quello col quale s'era goduto l'attacco e l'incendio, attorniato dai soldati di Ferdinando II! E le visite all'Intendente? Per trovarsi dalla parte del manico, se alla rivoluzione toccavano colpi di granata... Il duca, a cui i Giulente avevano tenuti nascosti quegli attacchi, ordinando perfino alle guardie nazionali di non presentare al maggiore quei manifesti quando li spiccicavano dai muri, cominciò a chiederne notizie, insistette per leggerli. Impallidì un poco vedendo il suo nome, percorrendo rapidamente le frasi in cui si parlava di lui; ma non disse nulla. «E non poter sapere da qual mano vengono!» esclamava Benedetto. «Non poter dare una buona lezione a questi vigliacchi!» «Che possiamo farci!» rispose allora l'offeso. «Sono i piccoli inconvenienti delle rivoluzioni e della libertà. Ma la libertà corregge se stessa... Non ve ne date pensiero...» Però, appena quei due se ne furono andati, egli si mise il cappello in capo e salì difilato a San Nicola, dove chiese del Priore don Lodovico. «Guarda che tuo zio,» gli disse tranquillamente, «giuoca a un brutto giuoco. I cartelli anonimi vengono da lui e dalla sua comarca. Che egli se la prenda con me, non m'importa; mi giova, anzi, procurandomi maggiori simpatie; ma se continua a prendersela con tutti, a sparger sospetti e notizie bugiarde, potrà toccargli qualche dispiacere. Te l'avverto, perché tu che gli stai vicino glielo faccia sapere. A lungo andare tutto si scopre... Badi!» Il priore non ne fiatò con don Blasco, ma riferì ogni cosa all'Abate perché questi ne tenesse parola con qualcuno degli amici del monaco. Padre Galvagno fu incaricato della commissione; all'udire quel discorso, don Blasco mutò di colore. «Dite a me?» esclamò. «Siete impazziti, voi e chi vi manda. Dovete sapere che se io ho da dire ciò che sento, lo dico sul muso a chi si sia, occorrendo anche a Francesco II, che Dio sempre feliciti!» e fece un inchino profondo. «Figuratevi un po' se ho paura di questa manetta di briganti e carognuoli e...» e qui ricominciò a sfilare una litania più terribile delle solite. Ma i cartelli anonimi divennero da quel giorno più rari, e a poco a poco cessarono. Il monaco, a cui la bile quasi schizzava dagli occhi, sfogavasi in casa del principe - quando il duca non c'era - dicendo cose enormi contro il fratello, insultandolo, infamandolo, rovesciandogli addosso epiteti di novissimo conio, a petto ai quali quelli scambiati tra facchini e donne di mal affare erano complimenti e zuccherini. E la sua rabbia aveva un bersaglio più vicino e più diretto nella nipote Lucrezia. Questa vipera osava ancora pensare a quella carogna! L'avevano allevata perché li mordesse tutti quanti, insozzando il nome degli Uzeda, facendone ludibrio, sposando quella carogna! «Ah, razza putrida e schifosa! Ah, porco Viceré che la creasti!... Meglio sarebbe stato...» (mettere al mondo soltanto bastardi, era l'idea espressa dalle turpi parole) «piuttosto che generare questo nipotame sozzo e puzzolente!...»

