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IL QUARTO LIBRO DEL CORTEGIANO

DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE

A MESSER ALFONSO ARIOSTO

I.

 

Pensando io di scrivere i ragionamenti che la quarta sera dopo le narrate nei precedenti libri s'ebbero, sento tra varii discorsi uno amaro pensiero che nell'animo mi percuote e delle miserie umane e nostre speranze fallaci ricordevole mi fa; e come spesso la fortuna a mezzo il corso, talor presso al fine rompa i nostri fragili e vani disegni, talor li summerga prima che pur veder da lontano possano il porto. Tornami adunque a memoria che non molto tempo dapoi che questi ragionamenti passarono privò morte importuna la casa nostra di tre rarissimi gentilomini, quando di prospera età e speranza d'onore piú fiorivano. E di questi il primo fu il signor Gaspar Pallavicino, il quale, essendo stato da una acuta infirmità combattuto e piú che una volta ridutto all'estremo, benché l'animo fosse di tanto vigore che per un tempo tenesse i spiriti in quel corpo a dispetto di morte, pur in età molto immatura forní il suo natural corso: perdita grandissima non solamente alla casa nostra ed agli amici e parenti suoi, ma alla patria ed a tutta la Lombardia. Non molto appresso morí messer Cesare Gonzaga il quale a tutti coloro che aveano di lui notizia lasciò acerba e dolorosa memoria della sua morte; perché, producendo la natura cosí rare volte, come fa, tali omini, pareva pur conveniente che di questo cosí tosto non ci privasse; ché certo dir si po che messer Cesare ci fosse a punto ritolto quando cominciava a mostrar di sé piú che la speranza, ed esser estimato quanto meritavano le sue ottime qualità; perché già con molte virtuose fatiche avea fatto bon testimonio del suo valore, il quale risplendeva, oltre alla nobilità del sangue, dell'ornamento ancora delle lettere e d'arme e d'ogni laudabil costume; tal che, per la bontà, per l'ingegno, per l'animo e per lo saper suo non era cosa tanto grande, che di lui aspettar non si potesse. Non passò molto che messer Roberto da Bari esso ancor morendo molto dispiacer diede a tutta la casa; perché ragionevole pareva che ognun si dolesse della morte d'un giovane di boni costumi, piacevole, e di bellezza d'aspetto e disposizion della persona rarissimo, in complession tanto prosperosa e gagliarda quanto desiderar si potesse.

 

 

 

II.

 

Questi adunque se vivuti fossero, penso che sariano giunti a grado, che ariano ad ognuno che conosciuti gli avesse potuto dimostrar chiaro argumento, quanto la corte d'Urbino fosse degna di laude e come di nobili cavalieri ornata; il che fatto hanno quasi tutti gli altri, che in essa creati si sono; ché veramente del caval troiano non uscirono tanti signori e capitani, quanti di questa casa usciti sono omini per virtú singulari e da ognuno sommamente pregiati. Ché, come sapete, messer Federico Fregoso fu fatto arcivescovo di Salerno; il conte Ludovico, vescovo di Baious; il signor Ottaviano, duce di Genova; messer Bernardo Bibiena, cardinale di Santa Maria in Portico; messer Pietro Bembo, secretario di papa Leone; il signor Magnifico al ducato di Nemours ed a quella grandezza ascese dove or si trova; il signor Francesco Maria Ruvere, prefetto di Roma, fu esso ancora fatto duca d'Urbino; benché molto maggior laude attribuir si possa alla casa dove nutrito fu, che in essa sia riuscito cosí raro ed eccellente signore in ogni qualità di virtú, come or si vede, che dello esser pervenuto al ducato d'Urbino; né credo che di ciò piccol causa sia stata la nobile compagnia, dove in continua conversazione sempre ha veduto ed udito lodevoli costumi. Però parmi che quella causa, o sia per ventura o per favore delle stelle, che ha cosí lungamente concesso ottimi signori ad Urbino, pur ancora duri e produca i medesimi effetti; e però sperar si po che ancor la bona fortuna debba secondar tanto queste opere virtuose, che la felicità della casa e dello stato non solamente non sia per mancare, ma piú presto di giorno in giorno per accrescersi; e già se ne conoscono molti chiari segni, tra i quali estimo il precipuo l'esserci stata concessa dal cielo una tal signora, com'è la signora Eleonora Gonzaga, Duchessa nova; ché se mai furono in un corpo solo congiunti sapere, grazia, bellezza, ingegno, manere accorte, umanità ed ogni altro gentil costume, in questa tanto sono uniti, che ne risulta una catena, che ogni suo movimento di tutte queste condizioni insieme compone ed adorna. Seguitiamo adunque i ragionamenti del nostro cortegiano, con speranza che dopo noi non debbano mancare di quelli che piglino chiari ed onorati esempi di virtú dalla corte presente d'Urbino, cosí come or noi facciamo dalla passata.

 

 

 

III.

 

Parve adunque, secondo che 'l signor Gasparo Pallavicino raccontar soleva, che 'l seguente giorno, dopo i ragionamenti contenuti nel precedente libro, il signor Ottaviano fosse poco veduto; per che molti estimarono che egli fosse retirato, per poter senza impedimento pensar bene a ciò che dire avesse. Però, essendo all'ora consueta ridottasi la compagnia alla signora Duchessa, bisognò con diligenzia far cercar il signor Ottaviano, il quale non comparse per bon spacio; di modo che molti cavalieri e damigelle della corte cominciarono a danzare ed attendere ad altri piaceri, con opinion che per quella sera piú non s'avesse a ragionar del cortegiano. E già tutti erano occupati chi in una cosa chi in un'altra, quando il signor Ottaviano giunse quasi piú non aspettato; e vedendo che messer Cesare Gonzaga e 'l signor Gaspar danzavano, avendo fatto riverenzia verso la signora Duchessa, disse ridendo: - Io aspettava pur d'udir ancor questa sera il signor Gaspar dir qualche mal delle donne; ma vedendolo danzar con una, penso ch'egli abbia fatto la pace con tutte; e piacemi che la lite o, per dir meglio, il ragionamento del cortegiano sia terminato cosí. - Terminato non è già, - rispose la signora Duchessa; - perch'io non son cosí nemica degli omini, come voi siete delle donne; e perciò non voglio che 'l cortegiano sia defraudato del suo debito onore, e di quelli ornamenti che voi, stesso iersera gli prometteste; - e cosí parlando ordinò che tutti, finita quella danza, si mettessero a sedere al modo usato: il che fu fatto; e stando ognuno con molta attenzione, disse il signor Ottaviano: - Signora, poiché l'aver io desiderato molt'altre bone qualità nel cortegiano si batteggia per promessa ch'io le abbia a dire, son contento parlarne, non già con opinion di dir tutto quello che dir vi si poria, ma solamente tanto che basti per levar dell'animo vostro quello che ierisera opposto mi fu, cioè ch'io abbia cosí detto piú tosto per detraere alle laudi della donna di palazzo, con far credere falsamente che altre eccellenzie si possano attribuire al cortegiano, e con tal arte fargliele superiore, che perché cosí sia; però, per accommodarmi ancor all'ora, che è piú tarda che non sòle quando si dà principio al ragionare, sarò breve.

 

 

 

IV.

 

Cosí, continuando il ragionamento di questi signori, il quale in tutto approvo e confermo, dico che delle cose che noi chiamiamo bone sono alcune che simplicemente e per se stesse sempre son bone, come la temperanzia, la fortezza, la sanità e tutte le virtú che partoriscono tranquillità agli animi; altre, che per diversi rispetti e per lo fine al quale s'indrizzano son bone, come le leggi, la liberalità, le ricchezze ed altre simili. Estimo io adunque che 'l cortegiano perfetto, di quel modo che descritto l'hanno il conte Ludovico e messer Federico, possa esser veramente bona cosa e degna di laude; non però simplicemente né per sé, ma per rispetto del fine al quale po essere indrizzato; ché in vero se con l'esser nobile, aggraziato e piacevole ed esperto in tanti esercizi il cortegiano non producesse altro frutto che l'esser tale per se stesso, non estimarei che per conseguir questa perfezion di cortegiania dovesse l'omo ragionevolmente mettervi tanto studio e fatica, quanto è necessario a chi la vole acquistare; anzi direi che molte di quelle condicioni che se gli sono attribuite, come il danzar, festeggiar, cantar e giocare, fossero leggerezze e vanità, ed in un omo di grado piú tosto degne di biasimo che di laude; perché queste attillature, imprese, motti ed altre tai cose che appartengono ad intertenimenti di donne e d'amori, ancora che forse a molti altri paia il contrario, spesso non fanno altro che effeminar gli animi, corrumper la gioventú e ridurla a vita lascivissima; onde nascono poi questi effetti che 'l nome italiano è ridutto in obbrobrio, né si ritrovano se non pochi che osino non dirò morire, ma pur entrare in uno pericolo. E certo infinite altre cose sono le quali, mettendovisi industria e studio, partuririano molto maggior utilità e nella pace e nella guerra, che questa tal cortegiania per sé sola; ma se le operazioni del cortegiano sono indrizzate a quel bon fine che debbono e ch'io intendo, parmi ben che non solamente non siano dannose o vane, ma utilissime e degne d'infinita laude.

 

 

 

V.

 

Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s'è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori talmente la benivolenzia e l'animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d'ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa ed indurlo al camin della virtú; e cosí avendo il cortegiano in sé la bontà, come gli hanno attribuita questi signori, accompagnata con la prontezza d'ingegno e piacevolezza e con la prudenzia e notizia di lettere e di tante altre cose, saprà in ogni proposito destramente far vedere al suo principe quanto onore ed utile nasca a lui ed alli suoi dalla giustizia, dalla liberalità, dalla magnanimità, dalla mansuetudine e dall'altre virtú che si convengono a bon principe; e, per contrario, quanta infamia e danno proceda dai vicii oppositi a queste. Però io estimo che come la musica, le feste, i giochi e l'altre condicioni piacevoli son quasi il fiore, cosí lo indurre o aiutare il suo principe al bene e spaventarlo dal male, sia il vero frutto della cortegiania. E perché la laude del ben far consiste precipuamente in due cose, delle quai l'una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion nostra, che sia veramente bono, l'altra il saper ritrovar mezzi opportuni ed atti per condursi a questo bon fine desegnato, certo è che l'animo di colui, che pensa di far che 'l suo principe non sia d'alcuno ingannato, né ascolti gli adulatori, né i malèdici e bugiardi, e conosca il bene e 'l male ed all'uno porti amore, all'altro odio, tende ad ottimo fine.

 

 

 

VI.

 

Parmi ancora che le condicioni attribuite al cortegiano da questi signori possano esser bon mezzo da pervenirvi; e questo perché dei molti errori ch'oggidí veggiamo in molti dei nostri príncipi, i maggiori sono la ignoranzia e la persuasion di se stessi; e la radice di questi dui mali non è altro che la bugia; il qual vicio meritamente è odioso a Dio ed agli omini e piú nocivo ai principi che ad alcun altro; perché essi piú che d'ogni altra cosa hanno carestia di quello di che piú che d'ogni altracosa saria bisogno che avessero abundanzia, cioè di chi dica loro il vero e ricordi il bene; perché gli inimici non son stimulati dall'amore a far questi offici, anzi han piacere che vivano sceleratamente né mai si correggano; dall'altro canto, non osano calunniargli publicamente per timor d'esser castigati; degli amici poi, pochi sono che abbiano libero adito ad essi, e quelli pochi han riguardo a riprendergli dei loro errori cosí liberamente come riprendono i privati, e spesso, per guadagnar grazia e favore, non attendono ad altro che a propor cose che dilettino e dian piacere all'animo loro, ancora che siano male e disoneste; di modo che d'amici divengono adulatori e, per trarre utilità da quel stretto commercio, parlano ed oprano sempre a complacenzia e per lo piú fannosi la strada con le bugie, le quali nell'animo del principe partoriscono la ignoranzia non solamente delle cose estrinseche, ma ancor di se stesso; e questa dir si po la maggior e la piú enorme bugia di tutte l'altre, perché l'animo ignorante inganna se stesso e mentisce dentro a se medesimo.

 

 

 

VII.

 

Da questo interviene che i signori, oltre al non intendere mai il vero di cosa alcuna, inebbriati da quella licenziosa libertà che porta seco il dominio e dalla abundanzia delle delizie, sommersi nei piaceri, tanto s'ingannano e tanto hanno l'animo corrotto, veggendosi sempre obediti e quasi adorati con tanta riverenzia e laude, senza mai non che riprensione ma pur contradizione, che da questa ignoranzia passano ad una estrema persuasion di se stessi, talmente che poi non ammettono consiglio né parer d'altri; e perché credono che 'l saper regnare sia facilissima cosa e per conseguirla non bisogni altr'arte o disciplina che la sola forza, voltan l'animo e tutti i suoi pensieri a mantener quella potenzia che hanno, estimando che la vera felicità sia il poter ciò che si vole. Però alcuni hanno in odio la ragione e la giustizia, parendo loro che ella sia un certo freno ed un modo che lor potesse ridurre in servitú e diminuir loro quel bene e satisfazione che hanno di regnare, se volessero servarla; e che il loro dominio non fosse perfetto né integro, se essi fossero constretti ad obedire al debito ed all'onesto, perché pensano che chi obedisce non sia veramente signore. Però andando drieto a questi princípi e lassandosi trapportar dalla persuasione di se stessi divengon superbi, e col volto imperioso e costumi austeri, con veste pompose, oro e gemme, e col non lassarsi quasi mai vedere in publico, credono acquistar autorità tra gli omini ed esser quasi tenuti dèi; e questi sono, al parer mio, come i colossi che l'anno passato fur fatti a Roma il dí della festa in piazza d'Agone, che di fori mostravano similitudine di grandi omini e cavalli triunfanti e dentro erano pieni di stoppa e di strazzi. Ma i príncipi di questa sorte sono tanto peggiori, quanto che i colossi per la loro medesima gravità ponderosa si sostengon ritti; ed essi, perché dentro sono mal contrapesati, e senza misura posti sopra basi inequali, per la propria gravità ruinano da se stessi e da un errore incorrono in infiniti; perché la ignoranzia loro accompagnata da quella falsa opinion di non poter errare, e che la potenzia che hanno proceda dal lor sapere, induce loro per ogni via, giusta o ingiusta, ad occupar stati audacemente, pur che possano.

 

 

 

VIII.

 

Ma se deliberassero di sapere e di far quello che debbono, cosí contrastariano per non regnare, come contrastano per regnare; perché conosceriano quanto enorme e perniciosa cosa sia che i sudditi, che ban da esser governati, siano piú savi che i príncipi, che hanno da governare. Eccovi che la ignoranzia della musica, del danzare, del cavalcare non nòce ad alcuno; nientedimeno, chi non è musico si vergogna né osa cantare in presenzia d'altrui, o danzar chi non sa, e chi non si tien ben a cavallo, di cavalcare; ma dal non sapere governare i populi nascon tanti mali, morti, destruzioni, incendi, ruine, che si po dir la piú mortal peste che si trovi sopra la terra; e pur alcuni príncipi ignorantissimi dei governi non si vergognano di mettersi a governar, non dirò in presenzia di quattro o di sei omini, ma al conspetto di tutto 'l mondo; perché il grado loro è posto tanto in alto, che tutti gli occhi ad essi mirano, e però non che i grandi ma i piccolissimi lor diffetti sempre sono notati; come si scrive che Cimone era calunniato che amava il vino, Scipione il sonno, Lucullo i convivii. Ma piacesse a Dio che i príncipi de questi nostri tempi accompagnassero i peccati loro con tante virtú, con quante accompagnavano quegli antichi; i quali, se ben in qualche cosa erravano, non fugivano però i ricordi e documenti di chi loro parea bastante a correggere quegli errori, anzi cercavano con ogni instanzia di componer la vita sua sotto la norma d'omini singulari; come Epaminunda di Lisia Pitagorico, Agesilao di Senofonte, Scipione di Panezio, ed infiniti altri. Ma se ad alcuni de' nostri príncipi venisse innanti un severo filosofo, o chi si sia, il qual apertamente e senza arte alcuna volesse mostrar loro quella orrida faccia della vera virtú ed insegnar loro i boni costumi e qual vita debba esser quella d'un bon principe, son certo che al primo aspetto lo aborririano come un aspide, o veramente se ne fariano beffe come di cosa vilissima.

 

 

 

IX.

 

Dico adunque che, poiché oggidí i príncipi son tanto corrotti dalle male consuetudini e dalla ignoranzia e falsa persuasione di se stessi, e che tanto è difficile il dar loro notizia della verità ed indurgli alla virtú, e che gli omini con le bugie ed adulazioni e con cosí viciosi modi cercano d'entrar loro in grazia, il cortegiano, per mezzo di quelle gentil qualità che date gli hanno il conte Ludovico e messer Federico, po facilmente e deve procurar d'acquistarsi la benivolenzia ed adescar tanto l'animo del suo principe, che si faccia adito libero e sicuro di parlargli d'ogni cosa senza esser molesto; e se egli sarà tale come s'è detto, con poca fatica gli verrà fatto, e cosí potrà aprirgli sempre la verità di tutte le cose con destrezza; oltra di questo, a poco a poco infundergli nell'animo la bontà ed insegnarli la continenzia, la fortezza, la giustizia, la temperanzia, facendogli gustar quanta dolcezza sia coperta da quella poca amaritudine, che al primo aspetto s'offerisce a chi contrasta ai vicii; li quali sempre sono dannosi, dispiacevoli ed accompagnati dalla infamia e biasimo, cosí come le virtú sono utili, giocunde e piene di laude; ed a queste eccitarlo con l'esempio dei celebrati capitani e d'altri omini eccellenti, ai quali gli antichi usavano di far statue di bronzo e di marmo e talor d'oro; e collocarle ne' lochi publici, cosí per onor di quegli, come per lo stimulo degli altri, che per una onesta invidia avessero da sforzarsi di giungere essi ancor a quella gloria.

 

 

 

X.

