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Satire

di. SALVATOR ROSA

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SATIRA SECONDA

LA POESIA

(r)Le colonne spezzate e rotti i marmi
là fra i platani suoi divelti e scossi
3 Fronton rimira a l'eccheggiar de' carmi,
ché da furore ascreo spinti e commossi
s'odono ognor tanti poeti e tanti,
6 che manco gente in Maratona armossi.
Suonan per tutto le ribeche e i canti
e si vedon, sol d'acqua inebriati,
9 i seguaci d'Apollo andar baccanti:
quei narra d'Eolo i prigionieri alati,
di Vulcano e di Marte antri e foreste,
12 e del giudice inferno i rei dannati;
questi i<m>.mezzo agl'incanti e le tempeste
canta i velli rapiti; altri discrive
15 di Teseo i fatti e le pazzie d'Oreste;
lazie togate e palliate argive
altri specola e detta, e sempre astratto
18 affettate elegie compone e scrive.
Magior poeta è chi più dà nel matto,
tutti cantano omai le cose istesse,
21 tutti di novità son privi affatto¯.
In tali accenti alte querele espresse
quel che, nato in Aquino, i propri allori
24 nel suol d'Arunca a coltivar si messe;
così di Pindo i violati onori
pianger ne' colli suoi sentì già Roma
27 dal flagello magior de' prischi errori.
Et oggi il tósco mio guasto idioma
non avrà il suo Lucilio? Oggi ch'ascende
30 ciascuno in Dirce a coronar la chioma?
Non irrita il mio sdegno e non mi offende
sola viltà di stile: a mille accuse
33 più possente caggione il cor m'accende.
Troppo al secolo mio si son diffuse
le colpe de' poeti: arse e cadéo
36 la pianta virginal sacra a le Muse.
Tacer dunque io non vo'; nume Grineo,
tu mi detta le voci e tu m'inspira
39 il furor d'Archilòco e di Tirteo.
Reggi la destra tu; tolto a la lira,
spinga dardo teban nervo canoro,
42 or che dai vizi altrui fomento ha l'ira.
Conosco ben ch'a saettar costoro
incurvar si dovría corno cidonio,
45 ché lento esce lo stral d'arco sonoro.
Credon questi trattar plettro bistonio,
né d'Eumolpo giammai cotanto odioso
48 il lapidato stil finse Petronio.
No, che tacer non vo'! Ma poi dubioso
donde io muova il parlar rimango in forse:
51 tanto ho da dir, ch'incominciar non oso;
sono l'infamie lor così trascorse
che, s'io ne vo' trattar, le voci estreme
54 son dal silenzio in su l'uscir precorse.
Offre alla mente mia ristrett'insieme
un indistinto caos vizii infiniti
57 e di mille pazzie confuso il seme:
quinci i traslati e i paralelli arditi,
le parole ampollose e i detti uscuri,
60 di grandezza e decoro i sensi usciti;
quindi i concetti e mal espressi e duri,
con il capo di bestia il busto umano,
63 de la lingua stroppiata i modi impuri;
de l'iperboli qua l'abuso insano,
colà gl'inverisimili scoperti,
66 lo stil per tutto effeminato e vano;
il delfin nelle selve e ne' deserti
ed il cignal nel mare e dentro a' fiumi,
69 gl<i> affetti vili e i latrocinî aperti;
prive di nobiltà, prive di lumi
l'adulazioni e le lascivie enormi,
72 l'empietà verso Dio, verso i costumi.
Da tante e tante iniquità deformi
provo, acceso e confuso, e sprone e freno:
75 sofferenza irritata, a che più dormi?
Non vedi tu che tanto il mondo è pieno
di questa razza inutile e molesta,
78 che produrre i cantor sembra il terreno?
Per Dio, poeti, io vo' sonare a festa!
Me non lusinga ambizion di gloria,
81 violenza moral mi sprona e desta.
Di passar per poeta io non ho boria;
vada in Cirra chi vuol, nulla mi preme
84 che sia scritta colà la mia memoria.
Oh che dolce follia di teste sceme!
Sul più fallito e sterile mestiero
87 fondare il patrimonio de la speme;
sopra un verso sudar l'alma e 'l pensiero
a ciò che sia con numero costrutto,
90 s'ogni sostanza poi termina in zero!
Fiori e fronde che val sparger per tutto
s'alfin si vede, de gli autunni al giro,
93 che di Parnaso il fior non fa mai frutto?
Con lusinghiero e placido deliro
va il poeta spogliando Ermo e Coaspe,
96 Sisno, Bermio, Petorsi, Ormus e Tiro;
saccheggia il Tago e sviscera l'Idaspe,
e mai si trova un soldo, al far de' conti,
99 tra le gemme del Parto e l'Arimaspe.
Poeti, è ver ch'Apollo abita i monti,
ma questo non vuol dir che voi speriate
102 d'averci a posseder luoghi di monti,
ché possibil non è che voi troviate
fra quanti colli a Clario il tempo eresse
105 i monti di S<an> Spirto o di Pietate.
Io non so dove fondate la messe,
s'altro il seme non dà del clizio dio
108 che raccolta d'aplausi e di promesse.
Superate la fame, e poi l'oblio,
ché voi non manderete il grano a frangere
111 se non prendete Cerere per Clio.
Il vostro stato è troppo da compiangere
mentre vi mira ognun, cingli dispersi,
114 cantar per gloria e per miseria piangere.