Furono quelli i giorni più tremendi per Lucrezia. Erano tutti scatenati contro di lei: o non le rivolgevano la parola, o la colmavano d'improperi; donna Ferdinanda l'afferrava pel braccio dandole pizzicotti che portavano via la pelle; don Blasco un giorno per miracolo non se la messe sotto. Pallida e muta, ella lasciava passare la tempesta, chinava gli occhi, non piangeva, non si lagnava, non si confidava a nessuno, non chiedeva aiuto allo zio duca che sapeva amico di Benedetto e fautore del matrimonio, non diceva una parola dei suoi tormenti a Ferdinando che veniva al palazzo unicamente per lei, lasciando in asso le sue bestie imbalsamate e da imbalsamare. Soltanto quando si chiudeva in camera con Vanna, per avere le lettere del giovane, le diceva, con un sorriso freddo, a fior di labbro: «È inutile! Lo sposerò!...» Egli, frattanto, continuava a propugnare l'elezione del duca, con la parola in mezzo ai circoli, con gli scritti nell'Italia risorta e nelle stampe volanti intitolate: Chi è il duca d'Oragua, Un patrizio patriotta, e via discorrendo. «Fin dal 1848 l'insigne gentiluomo schierossi contro il governo del Re Bomba, tanto maggiore il suo merito in quanto egli non aveva da rimproverargli torti fatti a lui o ai suoi, ma al popolo intero... Nel lungo periodo di preparazione noi lo vediamo a Palermo, intrinseco dei più chiari patriotti portare il contributo della sua attività e delle sue sostanze alla causa nazionale. Ai primordi del movimento liberatore, corre in patria, poiché egli vuol parte dei dolori e delle gioie dei suoi amati concittadini. Qui è largo del suo prezioso ausilio ai liberali, e fa sentire ai rappresentanti dell'esecrato borbone la voce che ormai lo condanna. Egli versa il suo contributo per la formazione delle squadre volontarie, sussidia quanti liberali perseguitati soffrono nell'indigenza. Ritirati gli sgherri di Francesco, accorre tra i primi a regolare il governo della città, si ascrive tra le file della nazionale milizia, palladio di libertà; acquista per essa divise, munizioni e non pochi brandi. Apre la sua casa avita a Bixio ed a Menotti, rende ai liberatori gli onori della città. Sollecitato a rappresentare il primo collegio al Parlamento, modestamente declina l'offerta, volendo esser primo ai sacrifici, ultimo agli onori. Ma il paese lo vuole. La sorella Palermo ce lo invidia. E chi porta il nome di DUCA D'ORAGUA non può sottrarsi alla volontà del paese. Egli sarà il nostro deputato!» Il duca, da canto suo, riparlava al principe del matrimonio di Lucrezia, tesseva l'elogio del giovane, asseriva che era un partito da non lasciar sfuggire, perché i Giulente avevano quel solo figliuolo al quale sarebbero andate tutte le loro sostanze. «Conviene anche per un'altra ragione,» spiegava al nipote, «che non baderanno alla dote...» «Che ci badino o no, che cosa m'importa?» rispondeva il principe. «Lucrezia ha quello che ha; Vostra Eccellenza crede che io glielo voglia negare?» «Chi ha detto questo? Dico che si contentano di quello che ha...» «Sono affari che non mi riguardano. Sarebbe curioso che io impedissi a mia sorella di fare quel che le aggrada, alla sua età! La volontà di nostra madre forse poteva essere che restasse in casa; ma nostra madre è all'altro mondo; e quando pure vivesse...» Egli insisteva spesso su questo tono, ripeteva che sua sorella era libera di prendersi Giulente, ma le parole gli cascavano di bocca, troncava a mezzo il discorso, come se avesse dell'altro da dire, e tacesse poi per prudenza, per convenienza, per non parere ostinato. Tanto che il duca un giorno gli domandò: «Ma parla chiaro! Sei contrario a questo matrimonio?» «Io?... Quando è approvato da Vostra Eccellenza!...» «Giulente non ti piace?» «Ha da piacere a me?... È un buon giovane; basta saperlo amico di Vostra Eccellenza... Discretamente agiato, anche... Io non ho i pregiudizi della zia Ferdinanda e di don Blasco; i tempi oggi sono mutati... Vostra Eccellenza si persuada pure che se Lucrezia crede di poter essere felice con lui, io non mi opporrò... Però è giusto che neppur lei mi cerchi lite!» «Perché