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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Canti

di: Giacomo Leopardi

XXVII - AMORE E MORTE

XXVIII - A SE STESSO

XXIX -  ASPASIA

XXX - SOPRA UN BASSORILIEVO ANTICO SEPOLCRALE, DOVE UNA GIOVANE MORTA È RAPPRESENTATA IN ATTO DI PARTIRE, ACCOMIATANDOSI DAI SUOI

XXXI -  SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA

XXXIII -  IL TRAMONTO DELLA LUNA

 

XXVII

AMORE E MORTE

Muor giovane colui ch'al cielo è caro

MENANDRO

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte

Ingenerò la sorte.

Cose quaggiù sì belle

Altre il mondo non ha, non han le stelle.

Nasce dall'uno il bene,

Nasce il piacer maggiore

Che per lo mar dell'essere si trova;

L'altra ogni gran dolore,

Ogni gran male annulla.

Bellissima fanciulla,

Dolce a veder, non quale

La si dipinge la codarda gente,

Gode il fanciullo Amore

Accompagnar sovente;

E sorvolano insiem la via mortale,

Primi conforti d'ogni saggio core.

Né cor fu mai più saggio

Che percosso d'amor, né mai più forte

Sprezzò l'infausta vita,

Né per altro signore

Come per questo a perigliar fu pronto:

Ch'ove tu porgi aita,

Amor, nasce il coraggio,

O si ridesta; e sapiente in opre,

Non in pensiero invan, siccome suole,

Divien l'umana prole.

Quando novellamente

Nasce nel cor profondo

Un amoroso affetto,

Languido e stanco insiem con esso in petto

Un desiderio di morir si sente:

Come, non so: ma tale

D'amor vero e possente è il primo effetto.

Forse gli occhi spaura

Allor questo deserto: a sé la terra

Forse il mortale inabitabil fatta

Vede omai senza quella

Nova, sola, infinita

Felicità che il suo pensier figura:

Ma per cagion di lei grave procella

Presentendo in suo cor, brama quiete,

Brama raccorsi in porto

Dinanzi al fier disio,

Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.

Poi, quando tutto avvolge

La formidabil possa,

E fulmina nel cor l'invitta cura,

Quante volte implorata

Con desiderio intenso,

Morte, sei tu dall'affannoso amante!

Quante la sera, e quante,

Abbandonando all'alba il corpo stanco,

Sé beato chiamò s'indi giammai

Non rilevasse il fianco,

Né tornasse a veder l'amara luce!

E spesso al suon della funebre squilla,

Al canto che conduce

La gente morta al sempiterno obblio,

Con più sospiri ardenti

Dall'imo petto invidiò colui

Che tra gli spenti ad abitar sen giva.

Fin la negletta plebe,

L'uom della villa, ignaro

D'ogni virtù che da saper deriva,

Fin la donzella timidetta e schiva,

Che già di morte al nome

Sentì rizzar le chiome,

Osa alla tomba, alle funeree bende

Fermar lo sguardo di costanza pieno,

Osa ferro e veleno

Meditar lungamente,

E nell'indotta mente

La gentilezza del morir comprende.

Tanto alla morte inclina

D'amor la disciplina. Anco sovente,

A tal venuto il gran travaglio interno

Che sostener nol può forza mortale,

O cede il corpo frale

Ai terribili moti, e in questa forma

Pel fraterno poter Morte prevale;

O così sprona Amor là nel profondo,

Che da se stessi il villanello ignaro,

La tenera donzella

Con la man violenta

Pongon le membra giovanili in terra.

Ride ai lor casi il mondo,

A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.

Ai fervidi, ai felici,

Agli animosi ingegni

L'uno o l'altro di voi conceda il fato,

Dolci signori, amici

All'umana famiglia,

Al cui poter nessun poter somiglia

Nell'immenso universo, e non l'avanza,

Se non quella del fato, altra possanza.

