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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Canti

di: Giacomo Leopardi

XIV -   ALLA LUNA

XV - IL SOGNO

XVI -   LA VITA SOLITARIA

XVII -   CONSALVO

XVIII  - ALLA SUA DONNA

XIX  - AL CONTE CARLO PEPOLI

XX  - IL RISORGIMENTO

 

 XIV

ALLA LUNA

O graziosa luna, io mi rammento

Che, or volge l'anno, sovra questo colle

Io venia pien d'angoscia a rimirarti:

E tu pendevi allor su quella selva

Siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

Il tuo volto apparia, che travagliosa

Era mia vita: ed è, né cangia stile,

O mia diletta luna. E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l'etate

Del mio dolore. Oh come grato occorre

Nel tempo giovanil, quando ancor lungo

La speme e breve ha la memoria il corso,

Il rimembrar delle passate cose,

Ancor che triste, e che l'affanno duri!

XV

IL SOGNO

Era il mattino, e tra le chiuse imposte

Per lo balcone insinuava il sole

Nella mia cieca stanza il primo albore;

Quando in sul tempo che più leve il sonno

E più soave le pupille adombra,

Stettemi allato e riguardommi in viso

Il simulacro di colei che amore

Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.

Morta non mi parea, ma trista, e quale

Degl'infelici è la sembianza. Al capo

Appressommi la destra, e sospirando,

Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna

Serbi di noi? Donde, risposi, e come

Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto

Di te mi dolse e duol: né mi credea

Che risaper tu lo dovessi; e questo

Facea più sconsolato il dolor mio.

Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?

Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?

Sei tu quella di prima? E che ti strugge

Internamente? Obblivione ingombra

I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno,

Disse colei. Son morta, e mi vedesti

L'ultima volta, or son più lune. Immensa

Doglia m'oppresse a queste voci il petto.

Ella seguì: nel fior degli anni estinta,

Quand'è il viver più dolce, e pria che il core

Certo si renda com'è tutta indarno

L'umana speme. A desiar colei

Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare

L'egro mortal; ma sconsolata arriva

La morte ai giovanetti, e duro è il fato

Di quella speme che sotterra è spenta.

Vano è saper quel che natura asconde

Agl'inesperti della vita, e molto

All'immatura sapienza il cieco

Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,

Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti

Con questi detti il cor. Dunque sei morta,

O mia diletta, ed io son vivo, ed era

Pur fisso in ciel che quei sudori estremi

Cotesta cara e tenerella salma

Provar dovesse, a me restasse intera

Questa misera spoglia? Oh quante volte

In ripensar che più non vivi, e mai

Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,

Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa

Che morte s'addimanda? Oggi per prova

Intenderlo potessi, e il capo inerme

Agli atroci del fato odii sottrarre.

Giovane son, ma si consuma e perde

La giovanezza mia come vecchiezza;

La qual pavento, e pur m'è lunge assai.

Ma poco da vecchiezza si discorda

Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,

Disse, ambedue; felicità non rise

Al viver nostro; e dilettossi il cielo

De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,

Soggiunsi, e di pallor velato il viso

Per la tua dipartita, e se d'angoscia

Porto gravido il cor; dimmi: d'amore

Favilla alcuna, o di pietà, giammai

Verso il misero amante il cor t'assalse

Mentre vivesti? Io disperando allora

E sperando traea le notti e i giorni;

Oggi nel vano dubitar si stanca

La mente mia. Che se una volta sola

Dolor ti strinse di mia negra vita,

Non mel celar, ti prego, e mi soccorra

La rimembranza or che il futuro è tolto

Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,

O sventurato. Io di pietade avara

Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,

Che fui misera anch'io. Non far querela

Di questa infelicissima fanciulla.