dovrebbe cercartela?...» «Perché?... Perché?... Vostra Eccellenza non sa nulla, era a Palermo in quel tempo!...» E allora gli confidò i dispiaceri che la sorella gli aveva dati, complottando con Chiara, col marchese, con Ferdinando, accampando diritti, interpretando a modo suo la legge, accusandolo perfino di volerla spogliare con tutti gli altri. «Adesso, se va a marito, bisognerà finirla con tutta questa storia... E Vostra Eccellenza vedrà che cominceranno da capo!» «Nossignore!» rispose il duca, fermamente. «Il matrimonio si farà, ma prendo impegno che tu non sarai molestato.» Già Padre Camillo aveva tenuto un simile discorso alla ragazza. Aveva cominciato a dirle che quell'unione era avversata da tutti, in famiglia, non perché presumevano che restasse zitella - quantunque!... benché!... - ma per la ragione che non era un partito conveniente. La considerazione della nascita aveva certo la sua importanza; non tanto per se stessa quanto per quella della educazione, dei principi morali e religiosi che implicava. Giulente era forse un buon giovane - non voleva infamarlo, senza conoscerlo - ma professava dottrine pericolose, parteggiava pei nemici dell'ordine sociale, del potere legittimo, della Santa Chiesa; e non si contentava di far ciò a parole, ma veniva agli atti. E una Uzeda, una nipote della Beata Ximena, una figlia del principe di Francalanza, avrebbe sposato costui? Come era possibile che s'intendessero? L'amore, l'accordo poteva regnare fra loro? E poi, lasciamo star questo, ma Giulente, benché facoltoso, l'avrebbe mantenuta con quel lusso al quale era stata avvezza? Aveva idee ed abitudini signorili?... Dunque, la famiglia non si opponeva per puro capriccio, ma per ragioni valide e gravi. Però, dice, ella stessa doveva esser miglior giudice di tutto questo: poteva forse sentirsi animata da tanto amore da andare incontro anche ai disagi materiali dell'esistenza, da sperare di poter convertire il giovane. Opera meritoria, zelo encomiabile; ma la quistione principale, unica, era che senza l'approvazione, il beneplacito, la benedizione di quelli che rappresentavano le felici memorie di suo padre e di sua madre non poteva sperar pace e prosperità. Lucrezia non aveva risposto una sillaba. «Che cosa vogliono,» disse, quando il confessore tacque, «per lasciarmelo sposare? Dicano ciò che vogliono; farò come vorranno.» «Ne ero sicuro!» esclamò il Domenicano con accento di gioioso trionfo. «Ero certo che una buona ragazza come te non avrebbe risposto altrimenti. E il principe, che ti vuol bene, ti sosterrà! Mettetevi d'accordo, siate sempre uniti: questo è il vostro interesse reciproco e la consolazione di chi vi guarda di lassù.» Così, quando il duca, che non aveva ancora parlato con la nipote della domanda di Giulente, gliela partecipò e le disse nel tempo stesso che Giacomo desiderava, prima che gli si desse una risposta, sistemare le quistioni d'interesse, Lucrezia si dichiarò pronta. Il principe, che aveva tenuto molte conferenze col signor Marco ed era stato molti giorni chiuso nello scrittoio, venne fuori a chiedere, anche a nome del fratello coerede, che fosse presa come base la divisione fatta dalla madre, dimostrandone con gran lusso di documenti e di cifre la giustezza; dimostrando altresì che la parte del padre non era mai esistita fuorché nella fantasia dello zio don Blasco. Esistevano però le cambiali che egli aveva pagato; sua sorella doveva dunque sostenere la sua parte in proporzione del legato: a conti fatti, non le toccavan più di ottomila onze. Lucrezia accettò questa somma. Il testamento materno prescriveva poi che il principe dovesse pagarle gli interessi al cinque per cento; ma nei cinque anni trascorsi dalla morte della madre non aveva egli mantenuto la sorella, di tutto punto, dandole casa, vitto, servizio, abiti, uso della carrozza, ecc., ecc.? Doveva egli sostenere del proprio queste spese? Se sua sorella fosse stata in bisogno, certo egli l'avrebbe raccolta in casa per l'affetto che le portava, ricordandosi che era dello stesso sangue. Ma ella aveva la sua roba: non era dunque