XIV |
ALLA LUNA
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O graziosa luna, io mi rammento
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Che, or volge l'anno, sovra questo colle
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Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
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E tu pendevi allor su quella selva
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Siccome or fai, che tutta la rischiari.
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Ma nebuloso e tremulo dal pianto
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Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
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Il tuo volto apparia, che travagliosa
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Era mia vita: ed è, né cangia stile,
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O mia diletta luna. E pur mi giova
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La ricordanza, e il noverar l'etate
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Del mio dolore. Oh come grato occorre
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Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
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La speme e breve ha la memoria il corso,
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Il rimembrar delle passate cose,
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Ancor che triste, e che l'affanno duri!
|
XV
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IL SOGNO
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Era il mattino, e tra le chiuse imposte
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Per lo balcone insinuava il sole
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Nella mia cieca stanza il primo albore;
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Quando in sul tempo che più leve il sonno
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E più soave le pupille adombra,
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Stettemi allato e riguardommi in viso
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Il simulacro di colei che amore
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Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
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Morta non mi parea, ma trista, e quale
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Degl'infelici è la sembianza. Al capo
|
Appressommi la destra, e sospirando,
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Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
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Serbi di noi? Donde, risposi, e come
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Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
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Di te mi dolse e duol: né mi credea
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Che risaper tu lo dovessi; e questo
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Facea più sconsolato il dolor mio.
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Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
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Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
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Sei tu quella di prima? E che ti strugge
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Internamente? Obblivione ingombra
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I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno,
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Disse colei. Son morta, e mi vedesti
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L'ultima volta, or son più lune. Immensa
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Doglia m'oppresse a queste voci il petto.
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Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
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Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
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Certo si renda com'è tutta indarno
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L'umana speme. A desiar colei
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Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
|
L'egro mortal; ma sconsolata arriva
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La morte ai giovanetti, e duro è il fato
|
Di quella speme che sotterra è spenta.
|
Vano è saper quel che natura asconde
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Agl'inesperti della vita, e molto
|
All'immatura sapienza il cieco
|
Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
|
Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
|
Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
|
O mia diletta, ed io son vivo, ed era
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Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
|
Cotesta cara e tenerella salma
|
Provar dovesse, a me restasse intera
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Questa misera spoglia? Oh quante volte
|
In ripensar che più non vivi, e mai
|
Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
|
Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
|
Che morte s'addimanda? Oggi per prova
|
Intenderlo potessi, e il capo inerme
|
Agli atroci del fato odii sottrarre.
|
Giovane son, ma si consuma e perde
|
La giovanezza mia come vecchiezza;
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La qual pavento, e pur m'è lunge assai.
|
Ma poco da vecchiezza si discorda
|
Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
|
Disse, ambedue; felicità non rise
|
Al viver nostro; e dilettossi il cielo
|
De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
|
Soggiunsi, e di pallor velato il viso
|
Per la tua dipartita, e se d'angoscia
|
Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
|
Favilla alcuna, o di pietà, giammai
|
Verso il misero amante il cor t'assalse
|
Mentre vivesti? Io disperando allora
|
E sperando traea le notti e i giorni;
|
Oggi nel vano dubitar si stanca
|
La mente mia. Che se una volta sola
|
Dolor ti strinse di mia negra vita,
|
Non mel celar, ti prego, e mi soccorra
|
La rimembranza or che il futuro è tolto
|
Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
|
O sventurato. Io di pietade avara
|
Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
|
Che fui misera anch'io. Non far querela
|
Di questa infelicissima fanciulla.
|
Per le sventure nostre, e per l'amore
|
Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
|
Nome di giovanezza e la perduta
|
Speme dei nostri dì, concedi, o cara,
|
Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
|
Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
|
Di baci la ricopro, e d'affannosa
|
Dolcezza palpitando all'anelante
|
Seno la stringo, di sudore il volto
|
Ferveva e il petto, nelle fauci stava
|
La voce, al guardo traballava il giorno.
|
Quando colei teneramente affissi
|
Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
|
Disse, che di beltà son fatta ignuda?