A che star tutto il dì fra lettre immersi?
Noto è a le genti anco idiote e basse
117 che non si fan lettre di cambio in versi.
Giove io non leggo che sapienza amasse,
ché quando il mondo ancor vagiva in culla
120 avea Minerva in capo e se la trasse.
Quest'applauso che a voi tanto trastulla
dolce è per chi vivendo e l'ode e 'l vede,
123 ché doppo morte non si sente nulla.
È più dotto oggidì chi più possiede,
scienza senza denar cosa è da sciocchi
126 e sudor di virtù non ha mercede;
per aver fama basta aver baiocchi,
ché l'imortalità si stima un sogno;
129 son galli i ricchi, e i letterati alocchi.
Quanto adesso vi dico io non trasogno:
da Pindo a l'ospedal facile è il varco,
132 poi ch'il sapere è padre del bisogno.
Buttate a terra la viola e l'arco,
ché in quest'età d'ignorantoni e mimi
135 già s'adempì la profezia d'Ipparco.
Presi già sono i luoghi più sublimi
et il proverbio publico risuona:
138 in ogn'arte e mestier, beati i primi!
Cangiato è il mondo: oh quanti ne minchiona
la foia de la guerra e de la stampa,
141 la pania de la corte e d'Elicona!
Sfortunato colui che l'orme stampa
ne' liti di Libetro aridi e scarsi,
144 ch'o vi sta mal per sempre o non vi campa.
Torna il conto, o fratelli, a spoetarsi:
cantan sino i ragazzi a bocca piena,
147 ch'il poeta è il primiero a diclinarsi.
Con più d'un guidaresco in su la schiena
a i nostri dì l'aganippeo polledro
150 tanto smagrato è più quant'ha più vena;
l'opere a partorir degne di cedro
vi conducon le stelle in qualche stalla,
153 per ch'un cavallo è a voi duce e sinedro.
Chi veglia su le carte, oh quanto falla!
Ch'a.llottar con fortuna in questi giorni
156 esser unto non val d'umor di Palla;
né di Febbo il calor riscalda i forni,
e se chiacchiere avete con la pala
159 non s'empion d'Amaltea con queste i corni.
Il rimedio a non far vita sì mala
è ben dover ch'oggi vi mostri, e insegni
162 la formica imitar, non la cicala;
non v'accorgete omai da tanti segni
che nell'inferno della povertade
165 sono l'alme dannate i bell'ingegni?
Chi di voi può mostrarmi una citade
ove una Musa sia grassa o gradita,
168 se chiuse son le generose strade?
Imparate qualch'arte onde la vita
tragga il pan quotidiano, e poi cantate
171 quanto vi par La bella Margarita.
Passa la gioventude e l'ore andate
la vecchiezza, mendica di sostanza,
174 bestemia poi de la perduta etate;
e 'l motto è noto e cognito a bastanza:
a chi la povertà fitta ha nell'ossa
177 rifrigerante impiastro è la speranza.
Non aspettate l'ultima percossa,
né fate più da sericani vermi
180 che, stolti, da per lor si fan la fossa.
Appetir quel ch'offende uso è d'infermi.
Contro al vostro bisogno, al vostro male,
183 il saper di saper son frali schermi.
Ma volete un esempio naturale
che la vostra sciocchezza esprima al vivo
186 e rappresenti il vostro umor bestiale?
Era volato un dì, tutto giulivo,
con un pezzo di cacio parmegiano
189 il corvo in cima di un antico olivo.
La volpe il vide e s'accostò pian piano
per farlo rimanere un bel somaro,
192 s'il cacio li potea cavar di mano;
ma perché tra di loro eran del paro
scaltri e furfanti e, come dir si suole,
195 era tra galeotto e marinaro,
ella (che scorse avea tutte le scuole
et era masvigliacca in quintessenza)
198 cominciò verso lui con tai parole:
- Gran maestra è di noi l'esperienza;
essa ci guida in questa bassa riva,
201 madre di veritade e di prudenza.
Quando da un certo predicar sentiva
che la fama ha due facce et è fallace,
204 a maligna buggia l'attribuiva;
ma ora l'occhio è testimon verace
a quanto udì l'orecchio, e ben conosco
207 che questa fama è un animal mendace.
Già, perché si dicea che nero e fosco
eri più della pece e del carbone,
211 mi ti fingea spazzacamin da bosco.
Ma quant'è falsa l'immaginazione!
Tu sei più bianco che non è la neve,
213 e, pazza, io ti stimava un calderone.
Troppo gran danno la virtù riceve
da questa fama infame e scellerata,
216 sempre bugiarda, appassionata e lieve.
Perde teco, per Dio, la saponata!
Tu sembri giusto, tra coteste fronde,
219 tra le foglie di fico una gioncata;
e s'al candor la voce corrisponde
n'incachi quanti cigni alzano il grido
222 là nel Cefíso a le famose sponde.
Se tu cantar sapessi, io me la rido
di quanti uccelli ha il mondo. Eh, che tu sai
225 ch'in un bel corpo una bell'alma ha nido. -
Così disse la furba, e disse assai,
ch'il corvo, d'ambizion gonfiato e pregno,
228 crede saper quel che non seppe mai,
e per mostrar nel canto il bell'ingegno
si compose, si scosse e 'l fiato prese
231 e a cantar cominciò sopra quel legno.
