Capitolo 5 |
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L'impunità e la tortura avevan prodotto due storie; e
benché questo bastasse a tali giudici per proferir due condanne, vedremo ora come
lavorassero e riuscissero, per quanto era possibile, a rifonder le due storie in una sola.
Vedremo poi, in ultimo, come mostrassero, col fatto, d'esser persuasi essi medesimi, anche
di questa. |
Il senato confermò e estese la decisione de' suoi
delegati. "Sentito ciò che risultava dalla confessione di Giangiacomo Mora,
riscontrate le cose antecedenti, considerato ogni cosa," meno l'esserci, per un solo
delitto, due autori principali diversi, due diverse cagioni, due diversi ordini di fatti,
"ordinò che il Mora suddetto... fosse di nuovo interrogato diligentissimamente,
però senza tortura, per fargli spiegar meglio le cose confessate, e ricavar da lui gli
altri autori, mandanti, complici del delitto; e che dopo l'esame fosse costituito reo, con
la narrativa del fatto, d'aver composto l'unguento mortifero, e datolo a Guglielmo Piazza;
e gli fosse assegnato il termine di tre giorni per far le sue difese. E in quanto al
Piazza, fosse interrogato se aveva altro da aggiungere alla sua confessione, la quale si
trovava mancante; e, non n'avendo, fosse costituito reo d'avere sparso l'unguento
suddetto, e assegnatogli il medesimo termine per le difese." Cioè: vedete di cavar
dall'uno e dall'altro quello che si potrà: a ogni modo, sian costituiti rei, ognuno sulla
sua confessione, benché siano due confessioni contrarie. |
Cominciaron dal Piazza, e in quel giorno medesimo. Da
aggiungere, lui non aveva nulla, e non sapeva che n'avevan loro; e forse, accusando un
innocente, non aveva preveduto che si creava un accusatore. Gli domandano perché non ha
deposto d'aver dato al barbiere della bava d'appestati, per comporre l'unguento. Non
gli ho dato niente,risponde; come se quelli che gli avevan creduta la bugia, dovessero
credergli anche la verità. Dopo un andirivieni d'altre interrogazioni, gli protestano che,
per non hauer detta la verità intera, come hauea promesso, non può né deue godere della
impunità che se gli era promessa. Allora dice subito: Signore, è vero che il
suddetto Barbiero mi ricercò a portargli quella materia, et io glie la portai, per fare
il detto onto. Sperava, con l'ammetter tutto, di ripescar la sua impunità. Poi, o per
farsi sempre più merito, o per guadagnar tempo, soggiunse che i danari promessigli dal
barbiere dovevan venire da una persona grande,e che l'aveva saputo dal barbiere
medesimo, ma senza potergli mai cavar di bocca chi fosse. Non aveva avuto tempo
d'inventarla. |
Ne domandarono al Mora, il giorno dopo; e probabilmente
il poverino l'avrebbe inventata lui, come avrebbe potuto, se fosse stato messo alla
tortura. Ma, come abbiam visto, il senato l'aveva esclusa per quella volta, affine, si
vede, di render meno sfrontatamente estorta la nuova ratificazione che volevano della sua
confessione antecedente. Perciò, interrogato se lui Constituto fu il primo a ricercare
il detto Commissario... et gli promise quantità de danari;rispose: Signor no; e
doue vole V.S. che pigli mi (io) questa quantità de danari?Potevano infatti