|
E tu d'amore, o sfortunato, indarno
|
Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
|
Nostre misere menti e nostre salme
|
Son disgiunte in eterno. A me non vivi
|
E mai più non vivrai: già ruppe il fato
|
La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia
|
Gridar volendo, e spasimando, e pregne
|
Di sconsolato pianto le pupille,
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Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
|
Pur mi restava, e nell'incerto raggio
|
Del Sol vederla io mi credeva ancora.
|
XVI
|
LA VITA SOLITARIA
|
La mattutina pioggia, allor che l'ale
|
Battendo esulta nella chiusa stanza
|
La gallinella, ed al balcon s'affaccia
|
L'abitator de' campi, e il Sol che nasce
|
I suoi tremuli rai fra le cadenti
|
Stille saetta, alla capanna mia
|
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
|
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
|
Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
|
E le ridenti piagge benedico:
|
Poiché voi, cittadine infauste mura,
|
Vidi e conobbi assai, là dove segue
|
Odio al dolor compagno; e doloroso
|
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
|
Benché scarsa pietà pur mi dimostra
|
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
|
Verso me più cortese! E tu pur volgi
|
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
|
Le sciagure e gli affanni, alla reina
|
Felicità servi, o natura. In cielo,
|
In terra amico agl'infelici alcuno
|
E rifugio non resta altro che il ferro.
|
Talor m'assido in solitaria parte,
|
Sovra un rialto, al margine d'un lago
|
Di taciturne piante incoronato.
|
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
|
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
|
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
|
E non onda incresparsi, e non cicala
|
Strider, né batter penna augello in ramo,
|
Né farfalla ronzar, né voce o moto
|
Da presso né da lunge odi né vedi.
|
Tien quelle rive altissima quiete;
|
Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
|
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
|
Giaccian le membra mie, né spirto o senso
|
Più le commova, e lor quiete antica
|
Co' silenzi del loco si confonda.
|
Amore, amore, assai lungi volasti
|
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
|
Anzi rovente. Con sua fredda mano
|
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
|
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
|
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
|
E irrevocabil tempo, allor che s'apre
|
Al guardo giovanil questa infelice
|
Scena del mondo, e gli sorride in vista
|
Di paradiso. Al garzoncello il core
|
Di vergine speranza e di desio
|
Balza nel petto; e già s'accinge all'opra
|
Di questa vita come a danza o gioco
|
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
|
Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
|
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
|
Non altro convenia che il pianger sempre.
|
Pur se talvolta per le piagge apriche,
|
Su la tacita aurora o quando al sole
|
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
|
Scontro di vaga donzelletta il viso;
|
O qualor nella placida quiete
|
D'estiva notte, il vagabondo passo
|
Di rincontro alle ville soffermando,
|
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
|
Che all'opre di sua man la notte aggiunge
|
Odo sonar nelle romite stanze
|
L'arguto canto; a palpitar si move
|
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
|
Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano
|
Ogni moto soave al petto mio.
|
O cara luna, al cui tranquillo raggio
|
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
|
Alla mattina il cacciator, che trova
|
L'orme intricate e false, e dai covili
|
Error vario lo svia; salve, o benigna
|
Delle notti reina. Infesto scende
|
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
|
A deserti edifici, in su l'acciaro
|
Del pallido ladron ch'a teso orecchio
|
Il fragor delle rote e de' cavalli
|
Da lungi osserva o il calpestio de' piedi
|
Su la tacita via; poscia improvviso
|
Col suon dell'armi e con la rauca voce
|
E col funereo ceffo il core agghiaccia
|
Al passegger, cui semivivo e nudo
|
Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre
|
Per le contrade cittadine il bianco
|
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
|
Va radendo le mura e la secreta
|
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
|
Delle ardenti lucerne e degli aperti
|
Balconi. Infesto alle malvage menti,
|
A me sempre benigno il tuo cospetto
|
Sarà per queste piagge, ove non altro
|
Che lieti colli e spaziosi campi
|
M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
|
Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
|
Raggio accusar negli abitati lochi,
|
Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
|
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
|
Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
|
Veleggiar tra le nubi, o che serena
|
Dominatrice dell'etereo campo,
|
Questa flebil riguardi umana sede.
