De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

C A R L O   D O S S I

AMORI

TERZO CIELO.

Amelia

Ma io doveva salire, ne' mièi amori, più alto - sempre più alto. Dal campo della linea esterna, tracciata dalla natura sia colla nuda mano sia colla maga verghetta dell'arte, presto passài a quello della linea interna, passài dalle pinacoteche (e metto anche tra esse le collezioni di paesaggi di vivo verde ed azzurro) alle biblioteche.

Qui, tuttavìa, mi trovài innanzi due vie. M'incoraggiava verso la prima un professore di lingue clàssiche. Sbadigliavo io, allora, il mio primo anno di licèo. Quel professore, già nell'àbito prete, aveva mutato il plumbeo latino de' santi padri con l'àureo dei padri profani Agli istòrici, ai gramàtici, ai filòsofi, egli, però, preferiva i poeti, e tra questi i più donnajuoli, commentàndoci a tutto spiano e Catullo ed Orazio e Properzio ed Ovidio.

Oh come, leggendo egli di amori, tra una folla di visi, come allora i nostri, freschi e femminei, orto vero di rose, i suòi occhi rospini diventàvano lùcidi, oh come la voce di lui facèvasi capreggiante, quando, ai passi più sdrùccioli, sostava per illustrare e farci gustare bellezze, ch'egli chiamava filològiche!

E, dall'onda de' versi armoniosi, sembràvano emèrgere e posare nell'àula semicircolare, come modelle in una scuola di disegno, le formose matrone e fanciulle di Roma antica - patrizie e vestali, liberte e schiave, canèfore e citarede, danzatrici e dittèridi. E sorgeva Glicera dalle membra bianche e splendenti qual marmo pario e Làlage che sorrideva parole e Tindàride ancor più bella della bellìssima madre; sorgèvano Nèmesi e Delia, le spossatrici del delicato Tibullo, ed Acme in grembo del suo Settimiello e Lesbia catulliana dagli innumerèvoli baci, col pàssero suo. E, presso loro, la gladiatoria Filene dall'amor sàffico e la mentita Licisca dal colmo seno e dagli indorati capèzzoli, ed Ipsitilla fida e Neera spergiura, eppur sì cara, Neera il cui volto e più l'ira piacèvano tanto a Properzio. Quindi, sdrajata asiaticamente sui cuscini porpurei di una lettiga dorata e gemmata, che nel sole parèa un sole, passava, recàndosi al mare d'Anzio, la giunònica Cinzia dalla fulva chioma e dalla mano affilata: otto schiavi etiopi reggèvano sulle spalle ebanine la lettiga, ad essa legati da tintinnanti catene d'argento: due mastini, dai collari aspri di punte, la accompagnàvano, ringhiosa scorta. Poi la notte si addensava nell'àere e Diana mostrava la sua pàllida faccia: le tènere vèrgini, in cerchio, tenèndosi a mano, cantàvano con voce argentina le làudi della fredda castità della dea, mentre gli amanti appendèvano alle immiti porte, corone di rose bagnate dalla rugiada del pianto. Ma un rombo di applàusi e una mòbile striscia di fuoco rompèvano in lontananza la calma e le tènebre: piè-veloci fanciulle, fra due siepi di àvidi giòvani acclamanti, corrèvano nude e pudiche, impugnando e scuotendo fiàccole. Il rumore aumentava, vi si aggiungeva il fracasso di cìmbali furiosamente picchiati e di scossi sistri concitatori: la sacra orgia avèa invaso la immensa città, e baccanti, in mezzo a luperci dal fecondatore flagello e satiretti dalle coscie villose, la percorrèvano tumultuosamente, le chiome sparse, agitando tirsi, ebbre di vino e d'amore.