 

In questo modo per la austera strada della virtú potrà condurlo, quasi adornandola di frondi ombrose e spargendola di vaghi fiori, per temperar la noia del faticoso camino a chi è di forze debile; ed or con musica, or con arme e cavalli, or con versi, or con ragionamenti d'amore e con tutti que' modi che hanno detti questi signori, tener continuamente quell'animo occupato in piacere onesto, imprimendogli però ancora sempre, come ho detto, in compagnia di queste illecebre, qualche costume virtuoso ed ingannandolo con inganno salutifero; come i cauti medici, li quali spesso, volendo dar a' fanciulli infermi e troppo delicati medicina di sapore amaro, circondano l'orificio del vaso di qualche dolce liquore. Adoperando adunque a tal effetto il cortegiano questo velo di piacere, in ogni tempo, in ogni loco ed in ogni esercizio conseguirà il suo fine, e meriterà molto maggior laude e premio che per qualsivoglia altra bona opera che far potesse al mondo; perché non è bene alcuno che cosí universalmente giovi come il bon principe, né male che cosí universalmente noccia come al mal principe; però non è ancora pena tanto atroce e crudele, che fosse bastante castigo a quei scelerati cortegiani, che dei modi gentili e piacevoli e delle bone condicioni si vagliono a mal fine, e per mezzo di quelle cercan la grazia dei loro príncipi per corrumpergli e disviarli dalla via della virtú ed indurgli al vicio; ché questi tali dir si po che non un vaso dove un solo abbia a bere, ma il fonte publico del quale usi tutto 'l populo, infettano di mortal veneno -.

 

 

 

XI.

 

Taceasi il signor Ottaviano, come se piú avanti parlar non avesse voluto; ma il signor Gasparo, - A me non par, signor Ottaviano, - disse, - che questa bontà d'animo e la continenzia e l'altre virtú, che voi volete che 'l cortegiano mostri al suo signore, imparar se possano; ma penso che agli omini che l'hanno siano date dalla natura e da Dio. E che cosí sia, vedete che non è alcun tanto scelerato e di mala sorte al mondo, né cosí intemperante ed ingiusto, che essendone dimandato confessi d'esser tale; anzi ognuno, per malvagio che sia, ha piacer d'esser tenuto giusto, continente e bono; il che non interverrebbe, se queste virtú imparar si potessero, perché non è vergogna il non saper quello in che non s'ha posto studio, ma bene par biasimo non aver quello di che da natura devemo esser ornati. Però ognuno si sforza di nascondere i deffetti naturali, cosí dell'animo come ancora del corpo; il che si vede dei ciechi, zoppi, torti ed altri stroppiati o brutti; ché, benché questi mancamenti si possano imputare alla natura, pur ad ognuno dispiace sentirgli in se stesso, perché pare che per testimonio della medesima natura l'uomo abbia quel diffetto, quasi per un sigillo e segno della sua malicia. Conferma ancor la mia opinion quella fabula che si dice d'Epimeteo, il qual seppe cosí mal distribuir le doti della natura agli omini, che gli lassò molto piú bisognosi d'ogni cosa che tutti gli altri animali; onde Prometeo rubò quella artificiosa sapienzia da Minerva e da Vulcano, per la quale gli omini trovavano il vivere; ma non aveano però la sapienzia civile di congregarsi insieme nelle città e saper vivere moralmente, per esser questa nella ròcca di Iove guardata da custodi sagacissimi, i quali tanto spaventavano Prometeo, che non osava loro accostarsi; onde Iove, avendo compassione alla miseria degli omini, i quali, non potendo star uniti per mancamento della virtú civile, erano lacerati dalle fiere, mandò Mercurio in terra a portar la giustizia e la vergogna, acciò che queste due cose ornassero le città e colligassero insieme e cittadini; e volse che a quegli fosser date non come l'altre arti, nelle quali un perito basta per molti ignoranti, come è la medicina, ma che in ciascun fossero impresse; e ordinò una legge che tutti quelli, che erano senza giustizia e vergogna, fossero, come pestiferi alle città, esterminati e morti. Eccovi adunque, signor Ottaviano, che queste virtú sono da Dio concesse agli omini e non s'imparano, ma sono naturali-.

 

 

 

XII.

 

Allor il signor Ottaviano, quasi ridendo, - Voi adunque, signor Gasparo, - disse, - volete che gli omini sian cosí infelici e di cosí perverso giudicio, che abbiano con la industria trovato arte per far mansueti gli ingegni delle fiere, orsi, lupi, leoni, e possano con quella insegnare ad un vago augeflo volar ad arbitrio dell'omo e tornar dalle selve e dalla sua natural libertà voluntariamente ai lacci ed alla servitú, e con la medesima industria non possano o non vogliano trovar arti, con le quai giovino a se stessi e con diligenzia e studio facciano l'animo suo megliore? Questo, al parer mio, sarebbe come se i medici studiassero con ogni diligenzia d'avere solamente l'arte da sanare il mal dell'unghie e lo lattume dei fanciulli e lassassero la cura delle febri, della pleuresia e dell'altre infirmità gravi: il che quanto fosse for di ragione, ognun po considerare. Estimo io adunque che le virtú morali in noi non siano totalmente da natura, perché niuna cosa si po mai assuefare a quello che le è naturalmente contrario, come si vede d'un sasso, il qual se ben diecemilia volte fosse gittato all'insú, mai non s'assuefaria andarvi da sé; però se a noi le virtú fossero cosí naturali come la gravità al sasso, non ci assuefaremmo mai al vicio. Né meno sono i vicii naturali di questo modo, perché non potremmo esser mai virtuosi; e troppo iniquità e sciocchezza saria castigar gli omini di que' diffetti, che procedessero da natura senza nostra colpa; e questo error commetteriano le leggi, le quali non dànno supplicio ai malfattori per lo error passato, perché non si può far che quello, che è fatto, non sia fatto, ma hanno rispetto allo avvenire, acciò che chi ha errato non erri piú, o vero col mal esempio non dia causa ad altrui d'errare; e cosí pur estimano che le virtú imparar si possano; il che è verissimo, perché noi siamo nati atti a riceverle, e medesimamente i vicii; e però dell'uno e l'altro in noi si fa l'abito con la consuetudine, di modo che prima operiamo le virtú o i vicii, poi siam virtuosi o viciosi. Il contrario si conosce nelle cose che ci son date dalla natura, ché prima avemo la potenzia d'operare, poi operiamo; come è nei sensi, ché prima potemo vedere, udire, toccare, poi vedemo, udiamo e tocchiamo; benché però ancora molte di queste operazioni s'adornan con la disciplina. Onde i boni pedagoghi non solamente insegnano lettere ai fanciulli, ma ancora boni modi ed onesti nel mangiare, bere, parlare, andare con certi gesti accommodati.

 

 

 

XIII.

 

Però, come nell'altre arti, cosí ancora nelle virtú è necessario aver maestro, il qual con dottrina e boni ricordi susciti e risvegli in noi quelle virtú morali, delle quai avemo il seme incluso e sepulto nell'anima, e come bono agricultore le cultivi e loro apra la via, levandoci d'intorno le spine e 'l loglio degli appetiti, i quali spesso tanto adombrano e suffocan gli animi nostri, che fiorir non gli lassano, né produr quei felici frutti, che soli si dovriano desiderar che nascessero nei cori umani. Di questo modo adunque è natural in ciascun di noi la giustizia e la vergogna, la qual voi dite che Iove mandò in terra a tutti gli omini; ma sí come un corpo senza occhi, per robusto che sia, se si move ad un qualche termine spesso falla, cosí la radice di queste virtú potenzialmente ingenite negli animi nostri, se non è aiutata dalla disciplina, spesso si risolve in nulla; perché se si deve ridurre in atto ed all'abito suo perfetto, non si contenta, come s'è detto, della natura sola, ma ha bisogno della artificiosa consuetudine e della ragione, la quale purifichi e dilucidi quell'anima, levandole il tenebroso velo della ignoranzia, dalla qual quasi tutti gli errori degli omini procedono; ché se il bene e 'l male fossero ben conosciuti ed intesi, ognuno sempre eleggeria il bene e fuggiria il male. Però la virtú si po quasi dir una prudenzia ed un sapere eleggere il bene, e 'l vicio una imprudenzia ed ignoranzia che induce a giudicar falsamente; perché non eleggono mai gli omini il male con opinion che sia male, ma s'ingannano per una certa similitudine di bene -.

 

 

 

XIV.

 

Rispose allor il signor Gasparo: - Son però molti, i quali conoscono chiaramente che fanno male e pur lo fanno; e questo perché estimano piú il piacer presente che sentono, che 'l castigo che dubitan che gli ne abbia da venire; come i ladri, gli omicidi ed altri tali -. Disse il signor Ottaviano: - Il vero piacere è sempre bono e 'l vero dolor malo; però questi s'ingannano togliendo il piacer falso per lo vero e 'l vero dolor per lo falso; onde spesso per i falsi piaceri incorrono nei veri dispiaceri. Quell'arte adunque che insegna a discerner questa verità dal falso, pur si po imparare; e la virtú, per la quale elegemo quello che è veramente bene, non quello che falsamente esser appare, si po chiamar vera scienzia e piú giovevole alla vita umana che alcun'altra, perché leva la ignoranzia, dalla quale, come ho detto, nascono tutti i mali -.

 

 

 

XV.

 

Allora messer Pietro Bembo, - Non so, - disse, - signor Ottaviano, come consentir vi debba il signor Gasparo, che dalla ignoranzia nascano tutti i mali; e che non siano molti, i quali peccando sanno veramente che peccano, né se ingannano punto nel vero piacere, né ancor nel vero dolore; perché certo è che quei che sono incontinenti giudican con ragione e drittamente, e sanno che quello a che dalle cupidità sono stimulati contra il dovere è male, e però resistono ed oppongon la ragione all'appetito, onde ne nasce la battaglia del piacere e del dolore contra il giudicio; in ultimo la ragion, vinta dall'appetito troppo possente, s'abbandona, come nave che per un spacio di tempo si diffende dalle procelle di mare, al fin, percossa da troppo furioso impeto de' venti, spezzate l'ancore e sarte, si lassa trasportar ad arbitrio di fortuna, senza operar timone o magisterio alcuno di calamita per salvarsi. L'incontinenti adunque commetton gli errori con un certo ambiguo rimorso e quasi a lor dispetto; il che non fariano, se non sapessero che quel che fanno è male, ma senza contrasto di ragione andariano totalmente profusi drieto all'appetito ed allor non incontinenti, ma intemperati sariano; il che è molto peggio; però la incontinenzia si dice esser vicio diminuto perché ha in sé parte di ragione; e medesimamente la continenzia, virtú imperfetta, perché ha in sé parte d'affetto; perciò in questo parmi che non si possa dir che gli errori degli incontinenti procedano da ignoranzia, o che essi s'ingannino e che non pecchino, sapendo che veramente peccano -.

 

 

 

XVI.

 

Rispose il signor Ottaviano: - In vero, messer Pietro, l'argumento vostro è bono; nientedimeno, secondo me, è piú apparente che vero perché, benché gli incontinenti pecchino con quella ambiguità, e che la ragione nell'animo loro contrasti con l'appetito e lor paia che quel che è male sia male, pur non ne hanno perfetta cognizione, né lo sanno cosí intieramente come saria bisogno; però in essi di questo è piú presto una debile opinione che certa scienzia, onde consentono che la ragion sia vinta dallo affetto; ma se ne avessero vera scienzia, non è dubbio che non errariano; perché sempre quella cosa per la quale l'appetito vince la ragione è ignoranzia, né po mai la vera scienzia esser superata dallo affetto, il quale dal corpo e non dall'animo deriva; e se dalla ragione è ben retto e governato, diventa virtú, e se altrimenti diventa vicio; ma tanta forza ha la ragione, che sempre si fa obedire al senso, e con maravigliosi modi e vie penetra, pur che la ignoranzia non occupi quello che essa aver dovria; di modo che, benché i spiriti e i nervi e l'ossa non abbiano ragione in sé, pur quando nasce in noi quel movimento dell'animo, quasi che 'l pensiero sproni e scuota la briglia ai spiriti, tutte le membra s'apparecchiano, i piedi al corso, le mani a pigliare o a fare ciò che l'animo pensa; e questo ancora si conosce manifestamente in molti li quali, non sapendo, talora mangiano qualche cibo stomacoso e schifo, ma cosí ben acconcio, che al gusto lor pare delicatissimo; poi risapendo che cosa era, non solamente hanno dolore e fastidio nell'animo, ma 'l corpo, accordandosi col giudicio della mente, per forza vomita quel cibo -.

 

 

 

XVII.

 

Seguitava ancor il signor Ottaviano il suo ragionamento; ma il Magnifico Iuliano interrompendolo, - Signor Ottaviano, - disse, - se bene ho inteso, voi avete detto che la continenzia è virtú imperfetta, perché ha in sé parte d'affetto; ed a me pare che quella virtú la quale, essendo nell'animo nostro discordia tra la ragione e l'appetito, combatte e dà la vittoria alla ragione, si debba estimar piú perfetta che quella che vince non avendo cupidità né affetto alcuno che le contrasti; perché pare che quell'animo non si astenga dal male per virtú, ma resti di farlo perché non ne abbia voluntà -. Allor il signor Ottaviano, Qual, - disse, - estimareste voi capitano di piú valore, o quello che combattendo apertamente si mette a pericolo, e pur vince gli nemici, o quello che per virtú e saper suo lor toglie le forze, riducendogli a termine che non possano combattere, e cosí senza battaglia o pericolo alcuno gli vince? - Quello, - disse il Magnifico Iuliano, - che piú sicuramente vince, senza dubbio è piú da lodare, pur che questa vittoria cosí certa non proceda dalla dapocagine degl'inimici -. Rispose il signor Ottaviano: - Ben avete giudicato; e però dicovi che la continenzia comparare si po ad un capitano che combatte virilmente e, benché gli nimici sian forti e potenti, pur gli vince, non però senza gran difficultà e pericolo; ma la temperanzia libera da ogni perturbazione è simile a quel capitano, che senza contrasto vince e regna, ed avendo in quell'animo dove si ritrova non solamente sedato, ma in tutto estinto il foco della cupidità, come bon principe in guerra civile, distrugge i sediziosi nemici intrinsechi e dona lo scettro e dominio intiero alla ragione. Cosí questa virtú non sforzando l'animo, ma infundendogli per vie placidissime una veemente persuasione che lo inclina alla onestà, lo rende quieto e pien di riposo, in tutto equale e ben misurato, e da ogni canto composto d'una certa concordia con se stesso, che lo adorna di cosí serena tranquillità che mai non si turba, ed in tutto diviene obedientissimo alla ragione, e pronto di volgere ad essa ogni suo movimento e seguirla ovunque condur lo voglia, senza repugnanzia alcuna; come tenero agnello, che corre, sta e va sempre presso alla madre e solamente secondo quella si move. Questa virtú adunque è perfettissima e conviensi massimamente ai príncipi, perché da lei ne nascono molte altre -.

 

 

 

XVIII.

 

Allora messer Cesare Gonzaga, - Non so, - disse, - quai virtú convenienti a signore possano nascere da questa temperanzia, essendo quella che leva gli affetti dell'animo, come voi dite: il che forse si converria a qualche monaco o eremita; ma non so già come ad un principe magnanimo, liberale e valente nell'arme si convenisse il non aver mai, per cosa che se gli facesse, né ira né odio né benivolenzia né sdegno né cupidità né affetto alcuno, e come senza questo aver potesse autorità tra' populi o tra' soldati -. Rispose il signor Ottaviano: - Io non ho detto che la temperanzia levi totalmente e svella degli animi umani gli affetti, né ben saria il farlo, perché negli affetti ancora sono alcune parti bone; ma quello che negli affetti è perverso e renitente allo onesto riduce ad obedire alla ragione. Però non è conveniente, per levar le perturbazioni, estirpar gli affetti in tutto; ché questo saria come se per fuggir la ebrietà si facesse un editto che niuno bevesse vino, o perché talor correndo l'omo cade, se interdicesse ad ognuno il correre. Eccovi che quelli che domano i cavalli non gli vietano il correre e saltare, ma voglion che lo facciano a tempo e ad obedienzia del cavaliero. Gli affetti adunque, modificati dalla temperanzia, sono favorevoli alla virtú, come l'ira che aiuta la fortezza, l'odio contra i scelerati aiuta la giustizia, e medesimamente l'altre virtú son aiutate dagli affetti; li quali se fossero in tutto levati, lassariano la ragione debilissima e languida, di modo che poco operar potrebbe, come governator di nave abbandonato da' venti in gran calma. Non vi maravigliate adunque, messer Cesare, s'io ho detto che dalla temperanzia nascono molte altre virtú; ché quando un animo è concorde di questa armonia, per mezzo della ragione poi facilmente riceve la vera fortezza, la quale lo fa intrepido e sicuro da ogni pericolo e quasi sopra le passioni umane; non meno la giustizia, vergine incorrotta, amica della modestia e del bene, regina di tutte l'altre virtú, perché insegna a far quello che si dee fare e fuggir quello che si dee fuggire; e però è perfettissima, perché per essa si fan l'opere dell'altre virtú, ed è giovevole a chi la possede e per se stesso e per gli altri; senza la quale, come si dice, Iove istesso non poria ben governare il regno suo. La magnanimità ancora succede a queste e tutte le fa maggiori; ma essa sola star non po, perché chi non ha altra virtú non po esser magnanimo. Di queste è poi guida la prudenzia, la qual consiste in un certo giudicio d'elegger bene. Ed in tal felice catena ancora sono colligate la liberalità, la magnificenzia, la cupidità d'onore, la mansuetudine, la piacevolezza, la affabilità e molte altre che or non è tempo di dire. Ma se 'l nostro cortegiano farà quello che avemo detto, tutte le ritroverà nell'animo del suo principe, ed ogni dí ne vedrà nascer tanti vaghi fiori e frutti, quanti non hanno tutti i deliciosi giardini del mondo; e tra se stesso sentirà grandissimo contento, ricordandosi avergli donato non quello che donano i sciocchi, che è oro o argento, vasi, veste e tai cose, delle quali chi le dona n'ha grandissima carestia e chi le riceve grandissima abundanzia, ma quella virtú che forse tra tutte le cose umane è la maggiore e la piú rara, cioè la manera e 'l modo di governar e di regnare come si dee; il che solo basteria per far gli omini felici e ridur un'altra volta al mondo quella età d'oro, che si scrive esser stata quando già Saturno regnava -.

 

 

 

XIX.

 

Quivi avendo fatto il signor Ottaviano un poco di pausa come per riposarsi, disse il signor Gaspare: - Qual estimate voi, signor Ottaviano, piú felice dominio e piú bastante a ridur al mondo quella età d'oro di che avete fatto menzione, o 'l regno d'un cosí bon principe, o 'l governo d'una bona republica? - Rispose il signor Ottaviano: - lo preporrei sempre il regno del bon principe, perché è dominio piú secondo la natura e, se è licito comparar le cose piccole alle infinite, piú simile a quello di Dio, il qual uno e solo governa l'universo. Ma lassando questo, vedete che in ciò che si fa con arte umana, come gli eserciti, i gran navigi, gli edifici ed altre cose simili, il tutto si referisce ad un solo, che a modo suo governa; medesimamente nel corpo nostro tutte le membra s'affaticano e adopransi ad arbitrio del core. Oltre di questo, par conveniente che i populi siano cosí governati da un principe, come ancora molti animali, ai quali la natura insegna questa obedienzia come cosa saluberrima. Eccovi che i cervi, le grue e molti altri uccelli, quando fanno passaggio, sempre si prepongono un principe, il qual segueno ed obediscono, e le api quasi con discorso di ragione e con tanta riverenzia osservano il loro re, con quanta i piú osservanti populi del mondo; e però tutto questo è grandissimo argumento che 'l dominio dei príncipi sia piú secondo la natura che quello delle republiche -.