|
Me spesso rivedrai solingo e muto
|
Errar pe' boschi e per le verdi rive,
|
O seder sovra l'erbe, assai contento
|
Se core e lena a sospirar m'avanza.
|
XVII
|
CONSALVO
|
Presso alla fin di sua dimora in terra,
|
Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
|
Del suo destino; or già non più, che a mezzo
|
Il quinto lustro, gli pendea sul capo
|
Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
|
Così giacea nel funeral suo giorno
|
Dai più diletti amici abbandonato:
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Ch'amico in terra al lungo andar nessuno
|
Resta a colui che della terra è schivo.
|
Pur gli era al fianco, da pietà condotta
|
A consolare il suo deserto stato,
|
Quella che sola e sempre eragli a mente,
|
Per divina beltà famosa Elvira;
|
Conscia del suo poter, conscia che un guardo
|
Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso,
|
Ben mille volte ripetuto e mille
|
Nel costante pensier, sostegno e cibo
|
Esser solea dell'infelice amante:
|
Benché nulla d'amor parola udita
|
Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma
|
Era del gran desio stato più forte
|
Un sovrano timor. Così l'avea
|
Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.
|
Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
|
Alla sua lingua. Poiché certi i segni
|
Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,
|
Lei, già mossa a partir, presa per mano,
|
E quella man bianchissinia stringendo,
|
Disse: tu parti, e l'ora omai ti sforza:
|
Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,
|
Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
|
Qual maggior grazia mai delle tue cure
|
Dar possa il labbro mio. Premio daratti
|
Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.
|
Impallidia la bella, e il petto anelo
|
Udendo le si fea: che sempre stringe
|
All'uomo il cor dogliosamente, ancora
|
Ch'estranio sia, chi si diparte e dice,
|
Addio per sempre. E contraddir voleva,
|
Dissimulando l'appressar del fato,
|
Al moribondo. Ma il suo dir prevenne
|
Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,
|
Come sai, ripregata a me discende,
|
Non temuta, la morte; e lieto apparmi
|
Questo feral mio dì. Pesami, è vero,
|
Che te perdo per sempre. Oimè per sempre
|
Parto da te. Mi si divide il core
|
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,
|
Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
|
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
|
Non vorrai tu donarmi? un bacio solo
|
In tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga
|
Non si nega a chi muor. Né già vantarmi
|
Potrò del dono, io semispento, a cui
|
Straniera man le labbra oggi fra poco
|
Eternamente chiuderà. Ciò detto
|
Con un sospiro, all'adorata destra
|
Le fredde labbra supplicando affisse.
|
Stette sospesa e pensierosa in atto
|
La bellissima donna; e fiso il guardo,
|
Di mille vezzi sfavillante, in quello
|
Tenea dell'infelice, ove l'estrema
|
Lacrima rilucea. Né dielle il core
|
Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio
|
Rinacerbir col niego; anzi la vinse
|
Misericordia dei ben noti ardori.
|
E quel volto celeste, e quella bocca,
|
Già tanto desiata, e per molt'anni
|
Argomento di sogno e di sospiro,
|
Dolcemente appressando al volto afflitto
|
E scolorato dal mortale affanno,
|
Più baci e più, tutta benigna e in vista
|
D'alta pietà, su le convulse labbra
|
Del trepido, rapito amante impresse.