Per le sventure nostre, e per l'amore

Che mi strugge, esclamai; per lo diletto

Nome di giovanezza e la perduta

Speme dei nostri dì, concedi, o cara,

Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto

Soave e tristo, la porgeva. Or mentre

Di baci la ricopro, e d'affannosa

Dolcezza palpitando all'anelante

Seno la stringo, di sudore il volto

Ferveva e il petto, nelle fauci stava

La voce, al guardo traballava il giorno.

Quando colei teneramente affissi

Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,

Disse, che di beltà son fatta ignuda?

E tu d'amore, o sfortunato, indarno

Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.

Nostre misere menti e nostre salme

Son disgiunte in eterno. A me non vivi

E mai più non vivrai: già ruppe il fato

La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia

Gridar volendo, e spasimando, e pregne

Di sconsolato pianto le pupille,

Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi

Pur mi restava, e nell'incerto raggio

Del Sol vederla io mi credeva ancora.

XVI

LA VITA SOLITARIA

La mattutina pioggia, allor che l'ale

Battendo esulta nella chiusa stanza

La gallinella, ed al balcon s'affaccia

L'abitator de' campi, e il Sol che nasce

I suoi tremuli rai fra le cadenti

Stille saetta, alla capanna mia

Dolcemente picchiando, mi risveglia;

E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo

Degli augelli susurro, e l'aura fresca,

E le ridenti piagge benedico:

Poiché voi, cittadine infauste mura,

Vidi e conobbi assai, là dove segue

Odio al dolor compagno; e doloroso

Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna

Benché scarsa pietà pur mi dimostra

Natura in questi lochi, un giorno oh quanto

Verso me più cortese! E tu pur volgi

Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando

Le sciagure e gli affanni, alla reina

Felicità servi, o natura. In cielo,

In terra amico agl'infelici alcuno

E rifugio non resta altro che il ferro.

Talor m'assido in solitaria parte,

Sovra un rialto, al margine d'un lago

Di taciturne piante incoronato.

Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,

La sua tranquilla imago il Sol dipinge,

Ed erba o foglia non si crolla al vento,

E non onda incresparsi, e non cicala

Strider, né batter penna augello in ramo,

Né farfalla ronzar, né voce o moto

Da presso né da lunge odi né vedi.

Tien quelle rive altissima quiete;

Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio

Sedendo immoto; e già mi par che sciolte

Giaccian le membra mie, né spirto o senso

Più le commova, e lor quiete antica

Co' silenzi del loco si confonda.

Amore, amore, assai lungi volasti

Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,

Anzi rovente. Con sua fredda mano

Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto

Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo

Che mi scendesti in seno. Era quel dolce

E irrevocabil tempo, allor che s'apre

Al guardo giovanil questa infelice

Scena del mondo, e gli sorride in vista

Di paradiso. Al garzoncello il core

Di vergine speranza e di desio

Balza nel petto; e già s'accinge all'opra

Di questa vita come a danza o gioco

Il misero mortal. Ma non sì tosto,

Amor, di te m'accorsi, e il viver mio

Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi

Non altro convenia che il pianger sempre.

Pur se talvolta per le piagge apriche,

Su la tacita aurora o quando al sole

Brillano i tetti e i poggi e le campagne,

Scontro di vaga donzelletta il viso;

O qualor nella placida quiete

D'estiva notte, il vagabondo passo

Di rincontro alle ville soffermando,

L'erma terra contemplo, e di fanciulla

Che all'opre di sua man la notte aggiunge

Odo sonar nelle romite stanze

L'arguto canto; a palpitar si move

Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna

Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano

Ogni moto soave al petto mio.