Ma mentre egli stordía tutto il paese
col solito crà crà, dal rostro aperto
234 cascò il formaggio e la comar lo prese;
onde per far da cantatore esperto
si ritrovò digiun, come quel cane
237 che lassò il certo per seguir l'incerto.
Così di Pindo, voi, musiche rane,
lasciate il proprio per l'appellativo
240 e per voler gracchiar perdete il pane;
ché, invece di un mestier fertile e vivo,
dietro a la morta e steril poesia
243 imparate a cantar sempre in passivo;
e tal posesso ha in voi quest'eresia
che per un po' d'applauso ebri correte
246 a discoprir la vostra frenesia.
Balordi senza senno che voi sète!
Mentre andate morendo de la fame
249 d'immortalare altrui vi persuadete,
e sète così grossi di legname
che non udite ognun moversi a riso
252 in sentirvi lodar le vostre dame:
stelle gl<i> occhi, arco il ciglio e cielo il viso,
tuoni e fulmini i detti e lampi i guardi,
255 bocca mista d'inferno e paradiso;
dir che i sospiri son bombe e petardi,
pioggia d'oro i capei, fucina il petto
258 dove il magnano Amor tempera i dardi;
et ho visto e sentito in un sonetto,
di bella donna a cui puzzava il fiato,
261 arca d'arabi odor, muschio e zibetto!
Le metafore il sole han consumato
e, convertito in baccalà, Nettuno
264 fu nomato da un certo il dio salato.
Sin la croce d'Idio fu da taluno
chiamata legno santo; e pur costoro
267 sfidan l'autor dell'itaco Nessuno;
e dell'amata sua con qual decoro
i pidocchi colui cantanno disse:
270 sembran fère d'argento in selva d'oro?
E chi può creder ch'uno ingegno uscisse
dai gangani tant'oltre, e bagatelle
273 così arroganti di stampare ardisse?
Le nostr'alme trattar bestie da selle
mentre li serba il ciel, da' corpi sgombre,
276 biada d'eternità, stalla di stelle!
E (a pensarlo il pensier vien che s'adombre)
fare il sol divenir boia che tagli
279 con la scura di raggi il collo a l'ombre!
Ma chi di tante bestie da sonagli
legger può le pazzie? I lor libracci
282 de le risa d'ognun sono i bersagli,
ché da certi eruditi animalacci
giornalmente a le tenebre si danno
285 mille strambotti e mille scartafacci;
e tale stima di se stessi fanno
e di tanta albaggía sono imbeuti,
288 ch'è molto men de la vergogna il danno:
ché, per parer filosofi e saputi,
se ne van per le strade unti e bisunti,
291 stracciati, sciatti, sudici e barbuti,
con chiome rabbuffate et occhi smunti,
con le scarpe disciolte e 'l collar sciolto,
294 ricamati di zacchere e trapunti.
Cada il giorno a l'occaso o sorga all'orto,
sempre cogitabondi e sempre astratti,
297 hanno un color d'itterico e di morto;
discorron fra se stessi com'a i matti
facendo con la faccia e con le mani
300 mille smorfie ridicole e mill'atti;
per certi luoghi inusitati e strani
si mordon l'ugna e col grattarsi il capo
303 pensano a i Mammalucchi e a gl'Indiani;
e incerti di formar scanno o Priapo
con la rozza materia ch'hanno in testa,
306 di pensiero in pensier si fan da capo;
colla mente impregnata et indigesta,
senza aver fine alcuno e senza scopo,
309 van borbotando in quella parte e in questa.
Han di fantasmi un embrione, e dopo
d'aver pensato e ripensato un pezzo,
312 partoriscono i monti e nasce un topo;
ché, quando credi udir cose di prezzo
e stai con una grande espettazione,
315 gli senti dare in frascherie da sezzo:
la fava con le mele e col mellone,
la ricotta coi chiozzi e con la zucca,
318 l'anguille col savore e col cardone,
Buovo d'Antona, Drusiana e Giucca
son le mattèrie onde l'altrui palpèbre
321 ogni scrittore infastidisce e stucca;
anzi dal mal francese e da la febre
e dall'istessa peste insin procacciano
324 a i nomi, a l'opre lor vita celèbre.
Questi son quei ch'a dissetar si cacciano
le labra im.mezzo al caballin condotto,
327 questi i poeti son che se l'allacciano!
O Febbo, o Febbo, e dove sei ridotto?
Questi gli studî son d'un gran cervello?
330 Sono questi i pensier d'un capo dotto?
Lodar le mosche, i grilli, il ravanello
e l'altre scioccherie ch'hanno composto
333 il Bernia, il Mauro, il Lasca et il Borchiello?
Per sublime materia hanno disposto,
dietro a Dion, Pitagora et Antemio,
336 lodar le rape, le cipolle e 'l mosto.
In ogni frontispizio, ogni proemio
più del Clitorio han lodi le cantine,
339 ché un poeta è peccato essere astemio;
e le penne più illustri e pellegrine
van lodando in caratteri golosi
342 con Eufrone il tinello e le cucine.
Quindi è che i nomi lor son gl<i> Oziosi,
gl<i> Addormentati, i Rozzi e gli Umoristi,
345 gl'Insensati, i Fantastici e gl<i> Ombrosi;
quindi è che, donde appena eran già visti
nell'Accademie i lauri e ne' Licei,
348 insin gli osti oggidì ne son provisti.
