Capitolo 2 |
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Questa, come ognun sa, si regolava principalmente, qui,
come a un di presso in tutta Europa, sull'autorità degli scrittori; per la ragion
semplicissima che, in una gran parte de' casi, non ce n'era altra su cui regolarsi. Erano
due conseguenze naturali del non esserci complessi di leggi composte con un intento
generale, che gl'interpreti si facessero legislatori, e fossero a un di presso ricevuti
come tali; giacché, quando le cose necessarie non son fatte da chi toccherebbe, o non son
fatte in maniera di poter servire, nasce ugualmente, in alcuni il pensiero di farle, negli
altri la disposizione ad accettarle, da chiunque sian fatte. L'operar senza regole è il
più faticoso e difficile mestiere di questo mondo. |
Gli statuti di Milano, per esempio, non prescrivevano
altre norme, né condizioni alla facoltà di mettere un uomo alla tortura (facoltà
ammessa implicitamente, e riguardata ormai come connaturale al diritto di giudicare), se
non che l'accusa fosse confermata dalla fama, e il delitto portasse pena di sangue,
e ci fossero indizi(3) ; ma senza dir quali. La legge romana, che aveva vigore ne' casi a
cui non provvedessero gli statuti, non lo dice di più, benché ci adopri più parole.
"I giudici non devono cominciar da' tormenti, ma servirsi prima d'argomenti
verisimili e probabili; e se, condotti da questi, quasi da indizi sicuri, credono di dover
venire ai tormenti, per iscoprir la verità, lo facciano, quando la condizion della
persona lo permette.(4) " Anzi, in questa legge è espressamente istituito l'arbitrio
del giudice sulla qualità e sul valore degl'indizi; arbitrio che negli statuti di Milano
fu poi sottinteso. |
Nelle così dette Nuove Costituzioni promulgate per
ordine di Carlo V, la tortura non è neppur nominata; e da quelle fino all'epoca del
nostro processo, e per molto tempo dopo, si trovano bensì, e in gran quantità, atti
legislativi ne' quali è intimata come pena; nessuno, ch'io sappia, in cui sia regolata la
facoltà d'adoprarla come mezzo di prova. |
E anche di questo si vede facilmente la ragione:
l'effetto era diventato causa; il legislatore, qui come altrove, aveva trovato,
principalmente per quella parte che chiamiam procedura, un supplente, che faceva, non solo
sentir meno, ma quasi dimenticare la necessità del suo, dirò così, intervento. Gli
scrittori, principalmente dal tempo in cui cominciarono a diminuire i semplici commentari
sulle leggi romane, e a crescer l'opere composte con un ordine più indipendente, sia su
tutta la pratica criminale, sia su questo o quel punto speciale, gli scrittori trattavan
la materia con metodi complessivi, e insieme con un lavoro minuto delle parti;
moltiplicavan le leggi con l'interpretarle, stendendone, per analogia, l'applicazione ad
altri casi, cavando regole generali da leggi speciali; e, quando questo non bastava,
supplivan del loro, con quelle regole che gli paressero più fondate sulla ragione,
sull'equità, sul diritto naturale, dove concordemente, anzi copiandosi e citandosi gli
uni con gli altri, dove con disparità di pareri: e i giudici, dotti, e alcuni anche
autori, in quella scienza, avevano, quasi in qualunque caso, e in qualunque circostanza
d'un caso, decisioni da seguire o da scegliere. La legge, dico, era divenuta una scienza;
anzi alla scienza, cioè al diritto romano interpretato da essa, a quelle antiche leggi
de' diversi paesi che lo studio e l'autorità crescente del diritto romano non aveva fatte
dimenticare, e ch'erano ugualmente interpretate dalla scienza, alle consuetudini approvate
da essa, a' suoi precetti passati in consuetudini, era quasi unicamente appropriato il
nome di legge: gli atti dell'autorità sovrana, qualunque fosse, si chiamavano ordini,
decreti, gride, o con altrettali nomi; e avevano annessa non so quale idea d'occasionale e
di temporario. Per citarne un esempio, le gride de' governatori di Milano, l'autorità de'
quali era anche legislativa, non valevano che per quanto durava il governo de' loro