 

 

 

XX.

 

Allora messer Pietro Bembo, - Ed a me par, - disse, - che essendoci la libertà data da Dio per supremo dono, non sia ragionevole che ella ci sia levata, né che un omo piú dell'altro ne sia participe; il che interviene sotto il dominio de' príncipi, li quali tengono per il piú li sudditi in strettissima servitú. Ma nelle republiche bene instituite si serva pur questa libertà; oltra che e nei giudici e nelle deliberazioni piú spesso interviene che 'l parer d'un solo sia falso, che quel di molti; perché le perturbazione, o per ira o per sdegno o per cupidità, piú facilmente entra nell'animo d'un solo che della moltitudine, la quale, quasi come una gran quantità d'acqua, meno è subietta alla corruzione che la piccola. Dico ancora che lo esempio degli animali non mi par che si confaccia; perché e li cervi e le grue e gli altri non sempre si prepongono a seguitare ed obidir un medesimo, anzi mutano e variano, dando questo dominio or ad uno or ad un altro, ed in tal modo viene ad esser piú presto forma di republica che di regno; e questa si po chiamare vera ed equale libertà, quando quelli che talor comandano, obediscono poi ancora. L'esempio medesimamente delle api non mi par simile, perché quel loro re non è della loro medesima specie; e però chi volesse dar agli omini un veramente degno signore, bisognaria trovarlo d'un'altra specie e di piú eccellente natura che umana, se gli omini ragionevolmente l'avessero da obedire, come gli armenti che obediscono non ad uno animale suo simile, ma ad un pastore, il quale è omo e d'una specie piú degna che la loro. Per queste cose estimo io, signor Ottaviano, che 'l governo della republica sia piú desiderabile che quello del re -.

 

 

 

XXI.

 

Allor il signor Ottaviano, - Contra la opinione vostra, messer Metro, - disse, - voglio solamente addurre una ragione; la quale è che dei modi di governar bene i populi tre sorti solamente si ritrovano: l'una è il regno; l'altra il governo dei boni, che chiamavano gli antichi ottimati; l'altra l'amministrazione populare; e la transgressione e vicio contrario, per dir cosí, dove ciascuno di questi governi incorre guastandosi e corrumpendosi, è quando il regno diventa tirannide, e quando il governo dei boni si muta in quello di pochi potenti e non boni, e quando l'amministrazion populare è occupata dalla plebe, che, confondendo gli ordini, permette il governo del tutto ad arbitrio della moltitudine. Di questi tre governi mali certo è che la tirannide è il pessimo di tutti, come per molte ragioni si poria provare; resta adunque che dei tre boni il regno sia l'ottimo, perché è contrario al pessimo; ché, come sapete, gli effetti delle cause contrarie sono essi ancor tra sé contrari. Ora, circa quello che avete detto della libertà, rispondo che la vera libertà non si deve dire che sia il vivere come l'omo vole, ma il vivere secondo le bone leggi; né meno naturale ed utile e necessario è l'obedire, che si sia il commandare; ed alcune cose sono nate, e cosí distinte ed ordinate da natura al commandare, come alcune altre all'obedire. Vero è che sono due modi di signoreggiare: l'uno imperioso e violento, come quello dei patroni ai schiavi, e di questo commanda l'anima al corpo; l'altro piú mite e placido, come quello dei boni príncipi per via delle leggi ai cittadini, e di questo commanda la ragione allo appetito; e l'uno e l'altro di questi due modi è utile, perché il corpo è nato da natura atto ad obedire all'anima, e cosí l'appetito alla ragione. Sono ancora molti omini, l'operazion de' quali versano solamente circa l'uso del corpo; e questi tali tanto son differenti dai virtuosi, quanto l'anima dal corpo e pur, per essere animali razionali, tanto participano della ragione, quanto che solamente la conoscono, ma non la posseggono né fruiscono. Questi adunque sono naturalmente servi e meglio è ad essi e piú utile l'obedire che 'l commandare -.

 

XXII.

 

Disse allor il signor Gaspar: - Ai discreti e virtuosi e che non sono da natura servi, di che modo si ha adunque a commandare? - Rispose il signor Ottaviano: - Di quel placido commandamento regio e civile; ed a tali è ben fatto dar talor l'amministrazione di que' magistrati di che sono capaci, acciò che possano essi ancora commandare e governare i men savi di sé, di modo però che 'l principal governo dependa tutto dal supremo principe. E perché avete detto che piú facil cosa è che la mente d'un solo si corrompa che quella di molti, dico che è ancora piú facil cosa trovar un bono e savio che molti; e bono e savio si deve estimare che possa esser un re di nobil stirpe, inclinato alle virtú dal suo natural instinto e dalla famosa memoria dei suoi antecessori ed instituito di boni costumi; e se non sarà d'un'altra specie piú che umana, come voi avete detto di quello delle api, essendo aiutato dagli ammaestramenti e dalla educazione ed arte del cortegiano, formato da questi signori tanto prudente e bono, sarà giustissimo, continentissimo, temperatissimo, fortissimo e sapientissimo, pien di liberalità, magnificenzia, religione e clemenzia; in somma sarà gloriosissimo e carissimo agli omini ed a Dio, per la cui grazia acquisterà quella virtú eroica, che lo farà eccedere i termini della umanità e dir si potrà piú presto semideo che uoni mortale; perché Dio si diletta ed è protettor di que' príncipi che vogliono imitarlo non col mostrare gran potenzia e farsi adorare dagli omini, ma di quelli che oltre alla potenzia per la quale possono, si sforzano di farsigli simili ancora con la bontà e sapienzia, per la quale vogliano e sappiano far bene ed esser suoi ministri, distribuendo a salute dei mortali i beni e i doni che essi da lui riceveno. Però, cosí come nel cielo il sole e la luna e le altre stelle mostrano al mondo, quasi come in specchio, una certa similitudine di Dio, cosí in terra molto piú simile imagine di Dio son que' bon príncipi che l'amano e reveriscono, e mostrano ai populi la splendida luce della sua giustizia, accompagnata da una ombra di quella ragione ed intelletto divino; e Dio con questi tali participa della onestà, equità, giustizia e bontà sua, e di quegli altri felici beni ch'io nominar non so, li quali rappresentano al mondo molto piú chiaro testimonio di divinità che la luce del sole, o il continuo volger del cielo col vario corso delle stelle.

 

 

XXIII.

 

Son adunque li populi da Dio commessi sotto la custodia de' príncipi, li quali per questo debbono averne diligente cura, per rendergline ragione come boni vicari al suo signore, ed amargli ed estimar lor proprio ogni bene e male che gli intervenga, e procurar sopra ogni altra cosa la felicità loro. Però deve il principe non solamente esser bono, ma ancora far boni gli altri; come quel squadro che adoprano gli architetti, che non solamente in sé è dritto e giusto, ma ancor indrizza e fa giuste tutte le cose a che viene accostato. E grandissimo argumento è che 'l principe sia bono quando i populi son boni perché la vita del principe è legge e maestra dei cittadini, e forza è che dai costumi di quello dipendan tutti gli altri; né si conviene a chi è ignorante insegnare, né a chi è inordinato ordinare, né a chi cade rilevare altrui. Però se 'l principe ha da far ben questi offici, bisogna ch'egli ponga ogni studio e diligenzia per sapere; poi formi dentro a se stesso ed osservi immutabilmente in ogni cosa la legge della ragione, non scritta in carte o in metallo, ma sculpita nell'animo suo proprio; acciò che gli sia sempre non che familiare ma intrinsica, e con esso viva come parte di lui; perché giorno e notte in ogni loco e tempo lo ammonisca e gli parli dentro al core, levandogli quelle perturbazioni che sentono gli animi intemperati li quali per esser oppressi da un canto quasi dal profundissimo sonno della ignoranzia, e dall'altro dal travaglio che riceveno dei loro perversi e ciechi desidèri, sono agitati da furore inquieto, come talor chi dorme da strane ed orribili visioni.

 

 

 

XXIV.

 

Aggiungendosi poi maggior potenzia al mal volere, se v'aggiunge ancora maggior molestia; e quando il principe po ciò che vole, allor è gran pericolo che non voglia quello che non deve. Però ben disse Biante che i magistrati dimostrano quali sian gli omini; ché come i vasi mentre son vòti, benché abbiano qualche fissura, mal si possono conoscere, ma se liquore dentro vi si mette, súbito mostrano da qual banda sia il vicio; cosí gli animi corrotti e guasti rare volte scoprono i loro diffetti, se non quando s'empiono d'autorità; perché allor non bastano per supportare il grave peso della potenzia, e perciò s'abbandonano e versano da ogni canto le cupidità, la superbia, la iracundia, la insolenzia e quei costumi tirannici che hanno dentro; onde senza risguardo persegueno i boni e i savi ed esaltano i mali, né comportano che nelle città siano amicizie, compagnie, né intelligenzie fra i cittadini, ma nutriscono gli esploratori, accusatori, omicidiali, acciò che spaventino e facciano divenir gli omini pusillanimi e spargano discordie per tenergli disgiunti e debili; e da questi modi procedeno poi infiniti danni e ruine ai miseri populi, e spesso crudel morte o almen timor continuo ai medesimi tiranni; perché i boni príncipi temono non per sé, ma per quelli a' quali comandano, e li tiranni temeno quelli medesimi a' quali commandano; però, quanto a maggior numero di gente commandano e son piú potenti, tanto piú temono ed hanno piú nemici. Come credete voi che si spaventasse e stesse con l'animo sospeso quel Clearco, tiranno di Ponto, ogni volta che andava nella piazza o nel teatro, o a qualche convito o altro loco publico, ché, come si scrive, dormiva chiuso in una cassa? o vero quell'altro Aristodemo Argivo, il qual a se stesso del letto avea fatta quasi una prigione, che nel palazzo suo tenea una piccola stanza sospesa in aria ed alta tanto che con scala andar vi bisognava, e quivi con una sua femina dormiva, la madre della quale la notte ne levava la scala, la mattina ve la rimetteva? Contraria vita in tutto a questa deve adunque esser quella del bon principe, libera e sicura, e tanto cara ai cittadini quanto la lor propria, ed ordinata di modo che participi della attiva e della contemplativa, quanto si conviene per beneficio dei populi -.

 

 

 

XXV.

 

Allor il signor Gaspar, - E qual, - disse, - di queste due vite, signor Ottaviano, parvi che piú s'appartenga al principe? - Rispose il signor Ottaviano ridendo: - Voi forse pensate ch'io mi persuada esser quello eccellente cortegiano che deve saper tante cose e servirsene a quel bon fine ch'io ho detto; ma ricordatevi che questi signori l'hanno formato con molte condicioni che non sono in me: però procuriamo prima di trovarlo, ché io a lui mi rimetto e di questo e di tutte l'altre cose che s'appartengono a bon principe -. Allor il signor Gaspar, - Penso, - disse, - che se delle condicioni attribuite al cortegiano alcune a voi mancano, sia piú presto la musica e 'l danzar e l'altre di poca importanzia, che quelle che appertengono alla instituzione del principe ed a questo fine della cortegiania -. Rispose il signor Ottaviano: - Non sono di poca importanzia tutte quelle che giovano al guadagnar la grazia del principe, il che è necessario, come avemo detto, prima che 'l cortegiano se avventuri a volergli insegnar la virtú; la quale stimo avervi mostrato che imparar si po e che tanto giova, quanto nòce la ignoranzia, dalla quale nascono tutti i peccati, e massimamente quella falsa persuasion che l'uom piglia di se stesso; però parmi d'aver detto a bastanza e forse piú che io non aveva promesso -. Allora la signora Duchessa, - Noi saremo, - disse, tanto piú tenuti alla cortesia vostra, quanto la satisfazione avanzerà la promessa; però non v'incresca dir quello che vi pare sopra la dimanda del signor Gaspar; e per vostra fé diteci ancora tutto quello che voi insegnareste al vostro principe, se egli avesse bisogno d'ammaestramenti, e presupponetevi d'avervi acquistato compitamente la grazia sua, tanto che vi sia licito dirgli liberamente ciò che vi viene in animo -.

 

 

 

XXVI.

 

Rise il signor Ottaviano e disse: - S'io avessi la grazia di qualche principe ch'io conosco e gli dicessi liberamente il parer mio, dubito che presto la perderei; oltra che per insegnarli bisogneria ch'io prima imparassi. Pur, poiché a voi piace ch'io risponda ancora circa questo al signor Gaspar, dico che a me pare che i príncipi debbano attendere all'una e l'altra delle due vite, ma piú però alla contemplativa, perché questa in essi è divisa in due parti: delle quali l'una consiste nel conoscer bene e giudicare; l'altra nel commandare drittamente e con quei modi che si convengono, e cose ragionevoli, e quelle di che hanno autorità, e commandarle a chi ragionevolmente ha da obedire, e nei lochi e tempi appartenenti; e di questo parlava il duca Federico quando diceva che chi sa commandare è sempre obedito; e 'l commandar è sempre il principal officio de' príncipi, li quali debbono però ancor spesso veder con gli occhi ed esser presenti alle esecuzioni, e secondo i tempi e i bisogni ancora talor operar essi stessi; e tutto questo pur participa della azione; ma il fine della vita attiva deve esser la contemplativa, come della guerra la pace, il riposo delle fatiche.

 

 

 

XXVII.

 

Però è ancor officio del bon principe instituire talmente i populi suoi, e con tai leggi ed ordini, che possano vivere nell'ccio e nella pace senza periculo e con dignità e godere laudevolmente questo fine delle sue azioni che deve esser la quiete; perché sonosi trovate spesso molte republiche e príncipi, li quali nella guerra sempre sono stati fiorentissimi e grandi, e súbito che hanno aúta la pace sono iti in ruina e hanno perduto la grandezza e 'l splendore, come il ferro non esercitato. E questo non per altro è intervenuto, che per non aver bona instituzion di vivere nella pace, né saper fruire il bene dell'ocio; e lo star sempre in guerra, senza cercar di pervenire al fine della pace, non è licito, benché estimano alcuni príncipi il loro intento dover esser principalmente il dominare ai suoi vicini, e però nutriscono i populi in una bellicosa ferità di rapine, d'omicidi e tai cose e lor dànno premi per provocarla e la chiamano virtú. Onde fu già costume fra i Sciti che chi non avesse morto un suo nemico non potesse bere nei conviti solenni alla tazza che si portava intorno alli compagni. In altri lochi s'usava indrizzare intorno il sepulcro tanti obelisci, quanti nemici avea morti quello che era sepulto; e tutte queste cose ed altre simili si faceano per far gli omini bellicosi, solamente per dominare alli altri; il che era quasi impossibile, per esser impresa infinita, insino a tanto che non s'avesse subiugato tutto 'l mondo; e poco ragionevole, secondo la legge della natura, la qual non vole che negli altri a noi piaccia quello che in noi stessi ci dispiace. Però debbono i príncipi far i populi bellicosi non per cupidità di dominare, ma per poter diffendere se stessi e li medesimi populi da chi volesse ridurgli in servitú, o ver fargli ingiuria in parte alcuna; o vero per discacciar i tiranni e governar bene quei populi che fossero mal trattati, o vero per ridurre in servitú quelli che fossero tali da natura, che meritassero esser fatti servi, con intenzione di governargli bene e dar loro l'ocio e 'l riposo e la pace; ed a questo fine ancora deveno essere indrizzate le leggi e tutti gli ordini della giustizia, col punir i mali, non per odio, ma perché non siano mali ed acciò che non impediscano la tranquillità dei boni; perché in vero è cosa enorme e degna di biasimo, nella guerra, che in sé è mala, mostrarsi gli omini valorosi e savi; e nella pace e quete, che è bona, mostrarsi ignoranti e tanto da poco, che non sappiano godere il bene. Come adunque nella guerra debbono intender i populi nelle virtú utili e necessarie per conseguirne il fine, che è la pace, cosí nella pace, per conseguirne ancor il suo fine, che è la tranquillità, debbono intendere nelle oneste, le quali sono il fine delle utili; ed in tal modo li sudditi saranno boni, e 'l principe arà molto piú da laudare e premiare che da castigare; e 'l dominio per li sudditi e per lo principe sarà felicissimo, non imperioso, come di patrone al servo, ma dolce e placido, come di bon padre a bon figliolo-.

 

 

 

XXVIII.

 

Allor il signor Gaspar, - Volentieri, - disse, - saprei quali sono queste virtú utili e necessarie nella guerra; e quali le oneste nella pace -. Rispose il signor Ottaviano: - Tutte son bone e giovevoli, perché tendono a bon fine; pur nella guerra precipuamente val quella vera fortezza, che fa l'animo esento dalle passioni, talmente che non solo non teme li pericoli, ma pur non li cura; medesimamente la constanzia e quella pazienzia tollerante, con l'animo saldo ed imperturbato a tutte le percosse di fortuna. Conviensi ancora nella guerra e sempre aver tutte le virtú che tendono all'onesto, come la giustizia, la continenzia, la temperanzia; ma molto piú nella pace e nell'ocio, perché spesso gli omini posti nella prosperità e nell'ocio, quando la fortuna seconda loro arride, divengono ingiusti, intemperati e lassansi corrumpere dai piaceri; però quelli che sono in tale stato hanno grandissimo bisogno di queste virtú, perché l'ccio troppo facilmente induce mali costumi negli animi umani. Onde anticamente si diceva in proverbio che ai servi non si debbe dar ocio; e credesi che le piramide d'Egitto fossero fatte per tenere i populi in esercizio, perché ad ognuno lo essere assueto a tollerar fatiche è utilissimo. Sono ancor molte altre virtú tutte giovevoli, ma basti per or l'aver detto insin qui; ché s'io sapessi insegnar al mio principe ed instituirlo di tale e cosí virtuosa educazione come avemo disegnata, facendolo, senza piú mi crederei assai bene aver conseguito il fine del bon cortegiano -.

 

 

 

XXIX.