E tu, cui già dal cominciar degli anni

Sempre onorata invoco,

Bella Morte, pietosa

Tu sola al mondo dei terreni affanni,

Se celebrata mai

Fosti da me, s'al tuo divino stato

L'onte del volgo ingrato

Ricompensar tentai,

Non tardar più, t'inchina

A disusati preghi,

Chiudi alla luce omai

Questi occhi tristi, o dell'età reina.

Me certo troverai, qual si sia l'ora

Che tu le penne al mio pregar dispieghi,

Erta la fronte, armato,

E renitente al fato,

La man che flagellando si colora

Nel mio sangue innocente

Non ricolmar di lode,

Non benedir, com'usa

Per antica viltà l'umana gente;

Ogni vana speranza onde consola

Se coi fanciulli il mondo,

Ogni conforto stolto

Gittar da me; null'altro in alcun tempo

Sperar, se non te sola;

Solo aspettar sereno

Quel dì ch'io pieghi addormentato il volto

Nel tuo virgineo seno.

XXVIII

A SE STESSO

Or poserai per sempre,

Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,

Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,

In noi di cari inganni,

Non che la speme, il desiderio è spento.

Posa per sempre. Assai

Palpitasti. Non val cosa nessuna

I moti tuoi, né di sospiri è degna

La terra. Amaro e noia

La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.

T'acqueta omai. Dispera

L'ultima volta. Al gener nostro il fato

Non donò che il morire. Omai disprezza

Te, la natura, il brutto

Poter che, ascoso, a comun danno impera,

E l'infinita vanità del tutto.

XXIX

ASPASIA

Torna dinanzi al mio pensier talora

Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo

Per abitati lochi a me lampeggia

In altri volti; o per deserti campi,

Al dì sereno, alle tacenti stelle,

Da soave armonia quasi ridesta,

Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina

Quella superba vision risorge.

Quanto adorata, o numi, e quale un giorno

Mia delizia ed erinni! E mai non sento

Mover profumo di fiorita piaggia,

Né di fiori olezzar vie cittadine,

Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno

Che ne' vezzosi appartamenti accolta,

Tutti odorati de' novelli fiori

Di primavera, del color vestita

Della bruna viola, a me si offerse

L'angelica tua forma, inchino il fianco

Sovra nitide pelli, e circonfusa

D'arcana voluttà; quando tu, dotta

Allettatrice, fervidi sonanti

Baci scoccavi nelle curve labbra

De' tuoi bambini, il niveo collo intanto

Porgendo, e lor di tue cagioni ignari

Con la man leggiadrissima stringevi

Al seno ascoso e disiato. Apparve

Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio

Divino al pensier mio. Così nel fianco

Non punto inerme a viva forza impresse

Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto

Ululando portai finch'a quel giorno

Si fu due volte ricondotto il sole.

Raggio divino al mio pensiero apparve,

Donna, la tua beltà. Simile effetto

Fan la bellezza e i musicali accordi,

Ch'alto mistero d'ignorati Elisi

Paion sovente rivelar. Vagheggia

Il piagato mortal quindi la figlia

Della sua mente, l'amorosa idea,

Che gran parte d'Olimpo in sé racchiude,

Tutta al volto ai costumi alla favella

Pari alla donna che il rapito amante

Vagheggiare ed amar confuso estima.

Or questa egli non già, ma quella, ancora

Nei corporali amplessi, inchina ed ama.

Alfin l'errore e gli scambiati oggetti

Conoscendo, s'adira; e spesso incolpa

La donna a torto. A quella eccelsa imago

Sorge di rado il femminile ingegno;

E ciò che inspira ai generosi amanti

La sua stessa beltà, donna non pensa,

Né comprender potria. Non cape in quelle

Anguste fronti ugual concetto. E male

Al vivo sfolgorar di quegli sguardi

Spera l'uomo ingannato, e mal richiede

Sensi profondi, sconosciuti, e molto

Più che virili, in chi dell'uomo al tutto

Da natura è minor. Che se più molli

E più tenui le membra, essa la mente

Men capace e men forte anco riceve.