Ite a dolervi poi, moderni Orfei,
che per i vostri affanni è già finita
351 la razza degli Augusti e de' Pompei.
È ver che da le regge erra sbandita
la mendica virtù, ma i vostri modi
354 hanno la poesia guasta e avelita;
le vostre invenzioni e gli episodi
son degne di taverne e lupanari
357 e voi ne pretendete e premi e lodi!
Altro ci vòl per farsi illustri e chiari
che straccar tutto il dì Bembi e Boccacci
360 e Fabriche del mondo e dizionari!
De' vostri studi i gloriosi impacci,
l'occupazion de' vostri ingegni aguzzi
363 facondia han sol da schiccherar versacci,
stirar con le tenaglie i concettuzzi,
rattacconar le rime con la cera,
366 ad ogni accento far gl<i> equivocuzzi,
aver di grilli in capo una miniera,
far contraposto ad ogni paroluccia,
369 e scrivere e stampare ogni chimera.
Ché s'uno i vostri versi oltre a <la> buccia
passa, giammai non vi ritrova un sale,
372 bisognosi d'impiastri e de la gruccia;
e creder di lasciar nome immortale
con portar frasche in Pindo, e unitamente
375 far d'asino, da mulo e vetturale!
Chi cerca di piacer solo al presente
non creda mai d'aver a far soggiorno
378 in mano a i dotti e a la futura gente;
anzi avrà cuna e tomba in un sol giorno.
Chi stampa avverta ch'a l'oblio non sono
381 né barche né cavalli di ritorno.
Componimento v'è ch'a primo suono
letto da chi 'l compose fa schiamazzo,
384 che sotto gl<i> occhi poi non è più buono;
eppure il mondo è sì balordo e pazzo
e fatti ha gli occhi così ignorantoni
387 che non scerne dal rosso il paonazzo:
aplaude a i Bavi, a i Mevî arciasinoni,
che non avendo letto altro che Dante
390 voglion far sopra i Tassi i Salomoni;
e con censura sciocca et arrogante
al poema imortal del gran Torquato
393 di contraporre ardiscono il Morgante.
O troppo ardito stuol, mal consigliato!
Ch'un ottuso cervel voglia trafiggere
396 chi men degli altri in poetare ha errato!
Non t'incruscar tant'oltre e non t'afliggere
de' carmi altrui ch'il tuo latrar non muove:
399 se Infarinato sei, vatti a far friggere.
Son degli scarafaggi usate prove,
d'aquila i parti a invidiar rivolti,
402 il portar gli escrementi in grembo a Giove;
anco a la prisca età furono molti
che posposer l'Eneide a i versi d'Ennio:
405 secolo non fu mai privo di stolti.
Torno, o poeti, a voi. Dentro un biennio,
ben ch'avezzo con Verre, i furti vostri
408 non conterebbe il retore d'Erennio.
O vergogna, o rossor de' tempi nostri:
i sughi espressi da l'altrui fatiche
411 servono oggi di balsami e d'inchiostri!
Credonsi di celar queste formiche,
ch'han per musa e per dio segio e taverna,
414 il gran rubato a le raccolte antiche;
e senza adoperar staccio o lanterna
si distingue con breve osservazione
417 la farina ch'è vecchia e par moderna.
Raro è quel libro che non sia un centone
di cose a questo e a quel tolte e rapite
420 sotto pretesto d'imitazione.
Aristofane, Orazio, ove sète ite
anime grandi? Ah, per pietade, un poco
423 fuor de' sepolcri a questa luce uscite.
Oh con quanta ragion vi chiamo e invoco!
Ché s'oggi i furti recitar volessi,
426 Aristofane mio, verresti roco;
Orazio, e tu se questi autor leggessi
oh come grideresti: (r)Or sì ch'a i panni
429 gli stracci illustri son cuciti spessi¯!
Ché, non badando al variar degli anni,
con la porpora greca e la latina
432 fansi i vestiti da secondi Zanni.
Gl'imitatori, in questa età meschina,
che battezzasti già (r)pecore serve¯,
435 chiameresti uccellacci di rapina.
De le cose già dette ognun si serve
non già per imitarle, ma di peso
438 le trascrivon per sue penne proterve;
e questa gente a travestirsi ha preso
perché ne' propri cenci ella s'avede
441 ch'in Pindo le saría l'andar conteso.
Per vivere imortal dansi a le prede,
senza pena però, le genti accorte,
444 ché per vivere il furto si concede.
Né senza questo ancora han tutti i torti:
non s'apprezzano i vivi e non si citano
447 e passan sol l'autorità de' morti;
e, se citati son, gli scherni inritano,
né s'han per penne degne e teste gravi
450 quei che su i testi vecchi non s'aítano.
Povero mondo mio, sono i tuoi bravi
chi svaligia il compagno e chi produce
453 le sentenze furate a i padri e a gli avi,
e ne le stampe sol vive e riluce
chi senza discrezion truffa e rubacchia,
456 e chi le carte altrui spoglia e traduce;
quindi taluno insuperbisce e gracchia
che, s'avesse a depor le penne altrui,
459 resterebbe d'Esopo la cornacchia.
Stampati i versi, e non si sa da cui,
e se bene a la moda ognun li guarda,
462 si rinfaccian tra lor (r)tu fosti, io fui¯.
Per i moderni la fama è infingarda,
per gli antichi non ha stanchezza alcuna:
465 ogni peto, ogni accento è una bombarda.