Era questo un latino a capirsi ben fàcile anche senza commenti, e tanto più fàcile che il professore avèa, nello spiegàrcelo, vere alzate d'ingegno; metteva, per così dire, le ali, pur restando un majale. Nè io vi potrèi certo giurare che la mia pelle fosse più impervia alle carezze della sensualità di quelle de' mièi compagni e che non mi trovassi tanto quanto commosso a sifatta esposizione di bionde e nere capigliature che toccàvano il suolo, di occhi che rubàvano al mare il colore e alle stelle il fulgore, di labbra tùmide e ardenti, di spalle trionfali, di seni tùrgidi e eretti, di fianchi voluttuosi, di rosati ginocchi e piè inavvertìbili... - a tutta questa filata, dinanzi a noi sultanucci, di non smorfiose ragazze, spiranti ellènica grazia, odor di mela cotogna, scollate fino al mallèolo.

Tuttavìa, la mia ànima ne uscì illesa. L'ostàcolo che già si era frapposto tra essa e le creazioni della plàstica - la mancanza di affettuosità - rialzava quì il capo. Quell'amor greco o latino, così ricco di polpe, m'aveva, in complesso, un viso insulso. Nell'amore, come in pittura, come in letteratura, come in tutto, gli antichi non possedèvano le mezze tinte, quelle delicate espressioni di sentimento che pènetrano assài più addentro in un cuore delle forti. Dai cieli dell'amor platònico, dai pinàcoli dell'amor tràgico precipitàvano addirittura nello stabbio della priapografìa. Era forse il loro un amor più sincero, perchè più bestiale, del nostro; era forse più adatto a mèttere assieme robusti gaglioffi, ma non conduceva che a nozze di carne, e le pòvere ànime sospiràvano escluse dal tàlamo.

Molte donne dell'antichità ammirài, non ne ho amata alcuna. Èrano grandi, non affettuose: èrano belle, non gentili. Non conoscèvano il pudore del vizio, non la modestia della virtù. Boriose sempre, la loro casa poteva dirsi una varietà della piazza. Capaci di pronunciare una sentenza sublime, ignoràvano il commosso mùrmure dell'amore; pronte ad uccìdersi teatralmente sul corpo dei loro amati, non sapèvano piàngerli con celate làgrime e morir di cordoglio. Tisbe che si lascia cadere sul ferro ancora tepente del sangue di Pìramo suo, Didone tradita che spegne la fiamma amorosa tra le fiamme di un rogo, Leandro che affoga, nel mar burrascoso, sotto la torre e gli occhi ansii di Ero, altri ed altri amori infelici, finiti nel laccio di un cànape, da un'alta rupe, sovra una spada, nell'aqua, nel fuoco, invitàvano certo a pietà, ma la pietà cedeva in mè presto alla indifferenza. Per tanti funerali non avevo più lutto. Anche per Arianna, abbandonata in Nasso dall'ingrato Tesèo, la commiserazione mi si mutò in ilarità, quando la vidi sì facilmente consolarsi con Bacco - la dive bouteille. Di tutte le innamorate della antichità, una sola conquistò le mie simpatìe e fu Bàcchide, la giòvine e dolce etera, rejetta da Ipèride, la quale, a coloro che, parlàndole dell'amante di un tempo, ora in braccio d'altra donna, le chiedèvano: e tu che fai? - rispondeva: l'attendo. -

Senonchè, a casa, io dimenticava fortunatamente la scuola, e la campana dell'ànima mia tornava a librarsi e a squillare, senza alcuno che le tirasse la corda, nell'aerea sua torre.

Mi ero allora assoggettato ad una nutrizione, spinta alle dosi più alte, di romanzi moderni, e debbo èssermene certo cacciati in corpo più che non ne potessi assimilare, perocchè oggi non riuscirèi a fàrcene stare uno di più, compresi i mièi. Oggi il capo dello scrittore paralizzò lo stòmaco del lettore.