Né tu finor giammai quel che tu stessa

Inspirasti alcun tempo al mio pensiero,

Potesti, Aspasia, immaginar. Non sai

Che smisurato amor, che affanni intensi,

Che indicibili moti e che deliri

Movesti in me; né verrà tempo alcuno

Che tu l'intenda. In simil guisa ignora

Esecutor di musici concenti

Quel ch'ei con mano o con la voce adopra

In chi l'ascolta. Or quell'Aspasia è morta

Che tanto amai. Giace per sempre, oggetto

Della mia vita un dì: se non se quanto,

Pur come cara larva, ad ora ad ora

Tornar costuma e disparir. Tu vivi,

Bella non solo ancor, ma bella tanto,

Al parer mio, che tutte l'altre avanzi.

Pur quell'ardor che da te nacque è spento:

Perch'io te non amai, ma quella Diva

Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.

Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque

Sua celeste beltà, ch'io, per insino

Già dal principio conoscente e chiaro

Dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi,

Pur ne' tuoi contemplando i suoi begli occhi,

Cupido ti seguii finch'ella visse,

Ingannato non già, ma dal piacere

Di quella dolce somiglianza un lungo

Servaggio ed aspro a tollerar condotto.

Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola

Sei del tuo sesso a cui piegar sostenni

L'altero capo, a cui spontaneo porsi

L'indomito mio cor. Narra che prima,

E spero ultima certo, il ciglio mio

Supplichevol vedesti, a te dinanzi

Me timido, tremante (ardo in ridirlo

Di sdegno e di rossor), me di me privo,

Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto

Spiar sommessamente, a' tuoi superbi

Fastidi impallidir, brillare in volto

Ad un segno cortese, ad ogni sguardo

Mutar forma e color. Cadde l'incanto,

E spezzato con esso, a terra sparso

Il giogo: onde m'allegro. E sebben pieni

Di tedio, alfin dopo il servire e dopo

Un lungo vaneggiar, contento abbraccio

Senno con libertà. Che se d'affetti

Orba la vita, e di gentili errori,

È notte senza stelle a mezzo il verno,

Già del fato mortale a me bastante

E conforto e vendetta è che su l'erba

Qui neghittoso immobile giacendo,

Il mar la terra e il ciel miro e sorrido.

XXX

SOPRA UN BASSORILIEVO ANTICO SEPOLCRALE,

DOVE UNA GIOVANE MORTA

È RAPPRESENTATA IN ATTO DI PARTIRE,

ACCOMIATANDOSI DAI SUOI

Dove vai? chi ti chiama

Lunge dai cari tuoi,

Bellissima donzella?

Sola, peregrinando, il patrio tetto

Sì per tempo abbandoni? a queste soglie

Tornerai tu? farai tu lieti un giorno

Questi ch'oggi ti son piangendo intorno?

Asciutto il ciglio ed animosa in atto,

Ma pur mesta sei tu. Grata la via

O dispiacevol sia, tristo il ricetto

A cui movi o giocondo,

Da quel tuo grave aspetto

Mal s'indovina. Ahi ahi, né già potria

Fermare io stesso in me, né forse al mondo

S'intese ancor, se in disfavore al cielo,

Se cara esser nomata,

Se misera tu debbi o fortunata.

Morte ti chiama; al cominciar del giorno

L'ultimo istante. Al nido onde ti parti,

Non tornerai. L'aspetto

De' tuoi dolci parenti

Lasci per sempre. Il loco

A cui movi, è sotterra:

Ivi fia d'ogni tempo il tuo soggiorno.

Forse beata sei; ma pur chi mira,

Seco pensando, al tuo destin, sospira.

