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Satire

di. SALVATOR ROSA

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SATIRA QUINTA

[L'INVIDIA]

AUTORE ET INVIDIA

Era la notte e de le stelle i lussi
Cinzia vincea, che del cornuto argento
3 su la testa a più d'un scotea gl'influssi;
tacea de l'aria il garulo elemento,
tacea de l'occeàno il moto alterno
6 e soffiavan le spie, ma non il vento,
perch'Eolo, che di lui regge il governo,
l'avea legato e lo tenea prigione
9 per l'insolenze ch'avea fatte al verno;
et io, lungo e disteso in sul saccone,
chiamavo il dio ch'intorno a la parrucca
12 di papavero e d'oppio ha due corone.
Sapea che di star meco ei non si stucca,
ché, se co i grilli ha simpatie secrete,
15 io n'ho sempre un milion dentro la zucca;
ma trovar non potei pace o quiete,
ch'i grilli de la speme e del desío
18 hanno le voci lor troppo indiscrete.
Da i Gemini era uscito il biondo dio,
sì ch'arrabiati tra i pensieri e 'l caldo
21 eràmo entrati in Cancro et egli et io.
Presi un sonno alla fin placido e saldo
quando armato di rai là su l'aurora
24 sfida l'ombre a tenzon del dì l'araldo;
ma in me la fantasia vegliando allora,
mentre ch'il senso si riposa e dorme,
27 mille cose a la mente apre e colora.
Nel sentier di Virtude erto et informe
trarre il passo anelante a me parea,
30 ove rare mirai vestigie et orme.
Oh come ogni momento ivi sorgea
o pericolo o intoppo, ond'egro e stanco
33 l'insidiato piè sempre temea!
Pure, animando il travagliato fianco,
de l'inospite via seguiva il calle,
36 per l'affanno e 'l terror sudato e bianco.
Ma, superata al fin l'orrida valle,
vidi un chiaro splendor di cui desiano
39 tutte l'anime grandi esser farfalle:
avide di quei lampi a lui s'inviano
e bramose di stenti e di sudori,
42 per se stesse eternar se stesse obliano.
Sorge nel mezzo a i lucidi fulgori
de l'Imortalitade il tempio augusto,
45 dove serba la Gloria i suoi tesori;
era, ad onta là sù del Tempo ingiusto,
scolpito in adamante in su l'altare
48 de' più celebri nomi indice angusto.
Io, che la soglia non osai passare,
con la penna e 'l pennello il proprio nome
51 mi chinavo a segnar sul limitare;
quand'ecco, io non so donde, io non so come,
una donna apparir mi veggio avanti,
54 smorta il sen, bieca gli occhi, irta le chiome.
Questa a me, ch'osservavo i suoi sembianti,
tolse di mano e lacerò per rabbia
57 e la penna e 'l pennel con urla e pianti,
e gettatili poi sopra la sabbia
li calcò per disprezzo e al suo veleno,
60 respingendomi in dietro, aprì le labbia.

INVIDIA
Tanto ardisci, sfacciato? e tale in seno
hai fiducia di te, che tu prosumi
63 scrivere un nome in ciel men che terreno?
Profanar de la Gloria i sacri lumi
con le tenebre tue tenti, e procuri,
66 tu, che mezz'uom non sei, porti fra i numi?
Qui, dove splende un sol di rai più puri,
si descrivon gli eroi, né si concede
69 né pur l'ultima soglia a i nomi oscuri.
De l'Immortalità questa è la sede;
chi vive al mondo e a se medesmo ignoto
72 volga verso l'oblio tacito il piede.
Solo ottien quest'albergo illustre e noto
chi, postumo di sé, dopo il ferètro
75 nasce a la Fama e si ritoglie a Cloto:
tu, che virtù non hai se non di vetro,
vanne lungi di qua, sparisci, vola,
78 temerario arrogante, in dietro, in dietro!

AUTORE
Adagio un poco. E chi sei tu, che sola
fai qui da sentinella e mostri insieme
81 furia francese e gravità spagnola?

INVIDIA
Io son colei di cui paventa e teme
ogni stato maggior, quella che seguo
84 sempre le cose in eccelenza estreme;
quella son io che per le regie adeguo
a i più vili i più grandi e che dal volgo
87 torco veloce i passi e mi dileguo;
quella son io che rapida mi volgo
là dove alberga la dottrina e 'l senno
90 e ch'i vizzii d'ognun mordo e divolgo;
quella son io ch'ogni difetto accenno
de l'alme eccelse e con bilancia uguale
93 ogni piccolo error peso e condenno;
quella son io che per tenor fatale
sempre accompagno la Virtude e 'l Merto
96 e con essi comune ebbi il natale;
quella che il Fasto non ha mai sofferto,
quella ch'è del Valor la pietra lidia,
99 quella ch'è d'ogni Bene indizio certo,
quella che l'Ozio dolce ama e l'Accidia,
quella che già fu dea, quella ch'il tutto
102 ha soggetto ai suoi piedi: io son l'Invidia.