giusto né ella stessa poteva accettare che per cinque anni il fratello l'avesse mantenuta. Rifatto il conto, gli interessi delle ottomila onze rappresentavano appunto le spese del mantenimento; dunque non le toccava altro che il capitale. Lucrezia disse ancora di sì. Tutto parve così stabilito, ma all'ultimo momento il principe mise allo zio duca una nuova condizione: «Io voglio regolare anche la situazione degli altri legittimari. Avevano tutti ragione, o hanno torto tutti: non pare a Vostra Eccellenza logico e giusto? Giacché dobbiamo metter mano alla carta bollata, bisogna uscirne in una sola volta. Ne parli Vostra Eccellenza agli altri e li metta d'accordo.» Chiara e il marchese non avevano le stesse ragioni per chinare il capo ai patti del principe, ma il momento era propizio per tentar d'indurre anche questi altri ad una transazione, giacché non vivevano se non dell'attesa del figlio, e la gioia di cui l'imminenza dell'avvenimento li colmava era tale che li disponeva a passar sopra ad ogni altro interesse. Perciò quando il duca riferì loro che Lucrezia si maritava ed aveva concluso la transazione, approvarono, giudicando soltanto che l'affare degli interessi trattenuti come compenso delle spese di mantenimento faceva poco onore al principe. Contenta lei, del resto, contenti tutti. «Adesso dovete aggiustarvi anche voialtri!...» aggiunse il duca, col tono d'affettuosa imposizione consentitogli non tanto dalla qualità di zio, quanto dall'avere accettato di tenere al fonte battesimale il nascituro. Il marchese, scambiata un'occhiata con la moglie, rispose: «Se Vostra Eccellenza vuole così...» «Il conto di Chiara è naturalmente lo stesso di quello di Lucrezia; ma per lei non c'è la quistione degli interessi, e Giacomo li pagherà fino all'ultimo.» «Io ho preso la mia cara Chiara pel bene che le voglio, e non pei quattrini...» e, chinatosi sulla moglie, Federico la baciò in fronte. «Ma il legato dello zio canonico? L'assegno matrimoniale?» rammentò ella, per non lasciar sopraffare il generoso marito. «Giacomo non intende riconoscerli, e non so se ha ragione o torto... Ma ormai bisogna uscirne! A voi, per ora, qualche migliaio d'onze non fa niente; io le compenserò, a suo tempo, al mio figlioccio!...» Così fu concluso, con giubilo immenso del marito e della moglie. Restava Ferdinando, dal quale il principe voleva le duemila onze della quota di debiti. Sull'animo del Babbeo Lucrezia sola poteva; ella però, invece di parlare col fratello, si mise a letto, rifiutando di vedere gente, accusando sofferenze misteriose. Il Babbeo, saputa la malattia della sorella, venne a trovarla, tutti i giorni; ma Lucrezia pareva l'avesse specialmente con lui. La cameriera le aveva detto ed ella stessa s'era accorta che Giacomo la strozzava; ma, per vincerla contro i parenti, sarebbe passata sopra a ben altro. Adesso ella sentiva il male che preparava al fratello minore, il solo che le volesse bene, inducendolo a spogliarsi d'un poco della magra eredità, la più magra di tutte le porzioni; ma nella sua testa le parti s'invertivano: il torto era di Ferdinando che non s'interessava a lei, che non le domandava che cosa avesse, che non rimoveva l'ultimo ostacolo alla conclusione del matrimonio. Ferdinando invece non sapeva nulla di nulla, e restò a bocca aperta quando il duca, per cavare una buona volta i piedi da quel pecoreccio, gli riferì ogni cosa. «È venuto un buon partito a tua sorella... Benedetto Giulente, sai, quel giovane tanto intelligente, che si è fatto tanto onore...» «Ah, sì? Va bene, ci ho piacere...» «Ma naturalmente Giacomo vuol prima sistemare gl'interessi, concludere la divisione rimasta per aria. Lucrezia s'è accordata, Chiara anche lei; però tuo fratello vuol definire la pendenza con te, una volta che è la stessa quistione... Questa è la malattia di Lucrezia...» «E perché non me n'ha parlato prima?» Egli accorse al capezzale dell'inferma, per dirle: «Stupida! T'affliggi per questo? Lo zio mi ha narrato ogni cosa... Se t'accordi tu, non ho ragione di accordarmi anch'io? Bisognava dirlo subito! Sei contenta così?...»