rammentarsi che, nella minutissima visita fattagli in casa quando l'arrestarono, il tesoro
che gli avevan trovato, era un baslotto (una ciotola), con dentro cinque parpagliole(dodici
soldi e mezzo). Domandato della persona grande, rispose: V.S. non vole già se
non la verità, e la verità io l'ho detta quando sono stato tormentato, et ho detto anche
d'avantaggio. |
Ne' due estratti non è fatto menzione che abbia
ratificata la confessione antecedente; se, come è da credere, glielo fecero fare, quelle
parole erano una protesta, della quale lui forse non conosceva la forza; ma essi la
dovevan conoscere. E del rimanente, da Bartolo, anzi dalla Glossa, fino al Farinacci, era
stata, ed era sempre dottrina comune, e come assioma della giurisprudenza, che "la
confessione fatta ne' tormenti che fossero dati senza indizi legittimi, rimaneva nulla e
invalida, quand'anche fosse poi ratificata mille volte senza tormenti: etiam quod
millies sponte sit ratificata(76) ". |
Dopo di ciò, fu a lui e al Piazza pubblicato, come
allora si diceva, il processo (cioè comunicati gli atti), e dato il termine di due giorni
a far le loro difese: e non si vede perché uno di meno di quello che aveva decretato il
senato. Fu all'uno e all'altro assegnato un difensore d'ufizio: quello assegnato al Mora
se ne scusò. Il Verri attribuisce, per congettura, quel rifiuto a una cagione che pur
troppo non è strana in quel complesso di cose. "Il furore", dice, "era
giunto al segno, che si credeva un'azione cattiva e disonorante il difender questa
disgraziata vittima.(77) " Ma nell'estratto stampato, che il Verri non doveva aver
visto, è registrata la cagion vera, forse non meno strana, e, da una parte, anche più
trista. Lo stesso giorno, due di luglio, il notaio Mauri, chiamato a difendere il detto
Mora, disse: io non posso accettare questo carico, perché, prima sono Notaro
criminale, a chi non conviene accettar patrocinij, et poi anche perché non sono né
Procuratore, né Avocato; anderò bene a parlarli, per darli gusto (per fargli
piacere), ma non accettarò il patrocinio. A un uomo condotto ormai appiè del
supplizio (e di qual supplizio! e in qual maniera!), a un uomo privo d'aderenze, come di
lumi, e che non poteva aver soccorso se non da loro, o per mezzo loro, davano per
difensore uno che mancava delle qualità necessarie a un tal incarico, e n'aveva delle
incompatibili! Con tanta leggerezza procedevano! mettiam pure che non c'entrasse malizia.
E toccava a un subalterno a richiamarli all'osservanza delle regole più note, e più
sacrosante! |
Tornato, disse: sono stato dal Mora, il quale mi ha
detto liberamente che non ha fallato, et che quello che ha detto, l'ha detto per i
tormenti; et perché gli ho detto liberamente che non voleuo né poteuo sostener questo
carico di diffenderlo, mi ha detto che almeno il Sig. Presidente sij servito (si
degni) di prouederli d'un diffensore, et che non voglia permettere che habbi da morire
indiffeso.Di tali favori, e con tali parole, l'innocenza supplicava l'ingiustizia!
Gliene nominarono infatti un altro. |
Quello assegnato al Piazza, "comparve e chiese a
voce che gli fosse fatto vedere il processo del suo cliente; e avutolo, lo lesse".