La fama, in somma, è un colpo di fortuna:
Borchiello e Jacopone hanno il comento,
468 cotanto il mondo è regolato a luna!
Escono ognor cento bestiacce e cento
che sol ne' libri altrui da l'anticaglia
471 del saper, del valor fanno argomento.
Ama questa dottissima canaglia
i rancidumi, e in Pindo mai non beve
474 se di vieto non sa l'onda castaglia;
nessuno stile è ponderoso e greve
se tarlate e stantie non ha le forme,
477 e li dan vita momentanea e lieve.
Non biasmo io già chi per esempii e norme
prende il Lazio e la Grecia; anch'io devoto
480 le lor memorie adoro e bacio l'orme;
dico di quei che sol di fango e loto
usan certi modacci a la dantesca
483 e speran di fuggir la man di Cloto.
Di barbarie servile e pedantesca
la di lor poesia cotanto è carca
486 ch'assai più dolce è una canzon tedesca;
ma questa il ciglio molto più m'inarca:
non è con loro alcuna voce etrusca
489 se non è nel Boccaccio o nel Petrarca.
E mentre vanno di parole in busca,
i toscani mugnai legislatori
492 li trattano da porci con la Crusca;
usan cotanti scrupoli e rigori
sopra una voce, e poi non si vergognano
495 di mille sciocchi e madornali errori.
Sotto le stampe va ciò che si sognano
senza che si riveda e che s'emendi,
498 perché solo a far grosso il libro agognano;
e se un'opera loro in man tu prendi,
mentre il iam satis ritrovar vorresti,
501 vedi per tutto il quidlibet audendi.
Sotto nomi speciosi e manti onesti,
per occultar le presunzion ventose,
504 porta in fronte ogni libro i suoi pretesti:
chi dice che scorrette e licenziose
andavan le sue figlie e però vuole
507 maritarle co' torchi e farle spose;
un altro poscia si lamenta e duole
ch'un amico gli tolse la scrittura
510 e l'ha contro sua voglia esposta al sole;
quest'ampiamente si dichiara e giura
che, visti i parti suoi stroppiati e offesi,
513 per paterna pietà ne tolse cura;
questi, che per diletto i versi ha presi
per sottrarsi dal sonno i giorni estivi
516 e ch'ha fatto quel libro in quattro mesi.
Oh che scuse affettate, oh che motivi!
Son figlie d'ambizion queste modestie:
519 perché ti stimi assai così tu scrivi.
Ma peggio v'è: con danni e con molestie
s'ascoltan per gli studii e ne' collegi
522 leggere al mondo umanità le bestie.
Stolidezza de' principi e de' regi,
che senza distinzion mandan del pari
525 con gl'ingegni plebei gl'ingegni egregi!
Qual maraviglia è poi che non s'impari?
Se i maestri son bufali ignoranti,
528 che possono insegnare a gli scolari?
E son forzati i miseri studianti,
di Quintiliano in cambio e <di> Gorgía,
531 sentir ragliare in cattedra i pedanti.
Da questo avvien ch'Euterpe e che Talia
sono state stroppiate; ognun prosume
534 in Pindo andar senza saper la via,
ché, de le scorte loro al cieco lume
mentre van dietro, d'Aganippe in vece
537 son condotti di Lete in riva al fiume.
Di questi sì che veramente lece
affermar, come io lessi in un capitolo,
540 ch'han le lettre attaccate con la pece!
Io non voglio svoltar tutto il gomitolo
di certi cervellacci pellegrini
543 che studian solamente a fare il titolo;
onde i lor libri, con quei nomi fini,
a prima faccia sembran titolati,
546 ch'esaminati poi son contadini.
Né potendo aspettar d'esser lodati
dal giudizio comune, escono alteri
549 da sonetti e canzoni accompagnati,
e n'empion da se stessi i fogli interi
sotto nome d'Incognito e d'Incerto,
552 e si dan de' Vergilî e de gli Omeri.
V'è poi talun, ch'avendo l'occhio aperto,
rifiuta i primi parti co' secondi
555 e così da un error l'altro è scoverto.
Ma non so se più matti o se più tondi
si sian nel fare i libri o in dedicarli,
558 se di più errori o adulazion fecondi.
Di tempo o di destin più non si parli:
la colpa è lor se, non sapendo eleggere,
561 sen van per esca a i ragnateli e a i tarli.
Lor, non l'età, bisognería correggere,
che invece di lodare i Tolomei
564 fanno i poemi a quei che non san leggere,
e insino a i Battriani e i figulei
comprano da costor per quattro giulii
567 titol di mecenati e semidei.
Un poeta non c'è che non aduli,
e col Samosateno e con il Ceo
570 si mettono a cantar gli asini e i muli;
e con poche monete un uom plebeo,
degno d'esser cantato in archiloici,
573 fa di sé rimbombar l'Ebro e 'l Peneo,
ché, dei cinici ad onta e degli stoici,
senza temer le lingue de' satirici,
576 s'inalzano i Tiberî in versi eroici;
e ugualmente da tragici e da lirici
si fanno celebrare e Claudio e Vaccia,
579 e v'è chi per un pan fa panegirici.
A fabricare eloggi ognun si sbraccia
e in fine a gli scolar s'odon de' Socrati
582 i tiranni adulare a faccia a faccia;
in lodar la virtù son tutti Arpocrati,
e di Busire poi per avarizia
585 i Policrati scrivono e gli Isocrati.