AUTORE
Dunque furia sì rea, spettro sì brutto
qui si ritrova, e a l'opere fiorite
105 in quest'orto immortale aduggia il frutto?
Credea che su le soglie arse e romite
il custode tricipite e latrante
108 solamente Plutone avesse in Dite.
Non vide il sol dal Caucaso a l'Atlante,
né tra i Bermi scoprì, né men tra i Sèrberi
111 più nocivo di te mostro o gigante;
e pur qui tu dimori ove i riverberi
risplendon di Virtude? Or ben conosco
114 ch'anco il ciel de la Gloria have i suoi Cerberi.
Confinata in un antro orrendo e fosco
di squallida vallea già te ne stavi,
117 nutrita di serpenti, ebra di tòsco;
oggi alberghi per tutto: i dì soavi
ti spiega il cielo amico ed a tua voglia
120 de' palazzi de' re volgi le chiavi.
Quella sei tu che sola affanno e doglia
senti del bene altrui, quella che tenta
123 detrarre ai fatti onde l'onor germoglia;
ogni stato maggior di te paventa,
ché, quasi tuoni, annunziano i tuoi ragli
126 che la Fortuna è a fulminare intenta.
Quella sei tu che per le regge agguagli
al più vile il maggior, però che fûro
129 l'altezze a l'ire tue sempre i bersagli;
dove è senno e saper celebre e puro
colà ti volgi sol perché tu brami
132 colle imposture tue di farlo oscuro.
Quella sei tu ch'a la bilancia chiami
l'anime eccelse, e allor godi e guadagni
135 ch'aggravando ogn<i> eror le rendi infami;
con la Virtù nascesti, e l'accompagni
sol per tenderle insidie e darle il guasto,
138 e se non ti riesce ululi e piagni.
Quella sei tu che non sopporta il Fasto,
perché non può veder se non bassezza
141 il tuo, che sempre fu genio da basto;
il paragon tu sei de la Fortezza
per pubblicarne i nei, non già per rendere
144 col cimento maggior la sua bellezza.
Quella sei tu che fai chiaro comprendere
che il bene è dove vai, poi che s'è visto
147 che per tutto ov'egli è lo cerchi offendere;
ami l'Accidia e di far grande acquisto
pensi ove il tempo inutilmente scorre,
150 ma dove ben s'impiega il core hai tristo.
Quella sei tu che su gli altari esporre
ti vedesti per diva? Ah no, si perda
153 questa gloria che in te sapesti accôrre!
Tal memoria giammai non si disperda:
fusti tenuta dea, ma fu in que' secoli
156 ch'avea il proprio nume insin la merda.

INVIDIA
D'avvilire i miei preggi indarno specoli:
farò ben io che stupefatta e muta
159 questa linguaccia tua cagli e trasecoli!
Dimmi, su i libri non m'hai tu veduta
sotto nome di Nemesi adorata,
162 che la forza del sole era creduta?