|
Che divenisti allor? quali appariro
|
Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
|
Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
|
Ch'ancor tenea, della diletta Elvira
|
Postasi al cor, che gli ultimi battea
|
Palpiti della morte e dell'amore,
|
Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono
|
In su la terra ancor; ben quelle labbra
|
Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
|
Ahi vision d'estinto, o sogno, o cosa
|
Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
|
Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
|
Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;
|
Non a te, non altrui; che non si cela
|
Vero amore alla terra. Assai palese
|
Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,
|
Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
|
Muto sarebbe l'infinito affetto
|
Che governa il cor mio, se non l'avesse
|
Fatto ardito il morir. Morrò contento
|
Del mio destino omai, né più mi dolgo
|
Ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
|
Poscia che quella bocca alla mia bocca
|
Premer fu dato. Anzi felice estimo
|
La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
|
Amore e morte. All'una il ciel mi guida
|
In sul fior dell'età; nell'altro, assai
|
Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,
|
Solo una volta il lungo amor quieto
|
E pago avessi tu, fora la terra
|
Fatta quindi per sempre un paradiso
|
Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
|
L'abborrita vecchiezza, avrei sofferto
|
Con riposato cor: che a sostentarla
|
Bastato sempre il rimembrar sarebbe
|
d'un solo istante, e il dir: felice io fui
|
Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto
|
Esser beato non consente il cielo
|
A natura terrena. Amar tant'oltre
|
Non è dato con gioia. E ben per patto
|
In poter del carnefice ai flagelli,
|
Alle ruote, alle faci ito volando
|
Sarei dalle tue braccia; e ben disceso
|
Nel paventato sempiterno scempio.
|
O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
|
Gl'immortali beato, a cui tu schiuda
|
Il sorriso d'amor! felice appresso
|
Chi per te sparga con la vita il sangue!
|
Lice, lice al mortal, non è già sogno
|
Come stimai gran tempo, ahi lice in terra
|
Provar felicità. Ciò seppi il giorno
|
Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
|
Questo m'accadde. E non però quel giorno
|
Con certo cor giammai, fra tante ambasce,
|
Quel fiero giorno biasimar sostenni.
|
Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
|
Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno
|
Non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce
|
Un altrettale amor. Quanto, deh quanto
|
Dal misero Consalvo in sì gran tempo
|
Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
|
Come al nome d'Elvira, in cor gelando,
|
Impallidir; come tremar son uso
|
All'amaro calcar della tua soglia,
|
A quella voce angelica, all'aspetto
|
Di quella fronte, io ch'al morir non tremo!
|
Ma la lena e la vita or vengon meno
|
Agli accenti d'amor. Passato è il tempo,
|
Né questo di rimemorar m'è dato.
|
Elvira, addio. Con la vital favilla
|
La tua diletta immagine si parte
|
Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
|
Non ti fu quest'affetto, al mio feretro
|
Dimani all'annottar manda un sospiro.
|
Tacque: né molto andò, che a lui col suono
|
Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo
|
Suo dì felice gli fuggia dal guardo.
|
XVIII
|
ALLA SUA DONNA
|
Cara beltà che amore
|
Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,
|
Fuor se nel sonno il core
|
Ombra diva mi scuoti,
|
O ne' campi ove splenda
|
Più vago il giorno e di natura il riso;
|
Forse tu l'innocente
|
Secol beasti che dall'oro ha nome,
|
Or leve intra la gente
|
Anima voli? o te la sorte avara
|
Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?
|
Viva mirarti omai
|
Nulla spene m'avanza;
|
S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
|
Per novo calle a peregrina stanza
|
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
|
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
|
Te viatrice in questo arido suolo
|
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
|
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
|
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
|
Saria, così conforme, assai men bella.
|
Fra cotanto dolore
|
Quanto all'umana età propose il fato,
|
Se vera e quale il mio pensier ti
pinge,
|
Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
|
Questo viver beato:
|
E ben chiaro vegg'io siccome ancora
|
Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni
|
L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
|
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
|
E teco la mortal vita saria
|
Simile a quella che nel cielo india.
|
Per le valli, ove suona
|
Del faticoso agricoltore il canto,
|
Ed io seggo e mi lagno
|
Del giovanile error che m'abbandona;
|
E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
|
I perduti desiri, e la perduta
|
Speme de' giorni miei; di te pensando,
|
A palpitar mi sveglio. E potess'io,
|
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
|
L'alta specie serbar; che dell'imago,
|
Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.
|
Se dell'eterne idee
|
L'una sei tu, cui di sensibil forma
|
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
|
E fra caduche spoglie
|
Provar gli affanni di funerea vita;
|
O s'altra terra ne' supremi giri
|
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
|
E più vaga del Sol prossima stella
|
T'irraggia, e più benigno etere spiri;
|
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
|
Questo d'ignoto amante inno ricevi.