Mai non veder la luce

Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo

Che reina bellezza si dispiega

Nelle membra e nel volto,

Ed incomincia il mondo

Verso lei di lontano ad atterrarsi;

In sul fiorir d'ogni speranza, e molto

Prima che incontro alla festosa fronte

I lùgubri suoi lampi il ver baleni;

Come vapore in nuvoletta accolto

Sotto forme fugaci all'orizzonte,

Dileguarsi così quasi non sorta,

E cangiar con gli oscuri

Silenzi della tomba i dì futuri,

Questo se all'intelletto

Appar felice, invade

D'alta pietade ai più costanti il petto.

Madre temuta e pianta

Dal nascer già dell'animal famiglia,

Natura, illaudabil maraviglia,

Che per uccider partorisci e nutri,

Se danno è del mortale

Immaturo perir, come il consenti

In quei capi innocenti?

Se ben, perché funesta,

Perché sovra ogni male,

A chi si parte, a chi rimane in vita,

Inconsolabil fai tal dipartita?

Misera ovunque miri,

Misera onde si volga, ove ricorra,

Questa sensibil prole!

Piacqueti che delusa

Fosse ancor dalla vita

La speme giovanil; piena d'affanni

L'onda degli anni; ai mali unico schermo

La morte; e questa inevitabil segno,

Questa, immutata legge

Ponesti all'uman corso. Ahi perché dopo

Le travagliose strade, almen la meta

Non ci prescriver lieta? anzi colei

Che per certo futura

Portiam sempre, vivendo, innanzi all'alma,

Colei che i nostri danni

Ebber solo conforto,

Velar di neri panni,

Cinger d'ombra sì trista,

E spaventoso in vista

Più d'ogni flutto dimostrarci il porto?

Già se sventura è questo

Morir che tu destini

A tutti noi che senza colpa, ignari,

Né volontari al vivere abbandoni,

Certo ha chi more invidiabil sorte

A colui che la morte

Sente de' cari suoi. Che se nel vero,

Com'io per fermo estimo,

Il vivere è sventura,

Grazia il morir, chi però mai potrebbe,

Quel che pur si dovrebbe,

Desiar de' suoi cari il giorno estremo,

Per dover egli scemo

Rimaner di se stesso,

Veder d'in su la soglia levar via

La diletta persona

Con chi passato avrà molt'anni insieme,

E dire a quella addio senz'altra speme

Di riscontrarla ancora

Per la mondana via;

Poi solitario abbandonato in terra,

Guardando attorno, all'ore ai lochi usati

Rimemorar la scorsa compagnia?

Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre

Di strappar dalle braccia

All'amico l'amico,

Al fratello il fratello,

La prole al genitore,

All'amante l'amore: e l'uno estinto,

L'altro in vita serbar? Come potesti

Far necessario in noi

Tanto dolor, che sopravviva amando

Al mortale il mortal? Ma da natura

Altro negli atti suoi

Che nostro male o nostro ben si cura.

XXXI

SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA

SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE

DELLA MEDESIMA

Tal fosti: or qui sotterra

Polve e scheletro sei. Su l'ossa e il fango

Immobilmente collocato invano,

Muto, mirando dell'etadi il volo,

Sta, di memoria solo

E di dolor custode, il simulacro

Della scorsa beltà. Quel dolce sguardo,

Che tremar fe', se, come or sembra, immoto

In altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto

Par, come d'urna piena,

Traboccare il piacer; quel collo, cinto

Già di desio; quell'amorosa mano,

Che spesso, ove fu porta,

Sentì gelida far la man che strinse;

E il seno, onde la gente

Visibilmente di pallor si tinse,

Furo alcun tempo: or fango

Ed ossa sei: la vista

Vituperosa e trista un sasso asconde.