AUTORE
Io lo confesso: è ver, fusti chiamata
Nemesi e dea da quella gente sciocca
165 che faceva i suoi numi all'impazzata,
perch'ogni cosa che veniva in bocca
a quei primi cervelli ottusi e secchi
168 cresceva un nume alla celeste rocca.
Gli Egizi, che in saper fûro i più vecchi,
i bovi avean per dei fausti e secondi;
171 Menfi adorò le vacche e Mende i becchi:
s'avesse un'ara in questi dì fecondi
ogni becco italian, non basterebbono
174 a tanti altari d'Epicuro i mondi!
Cento lingue di bronzo or ci vorebbono
per narar degli antichi i dei ridicoli,
177 e sol per la metà non bastarebbono:
era dea sin la Febre e a' suoi pericoli
si facean sacrificii, e un dio temuto
180 era colui che sta sopra i testicoli;
fu Stimola una dea che dava aiuto
a la pigra lussuria, e dio propizio
183 Acore de le mosche era tenuto;
Stercuzio un nume fu d'egregio offizio,
poi ch'a le genti stolide e briache
186 era la deità di quel servizio;
s'adorâr le corregge entro a le brache
e furon dee Mefíti e Cloacina
189 sopra il fetore, i cessi e le cloache;
onde a te, che tra queste eri in dozzina,
l'aver con loro a£ti altari e culti
192 è come essere stata a la berlina.
Ma perché men la tua superbia esulti,
odi nel dare a te del sol la forza
195 quali fûr degli antichi i sensi occulti.
Illustra il sol la tenebrosa scorza
de i corpi oscuri et a l'incontro poi
198 de i luminosi oggetti i raggi ammorza;
or così tu de' più famosi eroi
procuri d'offuscar gli ardenti rai
201 e cerchi d'illustrar gli asini e i buoi,
poiché, se pure alcun lodi giammai,
sarà qualche stival di cui ti servi
204 per dar lo scacco a chi s'avanza assai;
ond'i costumi tuoi sozzi e protervi
ti fan un di quei dei del tutto degni
207 che sian gl'incensi lor pertiche e nervi;
e ben merito hai tu che d'inni indegni
ti cingesse gli altari il Vituperio
210 e che i tripodi tuoi fussin tre legni.
Ebbe già, con ridicolo misterio,
per mangiarsi due bovi in Lindo Alcide
213 sacrificî d'obbrobrio e d'improperio,
e di bestemie il suol non freme e stride
intorno al nome tuo perverso et empio,
216 che si divora il tutto e 'l tutto occide?
Nume sol da tempioni e non da tempio,
sì come chiaramente a noi lo mostra
219 quel ch'adesso vo' dirti illustre esempio.
Aveva un pover uom dentro una chiostra
un certo idolo suo fatto a la peggio,
222 che 'l saracin parea che s'usa in giostra,
et a questo or di menta or di puleggio
tessea corone e con preghiere accese
225 non so se li facea guerra o corteggio.
Dicea con le ginocchia a terra stese:
- Signor, deh, per pietà, manda le grazie
228 che tra la fame e me levin l'offese!
De' miei malanni e de le mie disgrazie,
mentr'io di pan giammai sazio non fui,
231 doverebbon le stelle essersi sazie.
Che Tantalo là giù ne' regni bui
stia tra i cibi fugaci è mera favola:
234 il Tantalo son io tra i beni altrui;
fuor de l'acqua volar l'oca e l'arzavola
non s'è veduta mai cotanto asciutta
237 quanto asciutti i miei denti escon di tavola;
la casa intorno assediata ho tutta
da l'appetito, che con empia destra
240 senza darle quartier la vuol distrutta;
altro camin non ho che la finestra,
dove al foco del sol mi fa Democrito
243 un pangrattato d'atomi in minestra;
i miei campi e i pastor sono in Teocrito,
né puote il mio mantel vantare un pelo
246 e 'l mio stuzzicadenti è sempre ipocrito.
Tu conosci, o Signor, senza alcun velo
la mia necessità: dunque il soccorso
249 fa' che veloce a me scenda dal cielo. -
In questa guisa a le preghiere il corso
dava colui là ne' paesi greci,
252 di quel suo dio tarlato innanzi al torso;
ma di venti parole appena dieci
distinte profería, perché la fame
255 gli faceva mangiar mezze le preci.
Ogni dì queste voci afflitte e grame
replicava al suo dio, ma poi s'accorse
258 che poteva per lui viver di strame;
in tal disperazione indi trascorse
che quel<l>'idol ch'ognor l'avea deluso
261 con un bastone a scongiurar ricorse:
spezzollo e vi trovò molt'oro incluso
che già un avaro con l'usura e 'l censo
264 avea rubato e ve l'avea racchiuso.
Pria dubitò d'un'illusion del senso,
ma chiaritosi poi gridò: - La mazza
267 ha fatto quel che non potea l'incenso! -
Invidia, un nume sei di questa razza:
non speri alcun da te cavar profitto
270 se 'l capo e 'l tergo non ti spezza e spazza.
Di quel ch'hai fatto in corte ognuno ha scritto,
onde si sa che quella è il tuo teatro
273 e che l'hai presa eternamente a fitto;
quivi del tuo velen squallido ed atro
semini i lidi et a formare il solco
276 buoi non vi mancan per tirar l'aratro.
Tòsco del tuo peggior non nasce in Colco
e pullula per tutto: insin nel campo
279 invidia del bifolco have il bifolco;
ma d'ira insieme e di vergogna avvampo
quando tra lor con ostinati oltraggi
282 si tendon gli scrittori insidie e inciampo;
e questi instinti tuoi crudi e selvaggi
son più tenaci che non è la mastice
285 entro gl'ingegni letterati e saggi:
Didimo detto fu Ciceromastice
per scriver contro Tullio, e per l'Eneide
288 fu chiamato Carbilio Eneidomastice;
s'odiano i dotti sì che per Briseide
fu men l'odio d'Achille e d'Agamennone
291 e Febo si sdegnò men per Criseide;
son noti omai dal Sericano al Vennone
e Bavio e Mevio et Aristarco e Zoilo,
294 che scrisse contro al gran cantor di Mennone.
Ma il loro ardir fa come quel di Troilo
contro a Pelide, onde lansciàlli et odi
297 duelli che non vide Orange o Broilo.
Per atterrar del gran Platon le lodi
contro a la di lui vita e contro a l'opre
300 scrisse già Senofonte in varî modi;
invidioso assai più Plato si scopre,
che nel Fedone e in tutti gli altri libri
303 di Senofonte il nome opprime e copre,
e s'i dialoghi suoi rivolti e cribri,
vedrai come in color ch'ivi dipigne
306 de la mordacitade i dardi ei vibri;
ma passò tutte l'alme empie e maligne
allor che di Democrito gli scritti
309 volle dare a le fiamme e 'l nome insigne;
e lo facea, ma da sì rei delitti
Amicla e Clinia lo frenâr con dire
312 che troppi libri omai n'eran trascritti.
D'Aristotil l'invidia e 'l cieco ardire,
ch'arse tant'opre altrui, chi non abomina?
315 Sì grand'infamità chi può soffrire?
Ippocrate da lui mai non si nomina,
donde i princípi naturali ha presi,
318 tanto livore in quel grand'uom predomina!
Ma de l'invidia che tra i saggi appresi
supera ogn'altra di furor consparta
321 quella che già d'Anasimene intesi:
di Teopompo in nome ei pose in carta,
imitando il suo stil, certi libelli
324 ch'infamavano Tebbe, Atene e Sparta,
e con modi sì perfidi e sì felli
contro di Teopompo odio indicibile
327 eccitò de la Grecia entro a i cervelli.
Ebbero tra di lor pugna terribile
Salustio e Cicerone, e contro a Varro
330 Rennio, tutto ambizion, fece il possibile.
Va posto anch'egli tra costor ch'io narro
Cesare, che chiamò Caton briaco
333 e lo trattò come animal da carro.
Ma più del tuo velen sentono il baco
i dotti d'oggidì; mira le nubi
336 come di Roma il ciel rendono opaco:
tu la chiarezza a quelle involi e rubi
sol con la vista ammaliata e magica,
339 e co i latrati onde rassembri Anubi;
da la florida spiaggia a la lamragica
i riflessi del sol queste spargevano,
342 ch'or per te sono in notte oscura e tragica.
Queste nubi, ch'al mar liete rendevano
ogni amaro liquor cangiato in dolce,
345 per dar piogge d'assenzio or si sollevano.
Ahi, che non più da lor s'applaude e folce
il bel volo de' cigni, ond'oggi il Tevere,
348 come prima solea, l'aure non molce!
Solo da queste nubi usi a ricevere
i nutritivi umori erano i lauri
351 e le Muse a quell'onde ivano a bevere;
questi d'acque e di rai chiari tesauri,
or agitati dal tuo sdegno a l'austro,
354 par che chiudino in sen nuovi centauri.
Da lor velato è di Boote il plaustro
et in quel de la gloria immenso oceano
357 le procelle oramai rompono il claustro;
in questo mar famoso, ove correano
de le sirene al canto uomini e fère,
360 solo nembi e tempeste oggi si creano.
E di tante discordie aspre e severe
tu sei sola caggione, e i tuoi ministri
363 badano a fomentar l'ire guerriere:
queste, che al ruolo tuo noti e registri,
fabbricate d'infamia anime indegne,
366 suonan contra a Virtù le trombe e i sistri.
Io delle squadre tue, gonfiate e pregne
di tòsco e di furor, conobbi il duce
369 che nel suolo latin spiega l'insegne.

INVIDIA
Rosa, t'inganni assai: non mi produce
Roma seguaci e con mio gran travaglio
372 niuno al vessillo mio là si conduce.