|
XIX
|
AL CONTE CARLO PEPOLI
|
Questo affannoso e travagliato sonno
|
Che noi vita nomiam, come sopporti,
|
Pepoli mio? di che speranze il core
|
Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
|
O gioconde o moleste opre dispensi
|
L'ozio che ti lasciàr gli avi remoti,
|
Grave retaggio e faticoso? È tutta,
|
In ogni umano stato, ozio la vita,
|
Se quell'oprar, quel procurar che a degno
|
Obbietto non intende, o che all'intento
|
Giunger mai non potria, ben si conviene
|
Ozioso nomar. La schiera industre
|
Cui franger glebe o curar piante e greggi
|
Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,
|
Se oziosa dirai, da che sua vita
|
È per campar la vita, e per sé sola
|
La vita all'uom non ha pregio nessuno,
|
Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni
|
Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
|
Sudar nelle officine, ozio le vegghie
|
Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;
|
E il mercatante avaro in ozio vive:
|
Che non a sé, non ad altrui, la bella
|
Felicità, cui solo agogna e cerca
|
La natura mortal, veruno acquista
|
Per cura o per sudor, vegghia o
periglio.
|
Pure all'aspro desire onde i mortali
|
Già sempre infin dal dì che il mondo nacque
|
D'esser beati sospiraro indarno,
|
Di medicina in loco apparecchiate
|
Nella vita infelice avea natura
|
Necessità diverse, a cui non senza
|
Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
|
Poi che lieto non può, corresse il giorno
|
All'umana famiglia; onde agitato
|
E confuso il desio, men loco avesse
|
Al travagliarne il cor. Così de' bruti
|
La progenie infinita, a cui pur solo,
|
Né men vano che a noi, vive nel petto
|
Desio d'esser beati; a quello intenta
|
Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
|
Condur si scopre e men gravoso il tempo,
|
Né la lentezza accagionar dell'ore.
|
Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano
|
Provveder commettiamo, una più grave
|
Necessità, cui provveder non puote
|
Altri che noi, già senza tedio e pena
|
Non adempiam: necessitate, io dico,
|
Di consumar la vita: improba, invitta
|
Necessità, cui non tesoro accolto,
|
Non di greggi dovizia, o pingui campi,
|
Non aula puote e non purpureo manto
|
Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno
|
I vòti anni prendendo, e la superna
|
Luce odiando, l'omicida mano,
|
I tardi fati a prevenir condotto,
|
In se stesso non torce; al duro morso
|
Della brama insanabile che invano
|
Felicità richiede, esso da tutti
|
Lati cercando, mille inefficaci
|
Medicine procaccia, onde quell'una
|
Cui natura apprestò, mal si compensa.
|
Lui delle vesti e delle chiome il culto
|
E degli atti e dei passi, e i vani studi
|
Di cocchi e di cavalli, e le frequenti
|
Sale, e le piazze romorose, e gli orti,
|
Lui giochi e cene e invidiate danze
|
Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
|
Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,
|
Nell'imo petto, grave, salda, immota
|
Come colonna adamantina, siede
|
Noia immortale, incontro a cui non puote
|
Vigor di giovanezza, e non la crolla
|
Dolce parola di rosato labbro,
|
E non lo sguardo tenero, tremante,
|
Di due nere pupille, il caro sguardo,
|
La più degna del ciel cosa mortale.
|
Altri, quasi a fuggir volto la trista
|
Umana sorte, in cangiar terre e climi
|
L'età spendendo, e mari e poggi errando
|
Tutto l'orbe trascorre, ogni confine
|
Degli spazi che all'uom negl'infiniti
|
Campi del tutto la natura aperse,
|
Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside
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Su l'alte prue la negra cura, e sotto
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Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
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Felicità, vive tristezza e regna.