Il giorno dell'elezione era vicino; i due Giulente, ma più specialmente Benedetto, avevano scovato gli elettori, compiuto tutte le formalità dell'iscrizione; mattina e sera veniva gente a trovare il duca per dichiarargli che avrebbero votato per lui: i Giulente non mancavano mai. La vigilia della votazione, mentre appunto il candidato dava udienza ai suoi fautori, il cameriere del marchese venne di corsa a chiamare il principe e la principessa, perché Chiara era sul punto di partorire. Quando Giacomo e Margherita arrivarono in casa di lei, trovarono Federico che smaniava come un pazzo, dall'ansietà, non potendo assistere la sofferente, chiamando però a ogni tratto la cameriera, la cugina Graziella o una delle tre levatrici che si davano il cambio al letto della partoriente. Il principe restò con lui e la principessa entrò nella camera di Chiara. Nonostante il travaglio del parto, costei aveva un'aria beata, sorrideva tra due contorcimenti, raccomandava che rassicurassero suo marito. «Ditegli che non soffro... Va' tu stessa, Margherita... Ah!... Poveretto... è sulle spine...» Il suo desiderio di tanti anni, il suo voto più ardente, era dunque sul punto d'esser conseguito! I dolori s'attutivano, a quest'idea; ella non soffriva quasi più pensando all'ambascia del marito... Quando la principessa tornò in camera, la levatrice esclamava: «Ci siamo!... Ci siamo!...» «Presenta la testa?» domandò la cugina, che reggeva per le ascelle la marchesa in preda all'ultima crisi. «Non so... Coraggio, signora marchesa... Che è?...» A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall'alvo sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo. «Gesù! Gesù! Gesù!» Chiara, per fortuna, aveva perduto i sensi appena liberata, la principessa che s'era aggirata per la camera senza toccar nulla, incapace di dare aiuto alla partoriente, voltava adesso il capo, dal disgusto prodottole da quella vista; e le levatrici, la cugina, la cameriera si guardavano costernate, esclamando: «E chi vuol dare la notizia al marito!» Giusto il marchese, non udendo più nulla, chiamava: «Cugina!... Donn'Agata!... Come va?... Cugina!... Non viene nessuno?» Fu donna Graziella quella che dovette andargli incontro a prepararlo al brutto colpo: «Cugino, di buon animo!... Chiara è liberata...» «È maschio?... È femmina?... Cugina!... Perché non parlate?» «Fatevi animo!... Il Signore non ha voluto... Chiara sta bene; questo è l'importante...» Il principe, entrato a vedere l'aborto il cui unico occhio erasi spento, tentò d'impedire al cognato smaniante l'entrata nella camera della moglie; ma non vi riuscì. Dinanzi al mostro che le levatrici costernate avevano deposto sopra un mucchio di panni, il marchese restò di sasso, portando le mani ai capelli. Frattanto sua moglie tornava in sensi, guardava in giro gli astanti. «Federico!... È maschio?...» furon le prime parole che spiccicò. «Stia zitta!» ingiunsero a una voce le donne, mettendosi dinanzi all'aborto per impedire che lo scorgesse. «Non le dite nulla per ora...» «Federico!» chiamava ancora la puerpera. «Chiara!... Come stai?» esclamò il marchese, accorrendo. «Hai sofferto molto? Soffri ancora?» «No, nulla... Nostro figlio?» «Chiara, confortati! È una femminetta...» annunziò la cugina, accorrendo. «Che importa!... È tanto bellina!» «Peccato!...» sospirò ella. «Sei dolente per questo?» domandò poi al marito, vedendone la ciera buia. «Ma no, no!... Tutti i figliuoli sono cari lo stesso...» «E dov'è?... Portatela qui...» fece ella, con un nuovo sospiro. In quello stesso punto la cameriera, dietro ordine della principessa, portava via il feto avvolto in un panno, cercando di non farsi scorgere. «È lì!...» esclamò Chiara. «Voglio vederla...» Allora una grande confusione ammutolì tutti quanti. Federico, accarezzandole le mani, baciandola in fronte, le disse «Coraggio, figlia mia!... Fàtti coraggio... Vedi che anch'io mi rassegno! Il Signore non volle...» «È morta?» domandò ella, impallidendo. «No... è nata morta... Coraggio, poveretta!... Purché tu stia bene... il resto è nulla: sia fatta la volontà di Dio.» «Voglio vederla.» Tutti la circondarono, insistendo per dissuaderla da quel proposito: giacché era morta! Perché angustiarsi a quella vista! Bisognava che ella s'avesse riguardo; l'importante adesso era la salute di lei! «Voglio