O cara luna, al cui tranquillo raggio

Danzan le lepri nelle selve; e duolsi

Alla mattina il cacciator, che trova

L'orme intricate e false, e dai covili

Error vario lo svia; salve, o benigna

Delle notti reina. Infesto scende

Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro

A deserti edifici, in su l'acciaro

Del pallido ladron ch'a teso orecchio

Il fragor delle rote e de' cavalli

Da lungi osserva o il calpestio de' piedi

Su la tacita via; poscia improvviso

Col suon dell'armi e con la rauca voce

E col funereo ceffo il core agghiaccia

Al passegger, cui semivivo e nudo

Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre

Per le contrade cittadine il bianco

Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi

Va radendo le mura e la secreta

Ombra seguendo, e resta, e si spaura

Delle ardenti lucerne e degli aperti

Balconi. Infesto alle malvage menti,

A me sempre benigno il tuo cospetto

Sarà per queste piagge, ove non altro

Che lieti colli e spaziosi campi

M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,

Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso

Raggio accusar negli abitati lochi,

Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando

Scopriva umani aspetti al guardo mio.

Or sempre loderollo, o ch'io ti miri

Veleggiar tra le nubi, o che serena

Dominatrice dell'etereo campo,

Questa flebil riguardi umana sede.

Me spesso rivedrai solingo e muto

Errar pe' boschi e per le verdi rive,

O seder sovra l'erbe, assai contento

Se core e lena a sospirar m'avanza.

XVII

CONSALVO

Presso alla fin di sua dimora in terra,

Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo

Del suo destino; or già non più, che a mezzo

Il quinto lustro, gli pendea sul capo

Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,

Così giacea nel funeral suo giorno

Dai più diletti amici abbandonato:

Ch'amico in terra al lungo andar nessuno

Resta a colui che della terra è schivo.

Pur gli era al fianco, da pietà condotta

A consolare il suo deserto stato,

Quella che sola e sempre eragli a mente,

Per divina beltà famosa Elvira;

Conscia del suo poter, conscia che un guardo

Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso,

Ben mille volte ripetuto e mille

Nel costante pensier, sostegno e cibo

Esser solea dell'infelice amante:

Benché nulla d'amor parola udita

Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma

Era del gran desio stato più forte

Un sovrano timor. Così l'avea

Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

Ma ruppe alfin la morte il nodo antico

Alla sua lingua. Poiché certi i segni

Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,

Lei, già mossa a partir, presa per mano,

E quella man bianchissinia stringendo,

Disse: tu parti, e l'ora omai ti sforza:

Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,

Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo

Qual maggior grazia mai delle tue cure

Dar possa il labbro mio. Premio daratti

Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.

Impallidia la bella, e il petto anelo

Udendo le si fea: che sempre stringe

All'uomo il cor dogliosamente, ancora

Ch'estranio sia, chi si diparte e dice,

Addio per sempre. E contraddir voleva,

Dissimulando l'appressar del fato,

Al moribondo. Ma il suo dir prevenne

Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,

Come sai, ripregata a me discende,

Non temuta, la morte; e lieto apparmi

Questo feral mio dì. Pesami, è vero,

Che te perdo per sempre. Oimè per sempre

Parto da te. Mi si divide il core

In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,

Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria

Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio

Non vorrai tu donarmi? un bacio solo

In tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga

Non si nega a chi muor. Né già vantarmi

Potrò del dono, io semispento, a cui

Straniera man le labbra oggi fra poco

Eternamente chiuderà. Ciò detto

Con un sospiro, all'adorata destra

Le fredde labbra supplicando affisse.

Stette sospesa e pensierosa in atto

La bellissima donna; e fiso il guardo,

Di mille vezzi sfavillante, in quello

Tenea dell'infelice, ove l'estrema

Lacrima rilucea. Né dielle il core

Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio

Rinacerbir col niego; anzi la vinse

Misericordia dei ben noti ardori.

E quel volto celeste, e quella bocca,

Già tanto desiata, e per molt'anni

Argomento di sogno e di sospiro,

Dolcemente appressando al volto afflitto

E scolorato dal mortale affanno,

Più baci e più, tutta benigna e in vista

D'alta pietà, su le convulse labbra

Del trepido, rapito amante impresse.

Che divenisti allor? quali appariro

Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,

Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,

Ch'ancor tenea, della diletta Elvira

Postasi al cor, che gli ultimi battea

Palpiti della morte e dell'amore,

Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono

In su la terra ancor; ben quelle labbra

Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!