Così riduce il fato

Qual sembianza fra noi parve più viva

Immagine del ciel. Misterio eterno

Dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi

Pensieri e sensi inenarrabil fonte,

Beltà grandeggia, e pare,

Quale splendor vibrato

Da natura immortal su queste arene,

Di sovrumani fati,

Di fortunati regni e d'aurei mondi

Segno e sicura spene

Dare al mortale stato:

Diman, per lieve forza,

Sozzo a vedere, abominoso, abbietto

Divien quel che fu dianzi

Quasi angelico aspetto,

E dalle menti insieme

Quel che da lui moveva

Ammirabil concetto, si dilegua.

Desiderii infiniti

E visioni altere

Crea nel vago pensiere,

Per natural virtù, dotto concento;

Onde per mar delizioso, arcano

Erra lo spirto umano,

Quasi come a diporto

Ardito notator per l'Oceano:

Ma se un discorde accento

Fere l'orecchio, in nulla

Torna quel paradiso in un momento.

Natura umana, or come,

Se frale in tutto e vile,

Se polve ed ombra sei, tant'alto senti?

Se in parte anco gentile,

Come i più degni tuoi moti e pensieri

Son così di leggeri

Da sì basse cagioni e desti e spenti?

XXXII

PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI

Il sempre sospirar nulla rileva.

PETRARCA

Errai, candido Gino; assai gran tempo,

E di gran lunga errai. Misera e vana

Stimai la vita, e sovra l'altre insulsa

La stagion ch'or si volge. Intolleranda

Parve, e fu, la mia lingua alla beata

Prole mortal, se dir si dee mortale

L'uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno,

Dall'Eden odorato in cui soggiorna,

Rise l'alta progenie, e me negletto

Disse, o mal venturoso, e di piaceri

O incapace o inesperto, il proprio fato

Creder comune, e del mio mal consorte

L'umana specie. Alfin per entro il fumo

De' sigari onorato, al romorio

De' crepitanti pasticcini, al grido

Militar, di gelati e di bevande

Ordinator, fra le percosse tazze

E i branditi cucchiai, viva rifulse

Agli occhi miei la giornaliera luce

Delle gazzette. Riconobbi e vidi

La pubblica letizia, e le dolcezze

Del destino mortal. Vidi l'eccelso

Stato e il valor delle terrene cose,

E tutto fiori il corso umano, e vidi

Come nulla quaggiù dispiace e dura.

Né men conobbi ancor gli studi e l'opre

Stupende, e il senno, e le virtudi, e l'alto

Saver del secol mio. Né vidi meno

Da Marrocco al Catai, dall'Orse al Nilo,

E da Boston a Goa, correr dell'alma

Felicità su l'orme a gara ansando

Regni, imperi e ducati; e già tenerla

O per le chiome fluttuanti, o certo

Per l'estremo del boa. Così vedendo,

E meditando sovra i larghi fogli

Profondamente, del mio grave, antico

Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.

Auro secolo omai volgono, o Gino,

I fusi delle Parche. Ogni giornale,

Gener vario di lingue e di colonne,

Da tutti i lidi lo promette al mondo

Concordemente. Universale amore,

Ferrate vie, moltiplici commerci,

Vapor, tipi e choléra i più divisi

Popoli e climi stringeranno insieme:

Né maraviglia fia se pino o quercia

Suderà latte e mele, o s'anco al suono

D'un walser danzerà. Tanto la possa

Infin qui de' lambicchi e delle storte,

E le macchine al cielo emulatrici

Crebbero, e tanto cresceranno al tempo

Che seguirà; poiché di meglio in meglio

Senza fin vola e volerà mai sempre

Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.

Ghiande non ciberà certo la terra

Però, se fame non la sforza: il duro

Ferro non deporrà. Ben molte volte

Argento ed or disprezzerà, contenta

A polizze di cambio. E già dal caro

Sangue de' suoi non asterrà la mano

La generosa stirpe: anzi coverte

Fien di stragi l'Europa e l'altra riva

Dell'atlantico mar, fresca nutrice

Di pura civiltà, sempre che spinga

Contrarie in campo le fraterne schiere

Di pepe o di cannella o d'altro aroma

Fatal cagione, o di melate canne,

O cagion qual si sia ch'ad auro torni.