Termine omai non ha questa malizia
e dietro a Glauco per impir la pancia
588 tesson gli encomi insino a l'ingiustizia;
se vivesse colui che la bilancia
non ben certa d'Astrea ridusse uguale,
591 a quanti sgraffiaría gli occhi e la guancia!
Non vi stupite poi se 'l gran morale
lusinghieri vi nomina e bugiardi,
594 e Democrito zucche senza sale.
Di Sparta già quegli animi gagliardi
da la cità per publico partito
597 scacciâro i cuocchi e voi per infingardi;
e ciò con gran ragion fu stabilito;
poiché se quelli incitano il palato
600 attendon questi a lusingar l'udito.
L'istesso Omer da l'attico senato
(de' poeti il maestro, il padre, il dio)
603 fu tenuto per pazzo e condendato.
Oh risorgesse Atene al secol mio,
che seppe già con adeguata pena
606 a i Demagori fa' pagare il fio!
Loda i Tersiti Favorino, e a pena
a i principi moderni un figlio nasce,
609 ch'in augurî i cantor stancan la vena:
quando Cinzia falcata in ciel rinasce
ha da servir per cuna, e col Zodiaco
612 hanno insieme le Zone a far le fasce;
quanti dal messicano a l'egiziaco
fiumi nobili son, quanti il gangetico
615 lido ne spinge al mar, quanti il siriaco,
tanti invocando va l'umor poetico
a battezzar talun, che per politica
618 cresce e vive ateista o muore eretico;
e canta, in vece di adoprar la critica,
ch'ei porterà la trionfante croce
621 per la terra giudea, per la menfitica;
che da la Tule a la tirinzia foce
reciderà le redivive teste
624 de l'eresia crescente a l'idra atroce;
che, tralasciata la maggion celeste,
ricalcheran gli abandonati calli
627 con Astrea le Virtù profughe e meste.
Per inalzare a un re statue e cavalli
ha fatto insino un certo letterato
630 sudare i fuochi a liquefar metalli,
e un altro, per lodar certo soldato,
dopo aver detto un Ercole secondo
633 et averlo ad un Marte assomigliato,
non parendoli aver toccato il fondo
soggiunse, e pose un po' più su la mira:
636 a i bronzi tuoi serva di palla il mondo.
Oh bestialità! Come delira
l'umana mente! Né a guarirla basta
639 quant'elebero nasce in Anticira.
Divina verità, quanto sei guasta
da questi scioperati animi indegni,
642 che del falso e del ver fanno una pasta!
Predican per Atlanti e per sostegni
della terra cadente uomini tali
645 che son rovina poi di stati e regni.
S'un principe s'ammoglia, oh quanti, oh quali
si lasciano veder subito in flotta
648 epitalami e cantici nuziali!
Ogni poema poi mostra incorrotta
di qualche grande la genealogia,
651 dipinta in uno scudo o in qualche grotta;
e quel che fa spiccar questa pazzia
è che la razza effigiata e scolta
654 dichiaran sempre i magi in profezia.
Ma s'è in costoro ogni virtute accolta
come dite, o poeti, ond'è che ognuno
657 vi mira ignudi e lamentarvi ascolta?
Se senza aita uno scrittor digiuno
piange, questi non han virtude, o vero
660 quel letterato è querulo o importuno.
Deh cangiate oramai stile e pensiero
e tralasciate tanta sfacciataggine:
663 detti a un giusto furore i carmi il vero.
Chiamate a dire il ver Sunio o Timagine
già che l'uom fra gli obbrobrî oggi s'alleva,
666 né timor vi ritenga o infingardaggine;
dite di non saper qual più riceva
seguaci, o l'Alcorano od il Vangelo,
669 o la strada di Roma o di Geneva;
dite che de la fede è spento il zelo
e ch'a prezzo d'un pan vender si vede
672 l'onor, la libertà, l'anima, il cielo;
che per tutto interesse ha posto il piede,
che da la Tartaría fino a la Betica
675 l'infame tirannia fissa ha la sede;
ch'ogni grande a far or suda e frenetica,
e ch'han fatta nel cor sì dura cotica
678 che la coscienza più non li solletica.
Deh prendete, prendete in man la scotica,
serrate gli occhi, et a chi tocca tocca:
681 provi il flagel questa canaglia zotica!
Tempo è omai ch'Angerona apri la bocca
a rinovare i Saturnali antichi,
684 ché dai limiti il mal passa e trabocca.
Uscite fuor de' favolosi intrichi,
accordate le cetre a i pianti, a i gridi
687 di tanti orfani, vedove e mendichi;
dite senza timor gli orrendi stridi
de la terra ch'in van geme abbattuta,
690 spolpata affatto da' tiranni infidi;
dite la vita infame e dissoluta
che fanno tanti Roboam moderni,
693 la giustizia o negata o rivenduta;
dite ch'a i tribunali e ne' governi
si mandan sempre gli avoltoi rapaci;
696 dite l'oppression, dite gli scherni,
dite l'usure e tirannie voraci
che fa sopra di noi la turba immensa
699 de' vivi Faraoni e de gli Arsaci;
dite che sol da' principi si pensa
a bandir pesche e cacce, onde gli avari
702 su la fame comune alzan la mensa;
che con muri, con fossi e con ripari,
ad onta de le leggi di natura,
705 chiuse han le selve e confiscati i mari;
e ch'oltre a i danni di tempeste e arsura
un pover galantuom ch'ha quattro zolle
708 le paga al suo signor mezz'in usura;
dite che v'è talun sì crudo e folle
che, se ben de' vassalli il sangue ingoia,
711 l'ingorde voglie non ha mai satolle;
dite che nel veder ognun s'annoia
ripiene le cità di malfattori,
714 e non esserci poi un solo boia;
ch'ampio asilo per tutto hanno gl<i> errori
e che con danno e publico cordoglio
717 mai si vedon puniti i traditori,
e ch'ad ogn'or degl<i> Epuloni al soglio
i Lazzari cadenti e semivivi
720 mangian pane di segala e di gioglio;
dite ch'il sangue giusto inonda i rivi,
ch'esenti da la pena in faccia al cielo
723 son gl'iniqui, et i rei felici e vivi.
