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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Canti

di: Giacomo Leopardi

VI -   BRUTO MINORE

VII  - ALLA PRIMAVERA O DELLE FAVOLE ANTICHE

VIII -   INNO AI PATRIARCHI O DE' PRINCIPII DEL GENERE UMANO

IX -   ULTIMO CANTO DI SAFFO

X -  IL PRIMO AMORE

XI - IL PASSERO SOLITARIO

XII -   L'INFINITO

XIII -   LA SERA DEL DÌ DI FESTA

 VI

BRUTO MINORE

Poi che divelta, nella tracia polve

Giacque ruina immensa

L'italica virtute, onde alle valli

D'Esperia verde, e al tiberino lido,

Il calpestio de' barbari cavalli

Prepara il fato, e dalle selve ignude

Cui l'Orsa algida preme,

A spezzar le romane inclite mura

Chiama i gotici brandi;

Sudato, e molle di fraterno sangue,

Bruto per l'atra notte in erma sede,

Fermo già di morir, gl'inesorandi

Numi e l'averno accusa,

E di feroci note

Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi

Dell'inquiete larve

Son le tue scole, e ti si volge a tergo

Il pentimento. A voi, marmorei numi,

(Se numi avete in Flegetonte albergo

O su le nubi) a voi ludibrio e scherno

È la prole infelice

A cui templi chiedeste, e frodolenta

Legge al mortale insulta.

Dunque tanto i celesti odii commove

La terrena pietà? dunque degli empi

Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta

Per l'aere il nembo, e quando

Il tuon rapido spingi,

Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata

Necessità gl'infermi

Schiavi di morte: e se a cessar non vale

Gli oltraggi lor, de' necessarii danni

Si consola il plebeo. Men duro è il male

Che riparo non ha? dolor non sente

Chi di speranza è nudo?

Guerra mortale, eterna, o fato indegno,

Teco il prode guerreggia,

Di cedere inesperto; e la tiranna

Tua destra, allor che vincitrice il grava,

Indomito scrollando si pompeggia,

Quando nell'alto lato

L'amaro ferro intride,

E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe

Nel Tartaro. Non fora

Tanto valor ne' molli eterni petti.

Forse i travagli nostri, e forse il cielo

I casi acerbi e gl'infelici affetti

Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?

Non fra sciagure e colpe,

Ma libera ne' boschi e pura etade

Natura a noi prescrisse,

Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra

Sparse i regni beati empio costume,

E il viver macro ad altre leggi addisse;

Quando gl'infausti giorni

Virile alma ricusa,

Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e de' lor proprii danni

Le fortunate belve

Serena adduce al non previsto passo

La tarda età. Ma se spezzar la fronte

Ne' rudi tronchi, o da montano sasso

Dare al vento precipiti le membra,

Lor suadesse affanno

Al misero desio nulla contesa

Legge arcana farebbe

O tenebroso ingegno. A voi, fra quante

Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,

Figli di Prometeo, la vita increbbe;

A voi le morte ripe,

Se il fato ignavo pende,

Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,

Candida luna, sorgi,

E l'inquieta notte e la funesta

All'ausonio valor campagna esplori.

Cognati petti il vincitor calpesta,

Fremono i poggi, dalle somme vette

Roma antica ruina;

Tu sì placida sei? Tu la nascente

Lavinia prole, e gli anni

Lieti vedesti, e i memorandi allori;

E tu su l'alpe l'immutato raggio

Tacita verserai quando ne' danni

Del servo italo nome,

Sotto barbaro piede

Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo

E la fera e l'augello,

Del consueto obblio gravido il petto,

L'alta ruina ignora e le mutate

Sorti del mondo: e come prima il tetto

Rosseggerà del villanello industre,

Al mattutino canto

Quel desterà le valli, e per le balze

Quella l'inferma plebe

Agiterà delle minori belve.