AUTORE
Madonna Invidia mia, so che non sbaglio.
Dico che in Roma il tuo campion maggiore
375 vidi, e vidi ch'egli era un gran sonaglio.
E per mostrarti ch'io non presi errore
e ch'egli ivi da me ben si conobbe,
378 te lo dipingerò senza colore.
Ha certe spalle larghe e alquanto gobbe,
che se stessero al remo e a la catena
381 farian far l'aguzzino insino a Giobbe;
quindi crede di scienza un'arca piena
sembrare altrui, perché quel saggio antico
384 Platon fu detto per aver gran schiena.
Ha nella faccia assai de l'impudico,
perch'oltre il somigliare al dio de l'orto
387 vi si conosce che non ama il fico;
naso più tosto grande e alquanto torto,
ch'adoperato di supposta in vece
390 avría virtù di far andare un morto.
Pròvida la natura a lui già fece
i denti radi e non del tutto interi,
393 tra il color del topazio e de la pece;
crini stesi e piovosi e men leggeri
del cervello ch'ha in capo, e non saprei
396 s'i costumi o i capelli abbia più neri.
Gli occhi son viperini, e giurerei
ch'è del fascino in loro il tòsco il laccio,
399 poiché in mirarli a me dolsero i miei.
Ha pochissimo pelo in sul mostaccio,
onde un castron lo crederebbe ognuno
402 se non sapesse ognun ch'è un asinaccio.
Fu presago il vaiol ch'egli a più d'uno
ucciso avría l'onore e che la vita
405 al nome insidiería di ciascheduno,
onde su quella faccia invelenita
cavò più fosse per formar l'avello
408 da l'empia lingua all'amistà tradita;
e conoscendo che quel gran cervello
il mondo vagliería con la sua critica
411 fece il volto di lui tutto un crivello.
Egli ha la voce alquanto rauca e stitica,
e per mostrarsi un letterato fino
414 pratica da un librar sol per politica,
ma non dimora a i libri ognor vicino
perch'ei l'intenda: in Parion va solo
417 per imparare a pratticar Pasquino.
È di color di serpe et ha gran duolo
s'un poeta è stimato, onde verifica
420 l'antipatia tra il serpe e 'l rosignolo.
Oh, come si confonde e si mortifica
e fa la faccia accipigliata et agra,
423 quando i meriti altrui qualcun testifica!
Nacque questo arrogante in su la Magra,
e non poteva in ver nascere altrove
426 chi del prossimo al ben sempre si smagra.
Fûr sempre di costui l'usate prove
tender lacci et insidie a l'altrui fama
429 con invenzioni inusitate e nove.

INVIDIA
Di circumloquii fai così gran trama
che non ha tanti imbrogli un tesserandolo.
432 Lascia i viluppi e di' come si chiama.

AUTORE
Del nome suo non so trovare il bandolo,
ma in cifra si fa dir questo vigliacco,
435 s'io mal non mi ricordo, Sciribandolo.
Sai ch'usa di nascondersi ogni Cacco
temendo sempre che ciascun l'aditi
438 e non li faccia qualche affronto o smacco;
ma in questa sciocca età non son puniti
gl'impostori e i falsarii, anzi da tutti
441 questi infami plebei son favoriti.
Or, congiunti a costui, certi margutti,
tra lor conformi di costumi e genio,
444 gl<i> applausi di ciascun vorrian distrutti;
si tiene ognun di lor Febo e Cilenio
e con nomi al Liceo noti e a l'uom saggio
447 Temistio un si fa dir, l'altro Partenio.
Questo trino pestifero e malvaggio
con eleganza e proprietà s'appella
450 una lega d'infami, in buon linguaggio;
mordono ognor questa persona e quella,
e sin l'istesso amico e 'l galantuomo
453 non sono esenti da le lor quadrella.
Felippo, or dove sei, da cui fu domo
questo stuol manigoldo? Ah, posso stridere,
456 che m'avveggo ben io che in van ti nomo!
Li sapesti ben tu l'ardir recidere
quando d'Arato gl'invidi punisti
459 in tanti soldi e poi gli festi uccidere!
Or non s'impiccan più questi sofisti,
e pur quel sacrificio è sì gradito
462 ch'il boia al ciel suol offerir de' tristi.
Apelle ritrovossi a mal partito
perché da un certo Antifilo invidioso
465 d'una brutta congiura era inquisito;
ma, scovertosi infine il vero ascoso,
fe' Tolomeo col giusto e col protervo
468 un atto che sarà sempre famoso:
di ben cento talenti un aureo acervo
donò ad Apelle e 'l delatore iniquo
471 ch'accusato l'avea li dié per servo.
Sacrosanto rigor del tempo antico,
dove, dove n'andasti? Oggi il castigo
474 non si comparte, o si comparte obliquo.
Uscito Apelle di quel grande intrico,
per tabella votiva appese un quadro
477 per cui da lo stupor mai non mi sbrigo,
poiché con artifizio alto e legiadro
de la Calunnia vi scolpì l'usanza
480 e 'l ritratto di lei maligno e ladro.
Con orecchi asinini in regia stanza
d'un altro Mida ei figurò l'effigie,
483 che sedea tra il Sospetto e l'Ignoranza;
movea verso di lui l'atre vestigie
la Calunnia lisciata, e avea da canto
486 Insidia e Falsità, compagne stigie;
con la destra pel crin lacero, infranto
un fanciullo traea, ch'al ciel rivolto
489 l'innocenza del cor dicea col pianto;
ne la sinistra man tenea raccolto
un gran torchio di fiamma oscura e nera,
492 che tra i suoi fumi il giorno avea sepolto.
Eri, Invidia, ancor tu di quella schiera
e givi innanzi a lei rabbiosa e schiva,
495 in sembianza d'Aletto e di Megera;
a la Calunnia al fin dietro veniva
il Pentimento aflitto e si volgeva
498 verso la Verità che lo seguiva.
Questo quadro d'Apelle in me solleva
più d'un pensiero, e nel pensier m'abbozza
501 un gran desío che nel mio cor s'alleva.
Chi sa? scornar potrei chi m'urta e cozza:
un Apelle io non son, ma qualche poco
504 so manegiare anch'io la tavolozza.
Farò con il pennel forse un bel gioco,
ancor che questo non sia mal da biacca,
507 poiché al cancro ci vuole il ferro e 'l fuoco.