Queste cose v'inspiri un santo zelo,
né state a dir quanto diletta e piace
726 chioma dorata sotto un bianco velo.
A che frutta il cantar Cinzia e Salmace
e di Da[s]fne la fuga o di Siringa,
729 i lamenti di Croco e di Smillace?
Più sublime materia un dì vi spinga
e si tralasci andar buggie cercando,
732 né più follie Genio o Murcea vi finga.
E chi gli anni desía passar cantando
lodi Vetturî invece di Battilli,
735 sante sapienze e non pazzie d'Orlando,
ch'omai le valli al risonar di Filli
vedon sazie di pianti, e di sospiri
738 i sentieri d'Aminta e d'Amarilli.
Per i vestiggi de gl<i> altrui deliri
ognun Clori ha nel cor, Lilla ne' labri,
741 ognun canta di spene e di martíri;
imitan tutti, ben che rozzi e scabri,
Properzio, Alceo, Calimaco e Catullo,
744 d'amorose follie maestri e fabri;
stilla l'ingegno a divenir trastullo
degl<i> uomini da bene e ognuno attiensi
747 al suon d'Anacreonte e di Tibullo;
d'incontinente ardor gl<i> Ovidî accensi
vergan d'affetti rei fogli lascivi
750 a stuzzicare, a impottanire i sensi,
e da gli scritti lor vani e nocivi,
ne le scuole cinnarie e di Cupido,
753 studian le Frine a spellacchiar corrivi.
Perché diletti più, l'onesta Dido
si finge una sgualdrina e per le chiese
756 serve d'offiziolo il Pastor fido.
Da qual donzella non son oggi intese
le Priapee, e a chi non piace e alletta
759 l'opre ben ch'impudiche e le sospese?
De' versi fescennini ognun fa incetta
e di Curzio la sordida Moneide
762 si vede sempre mai letta e riletta;
son gl'ingegni oggidì da far Eneide
quei che premendo di Saffone i calli
765 scrivono la Vendemia e la Merdeide!
I lascivi fallofori e i tifalli
con inni scellerati e laude oscene
768 si tiran dietro i vil Menandri e i Galli.
Di voi, sacre Pimplee, timor mi tiene
mentre vi veggo sdrucciolare in chiasso
771 al pazzo arbitrio di chi va e chi viene;
l'orecchio aver bisognería di sasso
per non sentir l'oscenità de' motti
774 ch'usan nel conversar sboccato e grasso.
Son questi insin nei pulpiti introdotti,
dond'è forzato un cristian che ingozzi
777 le facezie dei mimi e degli arlotti;
miseria in ver da piangere a signozzi
che, al par de' palchi omai de' saltimbanchi,
780 vanta il pergamo ancora i suoi Scatozzi.
Quando omai di cantar sarete stanchi
di donne, cavalier, d'arme e d'amore,
783 sprone d'impudicizie agli altrui fianchi?
A che mandar tante ignominie fuore
e far pretesti tutto quanto il die
786 che, s'oscena è la penna, è casto il core?
Tempi questi non son d'allegorie;
l'età che corre di tre cose è infetta:
789 di malizie, ignoranze e poesie.
Ho sentito contar che fu un trombetta
preso una volta da' nemici in campo
792 mentre stava sonando a la veletta;
il qual, per ritrovar riparo e scampo,
dicea che solamente egli sonava
795 e ch'il suo ferro mai non tinse il campo.
Gli fu risposto allor ch'ei meritava
magior pena però, poiché sonando
798 a le straggi, al furor gli altri inritava.
Intendetemi voi, voi che cantando
sète caggion che la pietà vacilla
801 e 'l timore di Dio si ponga in bando:
da voi, da voi ne gli animi si stilla
la peste d'infinite corruttele,
804 agl'incendî voi dat'esca e favilla!
Basta dir che da un fiore tòsco e mèle
trae, secondo gl'instinti o buoni o rei,
807 ape benigna e vipera crudele.
O empi, o iniqui e quattro volte e sei:
pormi il tòsco a le labra e poi, s'io pèro,
810 dir che maligni fûr gli affetti miei!
Questo è paralogismo mensognero:
non è simile al fiore il verso osceno,
813 né men l'ape e la vipera al pensiero;
non racchiudon quei fiori il tòsco in seno,
ma sono indifferenti: a i vostri versi
816 è qualitade intrinseca il veleno;
né l'ape o 'l serpe trae dai fiori aspersi
il tòsco o 'l mèl per ellezion: natura
819 gli sforza ad opre varie, atti diversi.