 

Allor il signor Gaspar, - Signor Ottaviano, - disse, - perché molto avete laudato la bona educazione e mostrato quasi di credere che questa sia principal causa di far l'omo virtuoso e bono, vorrei sapere se quella instituzione che ha da far il cortegiano nel suo principe deve esser cominciata dalla consuetudine e quasi dai costumi cottidiani, li quali, senza che esso se ne avvegga, lo assuefacciano al ben fare, o se pur se gli deve dar principio col mostrargli con ragione la qualità del bene e del male e con fargli conoscere prima che si metta in camino qual sia la bona via e da seguitare, e quale la mala e da fuggire: in somma, se in quell'animo si deve prima introdurre e fondar le virtú con la ragione ed intelligenzia, o vero con la consuetudine -. Disse il signor Ottaviano: - Voi mi mettete in troppo lungo ragionamento; pur, acciò che non vi paia ch'io manchi per non voler rispondere alle dimande vostre, dico che secondo che l'anima e 'l corpo in noi sono due cose, cosí ancora l'anima è divisa in due parti, delle quali l'una ha in sé la ragione, l'altra l'appetito. Come adunque nella generazione il corpo precede l'anima, cosí la parte irrazionale dell'anima precede la razionale; il che si comprende chiaramente nei fanciulli, ne' quali quasi súbito che son nati si vedeno l'ira e la concupiscenzia, ma poi con spacio di tempo appare la ragione. Però devesi prima pigliare cura del corpo che dell'anima, poi prima dell'appefito che della ragione; ma la cura del corpo per rispetto dell'anima, e dell'appetito per rispetto della ragione; ché secondo che la virtú intellettiva si fa perfetta con la dottrina, cosí la morale si fa con la consuetudine. Devesi adunque far prima la erudizione con la consuetudine, la qual po governare gli appetiti non ancora capaci di ragione e con quel bon uso indrizzargli al bene; poi stabilirli con la intelligenzia, la quale, benché piú tardi mostri il suo lume, pur dà modo di fruir piú perfettamente le virtú a chi ha bene instituito l'animo dai costumi, nei quali, al parer mio, consiste il tutto -.

 

 

 

XXX.

 

Disse il signor Gaspar: - Prima che passiate piú avanti vorrei saper che cura si deve aver del corpo, perché avete detto che prima devemo averla di quello, che dell'anima. - Dimandatene, - rispose il signor Ottaviano ridendo, - a questi, che lo nutriscon bene e son grassi e freschi; che 'l mio, come vedete, non è troppo ben curato. Pur ancora di questo si poria dir largamente, come del tempo conveniente del maritarsi, acciò che i figlioli non fossero troppo vicini né troppo lontani alla età paterna; degli esercizi e della educazione súbito che sono nati e nel resto della età, per fargli ben disposti, prosperosi e gagliardi -. Rispose il signor Gaspar: - Quello che piú piaceria alle donne per far i figlioli ben disposti e belli, secondo me, saria quella comunità che d'esse vol Platone nella sua Republica e di quel modo -. Allor la signora Emilia ridendo, Non è ne' patti, - disse, - che ritorniate a dir mal delle donne. - Io, - rispose il signor Gaspar, - mi presumo dar lor gran laude, dicendo che desidrano che si introduca un costume approvato da un tanto omo -. Disse ridendo messer Cesare Gonzaga: - Veggiamo se tra li documenti del signor Ottaviano, che non so se per ancora gli abbia detti tutti, questo potesse aver loco e se ben fosse che 'l principe ne facesse una legge. - Quelli pochi ch'io ho detti, - rispose il signor Ottaviano, - forse porian bastare per far un principe bono, come possono esser quelli che si usano oggidí; benché chi volesse veder la cosa piú minutamente, averia ancora molto piú che dire -. Suggiunse la signora Duchessa: - Poiché non ci costa altro che parole, dichiarateci per vostra fé tutto quello che v'occorreria in animo da insegnare al vostro principe -.

 

 

 

XXXI.

 

Rispose il signor Ottaviano: - Molte altre cose, Signora, gli insegnarei, pur ch'io le sapessi; e tra l'altre, che dei suoi sudditi eleggesse un numero di gentilomini e dei piú nobili e savi, con i quali consultasse ogni cosa e loro desse autorità e libera licenzia, che del tutto senza risguardo dir gli potessero il parer loro; e con essi tenesse tal manera, che tutti s'accorgessero che d'ogni cosa saper volesse la verità ed avesse in odio ogni bugia; ed oltre a questo consiglio de' nobili, ricordarei che fossero eletti tra 'l populo altri di minor grado, dei quali si facesse un consiglio populare, che communicasse col consiglio de' nobili le occorrenzie della città appertinenti al publico ed al privato; ed in tal modo si facesse del principe, come di capo, e dei nobili e dei populari, come de' membri, un corpo solo unito insieme, il governo del quale nascesse principalmente dal principe, nientedimeno participasse ancora degli altri; e cosí aría questo stato forma dei tre governi boni, che è il regno, gli ottimati e 'l populo.

 

 

 

XXXII.

 

Appresso gli mostrarei che delle cure che al principe s'appartengono la piú importante è quella della giustizia; per la conservazion della quale si debbono eleggere nei magistrati i savi e gli approvati' omini, la prudenzia de' quali sia vera prudenzia accompagnata dalla bontà, perché altrimenti non è prudenzia ma astuzia; e quando questa bontà manca, sempre l'arte e suttilità dei causidici non è altro che ruina e calamità delle leggi e dei iudici, e la colpa d'ogni loro errore si ha da dare a chi gli ha posti in officio. Direi come dalla giustizia ancora depende quella pietà verso Idio, che è debita a tutti, e massimamente ai príncipi, li quali debbon amarlo sopra ogn'altra cosa ed a lui come al vero fine indrizzar tutte le sue azioni; e, come dicea Senofonte, onorarlo ed amarlo sempre, ma molto piú quando sono in prosperità, per aver poi piú ragionevolmente confidenzia di dimandargli grazia quando sono in qualche avversità; perché impossibile è governar bene né se stesso né altrui senza aiuto di Dio, il quale ai boni alcuna volta manda la seconda fortuna per ministra sua, che gli rilievi da' gravi pericoli; talor la avversa, per non gli lassar addormentare nelle prosperità tanto che si scordino di lui, o della prudenzia umana, la quale corregge spesso la mala fortuna, come bon giocatore i tratti mali de' dadi col menar ben le tavole. Non lassarei ancora di ricordare al principe che fosse veramente religioso, non superstizioso, né dato alle vanità d'incanti e vaticini; perché, aggiungendo alla prudenzia umana la pietà divina e la vera religione, avrebbe ancor la bona fortuna e Dio protettore, il qual sempre gli accrescerebbe prosperità in pace ed in guerra.

 

 

 

XXXIII.

 

Appresso li direi come dovesse amar la patria e i populi suoi, tenendogli non in troppo servitú, per non si far loro odioso; dalla qual cosa nascono le sedizioni, le congiure e mille altri mali; né meno in troppo libertà, per non esser vilipeso; da che procede la vita licenziosa e dissoluta dei populi, le rapine, i furti, gli omicidii, senza timor alcuno delle leggi; spesso la ruina ed esizio totale delle città e dei regni. Appresso, come dovesse amare i propinqui di grado in grado, servando tra tutti in certe cose una pare equalità, come nella giustizia e nella libertà; ed in alcune altre una ragionevole inequalità, come nell'esser liberale, nel remunerare, nel distribuir gli onori e dignità secondo la inequalità dei meriti, li quali sempre debbono non avanzare, ma esser avanzati dalle remunerazioni; e che in tal modo sarebbe non ché amato ma quasi adorato dai sudditi; né bisogneria che esso per custodia della vita sua si commettesse a forestieri, ché i suoi per utilità di se stessi con la propria la custodiriano, ed ognun voluntieri obediria alle leggi, quando vedessero che esso medesimo obedisse e fosse quasi custode ed esecutore incorruttibile di quelle; ed in tal modo, circa questo, darebbe cosí ferma impression di sé, che se ben talor occorresse contrafarle in qualche cosa, ognun conosceria che si facesse a bon fine e 'l medesimo rispetto e riverenzia s'aría al voler suo, che alle proprie leggi; e cosí sarian gli animi dei cittadini talmente temperati, che i boni non cercariano aver piú del bisogno e i mali non poriano; perché molte volte le eccessive ricchezze son causa di gran ruina; come nella povera Italia, la quale è stata e tuttavia è preda esposta a genti strane, sí per lo mal governo, come per le molte ricchezze di che è piena. Però ben saria che la maggior parte dei cittadini fossero né molto ricchi né molto poveri, perché i troppo ricchi spesso divengon superbi e temerari; i poveri, vili e fraudolenti; ma li mediocri non fanno insidie agli altri e vivono securi di non essere insidiati; ed essendo questi mediocri maggior numero, sono ancora piú potenti; e però né i poveri né i ricchi possono conspirar contro il principe, o vero contra gli altri, né far sedizioni; onde per schifar questo male è saluberrima cosa mantenere universalmente la mediocrità.

 

 

 

XXXIV.

 

Direi adunque che usar dovesse questi e molti altri rimedi opportuni, perché nella mente dei sudditi non nascesse desiderio di cose nove e di mutazione di stato; il che per il piú delle volte fanno, o per guadagno, o veramente per onore che sperano, o per danno, o veramente per vergogna che temano; e questi movimenti negli animi loro son generati talor dall'odio e sdegno che gli dispera, per le ingiurie e contumelie che son lor fatte per avarizia, superbia e crudeltà o libidine dei superiori; talor dal vilipendio che vi nasce per la negligenzia e viltà e dapocagine de' príncipi; ed a questi dui errori devesi occorrere con l'acquistar dai populi l'amore e l'autorità; il che si fa col beneficare ed onorare i boni e rimediare prudentemente, e talor con severità, che i mali e sediciosi non diventino potenti; la qual cosa è piú facile da vietar prima che siano divenuti, che levar loro le forze poi che le hanno acquistate; e direi che per vietar che i populi non incorrano in questi errori, non è miglior via che guardargli dalle male consuetudini, e massimamente da quelle che si mettono in uso a poco a poco; perché sono pestilenzie secrete, che corrompono le città prima che altri non che rimediare, ma pur accorger se ne possa. Con tai modi ricorderei che 'l principe procurasse di conservare i suoi sudditi in stato tranquillo e dar loro i beni dell'animo e del corpo e della fortuna; ma quelli del corpo e della fortuna per poter esercitar quelli dell'animo, i quali quanto son maggiori e piú eccessivi, tanto son piú utili; il che non interviene di quelli del corpo né della fortuna. Se adunque i sudditi fossero boni e valorosi e ben indrizzati al fin della felicità, saria quel principe grandissimo signore; perché quello è vero e gran dominio, sotto 'l quale i sudditi son boni e ben governati e ben comandati -.

 

 

 

XXXV.

 

Allor il signor Gaspar, - Penso io, - disse, - che piccol signor saria quello sotto 'l quale tutti i sudditi fossero boni, perché in ogni loco son pochi li boni -. Rispose il signor Ottaviano: - Se una qualche Circe mutasse in fiere tutti i sudditi del re di Francia, non vi parrebbe che piccol signor fosse, se ben signoreggiasse tante migliaia d'animali? e per contrario, se gli armenti che vanno pascendo solamente su per questi nostri monti divenissero omini savi e valorosi cavalieri, non estimareste voi che quei pastori che gli governassero e da essi fossero obediti, fossero de' pastori divenuti gran signori? Vedete adunque che non la moltitudine dei sudditi, ma il valor fa grandi li príncipi -.

 

 

 

XXXVI.

 

Erano stati per bon spacio attentissimi al ragionamento del signor Ottaviano la signora Duchessa e la signora Emilia e tutti gli altri; ma avendo quivi esso fatto un poco di pausa, come d'aver dato fine al suo ragionamento, disse messer Cesare Gonzaga: - Veramente, signor Ottaviano, non si po dire che i documenti vostri non sian boni ed utili; nientedimeno io crederei, che se voi formaste con quelli il vostro principe, piú presto meritareste nome di bon maestro di scola che di bon cortegiano, ed esso piú presto di bon governatore che di gran principe. Non dico già che cura dei signori non debba essere che i populi siano ben retti con giustizia e bone consuetudini; nientedimeno ad essi parmi che basti eleggere boni ministri per esequir queste tai cose e che 'l vero officio loro sia poi molto maggiore. Però s'io mi sentissi esser quell'eccellente cortegiano che hanno formato questi signori ed aver la grazia del mio principe, certo è ch'io non lo indurrei mai a cosa alcuna viciosa; ma, per conseguir quel bon fine che voi dite ed io confermo dover esser il frutto delle fatiche ed azioni del cortegiano, cercherei d'imprimergli nell'animo una certa grandezza, con quel splendor regale e con una prontezza d'animo e valore invitto nell'arme, che lo facesse amare e reverir da ognuno di tal sorte, che per questo principalmente fusse famoso e chiaro al mondo. Direi ancor che compagnar dovesse con la grandezza una domestica mansuetudine, con quella umanità dolce ed amabile e bona maniera d'accarezzare e i sudditi e i stranieri discretamente, piú e meno, secondo i meriti, servando però sempre la maestà conveniente al grado suo, che non gli lassasse in parte alcuna diminuire l'autorità per troppo bassezza, né meno gli concitasse odio per troppo austera severità; dovesse essere liberalissimo e splendido e donar ad ognuno senza riservo, perché Dio, come si dice, è tesauriero dei príncipi liberali; far conviti magnifici, feste, giochi, spettacoli publici; aver gran numero di cavalli eccellenti, per utilità nella guerra e per diletto nella pace; falconi, cani e tutte l'altre cose che s'appartengono ai piaceri de' gran signori e dei populi; come a' nostri dí avemo veduto fare il signor Francesco Gonzaga marchese di Mantua, il quale a queste cose par piú presto re d'Italia che signor d'una città. Cercherei ancor d'indurlo a far magni edifici, e per onor vivendo e per dar di sé memoria ai posteri; come fece il duca Federico in questo nobil palazzo, ed or fa papa Iulio nel tempio di san Pietro, e quella strada che va da Palazzo al diporto di Belvedere e molti altri edifici, come faceano ancora gli antichi Romani; di che si vedeno tante reliquie a Roma, a Napoli, a Pozzolo, a Baie, a Cività Vecchia, a Porto ed ancor fuor d'Italia, e tanti altri lochi che son gran testimonio del valor di quegli animi divini. Cosí ancor fece Alessandro Magno, il qual, non contento della fama che per aver domato il mondo con l'arme avea meritamente acquistata, edificò Alessandria in Egitto, in India Bucefalia ed altre città in altri paesi; e pensò di ridurre in forma d'omo il monte Athos, e nella man sinistra edificargli una amplissima città e nella destra una gran coppa, nella quale si raccogliessero tutti i fiumi che da quello derivano e di quindi traboccassero nel mare: pensier veramente grande e degno d'Alessandro Magno! Queste cose estimo io, signor Ottaviano, che si convengano ad un nobile e vero principe e lo facciano nella pace e nella guerra gloriosissimo; e non lo avvertire a tante minuzie e lo aver rispetto di combattere solamente per dominare e vincer quei che meritano esser dominati, o per far utilità ai sudditi, o per levare il governo a quelli che governan male; ché se i Romani, Alessandro, Annibale e gli altri avessero avuto questi risguardi, non sarebbon stati nel colmo di quella gloria che furono

 

 

 

XXXVII.

 

Rispose allor il signor Ottaviano ridendo: - Quelli che non ebbero questi risguardi, arebbono fatto meglio avendogli, benché, se considerate, trovarete che molti gli ebbero, e massimamente que' primi antichi, come Teseo ed Ercule: né crediate che altri fossero Procuste e Scirone, Cacco, Diomede, Anteo, Gerione, che tiranni crudeli ed impii, contra i quali aveano perpetua e mortal guerra questi magnanimi eroi; e però per aver liberato il mondo da cosí intollerabili mostri (ché altramente non si debbon nominare i tiranni), ad Ercule furon fatti i tempii e i sacrifici e dati gli onori divini; perché il beneficio di estirpare i tiranni è tanto giovevole al mondo, che chi lo fa merita molto maggior premio, che tutto quello che si conviene ad un mortale. E di coloro che voi avete nominati, non vi par che Alessandro giovasse con le sue vittorie ai vinti, avendo instituite di tanti boni costumi quelle barbare genti che superò, che di fiere gli fece omini? edificò tante belle città in paesi mal abitati, introducendovi il viver morale; e quasi congiungendo l'Asia e l'Europa col vinculo dell'amicizia e delle sante leggi, di modo che piú felici furno i vinti da lui, che gli altri; perché ad alcuni mostrò i matrimoni, ad altri l'agricoltura, ad altri la religione, ad altri il non uccidere, ma il nutrir i padri già vecchi, ad altri lo astenersi dal congiungersi con le madri e mille altre cose che si porian dir in testimonio del giovamento che fecero al mondo le sue vittorie.

 

 

 

XXXVIII.

 

Ma lassando gli antichi, qual piú nobile e gloriosa impresa e piú giovevole potrebbe essere, che se i Cristiani voltasser le forze loro a subiugare gli infideli? non vi parrebbe che questa guerra, succedendo prosperamente ed essendo causa di ridurre dalla falsa setta di Maumet al lume della verità cristiana tante migliaia di omini, fosse per giovare cosí ai vinti come ai vincitori? E veramente, come già Temistocle' essendo discacciato dalla patria sua e raccolto dal re di Persia e da lui accarezzato ed onorato con infiniti e ricchissimi doni, ai suoi disse: "Amici, ruinati eravamo noi, se non ruinavamo"; cosí bene poriano allor con ragion dire il medesimo ancora i Turchi e i Mori, perché nella perdita loro saria la lor salute. Questa felicità adunque spero che ancor vedremo, se da Dio ne fia conceduto il viver tanto, che alla corona di Francia pervenga Monsignore d'Angolem, il quale tanta speranza mostra di sé, quanta mo quarta sera disse il signor Magnifico; ed a quella d'Inghilterra il signor don Enrico, principe di Vuaglia, che or cresce sotto il magno padre in ogni sorte di virtú, come tenero rampollo sotto l'ombra d'arbore eccellente e carico di frutti, per rinovarlo molto piú bello e piú fecundo quando fia tempo; ché, come di là scrive il nostro Castiglione e piú largamente promette di dire al suo ritorno, pare che la natura in questo signore abbia voluto far prova di se stessa, collocando in un corpo solo tante eccellenzie, quante basteriano per adornarne infiniti -. Disse allora messer Bernardo Bibiena: - Grandissima speranza ancor di sé promette don Carlo, principe di Spagna, il quale, non essendo ancor giunto al decimo anno della sua età, dimostra già tanto ingegno e cosí certi indici di bontà, di prudenzia, di modestia, di magnanimità e d'ogni virtú, che se l'imperio di Cristianità sarà, come s'estima, nelle sue mani, creder si po che debba oscurare il nome di molti imperatori antichi ed agguagliarsi di fama ai piú famosi che mai siano stati al mondo.