Oh casi! oh gener vano! abbietta parte

Siam delle cose; e non le tinte glebe,

Non gli ululati spechi

Turbò nostra sciagura,

Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi

Regi, o la terra indegna,

E non la notte moribondo appello;

Non te, dell'atra morte ultimo raggio,

Conscia futura età. Sdegnoso avello

Placàr singulti, ornàr parole e doni

Di vil caterva? In peggio

Precipitano i tempi; e mal s'affida

A putridi nepoti

L'onor d'egregie menti e la suprema

De' miseri vendetta. A me dintorno

Le penne il bruno augello avido roti;

Prema la fera, e il nembo

Tratti l'ignota spoglia;

E l'aura il nome e la memoria accoglia.

VII

ALLA PRIMAVERA

O DELLE FAVOLE ANTICHE

Perché i celesti danni

Ristori il sole, e perché l'aure inferme

Zefiro avvivi, onde fugata e sparta

Delle nubi la grave ombra s'avvalla;

Credano il petto inerme

Gli augelli al vento, e la diurna luce

Novo d'amor desio, nova speranza

Ne' penetrati boschi e fra le sciolte

Pruine induca alle commosse belve;

Forse alle stanche e nel dolor sepolte

Umane menti riede

La bella età, cui la sciagura e l'atra

Face del ver consunse

Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti

Di febo i raggi al misero non sono

In sempiterno? ed anco,

Primavera odorata, inspiri e tenti

Questo gelido cor, questo ch'amara

Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?

Vivi tu, vivi, o santa

Natura? vivi e il dissueto orecchio

Della materna voce il suono accoglie?

Già di candide ninfe i rivi albergo,

Placido albergo e specchio

Furo i liquidi fonti. Arcane danze

D'immortal piede i ruinosi gioghi

Scossero e l'ardue selve (oggi romito

Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre

Meridiane incerte ed al fiorito

Margo adducea de' fiumi

Le sitibonde agnelle, arguto carme

Sonar d'agresti Pani

Udì lungo le ripe; e tremar l'onda

Vide, e stupì, che non palese al guardo

La faretrata Diva

Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda

Polve tergea della sanguigna caccia

Il niveo lato e le verginee braccia.

Vissero i fiori e l'erbe,

Vissero i boschi un dì. Conscie le molli

Aure, le nubi e la titania lampa

Fur dell'umana gente, allor che ignuda

Te per le piagge e i colli,

Ciprigna luce, alla deserta notte

Con gli occhi intenti il viator seguendo,

Te compagna alla via, te de' mortali

Pensosa immaginò. Che se gl'impuri

Cittadini consorzi e le fatali

Ire fuggendo e l'onte,

Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime

Selve remoto accolse,

Viva fiamma agitar l'esangui vene,

Spirar le foglie, e palpitar segreta

Nel doloroso amplesso

Dafne o la mesta Filli, o di Climene

Pianger credè la sconsolata prole

Quel che sommerse in Eridano il sole.

Né dell'umano affanno,

Rigide balze, i luttuosi accenti

Voi negletti ferìr mentre le vostre

Paurose latebre Eco solinga,

Non vano error de' venti,

Ma di ninfa abitò misero spirto,

Cui grave amor, cui duro fato escluse

Delle tenere membra. Ella per grotte,

Per nudi scogli e desolati alberghi,

Le non ignote ambasce e l'alte e rotte

Nostre querele al curvo

Etra insegnava. E te d'umani eventi

Disse la fama esperto,

Musico augel che tra chiomato bosco

Or vieni il rinascente anno cantando,

E lamentar nell'alto

Ozio de' campi, all'aer muto e fosco,

Antichi danni e scellerato scorno,

E d'ira e di pietà pallido il giorno.

Ma non cognato al nostro

Il gener tuo; quelle tue varie note

Dolor non forma, e te di colpa ignudo,

Men caro assai la bruna valle asconde.