Abbandonàndomi dunque alla sdrucciolina del romanzo - sola menzogna onesta e lodèvole - cominciài allora a pigliare, per le eroine che vi campeggiàvano, il più vivo interesse, caddi anzi di taluna di esse sifattamente innamorato da sentir gelosìa per gli amanti che l'autore aveva lor destinato, da irritarmi persino con essi, quando parèvami che trattàssero le loro dame men bene di quanto le avrèi io trattate. Nè una passione, col mutar di romanzo, sostituìvasi all'altra. De' suòi amori, Margherita di Navarra dicèa che l'ùltimo le rinfrescava sempre la memoria del primo, e altrettanto potrèi dir io de' mièi. Ogni nuovo amore, per mè, era ed è un fiore che aggiùngesi al mazzo dei precedenti e ne aumenta il profumo. A questo mazzo imposi però un nome ùnico, quasi sèrico nastro che collegasse i vari fiori, "Amelia", creatura ideale tra la nùvola e l'ombra, in cui impersonavo, mano a mano, le virtù e bellezze delle mie eroine e che tutte insieme me le rappresentava, come nel nome di "donna italiana" splèndono fuse la formosità delle romane e l'eleganza delle lombarde, lo spìrito delle vènete e il calor delle sìcule.

Ma a costituire questa amante romàntica, complessiva o media, come si chiamerebbe in statìstica, duolmi dover confessare che i romanzi italiani - accenno a quelli di una trentina di anni fà ed escludo i Cento Anni - non èbbero parte. Le donne di tali romanzi rimàsero sempre, a' mièi occhi, piatte, impiombate nelle lor pàgine. Non parlo di quelle dame medioevali, losche e sbilenche, che sembràvano stratagliate dai figurini di un vestiarista teatrale o da una tela di Hàyez. Le latine e le greche, pazienza!, non avèvano cuore sentimentale: queste lo avèvano, ma di pezza rossa e cucito sovra il corsetto, come su un piastrone di scherma. E debbo pur confessare - e mi picchio il petto - che neanche la protagonista del romanzo più celebrato, e meritamente, dell'Italia odierna, Lucìa Mondella, seppe co' suòi occhioni bassi e la lusinga delle sue ritrosìe, pormi terzo fra Renzo e Don Rodrigo. La tosa, sicuramente, possedeva un cuor non dipinto, ma tramandava anche - almeno al sospettoso mio olfato - il caratterìstico odore di cotonina e stallàtico delle villane lombarde. Con essa avrèi forse potuto fare all'amore in tempi d'infreddatura. Disgraziatamente, a quell'època, non ero infreddato.

Le eroine da mè preferite, fùrono invece, pressochè tutte, straniere e specialmente inglesi e tedesche - fanciulle che avèvano nei capelli il sole e nella pupilla il sereno mancanti al lor cielo, e nelle carni trasparenze d'alabastro e d'opale, fanciulle in cui non si sapeva discèrnere dove il sogno finisse e cominciasse la realtà. S'impadronìrono esse dei centri sessuali del mio cervello dando sguardi e parola e movenze alla letteraria mia Amelia. E verso mè, cangiato provvisoriamente nel giòvane Wàlter, vedevo accòrrere e rifugiarsi Fiorenza, la mite figlia del duro Dombey, o trasportavo tra le mie braccia, dal giardino alla sua stanzuccia, la pòvera Dora Copperfield che diventava di giorno in giorno più lieve, o, a mano di Agnese, scendevo dal tempio, dove ci eravamo sposati, verso una vita felice. Eppòi, seduto con Saint-Preux ascoltavo i saggi consigli di Giulia, ma più mi piacèvan le labbra donde venìvano, e mi sollazzavo con Lilì e le sue colombelle, la ridente Lilì ignara d'amore benchè già innamorata. E ancora: reggevo colla buona Cordelia il titubante passo dell'allucinato rè Lear, o sepelivo, con silenziosa ambascia, Atala nella solitaria grotta, od incontràtomi in qualche angioletta di Klòpstock smarrìtasi in terra, ci abbracciavamo tuttotremanti di gioja.