 

 

 

XXXIX.

 

Suggiunse il signor Ottaviano: - Credo adunque che tali e cosí divini príncipi siano da Dio mandati in terra e da lui fatti simili della età giovenile, della potenzia dell'arme, del stato, della bellezza e disposizion del corpo, affin che siano ancor a questo bon voler concordi; e se invidia o emulazione alcuna esser deve mai tra essi, sia solamente in voler ciascuno esser il primo e piú fervente ed animato a cosí gloriosa impresa. Ma lassiamo questo ragionamento e torniamo al nostro. Dico adunque, messer Cesare, che le cose che voi volete che faccia il principe son grandissime e degne di molta laude; ma dovete intendere, che se esso non sa quello ch'io ho detto che ha da sapere, e non ha formato l'animo di quel modo ed indrizzato al camino della virtú, difficilmente saprà esser magnanimo, liberale, giusto, animoso, prudente, o avere alcuna altra qualità di quelle che se gli aspettano; né per altro vorrei che fosse tale, che per saper esercitar queste condizioni; ché sí come quegli che edificano non son tutti boni architetti, cosí quegli che donano non son tutti liberali; perché la virtú non nòce mai ad alcuno e molti sono che robbano per donare e cosí son liberali della robba d'altri; alcuni dànno a cui non debbono e lassano in calamità e miseria quegli a' quali sono obligati; altri dànno con una certa mala grazia e quasi dispetto, tal che si conosce che lo fan per forza; altri non solamente non son secreti, ma chiamano i testimonii e quasi fanno bandire le sue liberalità; altri pazzamente vuotano in un tratto quel fonte della liberalità, tanto che poi non si po usar piú.

 

 

 

XL.

 

Però in questo, come nell'altre cose, bisogna sapere e governarsi con quella prudenzia, che è necessaria compagna a tutte le virtú; le quali, per esser mediocrità, sono vicine alli cui estremi, che sono vicii; onde chi non sa facilmente incorre in essi; perché cosí come è difficile nel circulo trovare il punto del centro, che è il mezzo, cosí è difficile trovare il punto della virtú posta nel mezzo delli cui estremi, viciosi l'uno per lo troppo, l'altro per lo poco, ed a questi siamo or all'uno or all'altro inclinati; e ciò si conosce per lo piacere e per lo dispiacere che in noi si sente; ché per l'uno facciamo quello che non devemo, per l'altro lasciamo di far quello che deveremmo; benché il piacere è molto piú pericoloso, perché facilmente il giudicio nostro da quello si lascia corrompere. Ma perché il conoscere quanto sia l'uom lontano dal centro della virtú è cosa difficile, devemo ritirarci a poco a poco da noi stessi alla contraria parte di quello estremo al quale ne conoscemo esser inclinati, come fan quelli che indrizzano i legni distorti; ché in tal modo s'accostaremo alla virtú, la quale, come ho detto, consiste in quel punto della mediocrità; onde interviene che noi per molti modi erriamo e per un solo facciamo l'officio e debito nostro; cosí come gli arcieri, che per una via sola dànno nella brocca e per molte fallano il segno. Però spesso un principe, per voler esser umano ed affabile, fa infinite cose fuor del decoro e si avvilisce tanto che è disprezzato; alcun altro, per servar quella maestà grave con autorità conveniente, diviene austero ed intollerabile; alcun, per esser tenuto eloquente, entra in mille strane maniere e lunghi circuiti di parole affettate, ascoltando se stesso, tanto che gli altri per fastidio ascoltar non lo possono.

 

 

 

XLI.

 

Sí che non chiamate, messer Cesare, per minuzia cosa alcuna che possa migliorare un principe in qualsivoglia parte, per minima che ella sia; né pensate già ch'io estimi che voi biasmiate i miei documenti, dicendo che con quelli piú tosto si formaria un bon governatore che un bon principe; ché non si po forse dare maggior laude né piú conveniente ad un principe, che chiamarlo bon governatore. Però, se a me toccasse instituirlo, vorrei che egli avesse cura non solamente di governar le cose già dette, ma le molto minori, ed intendesse tutte le particularità appartenenti ai suoi populi quanto fosse possibile, né mai credesse tanto, né tanto si confidasse d'alcun suo ministro, che a quel solo rimettesse totalmente la briglia e lo arbitrio di tutto 'l governo; perché non è alcuno che sia attissimo a tutte le cose, e molto maggior danno procede dalla credulità de' signori che dalla incredulità, la qual non solamente talor non nòce, ma spesso summamente giova; pur in questo è necessario il bon giudicio del principe, per conoscer chi merita esser creduto e chi no. Vorrei che avesse cura d'intendere le azioni ed esser censore de' suoi ministri; di levare ed abbreviar le liti tra i sudditi; di far far pace tra essi, e legargli insieme di parentati; di far che la città fosse tutta unita e concorde in amicizia, come una casa privata; populosa, non povera, quieta, piena di boni artífici; di favorir i mercatanti ed aiutarli ancora con denari; d'esser liberale ed onorevole nelle ospitalità verso i forestieri e verso i religiosi; di temperar tutte le superfluità; perché spesso per gli errori che si fanno in queste cose, benché paiano piccoli, le città vanno in ruina; però è ragionevole che 'l principe ponga mèta ai troppo suntuosi edifici dei privati, ai convivii, alle doti eccessive delle donne, al lusso, alle pompe nelle gioie e vestimenti, che non è altro che uno augumento della lor pazzia; ché, oltre che spesso, per quella ambizione ed invidia che si portano l'una all'altra, dissipano le facultà e la sustanzia dei mariti, talor per una gioietta o qualche altra frascheria tale vendono la pudicizia loro a chi la vol comperare -.

 

 

 

XLII.

 

Allora messer Bernardo Bibiena ridendo, - Signor Ottaviano, - disse, - voi entrate nella parte del signor Gaspare e del Frigio -. Rispose il signor Ottaviano pur ridendo: - La lite è finita, ed io non voglio già rinovarla; però non dirò piú delle donne, ma ritornerò al mio principe -. Rispose il Frigio: - Ben potete oramai lassarlo e contentarvi che egli sia tale come l'avete formato; ché senza dubbio piú facil cosa sarebbe trovare una donna con le condizioni dette dal signor Magnifico, che un principe con le condizioni dette da voi; però dubito che sia come la republica di Platone e che non siamo per vederne mai un tale, se non forse in cielo -. Rispose il signor Ottaviano: - Le cose possibili, benché siano difficili, pur si po sperar che abbiano da essere; perciò forse vedremolo ancor a' nostri tempi in terra; ché, benché i cieli siano tanto avari in produr principi eccellenti, che a pena in molti seculi se ne vede uno, potrebbe questa bona fortuna toccare a noi -. Disse allor il conte Ludovico: - Io ne sto con assai bona speranza; perché, oltra quelli tre grandi che avemo nominati, de' quali sperar si po ciò che s'è detto convenirsi al supremo grado di perfetto principe, ancora in Italia se ritrovano oggidí alcuni figlioli de signori, li quali, benché non siano per aver tanta potenzia, forse suppliranno con la virtú; e quello che tra tutti si mostra di meglior indole e di sé promette maggior speranza che alcun degli altri, parmi che sia il signor Federico Gonzaga, primogenito del marchese di Mantua nepote della signora Duchessa nostra qui; ché, oltra la gentilezza de' costumi e la discrezione che in cosí tenera età dimostra, coloro che lo governano di lui dicono cose di maraviglia circa l'essere ingenioso, cupido d'onore, magnanimo, cortese, liberale, amico della giusticia; di modo che di cosí bon principio non si po se non aspettar ottimo fine -. Allor il Frigio, - Or non piú, - disse, - pregaremo Dio di vedere adempita questa vostra speranza -.

 

 

 

XLIII.

 

Quivi il signor Ottaviano, rivolto alla signora Duchessa con maniera d'aver dato fine al suo ragionamento, - Eccovi, Signora, - disse, - quello che a dir m'occorre del fin del cortegiano; nella qual cosa s'io non arò satisfatto in tutto, basterammi almen aver dimostrato che qualche perfezion ancora dar si gli potea oltra le cose dette da questi signori; li quali io estimo che abbiano pretermesso e questo e tutto quello ch'io potrei dire, non perché non lo sapessero meglio di me, ma per fuggir fatica; però lasserò che essi vadano continuando, se a dir gli avanza cosa alcuna -. Allora disse la signora Duchessa: - Oltra che l'ora è tanto tarda, che tosto sarà tempo di dar fine per questa sera, a me non par che noi debbiam mescolare altro ragionamento con questo; nel quale voi avete raccolto tante varie e belle cose, che circa il fine della cortegiania si po dir che non solamente siate quel perfetto cortegiano che noi cerchiamo, e bastante per instituir bene il vostro principe, ma, se la fortuna vi sarà propizia, che debbiate ancor essere ottimo principe, il che saria con molta utilità della patria vostra -. Rise il signor Ottaviano e disse: - Forse, Signora, s'io fussi in tal grado, a me ancor interverria quello che sòle intervenire a molti altri, li quali san meglio dire che fare -.

 

 

 

XLIV.

 

Quivi essendosi replicato un poco di ragionamento tra tutta la compagnia confusamente, con alcune contradizioni, pur a laude di quello che s'era parlato, e dettosi che ancor non era l'ora d'andar a dormire, disse ridendo il Magnifico Iuliano: Signora, io son tanto nemico degli inganni, che m'è forza contradir al signor Ottaviano, il qual per esser, come io dubito, congiurato secretamente col signor Gaspar contra le donne, è incorso in dul errori, secondo me, grandissimi: dei quali l'uno è, che per preporre questo cortegiano alla donna di palazzo e farlo eccedere quei termini a che essa po giungere, l'ha preposto ancor al principe, il che è inconvenientissimo; l'altro, che gli ha dato un tal fine, che sempre è difficile e talor impossibile che lo conseguisca, e quando pur lo consegue, non si deve nominar per cortegiano. - Io non intendo, - disse la signora Emilia, - come sia cosí difficile o impossibile che 'l cortegiano conseguisca questo suo fine, né meno come il signor Ottaviano lo abbia preposto al principe. - Non gli consentite queste cose, - rispose il signor Ottaviano, - perch'io non ho preposto il cortegiano al principe; e circa il fine della cortegiania non mi presumo esser incorso in errore alcuno -. Rispose allor il Magnifico Iuliano: - Dir non potete, signor Ottaviano, che sempre la causa per la quale lo effetto è tale come egli è, non sia piú tale che non è quello effetto; però bisogna che 'l cortegiano, per la instituzion del quale il principe ha da esser di tanta eccellenzia, sia piú eccellente che quel principe; ed in questo modo sarà ancora di piú dignità che 'l principe istesso, il che è inconvenientissimo. Circa il fine poi della cortegiania, quello che voi avete detto po seguitare quando l'età del principe è poco differente da quella del cortegiano, ma non però senza difficultà, perché dove è poca differenzia d'età, ragionevol è che ancor poca ve ne sia di sapere; ma se 'l principe è vecchio e 'l cortegian giovane, conveniente è che 'l principe vecchio sappia piú che 'l cortegian giovane, e se questo non intervien sempre, intervien qualche volta; ed allor il fine che voi avete attribuito al cortegiano è impossibile. Se ancora il principe è giovane e 'l cortegian vecchio, difficilmente il cortegian po guadagnarsi la mente del principe con quelle condizioni che voi gli avete attribuite; ché, per dir il vero, l'armeggiare e gli altri esercizi della persona s'appartengono a' giovani e non riescono ne' vecchi, e la musica e le danze e feste e giochi e gli amori in quella età son cose ridicule; e parmi che ad uno institutor della vita e costumi del principe, il qual deve esser persona tanto grave e d'autorità, maturo negli anni e nella esperienzia e, se possibil fosse, bon filosofo, bon capitano, e quasi saper ogni cosa, siano disconvenienfissime. Però chi instituisce il principe estimo io che non s'abbia da chiamar cortegiano, ma meriti molto maggiore e piú onorato nome. Sí che, signor Ottaviano, perdonatemi s'io ho scoperto questa vostra fallacia, ché mi par esser tenuto a far cosí per l'onor della mia donna; la qual voi pur vorreste che fosse di minor dignità che questo vostro cortegiano, ed io nol voglio comportare -.

 

 

 

XLV.

 

Rise il signor Ottaviano e disse: - Signor Magnifico, piú laude della donna di palazzo sarebbe lo esaltarla tanto ch'ella fosse pari al cortegiano, che abbassar il cortegian tanto che 'l sia pari alla donna di palazzo; ché già non saria proibito alla donna ancora instituir la sua signora e tender con essa a quel fine della cortegiania, ch'io ho detto convenirsi al cortegian col suo principe; ma voi cercate piú di biasmare il cortegiano, che di laudar la donna di palazzo; però a me ancor sarà licito tener la ragione del cortegiano. Per rispondere adunque alle vostre obiezioni, dico ch'io non ho detto che la instituzione del cortegiano debba esser la sola causa per la quale il principe sia tale; perché se esso non fosse inclinato da natura ed atto a poter essere, ogni cura e ricordo del cortegiano sarebbe indarno; come ancor indarno s'affaticaria ogni bono agricultore che si mettesse a cultivare e seminare d'ottimi grani l'arena sterile del mare, perché quella tal sterilità in quel loco è naturale; ma quando al bon seme in terren fertile, con la temperie dell'aria e piogge convenienti alle stagioni, s'aggiunge ancora la diligenzia della cultura umana, si vedon sempre largamente nascere abundantissimi frutti; né però è che lo agricultor solo sia la causa di quelli, benché senza esso poco o niente giovassero tutte le altre cose. Sono adunque molti príncipi che sarian boni, se gli animi loro fossero ben cultivati; e di questi parlo io, non di quelli che sono come il paese sterile e tanto da natura alieni dai boni costumi, che non basta disciplina alcuna per indur l'animo loro al diritto camino.

 

 

 

XLVI.

 

E perché, come già avemo detto, tali si fanno gli abiti in noi quali sono le nostre operazioni, e nell'operar consiste la virtú, non è impossibil né maraviglia che 'l cortegiano indrizzi il principe a molte virtú, come la giustizia, la liberalità, la magnanimità, le operazion delle quali esso per la grandezza sua facilmente po mettere in uso e farne abito; il che non po il cortegiano, per non aver modo d'operarle; e cosí il principe, indutto alla virtú dal cortegiano, po divenir piú virtuoso che 'l cortegiano. Oltra che dovete saper che la cote che non taglia punto, pur fa acuto il ferro; però parmi che ancora che 'l cortegiano instituisca il principe, non per questo s'abbia a dir che egli sia di piú dignità che 'l principe. Che 'l fin di questa cortegiania sia difficile e talor impossibile, e che quando pur il cortegian lo consegue non si debba nominar per cortegiano, ma meriti maggior nome, dico ch'io non nego questa difficultà, perché non meno è difficile trovar un cosí eccellente cortegiano, che conseguir un tal fine; parmi ben che la impossibilità non sia né anco in quel caso che voi avete allegato, perché se 'l cortegian è tanto giovane, che non sappia quello che s'è detto che egli ha da sapere, non accade parlarne, perché non è quel cortegiano che noi presuponemo, né possibil è che chi ha da saper tante cose sia molto giovane. E se pur occorrerà che 'l principe sia cosí savio e bono da se stesso, che non abbia bisogno di ricordi né consigli d'altri (benché questo è tanto difficile quanto ognun sa), al cortegian basterà esser tale che, se 'l principe n'avesse bisogno, potesse farlo virtuoso; e con lo effetto poi potrà satisfare a quell'altra parte, di non lassarlo ingannare e di far che sempre sappia la verità d'ogni cosa, e d'opporsi agli adulatori, ai malèdici ed a tutti coloro che machinassero di corromper l'animo di quello con disonesti piaceri; ed in tal modo conseguirà pur il suo fine in gran parte, ancora che non lo metta totalmente in opera; il che non sarà ragion d'imputargli per diffetto, restando di farlo per cosí bona causa; ché se uno eccellente medico si ritrovasse in loco dove tutti gli omini fossero sani, non per questo si devria dir che quel medico, se ben non sanasse gli infermi, mancasse del suo fine; però, sí come del medico deve essere intenzione la sanità degli omini, cosí del cortegiano la virtú del suo principe; ed all'uno e l'altro basta aver questo fine intrinseco in potenzia, quando il non produrlo estrinsicamente in atto procede dal subietto, al quale è indrizzato questo fine. Ma se 'l cortegian fosse tanto vecchio, che non se gli convenissi esercitar la musica, le feste, i giochi, l'arme e l'altre prodezze della persona, non si po però ancor dire che impossibile gli sia per quella via entrare in grazia al suo principe; perché se la età leva l'operar quelle cose, non leva l'intenderle, ed avendole operate in gioventú, lo fa averne tanto piú perfetto giudicio e piú perfettamente saperle insegnar al suo principe, quanto piú notizia d'ogni cosa portan seco gli anni e la esperienzia; ed in questo modo il cortegian vecchio, ancora che non eserciti le condicioni attribuitegli, conseguirà pur il suo fine d'instituir bene il principe.

 

 

 

XLVII.