Ahi vision d'estinto, o sogno, o cosa

Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,

Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi

Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;

Non a te, non altrui; che non si cela

Vero amore alla terra. Assai palese

Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,

Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre

Muto sarebbe l'infinito affetto

Che governa il cor mio, se non l'avesse

Fatto ardito il morir. Morrò contento

Del mio destino omai, né più mi dolgo

Ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,

Poscia che quella bocca alla mia bocca

Premer fu dato. Anzi felice estimo

La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:

Amore e morte. All'una il ciel mi guida

In sul fior dell'età; nell'altro, assai

Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,

Solo una volta il lungo amor quieto

E pago avessi tu, fora la terra

Fatta quindi per sempre un paradiso

Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,

L'abborrita vecchiezza, avrei sofferto

Con riposato cor: che a sostentarla

Bastato sempre il rimembrar sarebbe

d'un solo istante, e il dir: felice io fui

Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto

Esser beato non consente il cielo

A natura terrena. Amar tant'oltre

Non è dato con gioia. E ben per patto

In poter del carnefice ai flagelli,

Alle ruote, alle faci ito volando

Sarei dalle tue braccia; e ben disceso

Nel paventato sempiterno scempio.

O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra

Gl'immortali beato, a cui tu schiuda

Il sorriso d'amor! felice appresso

Chi per te sparga con la vita il sangue!

Lice, lice al mortal, non è già sogno

Come stimai gran tempo, ahi lice in terra

Provar felicità. Ciò seppi il giorno

Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte

Questo m'accadde. E non però quel giorno

Con certo cor giammai, fra tante ambasce,

Quel fiero giorno biasimar sostenni.

Or tu vivi beata, e il mondo abbella,

Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno

Non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce

Un altrettale amor. Quanto, deh quanto

Dal misero Consalvo in sì gran tempo

Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!

Come al nome d'Elvira, in cor gelando,

Impallidir; come tremar son uso

All'amaro calcar della tua soglia,

A quella voce angelica, all'aspetto

Di quella fronte, io ch'al morir non tremo!

Ma la lena e la vita or vengon meno

Agli accenti d'amor. Passato è il tempo,

Né questo di rimemorar m'è dato.

Elvira, addio. Con la vital favilla

La tua diletta immagine si parte

Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave

Non ti fu quest'affetto, al mio feretro

Dimani all'annottar manda un sospiro.

Tacque: né molto andò, che a lui col suono

Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo

Suo dì felice gli fuggia dal guardo.

XVIII

ALLA SUA DONNA

Cara beltà che amore

Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,

Fuor se nel sonno il core

Ombra diva mi scuoti,

O ne' campi ove splenda

Più vago il giorno e di natura il riso;

Forse tu l'innocente

Secol beasti che dall'oro ha nome,

Or leve intra la gente

Anima voli? o te la sorte avara

Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?

Viva mirarti omai

Nulla spene m'avanza;

S'allor non fosse, allor che ignudo e solo

Per novo calle a peregrina stanza

Verrà lo spirto mio. Già sul novello

Aprir di mia giornata incerta e bruna,

Te viatrice in questo arido suolo

Io mi pensai. Ma non è cosa in terra

Che ti somigli; e s'anco pari alcuna

Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,

Saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore

Quanto all'umana età propose il fato,

Se vera e quale il mio pensier ti pinge,

Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora

Questo viver beato:

E ben chiaro vegg'io siccome ancora

Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni

L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse

Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;

E teco la mortal vita saria

Simile a quella che nel cielo india.

Per le valli, ove suona

Del faticoso agricoltore il canto,

Ed io seggo e mi lagno

Del giovanile error che m'abbandona;

E per li poggi, ov'io rimembro e piagno

I perduti desiri, e la perduta

Speme de' giorni miei; di te pensando,

A palpitar mi sveglio. E potess'io,

Nel secol tetro e in questo aer nefando,

L'alta specie serbar; che dell'imago,

Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.