Ma, molto più che a quelle dei romanzi, fui e sono devoto alle eroine dei loro autori. Parlo delle ìnclite donne, che amàrono i sommi scrittori o ne fùrono amate, e le chiamo, pur'esse, eroine - specialmente le prime - perocchè non ama davvero un gran cuore se non colèi che ha un cuor grande. Quasi sempre, l'uomo destinato alla gloria, appare solo nel mondo ed è da questo per lungo tempo sfuggito, calunniato anzi e deriso come incompreso da coloro sì fàcili ad èsser capiti, gli stolti. Senonchè, la donna magnànima lo ha scorto, lo ha indovinato, e, prèsaga del futuro, sdegnosa della moltitùdine, generosa a lui ed a sè, accorre al suo fianco.

Tali donne han diritto alla perenne riconoscenza dell'ammirante posterità. Le più splèndide rose dell'ingegno fiorìrono al sole dell'amore. Dare un uomo, pòssono quasi tutte; un grand'uomo, pochìssime. Sono, queste, le vere muse invocate dalla poesìa, le vestali conservatrici del sacro fuoco del genio. Dirèi, ricordàndole, che nella generazione intellettuale avviene come nell'altra, nulla si può produrre senza il concorso di fèmmina. Acceso dallo sguardo di Bice, il sangue di Dante si slancia ai cùlmini del pensiero e tocca il cielo. Senza Làura, Petrarca compone la morta "Africa"; con Làura, il canzoniere immortale. Ed ecco Margherita di Scozia bacia la bocca di Alano Chartier, il deforme poeta, quella bocca dond'èrano usciti tanti motti arguti e virtuose sentenze, e Vittoria Colonna corona di casto amore l'altera gloria di Michelàngiolo, e Luisa d'Albanìa debella col suo sorriso il cipiglio d'Alfieri, e la Dama gentile teneramente consola colle lettere, non potendo colle carezze, l'èsule Fòscolo. Ed ecco ancora, Carolina Màier, la timida giovinetta, fatta di sùbito ardita alla vista di Jean-Paul, si china a lui e gli bacia appassionatamente, tra gli scandolezzati parenti, la mano, quella mano che sarà sua, e Federica Brion, già felice e sempre altera dell'amplesso del letterario Giove della Germania, respinge ogni offerta più seducente di nozze, e muor sola, dicendo, che "donna amata da Goethe non poteva èsser d'altri, nemmeno di un rè."

Benedette voi tutte, insigni donne, di ogni tempo e paese, che foste madri agli uòmini eccelsi, assài più di quelle che li hanno portati, spesso indegne, per pochi mesi nel grembo; che di essi ascoltaste il silenzio e vedeste il cuore; che loro versaste nelle vene l'agitante liquor dell'amore, e foste patria a chi l'aveva perduta e gloria a cui era contesa; voi, nelle cui braccia fedeli, il genio obliò la sventura e nella cui voce sentì l'oricalco incitante a nuove pugne e vittorie. Non vi ha gagliardo intelletto, che non rimanga talvolta sorpreso da smarrimenti e sgomenti: guài allora, se solo ei si trovi; se la gemella ànima confortatrice gli manchi! Beato invece colùi che può riposare lo sguardo afflitto in una femminile pupilla che splenda fede incrollàbile. Lo odii, lo persèguiti il mondo; a lui basta che ella sorrida. Si addensi pure la notte, l'uragano imperversi, strida il gelo; allacciato con lei, egli è nella luce, nel caldo, nella sicurezza. Benedette, ripeto, tutte voi, o elettìssime! Il premio che vi concede la storia è ben meritato. Nell'aurèola che circonda la fronte dei vostri amanti od amati, voi pur risplendete - voi, attraverso i sècoli, ùniche, indissolùbili loro spose.

fdnext1.gif (6032 byte)

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 21.58

fdback1.gif (6176 byte)