vederla,» ripeté seccamente. Bisognò contentarla. Non pianse, non provò raccapriccio nell'esaminare quell'abominio; disse al marito: «Era tuo figlio!...» E ordinò che non lo portassero via, pel momento. Arrivarono frattanto gli altri parenti, don Eugenio, donna Ferdinanda, la duchessa Radalì, i cugini del marchese; tutti si condolevano, ma auguravano miglior fortuna per la prossima volta. Arrivò anche il duca, verso sera, a fare i suoi convenevoli; ma restò poco, poichè i Giulente lo aspettavano giù, per riferirgli le ultime notizie intorno alle disposizioni del collegio: Benedetto pareva Garibaldi quando disse a Bixio: «Nino, domani a Palermo!...» Il domani infatti egli corse su e giù per le sezioni, per le case dei votanti, sollecitando la formazione dei seggi, interpretando la legge che riusciva nuova a tutti, incitando la gente a deporre nell'urna il nome d'Oragua. Frattanto in casa di Chiara, quasi in segno di protesta contro quell'ultima pazzia del duca, s'erano riuniti tutti gli Uzeda borbonici, ad eccezione di don Blasco il quale, dopo la transazione dei nipoti, la conclusione del matrimonio di Lucrezia e la candidatura del fratello, pareva veramente impazzito. La marchesa stava discretamente in salute e sopportava anche con sufficiente rassegnazione la sua disgrazia; il marchese non lasciava il capezzale della puerpera e si chinava a parlarle all'orecchio: nessuno dei due ascoltava i motti feroci di donna Ferdinanda contro il fratello, i ragionamenti storico-critici che il cavaliere teneva al principino, venuto anche lui a far visita alla zia col Priore e fra' Carmelo. Chiara aveva mandato a chiamare Ferdinando, e lo aspettava con viva impazienza: quando egli apparve se lo fece venire accanto e gli parlò piano, lungamente. Poi chiamò la cameriera e, cavato di sotto al guanciale un mazzo di chiavi, glielo diede, ordinandole in mezzo al frastuono della conversazione: «Sai la boccia dello strutto, nel riposto?... la grande?... Prendila, vuotala e nettala bene... Ma bene mi raccomando! Se c'è acqua calda è meglio.» Pronta che fu la boccia, Ferdinando andò a vederla. «Va bene,» disse; «adesso occorre lo spirito.» La marchesa ordinò che andassero a comprarlo; e allora in mezzo al cerchio dei parenti stupefatti, fu recato il feto, giallo come di cera, che Ferdinando lavò, asciugò e introdusse poi nella boccia dove versò lo spirito e adattò il tappo. «C'è un po' di sego?... di creta?...» «Ho il mio cerotto, se ti serve...» disse il marchese. E del cerotto che appestava la camera Ferdinando spalmò l'incastratura del tappo, perché non entrasse aria nel recipiente. La marchesa seguiva attentamente l'operazione; Consalvo, con gli occhi spalancati, guardava quel pezzo di grasso diguazzante nello spirito; a un tratto disse a don Lodovico: «Zio, non pare la capra del museo?» Al museo dei Benedettini c'era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo con le zampe, una vescica sconciamente membrificata; ma il parto di Chiara era più orribile. Don Lodovico non rispose; fatta una breve visita alla sorella, andò via. Anche gli altri a poco a poco se ne andarono, lasciando Chiara sola col marito a guardar soddisfatta quel pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Viceré. Premeva al principe di tornare dallo zio duca e, per fargli cosa grata, prese con sé il figliuolo, quantunque fosse l'ora che il ragazzo doveva tornare al convento. La famiglia era appena arrivata al palazzo, che s'udirono di lontano suoni confusi: battimani, grida, squilli di tromba e colpi di gran cassa. Una dimostrazione di cittadini d'ogni classe con bandiere e musica, capitanata dai Giulente, veniva ad acclamare il primo deputato del collegio, l'insigne patriotta. Il portinaio, vedendo arrivare quella turba vociferante, fece per chiudere il portone; ma Baldassarre, mandato giù dal duca, gli ingiunse di lasciarlo spalancato. La folla gridava: «Viva il duca di Oragua! Viva il nostro deputato!» mentre la banda sonava l'inno di Garibaldi e alcuni monelli, animati dalla musica, facevano capriole. I Giulente, il sindaco, altri otto o dieci cittadini più ragguardevoli parlamentavano con Baldassarre, volendo salire a complimentare l'eletto del popolo; poiché il duca si trovava su nella Sala Gialla, il maestro di casa ve li accompagnò: Benedetto Giulente, appena entrato, vide