INVIDIA
Costoro a torto il tuo furore intacca,
perché in coscienza non mi si ricorda
510 che t'abbin fatto un dispiacere, un'acca.

AUTORE
Fa' pur la smemorata e la balorda,
che nondimen saprò trovar la strada
513 di farti confessar senza la corda.
Stimolata da te, la tua masnada
nel Panteòn contro le mie pitture
516 quante volte impugnò l'arco e la spada?

INVIDIA
Brami invan d'assentarti a le ponture,
se fûr d'Apelle infin l'opre imortali
519 d'un ciabattin soggette a le censure.

AUTORE
Di noi pittori avversità fatali,
che fummo sempre criticati e morsi
522 prima da ciabattini, or da stivali!

INVIDIA
Veloce ogn'anno a la Rotonda io corsi
e in ver l'opere tue lodar sentivo
525 qualche poco tal volta in quei discorsi.
Udii ben contro te questo motivo,
che non fai male in etico e in eroico,
528 ma che non peschi in genere lascivo.

AUTORE
Sento affetti di gloria, ancor che stoico,
ma più tosto che far pitture oscene
531 schiavo e oscuro starei nel lido euboico.
Dipingo ciò ch'a l'onestà conviene,
ché con opere sordide non merca
534 a se stesso gli applausi un uom da bene;
chi per via del bordello onor ricerca
s'incamina a l'infamia: io vo' più tosto
537 che l'aura popolar mi sia noverca.
Ma per tornare a te, giammai discosto
non mi sei stata a la Rotonda un passo
540 quando vi fu qualche mio quadro esposto;
ond'io, che al tuo latrar mi piglio spasso,
acciò che dentro tu vi spezzi i denti,
543 quest'anno non vi ho messo altro ch'un sasso.
Da l'aquila imparai, ch'agl'innocenti
nidi de' figli suoi porta una pietra
546 onde il morso e 'l velen doma ai serpenti.
Quel sasso che in Reate alzossi a l'etra
ceda al mio, che de l'Astio il gran colubro
549 percosse, e lapidò la tua faretra.
In faccia al Gallo, a l'Italo, a l'Insùbro
dovea punirsi d'ogni male il fabro
552 quivi ove Giove Ultore ebbe il delubro;
e intorno a l'opre mie, là nel Velabro,
nel giorno sacro a i Vulcanali antichi,
555 oh quante volte ti mordesti il labro!
Ma del pennello omai lasciam gl'intrichi
e dimmi ond'è che questa tua milizia
558 contro gli scritti miei pugni e fatichi:
van dicendo costor con gran malizia
che le satire mie non son miei parti,
561 ma che date mi fûr per amicizia.

INVIDIA
Non posso e non saprei, Rosa, adularti:
le satire ancor io non ho per tue
564 e vuo' se sbaglio esser ridotta in quarti;
ché nel mondo più d'un veduto fue
con pensieri sublimi e memorandi
567 a l'amico donar le cose sue.

AUTORE
Molti furono, è ver, gli animi grandi
di quei che nel donar già dimostrâro
570 architetta la man d'atti ammirandi;
suona il nome di molti illustre e chiaro
che dissetata avrian con auree stille
573 insin l'idropisia d'un petto avaro;
si leggono gli esempii a mille a mille
di quei ch'han dato a i loro amici in preda
576 gemme, servi, danar, palazzi e ville;
ma ch'un de l'opre sue doni e conceda
insieme con il nome anche la gloria,
579 chi sarà che l'affermi e che lo creda?

INVIDIA
E pure attesta a noi verace istoria
ch'Aristotil donasse a Teodette
582 i libri in cui spiegò l'arte oratoria;
Fidia alle statue sue chiare e perfette
d'Agoracrito spesso il nome incise
585 e fe' creder di lui molt'opre elette.

AUTORE
Ma che i libri eran suoi scrisse e decise
in un altro suo libro a quei simíle
588 lo Stagirita, e lo scolar derise;
Fidia fece il cortese et il gentile
sapendo che la trappola nascosa
591 si scoprería da l'arte e da lo stile.
Ma questa turba tua vituperosa
dice ch'ebbi le satire a correggere
594 da un amico che in ciel or si riposa,
e che, dopo che Dio lo volse eleggere
e dal carcere uman tirarlo a sé,
597 per opre mie l'ho cominciate a leggere;
soggiunge poscia ch'ei me le vendé,
o ver che me le dette in contracambio
600 d'un gran debito ch'egli avea con me;
ond'io l'accuse sue confondo e scambio:
or dice ch'io son reo di latrocinio,
603 or ch'ho prestato su gl'ingegni a cambio.

INVIDIA
L'abbizion e 'l bisogno il lor dominio
stendon per tutto e le più sagge teste
606 ha più volte ridotte a l'esterminio:
Vario in Roma per suo diede il Tieste,
ch'era di Cassio o di Virgilio, e l'ebbe
609 o per furto o per vie non troppo oneste;
chi di Battillo mai creder potrebbe
lo sciocco ardir, che s'usurpò quel distico
612 onde il grido a Maron destossi e crebbe?
Lungo fôra il contar lo stuol soffistico
che della fama il mar sull'altrui nave
615 solcò con mezzo stravagante e mistico:
per la necessitade avversa e grave
vender si vide ne l'antica etade
618 Andronico gli Annali e Stazio Agave.
Or le satire anch'io ch'hai recitate
tengo che sian d'un altro: i miei giudizi
621 son che tu l'abbia compre o ver rubate.