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Havvi chi le crudeli opre di marte
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Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno
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Sangue la man tinge per ozio; ed havvi
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Chi d'altrui danni si conforta, e pensa
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Con far misero altrui far sé men tristo,
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Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
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E chi virtute o sapienza ed arti
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Perseguitando; e chi la propria gente
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Conculcando e l'estrane, o di remoti
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Lidi turbando la quiete antica
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Col mercatar, con l'armi, e con le frodi,
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La destinata sua vita consuma.
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Te più mite desio, cura più dolce
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Regge nel fior di gioventù, nel bello
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April degli anni, altrui giocondo e primo
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Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
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A chi patria non ha. Te punge e move
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Studio de' carmi e di ritrar parlando
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Il bel che raro e scarso e fuggitivo
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Appar nel mondo, e quel che più benigna
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Di natura e del ciel, fecondamente
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A noi la vaga fantasia produce
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E il nostro proprio error. Ben mille volte
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Fortunato colui che la caduca
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Virtù del caro immaginar non perde
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Per volger d'anni; a cui serbare eterna
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La gioventù del cor diedero i fati;
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Che nella ferma e nella stanca etade,
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Così come solea nell'età verde,
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In suo chiuso pensier natura abbella,
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Morte, deserto avviva. A te conceda
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Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo
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La favilla che il petto oggi ti scalda,
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Di poesia canuto amante. Io tutti
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Della prima stagione i dolci inganni
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Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
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Le dilettose immagini, che tanto
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Amai, che sempre infino all'ora estrema
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Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
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Or quando al tutto irrigidito e freddo
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Questo petto sarà, né degli aprichi
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Campi il sereno e solitario riso,
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Né degli augelli mattutini il canto
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Di primavera, né per colli e piagge
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Sotto limpido ciel tacita luna
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Commoverammi il cor; quando mi fia
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Ogni beltate o di natura o d'arte,
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Fatta inanime e muta; ogni alto senso,
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Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
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Del mio solo conforto allor mendico,
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Altri studi men dolci, in ch'io riponga
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L'ingrato avanzo della ferrea vita,
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Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
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Destini investigar delle mortali
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E dell'eterne cose; a che prodotta,
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A che d'affanni e di miserie carca
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L'umana stirpe; a quale ultimo intento
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Lei spinga il fato e la natura; a cui
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Tanto nostro dolor diletti o giovi:
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Con quali ordini e leggi a che si volva
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Questo arcano universo; il qual di lode
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Colmano i saggi, io d'ammirar son pago.
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In questo specolar gli ozi traendo
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Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
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Ha suoi diletti il vero. E se del vero
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Ragionando talor, fieno alle genti
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O mal grati i miei detti o non intesi,
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Non mi dorrò, che già del tutto il vago
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Desio di gloria antico in me fia spento:
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Vana Diva non pur, ma di fortuna
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E del fato e d'amor, Diva più cieca.
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XX
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IL RISORGIMENTO
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Credei ch'al tutto fossero
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In me, sul fior degli anni,
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Mancati i dolci affanni
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Della mia prima età:
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I dolci affanni, i teneri
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Moti del cor profondo,
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Qualunque cosa al mondo
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Grato il sentir ci fa.
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Quante querele e lacrime
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Sparsi nel novo stato,
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Quando al mio cor gelato
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Prima il dolor mancò!
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Mancàr gli usati palpiti,
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L'amor mi venne meno,
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E irrigidito il seno
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Di sospirar cessò!
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Piansi spogliata, esanime
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Fatta per me la vita
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La terra inaridita,
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Chiusa in eterno gel;
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Deserto il dì; la tacita
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Notte più sola e bruna;
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Spenta per me la luna,
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Spente le stelle in ciel.
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Pur di quel pianto origine
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Era l'antico affetto:
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Nell'intimo del petto
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Ancor viveva il cor.
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Chiedea l'usate immagini
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La stanca fantasia;
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E la tristezza mia
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Era dolore ancor.
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Fra poco in me quell'ultimo
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Dolore anco fu spento,
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E di più far lamento
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Valor non mi restò.
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Giacqui: insensato, attonito,
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Non dimandai conforto:
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Quasi perduto e morto,
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Il cor s'abbandonò.