autori; e il primo atto del successore era di confermarle provvisoriamente. Ogni gridario,
come lo chiamavano, era una specie d'Editto del Pretore, composto un poco alla volta, e in
diverse occasioni; la scienza invece, lavorando sempre, e lavorando sul tutto;
modificandosi, ma insensibilmente; avendo sempre per maestri quelli che avevan cominciato
dall'esser suoi discepoli, era, direi quasi, una revisione continua, e in parte una
compilazione continua delle Dodici Tavole, affidata o abbandonata a un decemvirato
perpetuo. |
Questa così generale e così durevole autorità di
privati sulle leggi, fu poi, quando si vide insieme la convenienza e la possibilità
d'abolirla, col far nuove, e più intere, e più precise, e più ordinate leggi, fu, dico,
e, se non m'inganno, è ancora riguardata come un fatto strano e come un fatto funesto
all'umanità, principalmente nella parte criminale, e più principalmente nel punto della
procedura. Quanto fosse naturale s'è accennato; e del resto, non era un fatto nuovo, ma
un'estensione, dirò così, straordinaria d'un fatto antichissimo, e forse, in altre
proporzioni, perenne; giacché, per quanto le leggi possano essere particolarizzate, non
cesseranno forse mai d'aver bisogno d'interpreti, né cesserà forse mai che i giudici
deferiscano, dove più, dove meno, ai più riputati tra quelli, come ad uomini che, di
proposito, e con un intento generale, hanno studiato la cosa prima di loro. E non so se un
più tranquillo e accurato esame non facesse trovare che fu anche, comparativamente e
relativamente, un bene; perché succedeva a uno stato di cose molto peggiore. |
È difficile infatti che uomini i quali considerano una
generalità di casi possibili, cercandone le regole nell'interpretazion di leggi positive,
o in più universali ed alti princìpi, consiglin cose più inique, più insensate, più
violente, più capricciose di quelle che può consigliar l'arbitrio, ne' casi diversi, in
una pratica così facilmente appassionata. La quantità stessa de' volumi e degli autori,
la moltiplicità e, dirò così, lo sminuzzamento progressivo delle regole da essi
prescritte, sarebbero un indizio dell'intenzione di restringer l'arbitrio, e di guidarlo
(per quanto era possibile) secondo la ragione e verso la giustizia; giacché non ci vuol
tanto per istruir gli uomini ad abusar della forza, a seconda de' casi. Non si lavora a
fare e a ritagliar finimenti al cavallo che si vuol lasciar correre a suo capriccio; gli
si leva la briglia, se l'ha. |
Ma così avvien per il solito nelle riforme umane che
si fanno per gradi (parlo delle vere e giuste riforme; non di tutte le cose che ne hanno
preso il nome): ai primi che le intraprendono, par molto di modificare la cosa, di
correggerla in varie parti, di levare, d'aggiungere: quelli che vengon dopo, e alle volte
molto tempo dopo, trovandola, e con ragione, ancora cattiva, si fermano facilmente alla
cagion più prossima, maledicono come autori della cosa quelli di cui porta il nome,
perché le hanno data la forma con la quale continua a vivere e a dominare. |
In questo errore, diremmo quasi invidiabile, quando è
compagno di grandi e benefiche imprese, ci par che sia caduto, con altri uomini insigni
del suo tempo, l'autore dell'Osservazioni sulla tortura. Quanto è forte e fondato
nel dimostrar l'assurdità, l'ingiustizia e la crudeltà di quell'abbominevole pratica,
altrettanto ci pare che vada, osiam dire, in fretta nell'attribuire all'autorità degli
scrittori ciò ch'essa aveva di più odioso. E non è certamente la dimenticanza della
nostra inferiorità che ci dia il coraggio di contradir liberamente, come siamo per fare,
l'opinion d'un uomo così illustre, e sostenuta in un libro così generoso; ma la
confidenza nel vantaggio d'esser venuti dopo, e di poter facilmente (prendendo per punto
principale ciò che per lui era affatto accessorio) guardar con occhio più tranquillo,
nel complesso de' suoi effetti, e nella differenza de' tempi, come cosa morta, e passata
nella storia, un fatto ch'egli aveva a combattere, come ancor dominante, come un ostacolo