Era questo il comodo che davano alle difese? Non sempre, poiché l'avvocato del Padilla,
che divenne, come or ora vedremo, il concreto della persona grandebuttata là in
astratto e in aria, ebbe a sua disposizione il processo medesimo, tanto da farne copiar
quella buona parte che è venuta per quel mezzo a nostra notizia. |
Sullo spirar del termine, i due sventurati chiesero una
proroga: "il senato concesse loro tutto il giorno seguente, e non più: et non
ultra". Le difese del Padilla furon presentate in tre volte: una parte il 24 di
luglio 1631; la quale "fu ammessa senza pregiudizio della facoltà di presentar più
tardi il rimanente"; l'altra il 13 d'aprile 1632; e l'ultima il 10 di maggio
dell'anno medesimo: era allora arrestato da circa due anni. Lentezza dolorosa davvero, per
un innocente; ma, paragonata alla precipitazione usata col Piazza e col Mora, per i quali
non fu lungo che il supplizio, una tal lentezza è una parzialità mostruosa. |
Quella nuova invenzione del Piazza sospese però il
supplizio per alcuni giorni, pieni di bugiarde speranze, ma insieme di nuove crudeli
torture, e di nuove funeste calunnie. L'auditore della Sanità fu incaricato di ricevere,
in gran segreto, e senza presenza di notaio, una nuova deposizione di costui; e questa
volta fu lui che promosse l'abboccamento, per mezzo del suo difensore, facendo intendere
che aveva qualcosa di più da rivelare intorno alla persona grande. Pensò
probabilmente che, se gli riusciva di tirare in quella rete, così chiusa alla fuga, così
larga all'entrata, un pesce grosso; questo per uscirne, ci farebbe un tal rotto, che ne
potrebbero scappar fuori anche i piccoli. E siccome, tra le molte e varie congetture
ch'eran girate per le bocche della gente, intorno agli autori di quel funesto
imbrattamento del 18 di maggio (ché la violenza del giudizio fu dovuta in gran parte
all'irritazione, allo spavento, alla persuasione prodotta da quello: e quanto i veri
autori di esso furon più colpevoli di quello che conoscessero loro medesimi!), s'era
anche detto che fossero ufiziali spagnoli, così lo sciagurato inventore trovò anche qui
qualcosa da attaccarsi. L'esser poi il Padilla figliuolo del comandante del castello, e
l'aver quindi un protettor naturale, che, per aiutarlo, avrebbe potuto disturbare il
processo, fu probabilmente ciò che mosse il Piazza a nominar lui piuttosto che un altro:
se pure non era il solo ufiziale spagnolo che conoscesse, anche di nome. Dopo
l'abboccamento, fu chiamato a confermar giudizialmente la sua nuova deposizione.
Nell'altra aveva detto che il barbiere non gli aveva voluto nominar la persona grande.
Ora veniva a sostenere il contrario; e per diminuire, in qualche maniera, la
contradizione, disse che non gliel'aveva nominata subito. Finalmente mi disse doppo il
spatio di quattro o cinque giorni, che questo capo grosso era un tale di Padiglia, il cui
nome non mi raccordo, benché me lo disse; so bene, et mi raccordo precisamente che disse
esser figliolo del Sig. Castellano nel Castello di Milano. Danari, però, non solo non
disse d'averne ricevuti dal barbiere, ma protestò di non saper nemmeno se questo n'avesse
avuti dal Padilla. |
Fu fatta sottoscrivere al Piazza questa deposizione, e
spedito subito l'auditore della Sanità a comunicarla al governatore, come riferisce il
processo; e sicuramente a domandargli se consentirebbe, occorrendo, a consegnare
all'autorità civile il Padilla, ch'era capitano di cavalleria, e si trovava allora
all'esercito, nel Monferrato. Tornato l'auditore, e fatta subito confermar di nuovo la
deposizione al Piazza, s'andò di nuovo addosso all'infelice Mora. Il quale, all'istanze
per fargli dire che lui aveva promesso danari al commissario, e confidatogli che aveva una
persona grande, e dettogli finalmente chi fosse, rispose: non si trouarà mai in
eterno: se io lo sapessi, lo direi, in conscienza mia.Si viene a un nuovo confronto, e
si domanda al Piazza, se è vero che il Mora gli ha promesso danari, dichiarando che
tutto ciò faceua d'ordine et commissione del Padiglia, figliolo del signor Castellano di
Milano. Il difensor del Padilla osserva, con gran ragione, che, "sotto pretesto
di confronto", fecero così conoscere al Mora "quello che si desiderava
dicesse". Infatti, senza questo, o altro simil mezzo, non sarebbero certamente