AUTORE
So ch'adoprati hai tutti gli artifizii,
tutti gli stratagemmi e le potenze
624 per veder se di ciò trovavi indizi.
Or, con tante domande e deligenze,
hai raccattata ancor prova veruna
627 de le rabiose tue maledicenze?
Séguita pure et ogni sforzo aduna,
poiché noto è di già che per natura
630 ogni cagnaccio vil latra a la luna;
ma guarda che la fraude e l'impostura
non ti svergogni al fine e non si scopra
633 da la satira mia de la Pittura.
Dimmi, forse potea compor quell'opra
un che non sia pittore e non intenda
636 come il disegno et il color s'adopra?

INVIDIA
Dimmi, ti par che tanto in là s'estenda
l'ingegno et il saper d'un che per arte
639 tratti i pennelli e a la pittura attenda?

AUTORE
La fama in ogni tempo, in ogni parte
per i dotti pittori i vanni impenna,
642 ch'hanno de l'opre lor colme le carte.
Col pennello egualmente e con la penna
Pacuvio e Apollodoro erano insigni
645 e il gemino valor l'istoria accenna;
volgi a le vite lor gli occhi maligni:
troverai che in formar gli uomini e i carmi
648 ha la pittura ancor Prometei e Cigni.
Ma ne l'antichità non vo' ingolfarmi:
mira come dan aura al Buonaroti
651 non men le carte che le tele e i marmi;
s'i libri del Vasari osservi e noti
vedrai che de' pittori i più discreti
654 son per la poesia celebri e noti.
E non solo i pittori eran poeti,
ma filosofi grandi, e fûr demonii
657 nel cercar di natura i gran segreti:
Metrodoro e Platon sian testimonii
e Pirrone Elidense, onde discesero
660 gli sceptici da lui detti pirronii.
Questi e molti altri alla pittura attesero,
onde i tuoi Momi e critici supremi
663 poco l'istoria e la censura intesero.
Ah, razza senza onor, dubiti e temi
a quattro versi d'un pittore, e ammetti
666 i villani e i bifolchi a far poemi?
Odi d'alme nefande empi concetti:
volevan contraffare lettre e fogli,
669 d'un ch'è già morto in nome, a me diretti,
<et in essi notar co i loro imbrogli
delle satire mie passi diversi,
672 che son restati esposti a i loro orgogli,>
poiché si son talmente alcuni versi
ne la memoria altrui scolpiti e fissi,
675 che per tutto oramai vanno dispersi.
Ma quanto ho mai dipinto e quanto scrissi
lacerin pur le tue false querele,
678 Furia di cui peggior non han gli abissi,
ch'io nulla stimo il genio tuo crudele
e meco al fin di questi tuoi consorti
681 poco guadagnerà la rabbia e 'l fèle.
Diêro a la rosa una virtù le sorti
contro gli scarafaggi: essi a fatica
684 s'avvicinino a lei che cascan morti;
se di tal proprietà vuoi ch'io ti dica
l'origine primiera, intenta ascolta
687 l'istoria d'essa e la caggione antica.
Quando da Giove in ciel moglie fu tolta,
ogn'animal per la celeste mensa
690 qualche cosa donò da lui raccolta.
L'ape tra gli altri a la real dispensa
portò certo suo mèle, il qual di fresco
693 manipolato avea con cura immensa;
questo piacque così ch'i numi al desco
per lui furon tra lor quasi a le pugna,
696 come fa per il vin lo stuol tedesco:
men avida l'umor succhia la spugna;
e sen leccâro i dei le dita in guisa
699 ch'avean scarnati i polpastrelli e l'ugna.
Quindi da l'ape informazion precisa
chiesero di quel mèl, la cui ricetta
702 volean che fusse a lettre d'oro incisa.
L'ape rispose che di rosa schietta
fabricato l'avea e che da questa
705 veniva al mèl quella dolcezza eletta,
dove nel mèl che volgarmente appresta
adoprava in confuso il fior d'ogn'erba,
708 o che nasca negli orti o a la foresta.
Si stupiron li dei che sì superba
dolcezza fusse entro la rosa ascosta,
711 che per le spine appare aspra et acerba;
allor da l'ape ogni virtude esposta
fu de la rosa, e seguitò narrando
714 la nobiltade, il preggio in ch'ella è posta,
dicendo ch'il sapor tanto ammirando
era in lei derrivato in un con l'ostro
717 dal nèttere ch'Amor versò ballando.
In somma, l'ape in quel beato chiostro
sì la rosa inalzò, che fe' stimarla
720 e di bontade e di bellezza un mostro.
Giove attento de l'ape udì la ciarla
e doppo, in premio di quel mel sì grato,
723 regina de gl'insetti ei volse farla,
con patto che da lei li fusse dato
per il suo piatto in ogni settimana
726 una tal somma di quel mel rosato;
e perché udito avea la sovrumana
natura della rosa, ivi creolla
729 monarchessa de' fiori alta e sovrana.
Terminate le nozze e già satolla
la turba degli dei, dal sommo tetto
732 de gli animali si partì la folla.
Con l'ape ognun di lor colmo d'affetto
si rallegrò, ma pien d'astio e d'orgoglio
735 n'ebbe lo scarafaggio ira e dispetto,
e spinto da l'invidia e dal cordoglio
andò pensando un certo stratagemma
738 di tôrre a l'ape in un l'onore e 'l soglio.