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Qual fui! quanto dissimile
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Da quel che tanto ardore,
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Che sì beato errore
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Nutrii nell'alma un dì!
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La rondinella vigile,
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Alle finestre intorno
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Cantando al novo giorno,
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Il cor non mi ferì:
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Non all'autunno pallido
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In solitaria villa,
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La vespertina squilla,
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Il fuggitivo Sol.
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Invan brillare il vespero
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Vidi per muto calle,
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Invan sonò la valle
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Del flebile usignol.
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E voi, pupille tenere,
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Sguardi furtivi, erranti,
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Voi de' gentili amanti
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Primo, immortale amor,
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Ed alla mano offertami
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Candida ignuda mano,
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Foste voi pure invano
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Al duro mio sopor.
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D'ogni dolcezza vedovo,
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Tristo; ma non turbato,
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Ma placido il mio stato,
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Il volto era seren.
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Desiderato il termine
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Avrei del viver mio;
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Ma spento era il desio
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Nello spossato sen.
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Qual dell'età decrepita
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L'avanzo ignudo e vile,
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Io conducea l'aprile
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Degli anni miei così:
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Così quegl'ineffabili
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Giorni, o mio cor, traevi,
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Che sì fugaci e brevi
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Il cielo a noi sortì.
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Chi dalla grave, immemore
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Quiete or mi ridesta?
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Che virtù nova è questa,
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Questa che sento in me?
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Moti soavi, immagini,
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Palpiti, error beato,
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Per sempre a voi negato
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Questo mio cor non è?
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Siete pur voi quell'unica
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Luce de' giorni miei?
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Gli affetti ch'io perdei
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Nella novella età?
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Se al ciel, s'ai verdi margini,
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Ovunque il guardo mira,
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Tutto un dolor mi spira,
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Tutto un piacer mi dà.
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Meco ritorna a vivere
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La piaggia, il bosco, il monte;
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Parla al mio core il fonte,
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Meco favella il mar.
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Chi mi ridona il piangere
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Dopo cotanto obblio?
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E come al guardo mio
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Cangiato il mondo appar?
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Forse la speme, o povero
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Mio cor, ti volse un riso?
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Ahi della speme il viso
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Io non vedrò mai più.
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Proprii mi diede i palpiti,
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Natura, e i dolci inganni.
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Sopiro in me gli affanni
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L'ingenita virtù;
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Non l'annullàr: non vinsela
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Il fato e la sventura;
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Non con la vista impura
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L'infausta verità.
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Dalle mie vaghe immagini
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So ben ch'ella discorda:
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So che natura è sorda,
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Che miserar non sa.
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Che non del ben sollecita
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Fu, ma dell'esser solo:
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Purché ci serbi al duolo,
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Or d'altro a lei non cal.
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So che pietà fra gli uomini
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Il misero non trova;
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Che lui, fuggendo, a prova
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Schernisce ogni mortal.
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Che ignora il tristo secolo
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Gl'ingegni e le virtudi;
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Che manca ai degni studi
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L'ignuda gloria ancor.
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E voi, pupille tremule,
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Voi, raggio sovrumano,
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So che splendete invano,
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Che in voi non brilla amor.
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Nessuno ignoto ed intimo
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Affetto in voi non brilla:
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Non chiude una favilla
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Quel bianco petto in sé.
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Anzi d'altrui le tenere
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Cure suol porre in gioco;
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E d'un celeste foco
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Disprezzo è la mercè.
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Pur sento in me rivivere
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Gl'inganni aperti e noti;
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E, de' suoi proprii moti
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Si maraviglia il sen.
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Da te, mio cor, quest'ultimo
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Spirto, e l'ardor natio,
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Ogni conforto mio
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Solo da te mi vien.
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Mancano, il sento, all'anima
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Alta, gentile e pura,
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La sorte, la natura,
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Il mondo e la beltà.
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Ma se tu vivi, o misero,
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Se non concedi al fato,
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Non chiamerò spietato
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Chi lo spirar mi dà.
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