riusciti a fargli buttar fuori quel personaggio. La tortura poteva bensì renderlo
bugiardo, ma non indovino. |
Il Piazza sostenne quel che aveva deposto. E voi
volete dir questo?esclamò il Mora. Sì, che lo voglio dire, che è la verità,
replicò lo sventurato impudente: et sono a questo mal termine per voi, et sapete bene
che mi diceste questo sopra l'uschio della vostra bottega. Il Mora, che aveva forse
sperato di poter, con l'aiuto del difensore, mettere in chiaro la sua innocenza, e ora
prevedeva che nuove torture gli avrebbero estorta una nuova confessione, non ebbe nemmeno
la forza d'opporre un'altra volta la verità alla bugia. Disse soltanto: patientia! per
amor di voi, morirò. |
Infatti, rimandato subito il Piazza, intimano a lui, che
dica hormai la verità; e appena ha risposto: Signore, la verità l'ho detta;
gli minacciano la tortura: il che si farà sempre senza pregiuditio di quello che è
convitto, et confesso, et non altrimenti. Era una formola solita; ma l'averla adoprata
in questo caso fa vedere fino a che segno la smania di condannare gli avesse privati della
facoltà di riflettere. Come mai la confessione d'avere indotto il Piazza al delitto con
la promessa de' danari che si avrebbero dal Padilla, poteva non far pregiudizio alla
confessione d'essersi lasciato indurre al delitto dal Piazza, per la speranza di guadagnar
col preservativo? |
Messo alla tortura, confermò subito tutto quello che
aveva detto il commissario; ma non bastando questo ai giudici, disse che infatti il
Padilla gli aveva proposto di fare un ontione da ongere le Porte et Cadenazzi,
promessigli danari quanti ne volesse, datigliene quanti n'aveva voluti. |
Noi altri, che non abbiamo, né timor d'unzioni, né
furore contro untori, né altri furiosi da soddisfare, vediamo chiaramente, e senza
fatica, come sia venuta, e da che sia stata mossa una tal confessione. Ma, se ce ne fosse
bisogno, n'abbiamo anche la dichiarazione di chi l'aveva fatta. Tra le molte testimonianze
che il difensor del Padilla poté raccogliere, c'è quella d'un capitano Sebastiano
Gorini, che si trovava, in quel tempo (non si sa per qual cagione) nelle stesse carceri, e
che parlava spesso con un servitore dell'auditor della Sanità, stato messo per guardia a
quell'infelice. Depone così: "mi disse detto servitore, sendo se non (appena)
all'hora stato detto Barbiere rimenato dall'esame: V.S. non sa che il Barbiere m'ha detto
adesso adesso, che nell'esame che ha fatto, ha dato fuori (buttato fuori) il Sig.
Don Gioanni figliolo del Sig. Castellano? Et io, ciò sentendo, restai stupito, et li
dissi: è vero questo? Et esso servitore mi replicò che era vero; ma che era anche vero
che lui protestava di non raccordarsi di non hauer forsi mai parlato con alcuno spagnuolo,
et che se li hauessero mostrato detto Sig. Don Gioanni, non l'haurebbe né anche
conosciuto. Et soggiongendo, esso servitore, disse: io li dissi perché dunque lo haueua
dato fuori? et lui disse che l'haueua dato fuori per hauerlo sentito nominare là, et che
perciò rispondeua a tutto quello che sentiva, o che li veniua così in bocca."
Questo valse (e ne sia ringraziato il cielo) a favor del Padilla; ma vogliam noi credere
che i giudici, i quali avevan messo, o lasciato mettere per guardia al Mora un servitore
di quell'auditor così attivo, così investigatore, non risapessero, se non tanto tempo
dopo, e accidentalmente da un testimonio, quelle parole così verisimili, dette senza
speranza, un momento dopo quelle così strane che gli aveva estorte il dolore? |
E perché, tra tante cose dell'altro mondo, parve
strana anche ai giudici quella relazione tra il barbier milanese e il cavaliere spagnolo;
e domandarono chi c'era stato di mezzo, alla prima disse ch'era stato uno de' suoi,fatto
e vestito così e così. Ma incalzato a nominarlo, disse: Don Pietro di Saragoza.
Questo almeno era un personaggio immaginario. |
Ne furon poi fatte (dopo il supplizio del Mora,
s'intende) le più minute e ostinate ricerche. S'interrogarono soldati e ufiziali,
compreso il comandante stesso del castello, don Francesco de Vargas, succeduto allora al
padre del Padilla: nessuno l'aveva mai sentito nominare. Se non che si trovò finalmente,
nelle carceri del podestà, un Pietro Verdeno, nativo di Saragozza, accusato di furto.