attuale a nuove e desiderabilissime riforme. E a ogni modo, quel fatto è talmente legato
col suo e nostro argomento, che l'uno e l'altro eravam naturalmente condotti a dirne
qualcosa in generale: il Verri perché, dall'essere quell'autorità riconosciuta al tempo
dell'iniquo giudizio, induceva che ne fosse complice, e in gran parte cagione; noi
perché, osservando ciò ch'essa prescriveva o insegnava ne' vari particolari, ce ne
dovrem servire come d'un criterio, sussidiario ma importantissimo, per dimostrar più
vivamente l'iniquità, dirò così, individuale del giudizio medesimo. |
"È certo", dice l'ingegnoso ma preoccupato
scrittore, "che niente sta scritto nelle leggi nostre, né sulle persone che possono
mettersi alla tortura, né sulle occasioni nelle quali possano applicarvisi, né sul modo
di tormentare, se col foco o col dislogamento e strazio delle membra, né sul tempo per
cui duri lo spasimo, né sul numero delle volte da ripeterlo; tutto questo strazio si fa
sopra gli uomini coll'autorità del giudice, unicamente appoggiato alle dottrine dei
criminalisti citati.(5) " |
Ma in quelle leggi nostre stava scritta la tortura; ma
in quelle d'una gran parte d'Europa(6) , ma nelle romane, ch'ebbero per tanto tempo nome e
autorità di diritto comune, stava scritta la tortura. La questione dev'esser dunque, se i
criminalisti interpreti (così li chiameremo, per distinguerli da quelli ch'ebbero il
merito e la fortuna di sbandirli per sempre) sian venuti a render la tortura più o meno
atroce di quel che fosse in mano dell'arbitrio, a cui la legge l'abbandonava quasi
affatto; e il Verri medesimo aveva, in quel libro medesimo, addotta, o almeno accennata,
la prova più forte in loro favore. "Farinaccio istesso," dice l'illustre
scrittore, "parlando de' suoi tempi, asserisce che i giudici, per il diletto che
provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices
qui propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum
species(7) ." |
Ho detto: in loro favore; perché l'intimazione ai
giudici d'astenersi dall'inventar nuove maniere di tormentare, e in generale le
riprensioni e i lamenti che attestano insieme la sfrenata e inventiva crudeltà
dell'arbitrio, e l'intenzion, se non altro, di reprimerla e di svergognarla, non sono
tanto del Farinacci, quanto de' criminalisti, direi quasi, in genere. Le parole stesse
trascritte qui sopra, quel dottore le prende da uno più antico, Francesco dal Bruno, il
quale le cita come d'uno più antico ancora, Angelo d'Arezzo, con altre gravi e forti, che
diamo qui tradotte: "giudici, arrabbiati e perversi, che saranno da Dio confusi;
giudici ignoranti, perché l'uom sapiente abborrisce tali cose, e dà forma alla scienza
col lume delle virtù(8) ". |
Prima di tutti questi, nel secolo XIII, Guido da
Suzara, trattando della tortura, e applicando a quest'argomento le parole d'un rescritto
di Costanzo, sulla custodia del reo, dice esser suo intento "d'imporre qualche
moderazione ai giudici che incrudeliscono senza misura.(9) " |
Nel secolo seguente, Baldo applica il celebre rescritto
di Costantino contro il padrone che uccide il servo, "ai giudici che squarcian le
carni del reo, perché confessi"; e vuole che, se questo muore ne' tormenti, il
giudice sia decapitato, come omicida(10). |
Più tardi, Paride dal Pozzo inveisce contro que'
giudici che, "assetati di sangue, anelano a scannare, non per fine di riparazione né
d'esempio, ma come per un loro vanto (propter gloriam eorum); e sono per ciò da
riguardarsi come omicidi(11)". |
"Badi il giudice di non adoprar tormenti ricercati
e inusitati; perché chi fa tali cose è degno d'esser chiamato carnefice piuttosto che
giudice," scrive Giulio Claro(12) . |
"Bisogna alzar la voce (clamandum est)
contro que' giudici severi e crudeli che, per acquistare una gloria vana, e per salire,
con questo mezzo, a più alti posti, impongono ai miseri rei nuove specie di
tormenti," scrive Antonio Gomez(13) . |
Diletto e gloria! quali passioni, in qual soggetto!