Valor vero e virtù, modestia e fede

E di giustizia amor, sempre in qualunque

Pubblico stato, alieni in tutto e lungi

Da' comuni negozi, ovvero in tutto

Sfortunati saranno, afflitti e vinti;

Perché diè lor natura, in ogni tempo

Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,

Con mediocrità, regneran sempre,

A galleggiar sortiti. Imperio e forze,

Quanto più vogli o cumulate o sparse,

Abuserà chiunque avralle, e sotto

Qualunque nome. Questa legge in pria

Scrisser natura e il fato in adamante;

E co' fulmini suoi Volta né Davy

Lei non cancellerà, non Anglia tutta

Con le macchine sue, né con un Gange

Di politici scritti il secol novo.

Sempre il buono in tristezza, il vile in festa

Sempre e il ribaldo: incontro all'alme eccelse

In arme tutti congiurati i mondi

Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci

Calunnia, odio e livor: cibo de' forti

Il debole, cultor de' ricchi e servo

Il digiuno mendico, in ogni forma

Di comun reggimento, o presso o lungi

Sien l'eclittica o i poli, eternamente

Sarà, se al gener nostro il proprio albergo

E la face del dì non vengon meno.

Queste lievi reliquie e questi segni

Delle passate età, forza è che impressi

Porti quella che sorge età dell'oro:

Perché mille discordi e repugnanti

L'umana compagnia principii e parti

Ha per natura; e por quegli odii in pace

Non valser gl'intelletti e le possanze

Degli uomini giammai, dal dì che nacque

L'inclita schiatta, e non varrà, quantunque

Saggio sia né possente, al secol nostro

Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose

Più gravi, intera, e non veduta innanzi,

Fia la mortal felicità. Più molli

Di giorno in giorno diverran le vesti

O di lana o di seta. I rozzi panni

Lasciando a prova agricoltori e fabbri,

Chiuderanno in coton la scabra pelle,

E di castoro copriran le schiene.

Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri

Certamente a veder, tappeti e coltri,

Seggiole, canapè, sgabelli e mense,

Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno

Di lor menstrua beltà gli appartamenti;

E nove forme di paiuoli, e nove

Pentole ammirerà l'arsa cucina.

Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,

Da Londra a Liverpool, rapido tanto

Sarà, quant'altri immaginar non osa,

Il cammino, anzi il volo: e sotto l'ampie

Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,

Opra ardita, immortal, ch'esser dischiuso

Dovea, già son molt'anni. Illuminate

Meglio ch'or son, benché sicure al pari,

Nottetempo saran le vie men trite

Delle città sovrane, e talor forse

Di suddita città le vie maggiori.

Tali dolcezze e sì beata sorte

Alla prole vegnente il ciel destina.

Fortunati color che mentre io scrivo

Miagolanti in su le braccia accoglie

La levatrice! a cui veder s'aspetta

Quei sospirati dì, quando per lunghi

Studi fia noto, e imprenderà col latte

Dalla cara nutrice ogni fanciullo,

Quanto peso di sal, quanto di carni,

E quante moggia di farina inghiotta

Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti

In ciascun anno partoriti e morti

Scriva il vecchio prior: quando, per opra

Di possente vapore, a milioni

Impresse in un secondo, il piano e il poggio,

E credo anco del mar gl'immensi tratti,

Come d'aeree gru stuol che repente

Alle late campagne il giorno involi,

Copriran le gazzette, anima e vita

Dell'universo, e di savere a questa

Ed alle età venture unica fonte!