Costui, esaminato, disse che in quel tempo era a Napoli; messo alla tortura, sostenne il
suo detto; e non si parlò più di Don Pietro di Saragozza. |
Sempre incalzato da nuove domande, il Mora aggiunse che
lui aveva poi fatto la proposta al commissario, il quale aveva anche lui avuto danari per
questo, da non so chi.E certo non lo sapeva; ma vollero saperlo i giudici. Lo
sventurato, rimesso alla tortura, nominò pur troppo una persona reale, un Giulio
Sanguinetti, banchiere: "il primo venuto in mente all'uomo che inventava per lo
spasimo(73) ". |
Il Piazza, che aveva sempre detto di non aver ricevuto
danari, interrogato di nuovo, disse subito di sì. (Il lettore si rammenterà, forse
meglio de' giudici, che, quando visitaron la casa di costui, danari gliene trovaron meno
che al Mora, cioè punto.) Disse dunque d'averne avuti da un banchiere; e non avendogli i
giudici nominato il Sanguinetti, ne nominò lui un altro: Girolamo Turcone. E questo e
quello e vari loro agenti furono arrestati, esaminati, messi alla tortura; ma, stando
fermi a negare, furon finalmente rilasciati. |
Il 21 di luglio, furono al Piazza e al Mora comunicati
gli atti posteriori alla ripresa del processo, e dato un nuovo termine di due giorni a far
le loro difese. L'uno e l'altro scelsero questa volta un difensore, col consiglio
probabilmente di quelli ch'erano stati loro assegnati d'ufizio. Il 23 dello stesso mese,
fu arrestato il Padilla; cioè, come è attestato nelle sue difese, gli fu detto dal
commissario generale della cavalleria, che, per ordine dello Spinola, dovesse andare a
costituirsi prigioniero nel castello di Pomate; come fece. Il padre, e si rileva dalle
difese medesime, fece istanza, per mezzo del suo luogotenente, e del suo segretario,
perché si sospendesse l'esecuzione della sentenza contro il Piazza e il Mora, fin che
fossero stati confrontati con don Giovanni. Gli fu fatto rispondere "che non si
poteva sospendere, perché il popolo esclamava..." (eccolo nominato una volta quel civium
ardor prava jubentium; la sola volta che si poteva senza confessare una vergognosa e
atroce deferenza, giacché si trattava dell'esecuzion d'un giudizio, non del giudizio
medesimo. Ma cominciava allora soltanto a esclamare il popolo? o allora soltanto
cominciavano i giudici a far conto delle sue grida?) "...ma che in ogni caso il
signor Don Francesco non si pigliasse fastidio, perché gente infame, com'erano questi
duoi, non potevano col suo detto pregiudicare alla reputatione del signor Don
Giovanni". E il detto d'ognuno di que' due infami valse contro l'altro! E i giudici
l'avevan tante volte chiamato verità! E nella sentenza medesima decretarono che, dopo
l'intimazion di essa, fossero l'uno e l'altro tormentati di nuovo su ciò che riguardava i
complici! E le loro deposizioni promossero torture, e quindi confessioni, e quindi
supplizi; e se non basta, anche supplizi senza confessioni! |
"Et così", conclude la deposizione del
segretario suddetto, "tornassimo dal signor Castellano, et li facessimo la relatione
di quant'era passato; et lui non disse altro, ma restò mortificato; la qual
mortificatione fu tale, che fra pochi giorni se ne morse." |
Quell'infernale sentenza portava che, messi sur un
carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la
strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l'ossa con
la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati
i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di
quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di rifabbricare
in quel luogo. E se qualcosa potesse accrescer l'orrore, lo sdegno, la compassione,
sarebbe il veder que' disgraziati, dopo l'intimazione d'una tal sentenza, confermare, anzi
allargare le loro confessioni, e per la forza delle cagioni medesime che gliele avevano