Voluttà nel tormentare uomini, orgoglio nel soggiogare uomini imprigionati! Ma almeno
quelli che le svelavano, non si può credere che intendessero di favorirle. |
A queste testimonianze (e altre simili se ne dovrà
allegare or ora) aggiungeremo qui, che, ne' libri su questa materia, che abbiam potuti
vedere, non ci è mai accaduto di trovar lamenti contro de' giudici che adoprassero
tormenti troppo leggieri. E se, in quelli che non abbiam visti, ci si mostrasse una tal
cosa, ci parrebbe una curiosità davvero. |
Alcuni de' nomi che abbiam citati, e di quelli che
avremo a citare, son messi dal Verri in una lista di "scrittori, i quali se avessero
esposto le crudeli loro dottrine e la metodica descrizione de' raffinati loro spasimi in
lingua volgare, e con uno stile di cui la rozzezza e la barbarie non allontanasse le
persone sensate e colte dall'esaminarli, non potevano essere riguardati se non coll'occhio
medesimo col quale si rimira il carnefice, cioè con orrore e ignominia(14) ". Certo,
l'orrore per quello che rivelano, non può esser troppo; è giustissimo questo sentimento
anche per quello che ammettevano; ma se, per quello che ci misero, o ci vollero metter del
loro, l'orrore sia un giusto sentimento, e l'ignominia una giusta retribuzione, il poco
che abbiam visto, deve bastare almeno a farne dubitare. |
È vero che ne' loro libri, o, per dir meglio, in
qualcheduno, sono, più che nelle leggi, descritte le varie specie di tormenti; ma come
consuetudini invalse e radicate nella pratica, non come ritrovati degli scrittori. E
Ippolito Marsigli, scrittore e giudice del secolo decimoquinto, che ne fa un'atroce,
strana e ributtante lista, allegando anche la sua esperienza, chiama però bestiali que'
giudici che ne inventan di nuovi.(15) |
Furono quegli scrittori, è vero, che misero in campo
la questione del numero delle volte che lo spasimo potesse esser ripetuto; ma (e avremo
occasion di vederlo) per impor limiti e condizioni all'arbitrio, profittando
dell'indeterminate e ambigue indicazioni che ne somministrava il diritto romano. |
Furon essi, è vero, che trattaron del tempo che
potesse durar lo spasimo; ma non per altro che per imporre, anche in questo, qualche
misura all'instancabile crudeltà, che non ne aveva dalla legge, "a certi giudici,
non meno ignoranti che iniqui, i quali tormentano un uomo per tre o quattr'ore," dice
il Farinacci(16) ; "a certi giudici iniquissimi e scelleratissimi, levati dalla
feccia, privi di scienza, di virtù, di ragione, i quali, quand'hanno in loro potere un
accusato, forse a torto (forte indebite), non gli parlano che tenendolo al
tormento; e se non confessa quel ch'essi vorrebbero, lo lascian lì pendente alla fune,
per un giorno, per una notte intera," aveva detto il Marsigli(17) , circa un secolo
prima. |
In questi passi, e in qualche altro de' citati sopra,
si può anche notare come alla crudeltà cerchino d'associar l'idea dell'ignoranza. E per
la ragion contraria, raccomandano, in nome della scienza, non meno che della coscienza, la
moderazione, la benignità, la mansuetudine. Parole che fanno rabbia, applicate a una tal
cosa; ma che insieme fanno vedere se l'intento di quegli scrittori era d'aizzare il