 

E se non vorrete chiamarlo cortegiano, non mi dà noia; perché la natura non ha posto tal termine alle dignità umane, che non si possa ascendere dall'una all'altra; però spesso i soldati simplici divengon capitani, gli omini privati re, e i sacerdoti papi e i discipoli maestri, e cosí insieme con la dignità acquistano ancor il nome; onde forse si poria dir che 'l divenir institutor del principe fosse il fin del cortegiano. Benché non so chi abbia da rifiutar questo nome di perfetto cortegiano, il quale, secondo me, è degno di grandissima laude; e parmi che Omero, secondo che formò dui omini eccellentissimi per esempio della vita umana, l'uno nelle azioni, che fu Achille, l'altro nelle passioni e tolleranzie, che fu Ulisse, cosí volesse ancora formar un perfetto cortegiano, che fu quel Fenice, il qual, dopo l'aver narrato i suoi amori e molte altre cose giovenili, dice esser stato mandato ad Achille da Pelleo suo padre per stargli in compagnia e insegnargli a dire e fare: il che non è altro che 'l fin che noi avemo disegnato al nostro cortegiano. Né penso che Aristotile e Platone si fossero sdegnati del nome di perfetto cortegiano, perché si vede chiaramente che fecero l'opere della cortegiania ed attesero a questo fine, l'un con Alessandro Magno, l'altro con i re di Sicilia. E perché officio è di bon cortegiano conoscer la natura del principe e l'inclinazion sue e cosí, secondo i bisogni e le opportunità, con destrezza entrar loro in grazia, come avemo detto, per quelle vie che prestano l'adito securo, e poi indurlo alla virtú, Aristotile cosí ben conobbe la natura d'Alessandro e con destrezza cosí ben la secondò, che da lui fu amato ed onorato piú che padre, onde, tra molti altri segni che Alessandro in testimonio della sua benivolenzia gli fece, volse che Stagira sua patria, già disfatta, fosse reedificata; ed Aristotile, oltre allo indrizzar lui a quel fin gloriosissimo, che fu il voler fare che 'l mondo fosse come una sol patria universale, e tutti gli omini come un sol populo, che vivesse in amicizia e concordia tra sé sotto un sol governo ed una sola legge, che risplendesse communemente a tutti come la luce del sole, lo formò nelle scienzie naturali e nelle virtú dell'animo talmente, che lo fece sapientissimo, fortissimo, continentissimo e vero filosofo morale, non solamente nelle parole ma negli effetti; ché non si po imaginare piú nobil filosofia, che indur al viver civile i populi tanto efferati come quelli che abitano Battra e Caucaso, la India, la Scizia ed insegnar loro i matrimoni, l'agricultura, l'onorar i padri, astenersi dalle rapine e dagli omicidii e dagli altri mal costumi, lo edificare tante città nobilissime in paesi lontani, di modo che infiniti omini per quelle leggi furono ridutti dalla vita ferina alla umana; e di queste cose in Alessandro fu autore Aristotile, usando i modi di bon cortegiano; il che non seppe far Calistene, ancorché Aristotile glielo mostrasse; ché, per voler esser puro filosofo e cosí austero ministro della nuda verità, senza mescolarvi la cortegiania, perdé la vita e non giovò, anzi diede infamia ad Alessandro. Per lo medesimo modo della cortegiania Platone formò Dione Siracusano; ed avendo poi trovato quel Dionisio tiranno come un libro tutto pieno di mende e d'errori e piú presto bisognoso d'una universal litura che di mutazione o correzione alcuna, per non esser possibile levargli quella tintura della tirannide, della qual tanto tempo già era macchiato, non volse operarvi i modi della cortegiania, parendogli che dovessero esser tutti indarno. Il che ancora deve fare il nostro cortegiano, se per sorte si ritrova a servizio di principe di cosí mala natura, che sia inveterato nei vicii, come li ftisici nella infirmità; perché in tal caso deve levarsi da quella servitú, per non portar biasimo delle male opere del suo signore, e per non sentir quella noia che senton tutti i boni che servono ai mali -.

 

 

 

XLVIII.

 

Quivi essendosi fermato il signor Ottaviano di parlare, disse il signor Gaspar: - Io non aspettava già che 'l nostro cortegiano avesse tanto d'onore; ma poiché Aristotile e Platone son suoi compagni, penso che niun piú debba sdegnarsi di questo nome. Non so già però s'io mi creda che Aristotile e Platone mai danzassero o fossero musici in sua vita, o facessero altre opere di cavalleria -. Rispose il signor Ottaviano: - Non è quasi licito imaginar che questi dui spiriti divini non sapessero ogni cosa, e però creder si po che operassero ciò che s'appartiene alla cortegiania, perché dove lor occorre ne scrivono di tal modo, che gli artifici medesimi delle cose da loro scritte conoscono che le intendevano insino alla medulle ed alle piú intime radici. Onde non è da dir che al cortegiano o institutor del principe, come lo vogliate chiamare, il qual tenda a quel bon fine che avemo detto, non si convengan tutte le condicioni attribuitegli da questi signori, ancora che fosse severissimo filosofo e di costumi santissimo, perché non repugnano alla bontà, alla discrezione, al sapere, al valore, in ogni età ed in ogni tempo e loco -.

 

 

 

XLIX.

 

Allora il signor Gaspar, - Ricordomi, - disse, - che questi signori iersera, ragionando delle condicioni del cortegiano, volsero ch'egli fusse inamorato; e perché, reassumendo quello che s'è detto insin qui, si poria cavar una conclusione che 'l cortegiano, il quale col valore ed autorità sua ha da indur il principe alla virtú, quasi necessariamente bisogna che sia vecchio, perché rarissime volte il saper viene innanzi agli anni, e massimamente in quelle cose che si imparano con la esperienzia, non so come, essendo di età provetto, se gli convenga l'essere inamorato; atteso che, come questa sera s'è detto, l'amor ne' vecchi non riesce e quelle cose che ne' giovani sono delicie e cortesie, attillature tanto grate alle donne, in essi sono pazzie ed inezie ridicule ed a chi le usa parturiscono odio dalle donne e beffe dagli altri. Però se questo vostro Aristotile, cortegian vecchio, fosse inamorato e facesse quelle cose che fanno i giovani inamorati, come alcuni che n'avemo veduti a' dí nostri, dubito che si scorderia d'insegnar al suo principe, e forse i fanciulli gli farebbon drieto la baia e le donne ne trarebbon poco altro piacere che di burlarlo -. Allora il signor Ottaviano, - Poiché tutte l'altre condicioni, - disse, - attribuite al cortegiano se gli confanno ancora che egli sia vecchio, non mi par già che debbiamo privarlo di questa felicità d'amare. - Anzi, disse il signor Gaspar, - levargli questo amare è una perfezion di piú ed un farlo vivere felicemente fuor di miseria e calamità -.

 

 

 

L.

 

Disse messer Pietro Bembo: - Non vi ricorda, signor Gaspar, che 'l signor Ottaviano, ancora che egli sia male esperto in amore, pur l'altra sera mostrò nel suo gioco di saper che alcuni inamorati sono, li quali chiamano per dolci li sdegni e l'ire e le guerre e i tormenti che hanno dalle lor donne; onde domandò che insegnato gli fosse la causa di questa dolcezza? Però se il nostro cortegiano, ancora che vecchio, s'accendesse di quegli amori che son dolci senza amaritudine, non ne sentirebbe calamità o miseria alcuna; ed essendo savio, come noi presuponiamo, non s'ingannaria pensando che a lui si convenisse tutto quello che si convien ai giovani; ma, amando, ameria forse d'un modo, che non solamente non gli portaria biasimo alcuno, ma molta laude e somma felicità non compagnata da fastidio alcuno, il che rare volte e quasi non mai interviene ai giovani; e cosí non lasseria d'insegnare al suo principe, né farebbe cosa che meritasse la baia da' fanciulli -. Allor la signora Duchessa, - Piacemi, - disse, - messer Pietro, che voi questa sera abbiate avuto poca fatica nei nostri ragionamenti, perché ora con più securtà v'imporremo il carico di parlare ed insegnar al cortegiano questo cosí felice amore, che non ha seco né biasimo né dispiacere alcuno; ché forse sarà una delle piú importanti ed utili condicioni che per ancora gli siano attribuite. Però dite, per vostra fé, tutto quello che ne sapete -. Rise messer Pietro e disse: - Io non vorrei, Signora, che 'l mio dir che ai vecchi sia licito lo amare, fosse cagion di farmi tener per vecchio da queste donne; però date pur questa impresa ad un altro -. Rispose la signora Duchessa: - Non dovete fuggir d'esser riputato vecchio di sapere, se ben foste giovane d'anni; però dite e non v'escusate piú -. Disse messer Pietro: - Veramente, Signora, avendo io da parlar di questa materia, bisognariami andar a domandar consiglio allo Eremita del mio Lavinello -. Allor la signora Emilia, quasi turbata, - Messer Pietro, - disse, - non è alcuno nella compagnia che sia piú disobidiente di voi; però sarà ben che la signora Duchessa vi dia qualche castigo -. Disse messer Pietro pur ridendo: - Non vi adirate meco, Signora, per amor di Dio; ché io dirò ciò che vorrete. - Or dite adunque, - rispose la signora Emilia.

 

 

 

LI.

 

Allora messer Pietro, avendo prima alquanto tacciuto, poi rasettatosi un poco, come per parlar di cosa importante, cosí disse: - Signori, per dimostrar che i vecchi possano non solamente amar senza biasimo, ma talor piú felicemente che i giovani, sarammi necessario far un poco di discorso, per dichiarir che cosa è amore ed in che consiste la felicità che possono avere gl'inamorati; però pregovi ad ascoltarmi con attenzione, perché spero farvi vedere che qui non è omo a cui si disconvenga l'esser inamorato, ancor che egli avesse quindici o venti anni piú che 'l signor Morello E quivi essendosi alquanto riso, suggiunse messer Pietro: Dico adunque che, secondo che dagli antichi savi è diffinito, amor non è altro che un certo desiderio di fruir la bellezza; e perché il desiderio non appetisce se non le cose conosciute, bisogna sempre che la cognizion preceda il desiderio; il quale per sua natura vuole il bene, ma da sé è cieco e non lo conosce. Però ha cosí ordinato la natura che ad ogni virtú conoscente sia congiunta una virtú appetitiva; e perché nell'anima nostra son tre modi di conoscere, cioè per lo senso, per la ragione e per l'intelletto, dal senso nasce l'appetito, il qual a noi è commune con gli animali bruti; dalla ragione nasce la elezione, che è propria dell'omo; dall'intelletto, per lo quale l'uom po communicar con gli angeli, nasce la voluntà. Cosí adunque come il senso non conosce se non cose sensibili, l'appetito le medesime solamente desidera; e cosí come l'intelletto non è vòlto ad altro che alla contemplazion di cose intelligibili, quella voluntà solamente si nutrisce di beni spirituali. L'omo, di natura razionale, posto come mezzo fra questi dui estremi, po per sua elezione, inclinandosi al senso o vero elevandosi allo intelletto, accostarsi ai desidèri or dell'una or dell'altra parte. Di questi modi adunque si po desiderar la bellezza; il nome universal della quale si conviene a tutte le cose o naturali o artificiali che son composte con bona proporzione e debito temperamento, quanto comporta la lor natura.

 

 

 

LII.

 

Ma parlando della bellezza che noi intendemo, che è quella solamente che appar nei corpi e massimamente nei volti umani e move questo ardente desiderio che noi chiamiamo amore, diremo che è un influsso della bontà divina, il quale, benché si spanda sopra tutte le cose create come il lume del sole, pur quando trova un volto ben misurato e composto con una certa gioconda concordia di colori distinti ed aiutati dai lumi e dall'ombre e da una ordinata distanzia e termini di linee, vi s'infonde e si dimostra bellissimo, e quel subietto ove riluce adorna ed illumina d'una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio di sole che percuota in un bel vaso d'oro terso e variato di preciose gemme; onde piacevolmente tira a sé gli occhi umani e per quelli penetrando s'imprime nell'anima, e con una nova suavità tutta la commove e diletta, ed accendendola da lei desiderar si fa. Essendo adunque l'anima presa dal desiderio di fruir questa bellezza come cosa bona, se guidar si lassa dal giudicio del senso incorre in gravissimi errori e giudica che 'l corpo, nel qual si vede la bellezza, sia la causa principal di quella, onde per fruirla estima essere necessario l'unirsi intimamente piú che po con quel corpo; il che è falso; e però chi pensa, possedendo il corpo, fruir la bellezza, s'inganna e vien mosso non da vera cognizione per elezion di ragione, ma da falsa opinion per l'appetito del senso; onde il piacer che ne segue esso ancora necessariamente è falso e mendoso. E però in un de' dui mali incorrono tutti quegli amanti, che adempiono le lor non oneste voglie con quelle donne che amano; che o vero, súbito che son giunti al fin desiderato, non solamente senton sazietà e fastidio, ma piglian odio alla cosa amata, quasi che l'appetito si ripenta dell'error suo e riconosca l'inganno fattogli dal falso giudicio del senso, per lo quale ha creduto che 'l mal sia bene; o vero restano nel medesimo desiderio ed avidità, come quelli che non son giunti veramente al fine che cercavano; e benché per la cieca opinione, nella quale inebriati si sono, paia loro che in quel punto sentano piacere, come talor gl'infermi che sognano di ber a qualche chiaro fonte, nientedimeno non si contentano, né s'acquetano. E perché dal possedere il ben desiderato nasce sempre quiete e satisfazione nell'animo del possessore, se quello fosse il vero e bon fine del loro desiderio, possedendolo restariano quieti e satisfatti, il che non fanno; anzi, ingannati da quella similitudine, súbito ritornano al sfrenato desiderio e con la medesima molestia che prima sentivano si ritrovano nella furiosa ed ardentissima sete di quello, che in vano sperano di posseder perfettamente. Questi tali inamorati adunque amano infelicissimamente, perché o vero non conseguono mai li desidèri loro, il che è grande infelicità; o ver, se gli consegueno, si trovano aver conseguito il suo male e finìscono le miserie con altre maggior miserie; perché ancora nel principio e nel mezzo di questo amore altro non si sente già mai che affanni, tormenti, dolori, stenti, fatiche; di modo che l'esser pallido, afflitto, in continue lacrime e sospiri, il star mesto, il tacer sempre o lamentarsi, il desiderar di morire, in somma l'esser infelicissimo, son le condicioni che si dicono convenir agli inamorati.

 

 

 

LIII.

 

La causa adunque di questa calamità negli animi umani è principalmente il senso, il quale nella età giovenile è potentissimo, perché 'l vigor della carne e del sangue in quella stagione gli dà tanto di forza, quanta ne scema alla ragione e però facilmente induce l'anima a seguitar l'appetito; perché ritrovandosi essa summersa nella pregion terrena e, per esser applicata al ministerio di governar il corpo, priva della contemplazion spirituale, non po da sé intender chiaramente la verità; onde, per aver cognizion delle cose, bisogna che vada mendicandone il principio dai sensi, e però loro crede e loro si inchina e da loro guidar si lassa, massimamente quando hanno tanto vigore che quasi la sforzano; e perché essi son fallaci, la empiono d'errori e false opinioni. Onde quasi sempre occorre che i giovani sono avvolti in questo amor sensuale in tutto rubello dalla ragione, e però si fanno indegni di fruire le grazie e i beni che dona amor ai suoi veri suggetti; né in amor sentono piaceri fuor che i medesimi che sentono gli animali irracionali, ma gli affanni molto piú gravi. Stando adunque questo presuposito, il quale è verissimo, dico che 'l contrario interviene a quelli che sono nella età piú matura; ché se questi tali, quando già l'anima non è tanto oppressa dal peso corporeo e quando il fervor naturale comincia ad intepidirsi, s'accendono della bellezza e verso quella volgono il desiderio guidato da razional elezione, non restano ingannati e posseggono perfettamente la bellezza; e però dal possederla nasce lor sempre bene, perché la bellezza è bona e, conseguentemente, il vero amor di quella è bonissimo e santissimo e sempre produce effetti boni nell'anime di quelli, che col fren della ragion correggono la nequicia del senso; il che molto piú facilmente i vecchi far possono che i giovani.

 

 

 

LIV.

 

Non è adunque fuor di ragione il dire ancor, ch'e vecchi amar possano senza biasimo e piú felicemente che i giovani; pigliando però questo nome di vecchio non per decrepito, né quando già gli organi del corpo son tanto debili, che l'anima per quelli non po operar le sue virtú, ma quando il saper in noi sta nel suo vero vigore. Non tacerò ancora questo; che è ch'io estimo che, benché l'amor sensuale in ogni età sia malo, pur ne' giovani meriti escusazione, e forse in qualche modo sia licito; ché se ben dà loro affanni, pericoli, fatiche e quelle infelicità che s'è detto, son però molti che per guadagnar la grazia delle donne amate fan cose virtuose, le quali benché non siano indrizzate a bon fine, pur in sé son bone; e cosí di quel molto amaro cavano un poco di dolce, e per le avversità che supportano in ultimo riconoscon l'error suo. Come adunque estimo che quei giovani che sforzan gli appetiti ed amano con la ragione sian divini, cosí escuso quelli che vincer si lassano dall'amor sensuale, al qual tanto per la imbecillità umana sono inclinati; purché in esso mostrino gentilezza, cortesia e valore e le altre nobil condicioni che hanno dette questi signori; e quando non son piú nella età giovenile, in tutto l'abbandonino, allontanandosi da questo sensual desiderio, come dal piú basso grado della scala per la qual si po ascendere al vero amore. Ma se ancor, poi che son vecchi, nel freddo core conservano il foco degli appetiti e sottopongon la ragion gagliarda al senso debile, non si po dir quanto siano da biasmare; ché, come insensati, meritano con perpetua infamia esser connumerati tra gli animali irracionali, perché i pensieri e i modi dell'amor sensuale son troppo disconvenienti alla età matura -.

 

 

 

LV.

 

Quivi fece il Bembo un poco di pausa, quasi come per riposarsi; e stando ognun cheto, disse il signor Morello da Ortona: - E se si trovasse un vecchio piú disposto e gagliardo e di meglior aspetto che molti giovani, perché non vorreste voi che a questo fosse licito amar di quello amore che amano i giovani? - Rise la signora Duchessa e disse: - Se l'amor dei giovani è cosí infelice, perché volete voi, signor Morello, che i vecchi essi ancor amino con quella infelicità? ma se voi foste vecchio, come dicon costoro, non procurareste cosí il mal dei vecchi -. Rispose il signor Morello: - Il mal dei vecchi parmi che procuri messer Pietro Bembo, il qual vole che amino d'un certo modo, ch'io per me non l'intendo; e parmi che 'l possedere questa bellezza, che esso tanto lauda, senza 'l corpo, sia un sogno. - Credete voi, signor Morello, - disse allor il conte Ludovico, - che la bellezza sia sempre cosí bona come dice messer Pietro Bembo? - Io non già, - rispose il signor Morello; - anzi ricordomi aver vedute molte belle donne malissime, crudeli e di spettose; e par che quasi sempre cosí intervenga, perché la bellezza le fa superbe, e la superbia crudeli -. Disse il conte Ludovico ridendo: - A voi forse paiono crudeli perché non vi compiacciono di quello che vorreste; ma fatevi insegnar da messer Pietro Bembo di che modo debban desiderar la bellezza i vecchi e che cosa ricercar dalle donne e di che contentarsi; e non uscendo voi di que' termini, vederete che non saranno né superbe né crudeli e vi compiaceranno di ciò che vorrete -. Parve allor che 'l signor Morello si turbasse un poco, e disse: - Io non voglio saper quello che non mi tocca; ma fatevi insegnar voi come debbano desiderar questa bellezza i giovani peggio disposti e men gagliardi che i vecchi -.