estorte. La speranza non ancora estinta di sfuggir la morte, e una tal morte, la violenza
di tormenti, che quella mostruosa sentenza farebbe quasi chiamar leggieri, ma presenti e
evitabili, li fecero, e ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone. Così, con
la loro impunità, e con la loro tortura, riuscivan que' giudici, non solo a fare
atrocemente morir degl'innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir
colpevoli. |
Nelle difese del Padilla, si trovano, ed è un
sollievo, le proteste che fecero della loro e dell'altrui innocenza, appena furono affatto
certi di dover morire, e di non dover più rispondere. Quel capitano citato poco fa,
depose che, trovandosi vicino alla cappella dov'era stato messo il Piazza, lo sentì che
"strepitava, et diceva che moriva al torto, et che era stato assassinato sotto
promessa", e rifiutava il ministero di due cappuccini venuti per disporlo a morir
cristianamente. "Et in quanto a me," soggiunge, "m'accorgei che lui haueua
speranza che si douesse retrattare la sua causa... et andai dal detto Commissario,
pensando di far atto di carità col persuaderlo a disporsi a ben morire in gratia di Dio;
come in effetto posso dire che mi riuscì; poiché li Padri non toccorono il punto che
toccai io, qual fu che l'accertai di non hauer mai visto, né sentito dire che il Senato
retrattasse cause simili, dopo seguita la condanna... Finalmente tanto dissi, che
s'acquietò... et doppo che fu acquietato, diede alcuni sospiri, et poi disse come haueua
dato fuori indebitamente molti innocenti." Tanto lui, quanto il Mora, fecero poi
stendere dai religiosi che gli assistevano una ritrattazion formale di tutte l'accuse che
la speranza o il dolore gli avevano estorte. L'uno e l'altro sopportarono quel lungo
supplizio, quella serie e varietà di supplizi, con una forza che, in uomini vinti tante
volte dal timor della morte e dal dolore; in uomini i quali morivan vittime, non di
qualche gran causa, ma d'un miserabile accidente, d'un errore sciocco, di facili e basse
frodi; in uomini che, diventando infami, rimanevano oscuri, e all'esecrazion pubblica non
avevan da opporre altro che il sentimento d'un'innocenza volgare, non creduta, rinnegata
tante volte da loro medesimi; in uomini (fa male il pensarci, ma si può egli non
pensarci?) che avevano una famiglia, moglie, figliuoli, non si saprebbe intendere, se non
si sapesse che fu rassegnazione: quel dono che, nell'ingiustizia degli uomini, fa veder la
giustizia di Dio, e nelle pene, qualunque siano, la caparra, non solo del perdono, ma del
premio. L'uno e l'altro non cessaron di dire, fino all'ultimo, fin sulla rota, che
accettavan la morte in pena de' peccati che avevan commessi davvero. Accettar quello che
non si potrebbe rifiutare! parole che possono parer prive di senso a chi nelle cose guardi
soltanto l'effetto materiale; ma parole d'un senso chiaro e profondo per chi considera, o
senza considerare intende, che ciò che in una deliberazione può esser più difficile, ed
è più importante, la persuasion della mente, e il piegarsi della volontà, è ugualmente
difficile, ugualmente importante, sia che l'effetto dipenda da esso, o no; nel consenso,
come nella scelta. |
Quelle proteste potevano atterrire la coscienza de'
giudici; potevano irritarla. Essi riusciron pur troppo a farle smentire in parte, nel modo
che sarebbe stato il più decisivo, se non fosse stato il più illusorio; cioè col far
che accusassero sé medesimi, molti che da quelle proteste erano stati così
autorevolmente scolpati. Di quest'altri processi toccheremo soltanto, come abbiam detto,
qualcosa, e soltanto d'alcuni, per venire a quello del Padilla; cioè a quello che, come
per l'importanza del reato è il principale, così, per la forma e per l'esito, è la
pietra del paragone per tutti gli altri. |
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