Ahi ahi, poscia che vote

Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono

Per l'atre nubi e le montagne errando,

Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro

In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano

Il suol nativo, e di sua prole ignaro

Le meste anime educa;

Tu le cure infelici e i fati indegni

Tu de' mortali ascolta,

Vaga natura, e la favilla antica

Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,

E se de' nostri affanni

Cosa veruna in ciel, se nell'aprica

Terra s'alberga o nell'equoreo seno,

Pietosa no, ma spettatrice almeno.

VIII

INNO AI PATRIARCHI

O DE' PRINCIPII DEL GENERE UMANO

E voi de' figli dolorosi il canto,

Voi dell'umana prole incliti padri,

Lodando ridirà; molto all'eterno

Degli astri agitator più cari, e molto

Di noi men lacrimabili nell'alma

Luce prodotti. Immedicati affanni

Al misero mortal, nascere al pianto,

E dell'etereo lume assai più dolci

Sortir l'opaca tomba e il fato estremo,

Non la pietà, non la diritta impose

Legge del cielo. E se di vostro antico

Error che l'uman seme alla tiranna

Possa de' morbi e di sciagura offerse,

Grido antico ragiona, altre più dire

Colpe de' figli, e irrequieto ingegno,

E demenza maggior l'offeso Olimpo

N'armaro incontra, e la negletta mano

Dell'altrice natura; onde la viva

Fiamma n'increbbe, e detestato il parto

Fu del grembo materno, e violento

Emerse il disperato Erebo in terra.

Tu primo il giorno, e le purpuree faci

Delle rotanti sfere, e la novella

Prole de' campi, o duce antico e padre

Dell'umana famiglia, e tu l'errante

Per li giovani prati aura contempli:

Quando le rupi e le deserte valli

Precipite l'alpina onda feria

D'inudito fragor; quando gli ameni

Futuri seggi di lodate genti

E di cittadi romorose, ignota

Pace regnava; e gl'inarati colli

Solo e muto ascendea l'aprico raggio

Di febo e l'aurea luna. Oh fortunata,

Di colpe ignara e di lugubri eventi,

Erma terrena sede! Oh quanto affanno

Al gener tuo, padre infelice, e quale

D'amarissimi casi ordine immenso

Preparano i destini! Ecco di sangue

Gli avari colti e di fraterno scempio

Furor novello incesta, e le nefande

Ali di morte il divo etere impara.

Trepido, errante il fratricida, e l'ombre

Solitarie fuggendo e la secreta

Nelle profonde selve ira de' venti,

Primo i civili tetti, albergo e regno

Alle macere cure, innalza; e primo

Il disperato pentimento i ciechi

Mortali egro, anelante, aduna e stringe

Ne' consorti ricetti: onde negata

L'improba mano al curvo aratro, e vili

Fur gli agresti sudori; ozio le soglie

Scellerate occupò; ne' corpi inerti

Domo il vigor natio, languide, ignave

Giacquer le menti; e servitù le imbelli

Umane vite, ultimo danno, accolse.

E tu dall'etra infesto e dal mugghiante

Su i nubiferi gioghi equoreo flutto

Scampi l'iniquo germe, o tu cui prima

Dall'aer cieco e da' natanti poggi

Segno arrecò d'instaurata spene

La candida colomba, e delle antiche

Nubi l'occiduo Sol naufrago uscendo,

L'atro polo di vaga iri dipinse.

Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi

Studi rinnova e le seguaci ambasce

La riparata gente. Agl'inaccessi

Regni del mar vendicatore illude

Profana destra, e la sciagura e il pianto

A novi liti e nove stelle insegna.

Or te, padre de' pii, te giusto e forte,

E di tuo seme i generosi alunni

Medita il petto mio. Dirò siccome

Sedente, oscuro, in sul meriggio all'ombre

Del riposato albergo, appo le molli

Rive del gregge tuo nutrici e sedi,

Te de' celesti peregrini occulte

Beàr l'eteree menti; e quale, o figlio

Della saggia Rebecca, in su la sera,

Presso al rustico pozzo e nella dolce

Di pastori e di lieti ozi frequente

Aranitica valle, amor ti punse

Della vezzosa Labanide: invitto

Amor, ch'a lunghi esigli e lunghi affanni

E di servaggio all'odiata soma

Volenteroso il prode animo addisse.