Ond'egli incominciò, solo e con flemma,
de la rosa a sporcar tutte le foglie
741 prima ch'uscisse il sol fuor di maremma;
e mentre l'ape a côr le dolci spoglie
giva de' fiori, ei con sozzura immonda
744 le corrompeva il mel dentro a le soglie.
Volando l'ape alla celeste sponda,
fece a Giove saper questo strapazzo,
747 esclamando sdegnata e furibonda;
Giove entrò in bestia e fece un gran schiamazzo,
sì ch'a cercar l'autor di quella ingiuria
750 scese Mercurio dal sovran palazzo,
e in un tratto il trovò, ché mai penuria
non si dié di spioni, onde fu preso
753 lo scarafaggio e torturato in furia;
e perché, quando il re si tiene offeso,
non s'adopra oriolo in dar la fune,
756 il fatto confessò chiaro e disteso.
Quindi da i numi per parer comune,
come invido convinto e già confesso,
759 non fu lasciato di quel fallo impune;
perché dunque tentò con empio eccesso
di tôr l'onore a l'ape, a lei facendo
762 de l'alveario e de la rosa un cesso,
fu sentenziato con rigor tremendo
ch'ei viva ne lo sterco e che li sia
765 de la rosa l'odor veleno orrendo.
Sì che, Invidia, tu senti; or venghin via
questi tuoi scarafaggi: ebbe dal fato
768 l'istessa proprietà la Rosa mia.
Prima mi mancherebbe e lena e fiato,
ch'io potessi ridir delle tue Furie
771 gli occhi maligni e il labro avvelenato.
Quanti ne' tribunali e per le curie
il valor, la dottrina e l'innocenza
774 han da te riceuti affronti e ingiurie?
Atene il sa, donde la tua potenza
i più degni scacciò con l'ostracismo
777 e di Socrate dié l'empia sentenza;
e ben hai per politico afforismo
di distruggere ognun, se fin tentasti
780 di distruggere Idio con l'ateismo.
A quanti il premio de i sudor negasti!
Dícalo Manlio, a cui con tante accuse
783 quasi il do£to trionfar rubasti.
Per le machine tue false e confuse
l'oliva al crin non impetrò Melciade
786 e tra i ceppi la vita al fin concluse;
Aristide per te, per te Alcibiade
fûr banditi e dannati. Il tuo contaggio
789 quant'anime infettò degne d'Iliade!
Fu l'attico livor così malvaggio
che mandò quel Temistocle in esilio
792 che la Grecia salvò dal gran naufraggio;
né bastò lo sbandirlo a pien concilio,
ché lasciò contro a lui trattar la satira
795 a un poeta che allora era il Lucilio.
Colui che nel rispetto usato a Statira
più chiaro fu che in debellar le squadre
798 e i popoli domar dal Gange a l'Atira,
quello, dich'io, cui l'opere leggiadre
diêro il titol di Grande, ardea di smania
801 se talvolta sentía lodar suo padre.
Da la perfidia tua spinto ad insania,
Palamede, il gran saggio, a i più congiunti
804 tese di tradimento iniqua pania;
Neron, che tutti avea d'infame i punti,
quanti fece ammazzar perché le gorge
807 ragliavan più di lui su i contrapunti?
Chi con occhio linceo l'istoria scorge,
che nel Peloponesso ognun s'armasse
810 per tua sola caggion, chiaro s'accorge.
Tiberio esiliò colui che trasse
l'atrio avvallato fuor del suolo instabile
813 senza che parte alcuna in lui guastasse;
ma qui non terminò l'odio esecrabile,
poiché uccider lo fe' quando il cristallo
816 rese affatto nervoso e malleabile.
Per invidia Adrian fe' sì gran fallo
che il ponte demolì che il fren romano
819 impose a l'Istro e lo tenea vassallo;
anzi, a i Parti donò, l'invido insano,
tante province acciò che s'obliassi
822 che l'avea soggiogate il gran Traiano;
molti uomini da lui di varie classi,
chiari in arte o in saper, furono oppressi
825 perché nessuno a paragon gli andassi.
Caligola ordinò che si togliessi
a i Manlii la collana, a i Quinzii il crine
828 e ch'il Grande a Pompeo più non si dessi;
fe' dell'anime illustri e pellegrine
romper le statue, e si dolea ch'in terra
831 incendî non seguian, stragi e rovine.
L'empia malignità che in te si serra
fe' da la patria uscir Scipio e Pompeo
834 per evitar del tuo furor la guerra;
visse in Lesbo però già Timotèo,
Conone in Cipro et in Egitto Cabria,
837 in Tracia Esulio andò, Care in Sigeo;
del tuo crudo furor preda in Calabria
Pittagora cadeo, che meritava
840 quanti allori giammai vide il Solabria;
la propria man vittoriosa e brava
in se stesso voltò già Diosippo
843 per sottrarsi al livor che l'accusava;
ben ch'in mezzo al comando ognun sia lippo,
per non esporsi a te lasciò Cartago,
846 vinti ch'ebbe i Romani, il gran Santippo.
Perch'ebbe invidia a l'uom, l'angel più vago
precipitò dal cielo, e 'l sole esangue
849 vide spirto sì bel cangiarsi in drago;
ei per invidia poi mutato in angue
Eva deluse e misero preludio
852 fu d'Adamo il sudor, d'Abelle il sangue;
e quindi per tuo mezzo e per tuo studio
empiamente schernita e velipesa
855 l'Innocenza con l'uom fece il repudio.