Lucrezia accanto alla principessa, ancora col cappellino in capo. Il duca, fattosi incontro ai cittadini, strinse la mano a tutti, prodigando ringraziamenti, mentre dalla via veniva il frastuono delle grida e degli applausi, e il principe, visto nel crocchio un iettatore impallidiva mormorando: «Salute a noi! Salute a noi!» Fu il nuovo eletto, pertanto, quello che presentò Giulente alle nipoti. Il giovane s'inchinò, esclamando raggiante: «Signora principessa, signorina, sono felice e superbo di presentar loro la prima volta i miei omaggi in questo fausto giorno che è di festa per la loro casa come per tutto il paese...» «Viva Oragua!... Fuori il duca!... Viva il deputato!» urlavano giù. E Benedetto, quasi fosse già in casa sua, spalancò il balcone. Allora il duca impallidì peggio del nipote: egli doveva adesso parlare alla folla, aprire finalmente il becco, dire qualcosa. Stringendosi a Benedetto, balbettava: «Che cosa?... Che debbo dire?... Aiutami tu, mi confondo...» «Dica che ringrazia il popolo della lusinghiera dimostrazione... che sente la responsabilità del mandato, ma che consacrerà tutte le sue forze ad adempierlo... animato dalla fiducia, sorretto...» Ma poiché le grida raddoppiavano, egli lo spinse verso il balcone. Appena il deputato apparve, un clamore più alto levossi dalla via formicolante di teste; salutavano coi cappelli, coi fazzoletti, con le bandiere, vociando: «Evviva! Evviva!...» Giallo come un morto, afferrato alla ringhiera con tutte e due le mani, con la vista ottenebrata, immobile in tutta la persona, l'Onorevole cominciò: «Cittadini...» Ma la voce si perdeva nel tumulto vasto e incessante, nel coro assordante degli applausi; l'atteggiamento del deputato non faceva capire che egli volesse discorrere. Benedetto alzò un braccio; come per incanto ottenne silenzio. «Cittadini!» cominciò il giovanotto; «in nome di voi tutti, in nome del popolo sovrano, ho comunicato all'illustre patriotta...» «Evviva Oracqua!... Evviva il duca!...» «la splendida, l'unanime affermazione dell'intero collegio... Alle tante prove d'abnegazione da lui date al paese...» «Evviva! Evviva!...» «il duca d'Oragua aggiunge quest'altra: di obbedire ancora una volta alla volontà del paese e di rappresentarci in quell'angusto consesso dove per la prima volta concorreranno i figli...» Ma non poté finire quel periodo. Le acclamazioni, i battimani soffocavano le sue parole; gridavano: «Viva l'unità italiana! Viva Vittorio Emanuele! Viva Oracqua! Viva Garibaldi!...» Altri aggiungevano: «Viva Giulente! Viva il ferito del Volturno!...» «Lo slancio da cui vi vedo animati,» egli proseguiva, «è la più bella conferma del responso dell'urna... di quell'urna donde ancora una volta esce la libera... la sovrana volontà d'un popolo divenuto padrone di sé... Cittadini! Il 18 febbraio 1861, tra i rappresentanti della nazione risorta noi avremo la somma ventura di veder sedere il duca d'Oragua. Viva il nostro deputato!... Viva l'Italia!...» Uno scroscio finale d'applausi rintronò e la folla cominciò a rimescolarsi. Una seconda volta, con voce strozzata, senza un gesto, senza un moto, il duca aveva cominciato: «Cittadini...» ma giù non udivano, non comprendevano ch'egli fosse per parlare. Allora, voltatosi verso le persone che gremivano il balcone, egli disse: «Volevo aggiungere due parole... ma se ne vanno... Possiamo rientrare...» Sorrideva, traendo liberamente il respiro, come liberato da un incubo, stringendo la mano a tutti, ma più forte a Benedetto, quasi volesse spezzargliela. «Grazie!... Grazie!... Non dimenticherò mai questo giorno...» Guidò il giovane nella stanza attigua perché prendesse congedo dalle signore, accompagnò tutti fino alla scale. Quando rientrò, il principe, liberato anche lui dall'incubo della iettatura, ricominciò a complimentarlo, additandolo come esempio al figliuolo: «Vedi? Vedi quanto rispettano lo zio? Come tutto il paese è per lui?» Il ragazzo, stordito un poco dal baccano, domandò: «Che cosa vuol dire deputato?» «Deputati,» spiegò il padre, «sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento.» «Non le fa il Re?» «Il Re e i deputati assieme. Il Re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c'erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!...»

 

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.38.46