Quale un fanciullo, con assidua cura,

Di fogliolini e di fuscelli, in forma

O di tempio o di torre o di palazzo,

Un edificio innalza; e come prima

Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,

Perché gli stessi a lui fuscelli e fogli

Per novo lavorio son di mestieri;

Così natura ogni opra sua, quantunque

D'alto artificio a contemplar, non prima

Vede perfetta, ch'a disfarla imprende,

Le parti sciolte dispensando altrove.

E indarno a preservar se stesso ed altro

Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa

Eternamente, il mortal seme accorre

Mille virtudi oprando in mille guise

Con dotta man: che, d'ogni sforzo in onta,

La natura crudel, fanciullo invitto,

Il suo capriccio adempie, e senza posa

Distruggendo e formando si trastulla.

Indi varia, infinita una famiglia

Di mali immedicabili e di pene

Preme il fragil mortale, a perir fatto

Irreparabilmente: indi una forza

Ostil, distruggitrice, e dentro il fere

E di fuor da ogni lato, assidua, intenta

Dal dì che nasce; e l'affatica e stanca,

Essa indefatigata; insin ch'ei giace

Alfin dall'empia madre oppresso e spento.

Queste, o spirto gentil, miserie estreme

Dello stato mortal; vecchiezza e morte,

Ch'han principio d'allor che il labbro infante

Preme il tenero sen che vita instilla;

Emendar, mi cred'io, non può la lieta

Nonadecima età più che potesse

La decima o la nona, e non potranno

Più di questa giammai l'età future.

Però, se nominar lice talvolta

Con proprio nome il ver, non altro in somma

Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,

E non pur ne' civili ordini e modi,

Ma della vita in tutte l'altre parti,

Per essenza insanabile, e per legge

Universal, che terra e cielo abbraccia,

Ogni nato sarà. Ma novo e quasi

Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi

Spirti del secol mio: che, non potendo

Felice in terra far persona alcuna,

L'uomo obbliando, a ricercar si diero

Una comun felicitade; e quella

Trovata agevolmente, essi di molti

Tristi e miseri tutti, un popol fanno

Lieto e felice: e tal portento, ancora

Da pamphlets, da riviste e da gazzette

Non dichiarato, il civil gregge ammira.

Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume

Dell'età ch'or si volge! E che sicuro

Filosofar, che sapienza, o Gino,

In più sublimi ancora e più riposti

Subbietti insegna ai secoli futuri

Il mio secolo e tuo! Con che costanza

Quel che ieri schernì, prosteso adora

Oggi, e domani abbatterà, per girne

Raccozzando i rottami, e per riporlo

Tra il fumo degl'incensi il dì vegnente!

Quanto estimar si dee, che fede inspira

Del secol che si volge, anzi dell'anno,

Il concorde sentir! con quanta cura

Convienci a quel dell'anno, al qual difforme

Fia quel dell'altro appresso, il sentir nostro

Comparando, fuggir che mai d'un punto

Non sien diversi! E di che tratto innanzi,

Se al moderno si opponga il tempo antico,

Filosofando il saper nostro è scorso!

Un già de' tuoi, lodato Gino; un franco

Di poetar maestro, anzi di tutte

Scienze ed arti e facoltadi umane,

E menti che fur mai, sono e saranno,

Dottore, emendator, lascia, mi disse,

I propri affetti tuoi. Di lor non cura

Questa virile età, volta ai severi

Economici studi, e intenta il ciglio

Nelle pubbliche cose. Il proprio petto

Esplorar che ti val? Materia al canto

Non cercar dentro te. Canta i bisogni

Del secol nostro, e la matura speme.

Memorande sentenze! ond'io solenni

Le risa alzai quando sonava il nome

Della speranza al mio profano orecchio

Quasi comica voce, o come un suono

Di lingua che dal latte si scompagni.

Or torno addietro, ed al passato un corso

Contrario imprendo, per non dubbi esempi

Chiaro oggimai ch'al secol proprio vuolsi,

Non contraddir, non repugnar, se lode

Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente

Adulando ubbidir: così per breve

Ed agiato cammin vassi alle stelle.