Fu certo, fu (né d'error vano e d'ombra

L'aonio canto e della fama il grido

Pasce l'avida plebe) amica un tempo

Al sangue nostro e dilettosa e cara

Questa misera piaggia, ed aurea corse

Nostra caduca età. Non che di latte

Onda rigasse intemerata il fianco

Delle balze materne, o con le greggi

Mista la tigre ai consueti ovili

Né guidasse per gioco i lupi al fonte

Il pastorel; ma di suo fato ignara

E degli affanni suoi, vota d'affanno

Visse l'umana stirpe; alle secrete

Leggi del cielo e di natura indutto

Valse l'ameno error, le fraudi, il molle

Pristino velo; e di sperar contenta

Nostra placida nave in porto ascese.

Tal fra le vaste californie selve

Nasce beata prole, a cui non sugge

Pallida cura il petto, a cui le membra

Fera tabe non doma; e vitto il bosco,

Nidi l'intima rupe, onde ministra

L'irrigua valle, inopinato il giorno

Dell'atra morte incombe. Oh contra il nostro

Scellerato ardimento inermi regni

Della saggia natura! I lidi e gli antri

E le quiete selve apre l'invitto

Nostro furor; le violate genti

Al peregrino affanno, agl'ignorati

Desiri educa; e la fugace, ignuda

Felicità per l'imo sole incalza.

IX

ULTIMO CANTO DI SAFFO

Placida notte, e verecondo raggio

Della cadente luna; e tu che spunti

Fra la tacita selva in su la rupe,

Nunzio del giorno; oh dilettose e care

Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,

Sembianze agli occhi miei; già non arride

Spettacol molle ai disperati affetti.

Noi l'insueto allor gaudio ravviva

Quando per l'etra liquido si volve

E per li campi trepidanti il flutto

Polveroso de' Noti, e quando il carro,

Grave carro di Giove a noi sul capo,

Tonando, il tenebroso aere divide.

Noi per le balze e le profonde valli

Natar giova tra' nembi, e noi la vasta

Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto

Fiume alla dubbia sponda

Il suono e la vittrice ira dell'onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

Infinita beltà parte nessuna

Alla misera Saffo i numi e l'empia

Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni

Vile, o natura, e grave ospite addetta,

E dispregiata amante, alle vezzose

Tue forme il core e le pupille invano

Supplichevole intendo. A me non ride

L'aprico margo, e dall'eterea porta

Il mattutino albor; me non il canto

De' colorati augelli, e non de' faggi

Il murmure saluta: e dove all'ombra

Degl'inchinati salici dispiega

Candido rivo il puro seno, al mio

Lubrico piè le flessuose linfe

Disdegnando sottragge,

E preme in fuga l'odorate spiagge.

Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso

Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo

Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?

In che peccai bambina, allor che ignara

Di misfatto è la vita, onde poi scemo

Di giovanezza, e disfiorato, al fuso

Dell'indomita Parca si volvesse

Il ferrigno mio stame? Incaute voci

Spande il tuo labbro: i destinati eventi

Move arcano consiglio. Arcano è tutto,

Fuor che il nostro dolor. Negletta prole

Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo

De' celesti si posa. Oh cure, oh speme

De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre,

Alle amene sembianze eterno regno

Diè nelle genti; e per virili imprese,

Per dotta lira o canto,

Virtù non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto

Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,

E il crudo fallo emenderà del cieco

Dispensator de' casi. E tu cui lungo

Amore indarno, e lunga fede, e vano

D'implacato desio furor mi strinse,

Vivi felice, se felice in terra

Visse nato mortal. Me non asperse

Del soave licor del doglio avaro

Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno

Della mia fanciullezza. Ogni più lieto

Giorno di nostra età primo s'invola.

Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra

Della gelida morte. Ecco di tante

Sperate palme e dilettosi errori,

Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno

Han la tenaria Diva,

E l'atra notte, e la silente riva.

X

IL PRIMO AMORE

Tornami a mente il dì che la battaglia

D'amor sentii la prima volta, e dissi:

Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!

Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,

Io mirava colei ch'a questo core

Primiera il varco ed innocente aprissi.

Ahi come mal mi governasti, amore!

Perché seco dovea sì dolce affetto

Recar tanto desio, tanto dolore?

E non sereno, e non intero e schietto,

Anzi pien di travaglio e di lamento

Al cor mi discendea tanto diletto?

Dimmi, tenero core, or che spavento,

Che angoscia era la tua fra quel pensiero

Presso al qual t'era noia ogni contento?

Quel pensier che nel dì, che lusinghiero

Ti si offeriva nella notte, quando

Tutto queto parea nell'emisfero:

Tu inquieto, e felice e miserando,

M'affaticavi in su le piume il fianco,

Ad ogni or fortemente palpitando.

E dove io tristo ed affannato e stanco

Gli occhi al sonno chiudea, come per febre

Rotto e deliro il sonno venia manco.

Oh come viva in mezzo alle tenebre

Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi

La contemplavan sotto alle palpebre!

Oh come soavissimi diffusi

Moti per l'ossa mi serpeano, oh come

Mille nell'alma instabili, confusi

Pensieri si volgean! qual tra le chiome

D'antica selva zefiro scorrendo,

Un lungo, incerto mormorar ne prome.

E mentre io taccio, e mentre io non contendo,

Che dicevi, o mio cor, che si partia

Quella per che penando ivi e battendo?

Il cuocer non più tosto io mi sentia

Della vampa d'amor, che il venticello

Che l'aleggiava, volossene via.

Senza sonno io giacea sul dì novello,

E i destrier che dovean farmi deserto,

Battean la zampa sotto al patrio ostello.

Ed io timido e cheto ed inesperto,

Ver lo balcone al buio protendea

L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,

La voce ad ascoltar, se ne dovea

Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;

La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.

Quante volte plebea voce percosse

Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,

E il core in forse a palpitar si mosse!

E poi che finalmente mi discese

La cara voce al core, e de' cavai

E delle rote il romorio s'intese;

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai

Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,

Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

Poscia traendo i tremuli ginocchi

Stupidamente per la muta stanza,

Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

Amarissima allor la ricordanza

Locommisi nel petto, e mi serrava

Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava,

Com'è quando a distesa Olimpo piove

Malinconicamente e i campi lava.

Ned io ti conoscea, garzon di nove

E nove Soli, in questo a pianger nato

Quando facevi, amor, le prime prove.

Quando in ispregio ogni piacer, né grato

M'era degli astri il riso, o dell'aurora

Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

Anche di gloria amor taceami allora

Nel petto, cui scaldar tanto solea,

Che di beltade amor vi fea dimora.

Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,

E quelli m'apparian vani per cui

Vano ogni altro desir creduto avea.

Deh come mai da me sì vario fui,

E tanto amor mi tolse un altro amore?

Deh quanto, in verità, vani siam nui!

Solo il mio cor piaceami, e col mio core

In un perenne ragionar sepolto,

Alla guardia seder del mio dolore.

E l'occhio a terra chino o in sé raccolto,

Di riscontrarsi fuggitivo e vago

Né in leggiadro soffria né in turpe volto:

Che la illibata, la candida imago

Turbare egli temea pinta nel seno,

Come all'aure si turba onda di lago.

E quel di non aver goduto appieno

Pentimento, che l'anima ci grava,

E il piacer che passò cangia in veleno,

Per li fuggiti dì mi stimolava

Tuttora il sen: che la vergogna il duro

Suo morso in questo cor già non oprava.

Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro

Che voglia non m'entrò bassa nel petto,

Ch'arsi di foco intaminato e puro.