Se dell'eterne idee

L'una sei tu, cui di sensibil forma

Sdegni l'eterno senno esser vestita,

E fra caduche spoglie

Provar gli affanni di funerea vita;

O s'altra terra ne' supremi giri

Fra' mondi innumerabili t'accoglie,

E più vaga del Sol prossima stella

T'irraggia, e più benigno etere spiri;

Di qua dove son gli anni infausti e brevi,

Questo d'ignoto amante inno ricevi.

XIX

AL CONTE CARLO PEPOLI

Questo affannoso e travagliato sonno

Che noi vita nomiam, come sopporti,

Pepoli mio? di che speranze il core

Vai sostentando? in che pensieri, in quanto

O gioconde o moleste opre dispensi

L'ozio che ti lasciàr gli avi remoti,

Grave retaggio e faticoso? È tutta,

In ogni umano stato, ozio la vita,

Se quell'oprar, quel procurar che a degno

Obbietto non intende, o che all'intento

Giunger mai non potria, ben si conviene

Ozioso nomar. La schiera industre

Cui franger glebe o curar piante e greggi

Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,

Se oziosa dirai, da che sua vita

È per campar la vita, e per sé sola

La vita all'uom non ha pregio nessuno,

Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni

Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne

Sudar nelle officine, ozio le vegghie

Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;

E il mercatante avaro in ozio vive:

Che non a sé, non ad altrui, la bella

Felicità, cui solo agogna e cerca

La natura mortal, veruno acquista

Per cura o per sudor, vegghia o periglio.

Pure all'aspro desire onde i mortali

Già sempre infin dal dì che il mondo nacque

D'esser beati sospiraro indarno,

Di medicina in loco apparecchiate

Nella vita infelice avea natura

Necessità diverse, a cui non senza

Opra e pensier si provvedesse, e pieno,

Poi che lieto non può, corresse il giorno

All'umana famiglia; onde agitato

E confuso il desio, men loco avesse

Al travagliarne il cor. Così de' bruti

La progenie infinita, a cui pur solo,

Né men vano che a noi, vive nel petto

Desio d'esser beati; a quello intenta

Che a lor vita è mestier, di noi men tristo

Condur si scopre e men gravoso il tempo,

Né la lentezza accagionar dell'ore.

Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano

Provveder commettiamo, una più grave

Necessità, cui provveder non puote

Altri che noi, già senza tedio e pena

Non adempiam: necessitate, io dico,

Di consumar la vita: improba, invitta

Necessità, cui non tesoro accolto,

Non di greggi dovizia, o pingui campi,

Non aula puote e non purpureo manto

Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno

I vòti anni prendendo, e la superna

Luce odiando, l'omicida mano,

I tardi fati a prevenir condotto,

In se stesso non torce; al duro morso

Della brama insanabile che invano

Felicità richiede, esso da tutti

Lati cercando, mille inefficaci

Medicine procaccia, onde quell'una

Cui natura apprestò, mal si compensa.

Lui delle vesti e delle chiome il culto

E degli atti e dei passi, e i vani studi

Di cocchi e di cavalli, e le frequenti

Sale, e le piazze romorose, e gli orti,

Lui giochi e cene e invidiate danze

Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro

Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,

Nell'imo petto, grave, salda, immota

Come colonna adamantina, siede

Noia immortale, incontro a cui non puote

Vigor di giovanezza, e non la crolla

Dolce parola di rosato labbro,

E non lo sguardo tenero, tremante,

Di due nere pupille, il caro sguardo,

La più degna del ciel cosa mortale.

Altri, quasi a fuggir volto la trista

Umana sorte, in cangiar terre e climi

L'età spendendo, e mari e poggi errando

Tutto l'orbe trascorre, ogni confine

Degli spazi che all'uom negl'infiniti

Campi del tutto la natura aperse,

Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside

Su l'alte prue la negra cura, e sotto

Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno

Felicità, vive tristezza e regna.