 

 

 

LVI.

 

Quivi messer Federico, per acquetar il signor Morello e divertir il ragionamento, non lassò rispondere il conte Ludovico, ma interrompendolo disse: - Forse che 'l signor Morello non ha in tutto torto a dir che la bellezza non sia sempre bona, perché spesso le bellezze di donne son causa che al mondo intervengan infiniti mali, inimicizie, guerre, morti e distruzioni; di che po far bon testimonio la ruina di Troia; e le belle donne per lo piú sono o ver superbe e crudeli, o vero, come s'è detto, impudiche; ma questo al signor Morello non parrebbe diffetto. Sono ancor molti omini scelerati, che hanno grazia di bello aspetto, e par che la natura gli abbia fatti tali acciò che siano piú atti ad ingannare, e che quella vista graziosa sia come l'esca nascosa sotto l'amo -. Allora messer Pietro Bembo, - Non crediate, - disse, - che la bellezza non sia sempre bona -. Quivi il conte Ludovico, per ritornar esso ancor al primo proposito, interruppe e disse: - Poiché 'l signor Morello non si cura di saper quello che tanto gl'importa, insegnatelo a me e mostratemi come acquistino i vecchi questa felicità d'amore, ché non mi curerò io di farmi tener vecchio, pur che mi giovi -.

 

 

LVII.

 

Rise messer Pietro e disse: - Io voglio prima levar dell'animo di questi signori l'error loro; poi a voi ancora satisfarò -. Cosí ricominciando, - Signori, - disse, - io non vorrei che col dir mal della bellezza, che è cosa sacra, fosse alcun di noi che come profano e sacrilego incorresse nell'ira di Dio; però, acciò che 'l signor Morello e messer Federico siano ammoniti e non perdano, come Stesicoro, la vista, che è pena convenientissima a chi disprezza la bellezza, dico che da Dio nasce la bellezza ed è come circulo di cui la bontà è il centro; e però come non po essere circulo senza centro, non po esser bellezza senza bontà; onde rare volte mala anima abita bel corpo e perciò la bellezza estrinseca è vero segno della bontà intrinseca e nei corpi è impressa quella grazia piú e meno quasi per un carattere dell'anima, per lo quale essa estrinsecamente è conosciuta, come negli alberi, ne' quali la bellezza de' fiori fa testimonio della bontà dei frutti; e questo medesimo interviene nei corpi, come si vede che i fisionomi al volto conoscono spesso i costumi e talora i pensieri degli omini; e, che è piú, nelle bestie si comprende ancor allo aspetto la qualità dell'animo, il quale nel corpo esprime se stesso piú che po. Pensate come chiaramente nella faccia del leone, del cavallo, dell'aquila si conosce l'ira, la ferocità e la superbia; negli agnelli e nelle colombe una pura e simplice innocenzia; la malicia astuta nelle volpi e nei lupi, e cosí quasi di tutti gli altri animali.

 

 

 

LVIII.

 

I brutti adunque per lo piú sono ancor mali e li belli boni; e dir si po che la bellezza sia la faccia piacevole, allegra, grata e desiderabile del bene; e la bruttezza la faccia oscura, molesta, dispiacevole e trista del male; e se considerate tutte le cose, trovarete che sempre quelle che son bone ed utili hanno ancor grazia di bellezza. Eccovi il stato di questa gran machina del mondo, la qual, per salute e conservazion d'ogni cosa creata è stata da Dio fabricata. Il ciel rotondo, ornato di tanti divini lumi, e nel centro la terra circundata dagli elementi e dal suo peso istesso sostenuta; il sole, che girando illumina il tutto e nel verno s'accosta al piú basso segno, poi a poco a poco ascende all'altra parte; la luna, che da quello piglia la sua luce, secondo che se le appropinqua o se le allontana; e l'altre cinque stelle che diversamente fan quel medesimo corso. Queste cose tra sé han tanta forza per la connession d'un ordine composto cosí necessariamente, che mutandole per un punto, non poriano star insieme e ruinarebbe il mondo; hanno ancora tanta bellezza e grazia, che non posson gl'ingegni umani imaginar cosa piú bella. Pensate or della figura dell'omo, che si po dir piccol mondo; nel quale vedesi ogni parte del corpo esser composta necessariamente per arte e non a caso, e poi tutta la forma insieme esser bellissima; tal che difficilmente si poria giudicar qual piú o utilità o grazia diano al volto umano ed al resto del corpo tutte le membra, come gli occhi, il naso, la bocca, l'orecchie, le braccia, il petto e cosí l'altre parti; il medesimo si po dir di tutti gli animali. Eccovi le penne negli uccelli, le foglie e rami negli alberi, che dati gli sono da natura per conservar l'esser loro e pur hanno ancor grandissima vaghezza. Lassate la natura e venite all'arte. Qual cosa tanto è necessaria nelle navi, quanto la prora, i lati, le antenne, l'albero, le vele, il timone, i remi, l'ancore e le sarte? tutte queste cose però hanno tanto di venustà, che par a chi le mira che cosí siano trovate per piacere, come per utilità. Sostengon le colonne e gli architravi le alte logge e palazzi, né però son meno piacevoli agli occhi di chi le mira, che utili agli edifici. Quando prima cominciarono gli omini a edificare, posero nei tempii e nelle case quel colmo di mezzo, non perché avessero gli edifici piú di grazia, ma acciò che dall'una parte e l'altra commodamente potessero discorrer l'acque; nientedimeno all'utile súbito fu congiunta la venustà, talché se sotto a quel cielo ove non cade grandine o pioggia si fabricasse un tempio, non parrebbe che senza il colmo aver potesse dignità o bellezza alcuna.

 

 

 

LIX.

 

Dassi adunque molta laude, non che ad altro, al mondo dicendo che gli è bello; laudasi dicendo: bel cielo. bella terra, bel mare, bei fiumi, bei paesi, belle selve, alberi, giardini; belle città, bei tempii, case, eserciti. In somma, ad ogni cosa dà supremo ornamento questa graziosa e sacra bellezza; e dir si po che 'l bono e 'l bello a qualche modo siano una medesima cosa, e massimamente nei corpi umani; della bellezza de' quali la piú propinqua causa estimo io che sia la bellezza dell'anima che, come participe di quella vera bellezza divina, illustra e fa bello ciò che ella tocca, e specialmente se quel corpo ov'ella abita non è di cosí vil materia, che ella non possa imprimergli la sua qualità; però la bellezza è il vero trofeo della vittoria dell'anima, quando essa con la virtú divina signoreggia la natura materiale e col suo lume vince le tenebre del corpo. Non è adunque da dir che la bellezza faccia le donne superbe o crudeli, benché cosí paia al signor Morello; né ancor si debbeno imputare alle donne belle quelle inimicizie, morti, distrucioni, di che son causa gli appetiti immoderati degli omini. Non negherò già che al mondo non sia possibile trovar ancor delle belle donne impudiche, ma non è già che la bellezza le incline alla impudicizia; anzi le rimove e le induce alla via dei costumi virtuosi, per la connession che ha la bellezza con la bontà; ma talor la mala educazione, i continui stimuli degli amanti, i doni, la povertà, la speranza, gli inganni, il timore e mille altre cause, vincono la constanzia ancora delle belle e bone donne, e per queste o simili cause possono ancora divenir scelerati gli omini belli -.

 

 

 

LX.

 

Allora messer Cesare, - Se è vero, - disse, - quello che ieri allegò el signor Gaspar, non è dubbio che le belle sono più caste che le brutte. - E che cosa allegai? - disse el signor Gaspar. Rispose messer Cesare: - Se ben mi ricordo, voi diceste che le donne che son pregate, sempre negano di satisfare a chi le prega; e quelle che non son pregate, pregano altrui. Certo è che le belle son sempre piú pregate e sollicitate d'amor, che le brutte; dunque le belle sempre negano, e conseguentemente son piú caste che le brutte, le quali non essendo pregate pregano altrui -. Rise il Bembo e disse: - A questo argumento risponder non si po -. Poi suggiunse: - Interviene ancor spesso che, come gli altri nostri sensi, cosí la vista s'inganna e giudica per bello un volto che in vero non è bello; e perché negli occhi ed in tutto l'aspetto d'alcune donne si vede talor una certa lascivia dipinta con blandicie disoneste, molti, ai quali tal maniera piace perché lor promette facilità di conseguire ciò che desiderano, la chiamano bellezza; ma in vero è una impudenzia fucata, indegna di cosí onorato e santo nome -. Tacevasi messer Pietro Bembo e quei signori pur lo stimulavano a dir piú oltre di questo amore e del modo di fruire veramente la bellezza; ed esso in ultimo, - A me par, - disse, - assai chiaramente aver dimostrato che piú felicemente possan amar i vecchi, che i giovani; il che fu mio presuposto; però non mi si conviene entrar piú avanti -. Rispose il conte Ludovico: - Meglio avete dimostrato la infelicità de' giovani che la felicità de' vecchi, ai quali per ancor non avete insegnato che camin abbian da seguitare in questo loro amore, ma solamente detto che si lassin guidare alla ragione; e da molti è riputato impossibile che amor stia con la ragione -.

 

 

 

LXI.

 

Il Bembo pur cercava di por fine al ragionamento, ma la signora Duchessa lo pregò che dicesse; ed esso cosí rincominciò: - Troppo infelice sarebbe la natura umana, se l'anima nostra, nella qual facilmente po nascere questo cosí ardente desiderio, fosse sforzata a nutrirlo sol di quello che le è commune con le bestie, e non potesse volgerlo a quella altra nobil parte che a lei è propria; però, poiché a voi pur cosí piace, non voglio fuggir di ragionar di questo nobil suggetto. E perché mi conosco indegno di parlar dei santissimi misterii d'Amore, prego lui che mova il pensiero e la lingua mia, tanto ch'io possa mostrar a questo eccellente cortegiano amar fuor della consuetudine del profano vulgo; e cosí com'io insin da puerizia tutta la mia vita gli ho dedicata, siano or ancor le mie parole conformi a questa intenzione ed a laude di lui. Dico adunque che, poiché la natura umana nella età giovenile tanto è inclinata al senso, conceder si po al cortegiano, mentre che è giovane, l'amar sensualmente; ma se poi ancor negli anni piú maturi per sorte s'accende di questo amoroso desiderio, deve esser ben cauto e guardarsi di non ingannar se stesso, lassandosi indur in quelle calamità che ne' giovani meritano piú compassione che biasimo, e per contrario ne' vecchi piú biasmo che compassione.

 

 

 

LXII.

 

Però quando qualche grazioso aspetto di bella donna lor s'appresenta, compagnato da leggiadri costumi e gentil maniere, tale che esso, come esperto in amore, conosca il sangue suo aver conformità con quello, súbito che s'accorge che gli occhi suoi rapiscano quella imagine e la portano al core, è che l'anima comincia con piacer a contemplarla e sentir in sé quello influsso che la commove ed a poco a poco la riscalda, e che quei vivi spiriti che scintillan for per gli occhi tuttavia aggiungon nova esca al foco, deve in questo principio provedere di presto rimedio, e risvegliar la ragione e di quella armar la ròcca del cor suo; e talmente chiuder i passi al senso ed agli appetiti, che né per forza né per inganno entrar vi possano. Cosí, se la fiamma s'estingue, estinguesi ancor il pericolo; ma s'ella persevera o cresce, deve allor il cortegiano, sentendosi preso, deliberarsi totalmente di fuggire ogni bruttezza dell'amor vulgare e cosí entrar nella divina strada amorosa con la guida della ragione, e prima considerar che 'l corpo, ove quella bellezza risplende, non è il fonte ond'ella nasce, anzi che la bellezza, per esser cosa incorporea e, come avemo detto, un raggio divino, perde molto della sua dignità trovandosi congiunta con quel subietto vile e corruttibile; perché tanto piú è perfetta quanto men di lui participa e da quello in tutto separata è perfettissima; e che cosí come udir non si po col palato, né odorar con l'orecchie, non si po ancor in modo alcuno fruir la bellezza né satisfar al desiderio ch'ella eccita negli animi nostri col tatto, ma con quel senso del quale essa bellezza è vero obietto, che è la virtú visiva. Rimovasi adunque dal cieco giudicio del senso e godasi con gli occhi quel splendore, quella grazia, quelle faville amorose, i risi, i modi e tutti gli altri piacevoli ornamenti bellezza; medesimamente con l'audito la suavità della voce, il concento delle parole, l'armonia della musica (se musica è la donna amata); e cosí pascerà di dolcissimo cibo l'anima per la via di questi dui sensi, i quali tengon poco del corporeo e son ministri della ragione, senza passar col desiderio verso il corpo ad appetito alcuno men che onesto. Appresso osservi, compiaccia ed onori con ogni riverenzia la sua donna e piú che se stesso la tenga cara, e tutti i commodi e piaceri suoi preponga ai proprii, ed in lei ami non meno la bellezza dell'animo che quella del corpo; però tenga cura di non lassarla incorrere in error alcuno, ma con le ammonizioni e boni ricordi cerchi sempre d'indurla alla modestia, alla temperanzia, alla vera onestà e faccia che in lei non abbian mai loco se non pensieri candidi ed alieni da ogni bruttezza di vicii; e cosí seminando virtú nel giardin di quel bell'animo, raccorrà ancora frutti di bellissimi costumi e gustaragli con mirabil diletto; e questo sarà il vero generare ed esprimere la bellezza nella bellezza, il che da alcuni si dice esser il fin d'amore. In tal modo sarà il nostro cortegiano gratissimo alla sua donna ed essa sempre se gli mostrerà ossequente, dolce ed affabile, e cosí desiderosa di compiacergli, come d'esser da lui amata; e le voglie dell'un e dell'altro saranno onestissime e concordi ed essi conseguentemente saranno felicissimi -.

 

 

 

LXIII.

 

Quivi il signor Morello, - Il generar, - disse, - la bellezza nella bellezza con effetto sarebbe il generar un bel figliolo in una bella donna; ed a me pareria molto piú chiaro segno ch'ella amasse l'amante compiacendolo di questo, che di quella affabilità che voi dite -. Rise il Bembo e disse: - Non bisogna, signor Morello, uscir de' termini; né piccoli segni d'amar fa la donna, quando all'amante dona la bellezza, che è cosí preciosa cosa, e per le vie che son adito all'anima, cioè la vista e lo audito, manda i sguardi degli occhi suoi, la imagine del volto, la voce, le parole, che penetran dentro al core dell'amante e gli fan testimonio dell'amor suo -. Disse il signor Morello: - I sguardi e le parole possono essere e spesso son testimonii falsi; però chi non ha meglior pegno d'amore, al mio giudicio, è mal sicuro; e veramente io aspettava pur che voi faceste questa vostra donna un poco più cortese e liberale verso il cortegiano, che non ha fatto il signor Magnifico la sua; ma parmi che tutti dui siate alla condizione di quei giudici, che dànno la sentenzia contra i suoi per parer savi -.

 

 

 

LXIV.

 

Disse il Bembo: - Ben voglio io che assai piú cortese sia questa donna al mio cortegiano non giovane, che non è quella del signor Magnifico al giovane; e ragionevolmente, perché il mio non desidera se non cose oneste, e però po la donna concedergliele tutte senza biasimo; ma la donna del signor Magnifico, che non è cosí sicura della modestia del giovane, deve concedergli solamente le oneste e negargli le disoneste; però piú felice è il mio, a cui si concede ciò ch'ei dimanda, che l'altro, a cui parte si concede e parte si nega. Ed acciò che ancor meglio conosciate che l'amor razionale è piú felice che 'l sensuale, dico che le medesime cose nel sensuale si debbeno talor negare e nel razionale concedere, perché in questo son disoneste, ed in quello oneste; però la donna, per compiacer il suo amante bono, oltre il concedergli i risi piacevoli, i ragionamenti domestici e secreti, il motteggiare, scherzare, toccar la mano, po venir ancor ragionevolmente senza biasimo insin al bascio, il che nell'amor sensuale, secondo le regule del signor Magnifico, non è licito; perché, per esser il bascio congiungimento e del corpo e dell'anima, pericolo è che l'amante sensuale non inclini piú alla parte del corpo che a quella dell'anima, ma l'amante razionale conosce che, ancora che la bocca sia parte del corpo, nientedimeno per quella si dà esito alle parole che sono interpreti dell'anima, ed a quello intrinseco anelito che si chiama pur esso ancor anima; e perciò si diletta d'unir la sua bocca con quella della donna amata col bascio, non per moversi a desiderio alcuno disonesto, ma perché sente che quello legame è un aprir l'adito alle anime, che tratte dal desiderio l'una dell'altra si transfundano alternamente ancor l'una nel corpo dell'altra e talmente si mescolino insieme che ognun di loro abbia due anime, ed una sola di quelle due cosí composta regga quasi dui corpi; onde il bascio si po piú presto dir congiungimento d'anima che di corpo, perché in quella ha tanta forza che la tira a sé e quasi la separa dal corpo; per questo tutti gli inamorati casti desiderano il bascio, come congiungimento d'anima; e però il divinamente inamorato Platone dice che basciando vennegli l'anima ai labri per uscir del corpo. E perché il separarsi l'anima dalle cose sensibili e totalmente unirsi alle intelligibili, si po denotar per lo bascio, dice Salomone nel suo divino libro della Cantica "Bascimi col bascio della sua bocca", per dimostrar desiderio che l'anima sua sia rapita dall'amor divino alla contemplazion della bellezza celeste di tal modo, che unendosi intimamente a quella abbandoni il corpo -.

 

 

 

LXV.

 

Stavano tutti attentissimi al ragionamento del Bembo; ed esso, avendo fatto un poco di pausa e vedendo che altri non parlava, disse: - Poiché m'avete fatto cominciare a mostrar l'amore felice al nostro cortegiano non giovane, voglio pur condurlo un poco piú avanti; perché star in questo termine è pericoloso assai, atteso che, come piú volte s'è detto, l'anima è inclinatissima ai sensi; e benché la ragion col discorso elegga bene e conosca quella bellezza non nascer dal corpo e però ponga freno ai desidèri non onesti, pur il contemplarla sempre in quel corpo spesso preverte il vero giudicio; e quando altro male non ne avvenisse, il star assente dalla cosa amata porta seco molta passione, perché lo influsso di quella bellezza, quando è presente, dona mirabil diletto all'amante e riscaldandogli il core risveglia e liquefà alcune virtú sopite e congelate nell'anima, le quali nutrite dal calore amoroso si diffundeno e van pullulando intorno al core, e mandano fuor per gli occhi quei spirti, che son vapori sottilissimi, fatti della piú pura e lucida parte del sangue, i quali ricevono la imagine della bellezza e la formano con mille varii ornamenti; onde l'anima si diletta e con una certa maraviglia si spaventa e pur gode e, quasi stupefatta, insieme col piacere sente quel timore e riverenzia che alle cose sacre aver si sòle e parle d'esser nel suo paradiso.