INVIDIA
Tu narri ciò che può recarmi offesa,
ma non dici qual gloria al ciel congiunse
858 l'eccelse menti ov'io mi sono appresa.
Tucidide per me tant'alto giunse,
se d'Erodoto udendo i libri egregi
861 il mio nobile ardor l'alma li punse.
Chi condusse Alesandro a tanti pregi
se non la sola invidia, ond'ei s'accinse
864 del grand'Acchille ad emulare i fregi?
Chi fu che a tante imprese indusse e spinse
Cesare, se non l'astio il qual sì forte
867 co i trionfi di Mario il cor gli strinse?
Di Temistocle il petto a l'opre accorte
co i trofei di Milciade io fui che mossi,
870 ché son gl'impulsi miei d'onor le scorte.

AUTORE
Menti, mostro plebeo! Da te non puossi
amar Virtude, e la tua rabbia amara
873 sempre ha i gesti di lei turbati e scossi.
Emulazione illustre e nobil gara
fu di quei grandi eroi: l'alme non rende
876 prodighe di sudor l'Invidia avara.
Non si cangiano i nomi: il sol che splende
tenebre non apporta; il ben che giova
879 non fu mai figlio di cagion ch'offende.
Cosa alcuna da te mai non s'approva,
anzi il tutto da te s'accusa e danna
882 e per nuocere altrui fassi ogni prova.
Ma non sempre del Vero i raggi appanna
l'atro vapor che la tua frode esala
885 e non inganna il ciel, se l'uomo inganna;
poiché, a le frodi tue troncata ogn'ala,
sei di forze non sol debili e nulle,
888 ma spesso a la Virtù servi da scala:
chiaro Alcide per te fu ne le culle
e dié lo scettro a Costantino e a Davide
891 di Massimian l'invidia e di Saulle.
Vide un lago una volta ardite e impavide
salir le nubi ad oscurar le stelle,
894 di piogge e di tempeste onuste e gravide;
ond'egli, ch'era pauroso e imbelle,
si pisciò sotto e i suoi timori acuti
897 così narrava a i nicchi et a l'arselle:
- Ohimè, che furia è questa? Il ciel m'aiuti!
Son briache le nuvole e mi vengono
900 sul viso a vomitar gli umor be£ti?
Che sì che l'acque mie torbe divengono?
E fugir mi vedrò sino a le rane
903 s'a questa volta la lor via mantengono. -
Queste sue voci timorose e strane
il lago non fenì, che l'acque accolte
906 versâro addosso a lui le nubi insane;
cadean le piogge impetuose e folte,
ond'ei, gonfio e cresciuto al gran diluvio,
909 credea del ciel le cataratte sciolte.
Qual trabocca l'ardor fuor del Vesuvio,
tale il lago versò fuor de le sponde
912 che ritenuto non l'avría Vitruvio;
ei tra rive più larghe e più profonde
scorrea, perduto il suo timore inutile,
915 signor de la campagna e ricco d'onde;
quindi, con voci non distinte e mutile
per la gran gioia, a se medesmo disse:
918 - Pazzo, io temea quel ch'a la fin m'er'utile! -
Tale appunto è Virtù: l'invide risse
crescer la fanno e superar le rive
921 che a lei forse l'applauso avría prefisse.
Dieron di pin, d'allor, d'appio e d'olive
quattrocento corone insigni e note
924 di Teagene al crin le feste argive.
Il valor di costui cotanto puote
ch'ebbe in Taso una statua illustre e degna,
927 la qual fu del livor fomento e cote,
ché, morto il grande atleta, un'alma indegna
flagellava ogni notte a più non posso
930 quella statua, d'onor premio et insegna;
e durò tanto ch'a la fin commosso
fu ad ira il bronzo istesso, onde una notte
933 l'invido uccise con cadergli addosso.
Le leggi di Dracon, quivi incorrotte,
condennaron la statua e fu sommersa
936 ne l'onde de l'Egeo spumose e rotte;
d'allora in poi sterilità perversa
afflisse i Tasii e, fin che stette in fondo
939 la statua, crebbe la penuria avversa;
quindi, tirata fuor del mar profondo
per consiglio d'Apollo, applausi immensi
942 et onori divini ebbe nel mondo.
Invidia, non va mai come tu pensi,
ché quando la Virtù premi e soffòghi
945 le risorgon di nuovo altari e incensi.
Legge di Salamina, or ch'io t'invochi
è forza. Il suolo altrui guastano i porci
948 e van co' denti interi in tutti i luochi.
Invidia, che tu fussi uguale a i sorci,
rodendo il tutto, fòra un mal felice,
951 ma tu l'onor con la calunnia accorci;
onde Medio dicea che, se pur lice
de la calunnia risanar la piaga,
954 non se ne va giammai la cicatrice.
Tearida arrotando un dì la daga
con parole asserì vere et argute
957 che più del ferro la calunnia impiaga.
Roma, tu 'l sai, che poco fa vedute
l'esequie hai di quel<l'>uom cui la tragedia
960 dié con tragico fin calunnie acute.
Oggi prencipe alcun più non rimedia
a tanta infamità: l'Italia cade
963 fatta a i calunniatori albergo e sedia.
Caronda li mandò per la citade
cinti di mirto, e 'l popolo compagno
966 co i torsi li seguía per le contrade;
proibì loro Atene il fuoco e 'l bagno
et il commercio, e in guisa tal trattolli
969 che stimavan la forca un gran guadagno;
Roma col foco già contrasegnolli,
come fassi a i barili a la vendemmia,
972 e in fronte li mercò con certi bolli.
Torna, torna nel mondo, o legge remmia,
or che per tutto la Calunnia ingiusta
975 calpesta i buoni e le Virtù bestemmia:
la Giustizia per lei non è più giusta,
ché non ci resta più memoria od orma
978 o di berlina o d'asino o di frusta.
Ma che! Vigili il cielo e 'l mondo dorma:
con i marmi che porta in Grecia il Perso
981 di Nemesi la statua al fin si forma.

Così dicevo, e nel furore immerso
pur la seguía; ma prorompendo in gemito
984 l'Invidia alzò di pianto orribil verso;
riempiendo il ciel di strida e fremito
squarciossi il crine e 'l volto e poi disparve
987 et io desto restai, ma pien di tremito.
Or, confrontando le vedute larve
con gli accidenti miei, conosco e trovo
990 che fu mera vision ciò che m'apparve.
Quanti contro di me sostègno e provo
di maligno livore iniqui inganni!
993 e ne sorge ogni dì qualcun di nuovo!
Sì che, de' sogni sotto il velo e i panni,
spesso la verità vi sta racchiusa,
996 massime di disastri e di malanni.
Per adesso a costor componi, o Musa,
un sciroppo rosato, il qual prepari
999 quella malignità ch'in loro è chiusa;
e intanto da' tuoi versi il mondo impari
che son l'insidie lor misteriose:
1000 quando umanar si vogliono i somari
necessario è che dian morso a le rose.

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 09/07/05 14.50.58

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