Havvi chi le crudeli opre di marte

Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno

Sangue la man tinge per ozio; ed havvi

Chi d'altrui danni si conforta, e pensa

Con far misero altrui far sé men tristo,

Sì che nocendo usar procaccia il tempo.

E chi virtute o sapienza ed arti

Perseguitando; e chi la propria gente

Conculcando e l'estrane, o di remoti

Lidi turbando la quiete antica

Col mercatar, con l'armi, e con le frodi,

La destinata sua vita consuma.

Te più mite desio, cura più dolce

Regge nel fior di gioventù, nel bello

April degli anni, altrui giocondo e primo

Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto

A chi patria non ha. Te punge e move

Studio de' carmi e di ritrar parlando

Il bel che raro e scarso e fuggitivo

Appar nel mondo, e quel che più benigna

Di natura e del ciel, fecondamente

A noi la vaga fantasia produce

E il nostro proprio error. Ben mille volte

Fortunato colui che la caduca

Virtù del caro immaginar non perde

Per volger d'anni; a cui serbare eterna

La gioventù del cor diedero i fati;

Che nella ferma e nella stanca etade,

Così come solea nell'età verde,

In suo chiuso pensier natura abbella,

Morte, deserto avviva. A te conceda

Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo

La favilla che il petto oggi ti scalda,

Di poesia canuto amante. Io tutti

Della prima stagione i dolci inganni

Mancar già sento, e dileguar dagli occhi

Le dilettose immagini, che tanto

Amai, che sempre infino all'ora estrema

Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.

Or quando al tutto irrigidito e freddo

Questo petto sarà, né degli aprichi

Campi il sereno e solitario riso,

Né degli augelli mattutini il canto

Di primavera, né per colli e piagge

Sotto limpido ciel tacita luna

Commoverammi il cor; quando mi fia

Ogni beltate o di natura o d'arte,

Fatta inanime e muta; ogni alto senso,

Ogni tenero affetto, ignoto e strano;

Del mio solo conforto allor mendico,

Altri studi men dolci, in ch'io riponga

L'ingrato avanzo della ferrea vita,

Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi

Destini investigar delle mortali

E dell'eterne cose; a che prodotta,

A che d'affanni e di miserie carca

L'umana stirpe; a quale ultimo intento

Lei spinga il fato e la natura; a cui

Tanto nostro dolor diletti o giovi:

Con quali ordini e leggi a che si volva

Questo arcano universo; il qual di lode

Colmano i saggi, io d'ammirar son pago.

In questo specolar gli ozi traendo

Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,

Ha suoi diletti il vero. E se del vero

Ragionando talor, fieno alle genti

O mal grati i miei detti o non intesi,

Non mi dorrò, che già del tutto il vago

Desio di gloria antico in me fia spento:

Vana Diva non pur, ma di fortuna

E del fato e d'amor, Diva più cieca.

XX

IL RISORGIMENTO

Credei ch'al tutto fossero

In me, sul fior degli anni,

Mancati i dolci affanni

Della mia prima età:

I dolci affanni, i teneri

Moti del cor profondo,

Qualunque cosa al mondo

Grato il sentir ci fa.

Quante querele e lacrime

Sparsi nel novo stato,

Quando al mio cor gelato

Prima il dolor mancò!

Mancàr gli usati palpiti,

L'amor mi venne meno,

E irrigidito il seno

Di sospirar cessò!

Piansi spogliata, esanime

Fatta per me la vita

La terra inaridita,

Chiusa in eterno gel;

Deserto il dì; la tacita

Notte più sola e bruna;

Spenta per me la luna,

Spente le stelle in ciel.

Pur di quel pianto origine

Era l'antico affetto:

Nell'intimo del petto

Ancor viveva il cor.

Chiedea l'usate immagini

La stanca fantasia;

E la tristezza mia

Era dolore ancor.