 

 

 

LXVI.

 

L'amante adunque che considera la bellezza solamente nel corpo, perde questo bene e questa felicità súbito che la donna amata, assentandosi, lassa gli occhi senza il suo splendore e, conseguentemente, l'anima viduata del suo bene; perché, essendo la bellezza lontana, quell'influsso amoroso non riscalda il core come faceva in presenzia, onde i meati restano àrridi e secchi, e pur la memoria della bellezza move un poco quelle virtù dell'anima, talmente che cercano di diffundere i spirti; ed essi, trovando le vie otturate, non hanno esito, e pur cercano d'uscire, e cosí con quei stimuli rinchiusi pungon l'anima e dànnole passione acerbissima, come a' fanciulli quando dalle tenere gingive cominciano a nascere i denti. E di qua procedono le lacrime, i sospiri, gli affanni e i tormenti degli amanti; perché l'anima sempre s'affligge e travaglia e quasi diventa furiosa, fin che quella cara bellezza se le appresenta un'altra volta; ed allor súbito s'acqueta e respira ed a quella tutta intenta si nutrisce di cibo dulcissimo, né mai da cosí suave spettacolo partir vorria. Per fuggir adunque il tormento di questa assenzia e goder la bellezza senza passione, bisogna che 'l cortegiano con l'aiuto della ragione revochi in tutto il desiderio dal corpo alla bellezza sola e, quanto piú po, la contempli in se stessa simplice e pura e dentro nella imaginazione la formi astratta da ogni materia; e cosí la faccia amica e cara all'anima sua, ed ivi la goda e seco l'abbia giorno e notte, in ogni tempo e loco, senza dubbio di perderla mai; tornandosi sempre a memoria che 'l corpo è cosa diversissima dalla bellezza, e non solamente non le accresce, ma le diminuisce la sua perfezione. Di questo modo sarà il nostro cortegiano non giovane fuor di tutte le amaritudini e calamità che senton quasi sempre i giovani, come le gelosie, i sospetti, li sdegni, l'ire, le disperazioni e certi furor pieni di rabbia dai quali spesso son indutti a tanto error, che alcuni non solamente batton quelle donne che amano, ma levano la vita a se stessi; non farà ingiuria a marito, padre, fratelli o parenti della donna amata; non darà infamia a lei; non sarà sforzato di raffrenar talor con tanta difficultà gli occhi e la lingua per non scoprir i suoi desidèri ad altri; non di tollerar le passioni delle partite, né delle assenzie; ché chiuso nel core si porterà sempre seco il suo precioso tesoro ed ancora per virtú della imaginazione si formerà dentro in se stesso quella bellezza molto piú bella che in effetto non sarà.

 

 

 

LXVII.

 

Ma tra questi beni troveranne lo amante un altro ancor assai maggiore, se egli vorrà servirsi di questo amore come d'un grado per ascendere ad un altro molto piú sublime: il che gli succederà, se tra sé anderà considerando come stretto legame sia il star sempre impedito nel contemplar la bellezza d'un corpo solo; e però, per uscire di questo cosí angusto termine, aggiungerà nel pensier suo a poco a poco tanti ornamenti, che cumulando insieme tutte le bellezze farà un concetto universale e ridurrà la moltitudine d'esse alla unità di quella sola che generalmente sopra la umana natura si spande; e cosí non piú la bellezza particular d'una donna, ma quella universale, che tutti i corpi adorna, contemplarà; onde offuscato da questo maggior lume, non curerà il minore, ed ardendo in piú eccellente fiamma, poco estimarà quello che prima avea tanto apprezzato. Questo grado d'amore, benché sia molto nobile e tale che pochi vi giungono, non però ancor si po chiamar perfetto, perché per essere la imaginazione potenzia organica e non aver cognizione se non per quei principi che le son sumministrati dai sensi, non è in tutto purgata delle tenebre materiali; e però, benché consideri quella bellezza universale astratta ed in sé sola, pur non la discerne ben chiaramente, né senza qualche ambiguità per la convenienzia che hanno i fantasmi col corpo, onde quelli che pervengono a questo amore sono come i teneri augelli che cominciano a vestirsi di piume, che, benché con l'ale debili si levino un poco a volo, pur non osano allontanarsi molto dal nido, né commettersi a' venti ed al ciel aperto.

 

 

 

LXVIII.

 

Quando adunque il nostro cortegiano sarà giunto a questo termine, benché assai felice amante dir si possa a rispetto di quelli che son summersi nella miseria dell'amor sensuale, non però voglio che se contenti, ma arditamente passi più avanti, seguendo per la sublime strada drieto alla guida che lo conduce al termine della vera felicità; e cosí in loco d'uscir di se stesso col pensiero, come bisogna che faccia chi vol considerar la bellezza corporale, si rivolga in se stesso per contemplar quella che si vede con gli occhi della mente, li quali allor cominciano ad esser acuti e perspicaci, quando quelli del corpo perdono il fior della loro vaghezza; però l'anima, aliena dai vicii, purgata dai studi della vera filosofia, versata nella vita spirituale ed esercitata nelle cose dell'intelletto, rivolgendosi alla contemplazion della sua propria sustanzia, quasi da profundissimo sonno risvegliata, apre quegli occhi che tutti hanno e pochi adoprano, e vede in se stessa un raggio di quel lume che è la vera imagine della bellezza angelica a lei communicata, della quale essa poi communica al corpo una debil umbra; però, divenuta cieca alle cose terrene, si fa oculatissima alle celesti; e talor, quando le virtú motive del corpo si trovano dalla assidua contemplazione astratte, o vero dal sonno legate, non essendo da quelle impedita, sente un certo odor nascoso della vera bellezza angelica, e rapita dal splendor di quella luce comincia ad infiammarsi e tanto avidamente la segue, che quasi diviene ebria e fuor di se stessa, per desiderio d'unirsi con quella, parendole aver trovato l'orma di Dio, nella contemplazion dei quale, come nel suo beato fine, cerca di riposarsi; e però, ardendo in questa felicissima fiamma, si leva alla sua piú nobil parte, che è l'intelletto; e quivi, non piú adombrata dalla oscura notte delle cose terrene, vede la bellezza divina; ma non però ancor in tutto la gode perfettamente, perché la contempla solo nel suo particular intelletto, il qual non po esser capace della immensa bellezza universale. Onde, non ben contento di questo beneficio, amore dona all'anima maggior felicità; ché, secondo che dalla bellezza particular d'un corpo la guida alla bellezza universal di tutti i corpi, cosí in ultimo grado di perfezione dallo intelletto particular la guida allo intelletto universale. Quindi l'anima, accesa nel santissimo foco del vero amor divino, vola ad unirsi con la natura angelica e non solamente in tutto abbandona il senso, ma piú non ha bisogno del discorso della ragione; ché, transformata in angelo, intende tutte le cose intelligibili, e senza velo o nube alcuna vede l'amplo mare della pura bellezza divina ed in sé lo riceve, e gode quella suprema felicità che dai sensi è incomprensibile.

 

 

 

LXIX.

 

Se adunque le bellezze, che tutto dí con questi nostri tenebrosi occhi veggiamo nei corpi corruttibili, che non son però altro che sogni ed umbre tenuissime di bellezza, ci paion tanto belle e graziose, che in noi spesso accenden foco ardentissimo e con tanto diletto, che riputiamo niuna felicità potersi agguagliar a quella che talor sentimo per un sol sguardo che ci venga dall'amata vista d'una donna, che felice maraviglia, che beato stupore pensiamo noi che sia quello, che occupa le anime che pervengono alla visione della bellezza divina! che dolce fiamma, che incendio suave creder si dee che sia quello, che nasce dal fonte della suprema e vera bellezza! che è principio d'ogni altra bellezza, che mai non cresce né scema; sempre bella e per se medesima, tanto in una parte, quanto nell'altra, simplicissima; a se stessa solamente simile, e di niuna altra participe; ma talmente bella, che tutte le altre cose belle son belle perché da lei participan la sua bellezza. Questa è quella bellezza indistinta dalla somma bontà, che con la sua luce chiama e tira a sé tutte le cose; e non solamente alle intellettuali dona l'intelletto, alle razionali la ragione, alle sensuali il senso e l'appetito di vivere, ma alle piante ancora ed ai sassi communica, come un vestigio di se stessa, il moto e quello instinto naturale delle lor proprietà. Tanto adunque è maggiore e piú felice questo amor degli altri, quanto la causa che lo move è più eccellente; e però, come il foco materiale affina l'oro, cosí questo foco santissimo nelle anime distrugge e consuma ciò che v'è di mortale e vivifica e fa bella quella parte celeste, che in esse prima era dal senso mortificata e sepulta. Questo è il rogo, nel quale scrivono i poeti esser arso Ercule nella summità del monte Oeta e per tal incendio dopo morte esser restato divino ed immortale'; questo è lo ardente rubo di Mosè, le lingue dispartite di foco, l'infiammato carro di Elia, il quale raddoppia la grazia e felicità nell'anime di coloro che son degni di vederlo, quando da questa terrestre bassezza partendo se ne vola verso il cielo. Indriciamo adunque tutti i pensieri e le forze dell'anima nostra a questo santissimo lume, che ci mostra la via che al ciel conduce; e drieto a quello, spogliandoci gli affetti che nel descendere ci eravamo vestiti, per la scala che nell'infimo grado tiene l'ombra di bellezza sensuale ascendiamo alla sublime stanzia ove abita la celeste, amabile e vera bellezza, che nei secreti penetrali di Dio sta nascosta, acciò che gli occhi profani veder non la possano; e quivi trovaremo felicissimo termine ai nostri desidèri, vero riposo nelle fatiche, certo rimedio nelle miserie, medicina saluberrima nelle infirmità, porto sicurissimo nelle turbide procelle del tempestoso mar di questa vita.

 

 

 

LXX.

 

Qual sarà adunque, o Amor santissimo, lingua mortal che degnamente laudar ti possa? Tu, bellissimo, bonissimo, sapientissimo, dalla unione della bellezza e bontà e sapienzia divina derivi ed in quella stai, ed a quella per quella come in circulo ritorni. Tu dulcissimo vinculo del mondo, mezzo tra le cose celesti e le terrene, con benigno temperamento inclini le virtú superne al governo delle inferiori e, rivolgendo le menti de' mortali al suo principio, con quello le congiungi. Tu di concordia unisci gli elementi, movi la natura a produrre e ciò che nasce alla succession della vita. Tu le cose separate aduni, alle imperfette dài la perfezione, alle dissimili la similitudine, alle inimiche la amicizia, alla terra i frutti, al mar la tranquillità, al cielo il lume vitale. Tu padre sei de' veri piaceri, delle grazie, della pace, della mansuetudine e benivolenzia, inimico della rustica ferità, della ignavia, in somma principio e fine d'ogni bene. E perché abitar ti diletti il fior dei bei corpi e belle anime e di là talor mostrarti un poco agli occhi ed alle menti di quelli che degni son di vederti, penso che or qui fra noi sia la tua stanzia. Però dégnati, Signor, d'udir i nostri prieghi, infundi te stesso nei nostri cori e col splendor del tuo santissimo foco illumina le nostre tenebre e come fidata guida in questo cieco labirinto mostraci il vero camino. Correggi tu la falsità dei sensi e dopo 'l lungo vaneggiare donaci il vero e sodo bene; facci sentir quegli odori spirituali che vivifican le virtú dell'intelletto, ed udir l'armonia celeste talmente concordante, che in noi non abbia loco piú alcuna discordia di passione; inebriaci tu a quel fonte inesausto di contentezza che sempre diletta e mai non sazia, ed a chi bee delle sue vive e limpide acque dà gusto di vera beatitudine; purga tu coi raggi della tua luce gli occhi nostri dalla caliginosa ignoranzia, acciò che piú non apprezzino bellezza mortale e conoscano che le cose che prima veder loro parea, non sono, e quelle che non vedeano veramente sono; accetta l'anime nostre, che a te s'offeriscono in sacrificio; abbrusciale in quella viva fiamma che consuma ogni bruttezza materiale, acciò che in tutto separate dal corpo, con perpetuo e dolcissimo legame s'uniscano con la bellezza divina, e noi da noi stessi alienati, come veri amanti, nello amato possiam transformarsi, e levandone da terra esser ammessi al convivio degli angeli, dove, pasciuti d'ambrosia e nèttare immortale, in ultimo moriamo di felicissima e vital morte, come già morirono quegli antichi Padri, l'anime dei quali tu con ardentissima virtú di contemplazione rapisti dal corpo e congiungesti con Dio -.

 

 

 

LXXI.

 

Avendo il Bembo insin qui parlato con tanta veemenzia, che quasi pareva astratto e fuor di sé, stavasi cheto e immobile, tenendo gli occhi verso il cielo, come stupido; quando la signora Emilia, la quale insieme con gli altri era stata sempre attentissima ascoltando il ragionamento, lo prese per la falda della robba e scuotendolo un poco disse: - Guardate, messer Pietro, che con questi pensieri a voi ancora non si separi l'anima dal corpo. - Signora, - rispose messer Pietro, - non saria questo il primo miraculo, che amor abbia in me operato -. Allora la signora Duchessa e tutti gli altri cominciarono di novo a far instanzia al Bembo che seguitasse il ragionamento, e ad ognuno parea quasi sentirsi nell'animo una certa scintilla di quell'amor divino che lo stimulasse, e tutti desideravano d'udir piú oltre; ma il Bembo, - Signori, - suggiunse, - io ho detto quello che 'l sacro furor amoroso improvvisamente m'ha dettato; ora che par che piú non m'aspiri, non saprei che dire; e penso che amor non voglia che piú avanti siano scoperti i suoi secreti, né che il cortegiano passi quel grado che ad esso è piacciuto ch'io gli mostri; e perciò non è forse licito parlar piú di questa materia -.

 

 

 

LXXII.

 

- Veramente, - disse la signora Duchessa, - se 'l cortegiano non giovane sarà tale che seguitar possa il camino che voi gli avete mostrato, ragionevolmente dovrà contentarsi di tanta felicità e non avere invidia al giovane -. Allora messer Cesare Gonzaga, - La strada, - disse, - che a questa felicità conduce, parmi tanto erta, che a gran pena credo che andar vi si possa -. Suggiunse il signor Gaspar: - L'andarvi credo che agli omini sia difficile, ma alle donne impossibile -. Rise la signora Emilia e disse: - Signor Gaspar, se tante volte ritornate al farci ingiuria, vi prometto che non vi si perdonerà piú -. Rispose il signor Gaspar: - Ingiuria non vi si fa, dicendo che l'anime delle donne non sono tanto purgate dalle passioni come quelle degli omini, né versate nelle contemplazioni, come ha detto messer Pietro che è necessario che sian quelle che hanno da gustar l'amor divino. Però non si legge che donna alcuna abbia avuta questa grazia, ma sí molti omini come Platone, Socrate e Plotino e molt'altri; e de' nostri tanti santi Padri come san Francesco, a cui un ardente spirito amoroso impresse il sacratissimo sigillo delle cinque piaghe; né altro che virtú d'amor poteva rapire san Paulo apostolo alla visione di quei secreti di che non è licito all'uom parlare; né mostrar a san Stefano i cieli aperti -. Quivi rispose il Magnifico Iuliano: - Non saranno in questo le donne punto superate dagli omini, perché Socrate istesso confessa, tutti i misterii amorosi che egli sapeva, essergli stati rivelati da una donna, che fu quella Diotima; e l'angelo che col foco d'amor impiagò san Francesco, del medesimo carattere ha fatto ancor degne alcune donne alla età nostra. Dovete ancor ricordarvi che a santa Maria Magdalena furono rimessi molti peccati perché ella amò molto, e forse non con minor grazia che san Paulo fu ella molte volte rapita dall'amor angelico al terzo cielo; e di tante altre, le quali, come ieri piú diffusamente narrai, per amor del nome di Cristo non hanno curato la vita, né temuto i strazi, né alcuna maniera di morte, per orribile e crudele che ella fosse; e non erano, come vole messer Pietro che sia il suo cortegiano, vecchie, ma fanciulle tenere e delicate, ed in quella età nella quale esso dice che si deve comportar agli omini l'amor sensuale -.

 

 

 

LXXIII.

 

Il signor Gaspar cominciava a prepararsi per rispondere; ma la signora Duchessa, - Di questo, - disse, - sia giudice messer Pietro Bembo e stiasi alla sua sentenzia, se le donne sono cosí capaci dell'amor divino come gli omini, o no. Ma perché la lite tra voi potrebbe esser troppo lunga, sarà ben a differirla insino a domani. - Anzi a questa sera, - disse messer Cesare Gonzaga. - E come a questa sera? - disse la signora Duchessa. Rispose messer Cesare: - Perché già è di giorno; - e mostrolle la luce che incominciava ad entrar per le fissure delle finestre. Allora ognuno si levò in piedi con molta maraviglia, perché non pareva che i ragionamenti fossero durati piú del consueto, ma per l'essersi incominciati molto piú tardi e per la loro piacevolezza aveano ingannato quei signori tanto, che non s'erano accorti del fuggir dell'ore; né era alcuno che negli occhi sentisse gravezza di sonno, il che quasi sempre interviene, quando l'ora consueta del dormire si passa in vigilia. Aperte adunque le finestre da quella banda del palazzo che riguarda l'alta cima del monte di Catri, videro già esser nata in oriente una bella aurora di color di rose e tutte le stelle sparite, fuor che la dolce governatrice del ciel di Venere, che della notte e del giorno tiene i confini; dalla qual parea che spirasse un'aura soave, che di mordente fresco empiendo l'aria, cominciava tra le mormoranti selve de' colli vicini a risvegliar dolci concenti dei vaghi augelli. Onde tutti, avendo con riverenzia preso commiato dalla signora Duchessa, s'inviarono verso le lor stanzie senza lume di torchi, bastando lor quello del giorno; e quando già erano per uscir dalla camera, voltossi il signor Prefetto alla signora Duchessa e disse: - Signora, per terminar la lite tra 'l signor Gaspar e 'l signor Magnifico, veniremo col giudice questa sera piú per tempo che non si fece ieri -. Rispose la signora Emilia: - Con patto che se 'l signor Gaspar vorrà accusar le donne e dar loro, come è suo costume, qualche falsa calunnia, esso ancora dia sicurtà di star a ragione, perch'io lo allego suspetto fuggitivo -.

 

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Ultimo Aggiornamento: 09/07/05 14.57.49