Ond'io, degli astri desioso, al canto

Del secolo i bisogni omai non penso

Materia far; che a quelli, ognor crescendo,

Provveggono i mercati e le officine

Già largamente; ma la speme io certo

Dirò, la speme, onde visibil pegno

Già concedon gli Dei; già, della nova

Felicità principio, ostenta il labbro

De' giovani, e la guancia, enorme il pelo.

O salve, o segno salutare, o prima

Luce della famosa età che sorge.

Mira dinanzi a te come s'allegra

La terra e il ciel, come sfavilla il guardo

Delle donzelle, e per conviti e feste

Qual de' barbati eroi fama già vola.

Cresci, cresci alla patria, o maschia certo

Moderna prole. All'ombra de' tuoi velli

Italia crescerà, crescerà tutta

Dalle foci del Tago all'Ellesponto

Europa, e il mondo poserà sicuro.

E tu comincia a salutar col riso

Gl'ispidi genitori, o prole infante,

Eletta agli aurei dì: né ti spauri

L'innocuo nereggiar de' cari aspetti.

Ridi, o tenera prole: a te serbato

È di cotanto favellare il frutto;

Veder gioia regnar, cittadi e ville,

Vecchiezza e gioventù del par contente,

E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.

XXXIII

IL TRAMONTO DELLA LUNA

Quale in notte solinga,

Sovra campagne inargentate ed acque,

Là 've zefiro aleggia,

E mille vaghi aspetti

E ingannevoli obbietti

Fingon l'ombre lontane

Infra l'onde tranquille

E rami e siepi e collinette e ville;

Giunta al confin del cielo,

Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno

Nell'infinito seno

Scende la luna; e si scolora il mondo;

Spariscon l'ombre, ed una

Oscurità la valle e il monte imbruna;

Orba la notte resta,

E cantando, con mesta melodia,

L'estremo albor della fuggente luce,

Che dianzi gli fu duce,

Saluta il carrettier dalla sua via;

Tal si dilegua, e tale

Lascia l'età mortale

La giovinezza. In fuga

Van l'ombre e le sembianze

Dei dilettosi inganni; e vengon meno

Le lontane speranze,

Ove s'appoggia la mortal natura.

Abbandonata, oscura

Resta la vita. In lei porgendo il guardo,

Cerca il confuso viatore invano

Del cammin lungo che avanzar si sente

Meta o ragione; e vede

Che a sé l'umana sede,

Esso a lei veramente è fatto estrano.

Troppo felice e lieta

Nostra misera sorte

Parve lassù, se il giovanile stato,

Dove ogni ben di mille pene è frutto,

Durasse tutto della vita il corso.

Troppo mite decreto

Quel che sentenzia ogni animale a morte,

S'anco mezza la via

Lor non si desse in pria

Della terribil morte assai più dura.

D'intelletti immortali

Degno trovato, estremo

Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni

La vecchiezza, ove fosse

Incolume il desio, la speme estinta,

Secche le fonti del piacer, le pene

Maggiori sempre, e non più dato il bene.

Voi, collinette e piagge,

Caduto lo splendor che all'occidente

Inargentava della notte il velo,

Orfane ancor gran tempo

Non resterete; che dall'altra parte

Tosto vedrete il cielo

Imbiancar novamente, e sorger l'alba:

Alla qual poscia seguitando il sole,

E folgorando intorno

Con sue fiamme possenti,

Di lucidi torrenti

Inonderà con voi gli eterei campi.

Ma la vita mortal, poi che la bella

Giovinezza sparì, non si colora

D'altra luce giammai, né d'altra aurora.

Vedova è insino al fine; ed alla notte

Che l'altre etadi oscura,

Segno poser gli Dei la sepoltura.

 

 

 

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Ultimo Aggiornamento: 21/03/99 9.45