Fra poco in me quell'ultimo

Dolore anco fu spento,

E di più far lamento

Valor non mi restò.

Giacqui: insensato, attonito,

Non dimandai conforto:

Quasi perduto e morto,

Il cor s'abbandonò.

Qual fui! quanto dissimile

Da quel che tanto ardore,

Che sì beato errore

Nutrii nell'alma un dì!

La rondinella vigile,

Alle finestre intorno

Cantando al novo giorno,

Il cor non mi ferì:

Non all'autunno pallido

In solitaria villa,

La vespertina squilla,

Il fuggitivo Sol.

Invan brillare il vespero

Vidi per muto calle,

Invan sonò la valle

Del flebile usignol.

E voi, pupille tenere,

Sguardi furtivi, erranti,

Voi de' gentili amanti

Primo, immortale amor,

Ed alla mano offertami

Candida ignuda mano,

Foste voi pure invano

Al duro mio sopor.

D'ogni dolcezza vedovo,

Tristo; ma non turbato,

Ma placido il mio stato,

Il volto era seren.

Desiderato il termine

Avrei del viver mio;

Ma spento era il desio

Nello spossato sen.

Qual dell'età decrepita

L'avanzo ignudo e vile,

Io conducea l'aprile

Degli anni miei così:

Così quegl'ineffabili

Giorni, o mio cor, traevi,

Che sì fugaci e brevi

Il cielo a noi sortì.

Chi dalla grave, immemore

Quiete or mi ridesta?

Che virtù nova è questa,

Questa che sento in me?

Moti soavi, immagini,

Palpiti, error beato,

Per sempre a voi negato

Questo mio cor non è?

Siete pur voi quell'unica

Luce de' giorni miei?

Gli affetti ch'io perdei

Nella novella età?

Se al ciel, s'ai verdi margini,

Ovunque il guardo mira,

Tutto un dolor mi spira,

Tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivere

La piaggia, il bosco, il monte;

Parla al mio core il fonte,

Meco favella il mar.

Chi mi ridona il piangere

Dopo cotanto obblio?

E come al guardo mio

Cangiato il mondo appar?

Forse la speme, o povero

Mio cor, ti volse un riso?

Ahi della speme il viso

Io non vedrò mai più.

Proprii mi diede i palpiti,

Natura, e i dolci inganni.

Sopiro in me gli affanni

L'ingenita virtù;

Non l'annullàr: non vinsela

Il fato e la sventura;

Non con la vista impura

L'infausta verità.

Dalle mie vaghe immagini

So ben ch'ella discorda:

So che natura è sorda,

Che miserar non sa.

Che non del ben sollecita

Fu, ma dell'esser solo:

Purché ci serbi al duolo,

Or d'altro a lei non cal.

So che pietà fra gli uomini

Il misero non trova;

Che lui, fuggendo, a prova

Schernisce ogni mortal.

Che ignora il tristo secolo

Gl'ingegni e le virtudi;

Che manca ai degni studi

L'ignuda gloria ancor.

E voi, pupille tremule,

Voi, raggio sovrumano,

So che splendete invano,

Che in voi non brilla amor.

Nessuno ignoto ed intimo

Affetto in voi non brilla:

Non chiude una favilla

Quel bianco petto in sé.

Anzi d'altrui le tenere

Cure suol porre in gioco;

E d'un celeste foco

Disprezzo è la mercè.

Pur sento in me rivivere

Gl'inganni aperti e noti;

E, de' suoi proprii moti

Si maraviglia il sen.

Da te, mio cor, quest'ultimo

Spirto, e l'ardor natio,

Ogni conforto mio

Solo da te mi vien.

Mancano, il sento, all'anima

Alta, gentile e pura,

La sorte, la natura,

Il mondo e la beltà.

Ma se tu vivi, o misero,

Se non concedi al fato,

Non chiamerò spietato

Chi lo spirar mi dà.

 

 

 

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Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.32