Vive quel foco ancor, vive l'affetto,

Spira nel pensier mio la bella imago,

Da cui, se non celeste, altro diletto

Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.

XI

IL PASSERO SOLITARIO

D'in su la vetta della torre antica,

Passero solitario, alla campagna

Cantando vai finché non more il giorno;

Ed erra l'armonia per questa valle.

Primavera dintorno

Brilla nell'aria, e per li campi esulta,

Sì ch'a mirarla intenerisce il core.

Odi greggi belar, muggire armenti;

Gli altri augelli contenti, a gara insieme

Per lo libero ciel fan mille giri,

Pur festeggiando il lor tempo migliore:

Tu pensoso in disparte il tutto miri;

Non compagni, non voli,

Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;

Canti, e così trapassi

Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia

Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,

Della novella età dolce famiglia,

E te german di giovinezza, amore,

Sospiro acerbo de' provetti giorni,

Non curo, io non so come; anzi da loro

Quasi fuggo lontano;

Quasi romito, e strano

Al mio loco natio,

Passo del viver mio la primavera.

Questo giorno ch'omai cede alla sera,

Festeggiar si costuma al nostro borgo.

Odi per lo sereno un suon di squilla,

Odi spesso un tonar di ferree canne,

Che rimbomba lontan di villa in villa.

Tutta vestita a festa

La gioventù del loco

Lascia le case, e per le vie si spande;

E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.

Io solitario in questa

Rimota parte alla campagna uscendo,

Ogni diletto e gioco

Indugio in altro tempo: e intanto il guardo

Steso nell'aria aprica

Mi fere il Sol che tra lontani monti,

Dopo il giorno sereno,

Cadendo si dilegua, e par che dica

Che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera

Del viver che daranno a te le stelle,

Certo del tuo costume

Non ti dorrai; che di natura è frutto

Ogni vostra vaghezza.

A me, se di vecchiezza

La detestata soglia

Evitar non impetro,

Quando muti questi occhi all'altrui core,

E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro

Del dì presente più noioso e tetro,

Che parrà di tal voglia?

Che di quest'anni miei? che di me stesso?

Ahi pentirommi, e spesso,

Ma sconsolato, volgerommi indietro.

XII

L'INFINITO

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s'annega il pensier mio:

E il naufragar m'è dolce in questo mare.

XIII

LA SERA DEL DÌ DI FESTA

Dolce e chiara è la notte e senza vento,

E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

Posa la luna, e di lontan rivela

Serena ogni montagna. O donna mia,

Già tace ogni sentiero, e pei balconi

Rara traluce la notturna lampa:

Tu dormi, che t'accolse agevol sonno

Nelle tue chete stanze; e non ti morde

Cura nessuna; e già non sai né pensi

Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno

Appare in vista, a salutar m'affaccio,

E l'antica natura onnipossente,

Che mi fece all'affanno. A te la speme

Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro

Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

Questo dì fu solenne: or da' trastulli

Prendi riposo; e forse ti rimembra

In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,

Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

Quanto a viver mi resti, e qui per terra

Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi

In così verde etate! Ahi, per la via

Odo non lunge il solitario canto

Dell'artigian, che riede a tarda notte,

Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;

E fieramente mi si stringe il core,

A pensar come tutto al mondo passa,

E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

Il dì festivo, ed al festivo il giorno

Volgar succede, e se ne porta il tempo

Ogni umano accidente. Or dov'è il suono

Di que' popoli antichi? or dov'è il grido

De' nostri avi famosi, e il grande impero

Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio

Che n'andò per la terra e l'oceano?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

Il mondo, e più di lor non si ragiona.

Nella mia prima età, quando s'aspetta

Bramosamente il dì festivo, or poscia

Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,

Premea le piume; ed alla tarda notte

Un canto che s'udia per li sentieri

Lontanando morire a poco a poco,

Già similmente mi stringeva il core.

 

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Ultimo Aggiornamento:18/07/2005 01.33