Ma l'alma, ch'è di Idio copia e figura,
libera nacque e non soggiace a forza,
822 ben che legata in questa spoglia impura;
opera in sua ragione, e nulla sforza
l'arbitrio suo, che volontario elegge
825 ciò ch'essa fa ne la terrena scorza;
ma perché danno a lei consiglio e legge,
nel conoscer le cose, i sensi frali,
828 facilmente ella cade e mal si regge:
e voi, sirene perfide e infernali,
le fabricate con un rio diletto
831 il precepizio al piede e 'l visco all'ali.
Non ha la poesia più d'un oggetto;
il dilettare è un mezzo: ella ha per fine
834 sedar la mente e moderar l'affetto;
ella prima adolcì l'alme ferine,
e n'insegnò, soave allettatrice,
837 con le favole sue l'opre divine;
ella, figlia di Idio, mostrò felice
il suo fattore al mondo, e poscia adulta
840 fu di filosofia madre e nutrice.
E in vece d'essere oggi ornata e culta
di dottrine santissime, disposti
843 son sempre i vizî e la ragion sepulta;
anzi, con esecrandi contraposti,
oggi il dar del divino è cosa trita
846 a gli sporchi Aretini, a gli Ariosti.
Dunque chi più la mente al vizio incíta
avrà titol celeste? Ah venghi meno,
849 e vanità sì rea resti sopita!
Udite un Agostin, di Dio ripieno,
ch'ebri d'eror vi publica e palesa,
852 e sacrileghi e pazzi un Damasceno.
L'iniqua poesia la traccia ha presa
de gli empii Macchiavelli e de gli Erasmi,
855 e di chi separò Cristo e la Chiesa.
A che vantar dal ciel gl<i> entusiasmi,
se con maniera poi profana e ria
858 da miniere d'onor traete i biasmi?
Scrivere a voi non par con leggiadria,
buffonacci superbi et ateisti,
861 se non entrate in chiasso o in sacrestia.
D'alme ingannate fa maggiori acquisti
per opra vostra il popolato inferno:
864 così Parnaso ancora ha gli Antecristi.
Pensate forse ch'il flagello eterno
non punisca le colpe, o pur credete
867 che de gli eventi il caso abbia il governo?
Se la galea, gl<i> essigli e le secrete
e se la forca aprì l'ultima scena
870 a i poeti giammai, ben lo sapete;
sfregiato il volto e livida la schiena,
a quanti han fatto dir con quel di Sorga
873 ch'il furor letterato a guerra mena!
Deh cangiate tenore e 'l mondo scorga
candor su i vostri fogli, e maestosa
876 la già morta pietade in voi risorga;
sia dolce il vostro stile, onde gioiosa
corra la terra a lui, ma serba intanto
879 fra il dolce suo la medicina ascosa;
sia vago perché alletti, e casto e santo
perché insegni al costume: è sol perfetto
882 quando diletta et ammaestra il canto;
sia del vostro sudor virtù l'oggetto,
ché mentre queste atrocità cantate
885 d'un insano furor v'infiamma Aletto,
ché se gli allori e l'edere v'han date
è perché avete in testa un gran rottorio
888 e i fulmini dal cielo in voi chiamate.
E poi, che giova aver plettro d'avorio
se quasi ogni poeta in grembo al duolo
891 a le fatiche sue canta il mortorio?
A che di libri più crescer lo stuolo?
Pur ch'insegnasse a vivere e a morire,
894 soverchiarebbe al mondo un libro solo.
Rimoderate dunque il vostro ardire,
ché rarissimi son quei che si leggono
897 et uno in mille ne suol riuscire;
a l'imortalità tutti non reggono:
fra le tarme e di polvere coperti,
900 i libri et i libei marcir si veggono.
La vostra fama è dubia, i biasmi certi,
e in questi tempi sordidi et ingiusti
903 pronti so' i Galbi, e i Mecenati incerti,
poiché a scorno d'i principi vetusti
in vece di Catoni e Anasimandri
906 s'amano gl'ignoranti e i bellimbusti;
e son gli Efestion degli Alesandri
i becchi e i parasiti indegni e vili,
909 e prezzati i Taurei più che i Lisandri;
e in cambio degli Orazi e de' Vergilî
danzano in corte baldanzosi e lieti
912 i branchi de' Clisofi e de' Crobili.
Stiman più i regi stolidi e indiscreti
d'un'istriona un trillo, una cadenza,
915 ch'i sudori de' saggi e de' poeti;
spenta già di quei grandi è la semenza
che in distinguere usâro ogni sapere
918 da i marroni a i Maron la differenza.
Non speri il mondo più di rivedere
l'eroe di Pella, che dormir fu visto
921 e de l'opre d'Omer farsi origliere;
de' dotti ognuno allor giva provvisto,
e vantava Artaserse un grand'impero
924 quando facea d'un letterato acquisto.
L'istesso Dionisio, ancor ch'altero,
per le publiche vie di Siracusa
927 a Platon fe' da servo e da cocchiero.
Ma dove, dove mi trasporti, o Musa?
Orecchio ha il mondo sol per Lesbia e Taide:
930 ragion<ar> di virtude oggi non s'usa.
Solo invaghita di Giacinto e Laide,
stufa è di versi quest'età che corre:
933 secoli da fuggir ne la Tebaide,
tempi più da tacer che da comporre.

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 09/07/05 14.49.36

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