mostro, o d'ammansarlo. |
Riguardo poi alle persone che potessero esser messe
alla tortura, non vedo cos'importi che niente ci fosse nelle leggi propriamente nostre,
quando c'era molto, relativamente al resto di questa trista materia, nelle leggi romane,
le quali erano in fatto leggi nostre anch'esse. |
"Uomini", prosegue il Verri, "ignoranti
e feroci, i quali senza esaminare donde emani il diritto di punire i delitti, qual sia il
fine per cui si puniscono, quale la norma onde graduare la gravezza dei delitti, qual
debba esser la proporzione tra i delitti e le pene, se un uomo possa mai costringersi a
rinunziare alla difesa propria, e simili principii, dai quali, intimamente conosciuti,
possono unicamente dedursi le naturali conseguenze più conformi alla ragione ed al bene
della società; uomini, dico, oscuri e privati, con tristissimo raffinamento ridussero a
sistema e gravemente pubblicarono la scienza di tormentare altri uomini, con quella
tranquillità medesima colla quale si descrive l'arte di rimediare ai mali del corpo
umano: e furono essi obbediti e considerati come legislatori, e si fece un serio e placido
oggetto di studio, e si accolsero alle librerie legali i crudeli scrittori che insegnarono
a sconnettere con industrioso spasimo le membra degli uomini vivi, e a raffinarlo colla
lentezza e coll'aggiunta di più tormenti, onde rendere più desolante e acuta l'angoscia
e l'esterminio." |
Ma come mai ad uomini oscuri e ignoranti poté esser
concessa tanta autorità? dico oscuri al loro tempo, e ignoranti riguardo ad esso; ché la
questione è necessariamente relativa; e si tratta di vedere, non già se quegli scrittori
avessero i lumi che si posson desiderare in un legislatore, ma se n'avessero più o meno
di coloro che prima applicavan le leggi da sé, e in gran parte se le facevan da sé. E
come mai era più feroce l'uomo che lavorava teorie, e le discuteva dinanzi al pubblico,
dell'uomo ch'esercitava l'arbitrio in privato, sopra chi gli resisteva? |
In quanto poi alle questioni accennate dal Verri, guai
se la soluzione della prima, "donde emani il diritto di punire i delitti", fosse
necessaria per compilar con discrezione delle leggi penali; poiché si poté bene, al
tempo del Verri, crederla sciolta; ma ora (e per fortuna, giacché è men male l'agitarsi
nel dubbio, che il riposar nell'errore) è più controversa che mai. E l'altre, dico in
generale tutte le questioni d'un'importanza più immediata, e più pratica, erano forse
sciolte e sciolte a dovere, erano almeno discusse, esaminate quando gli scrittori
comparvero? Vennero essi forse a confondere un ordine stabilito di più giusti e umani
principi, a balzar di posto dottrine più sapienti, a turbar, dirò così, il possesso a
una giurisprudenza più ragionata e più ragionevole? A questo possiamo risponder
francamente di no, anche noi; e ciò basta all'assunto. Ma vorremmo che qualcheduno di
quelli che ne sanno, esaminasse se piuttosto non furon essi che, costretti, appunto
perché privati e non legislatori, a render ragione delle loro decisioni, richiamaron la
materia a princìpi generali, raccogliendo e ordinando quelli che sono sparsi nelle leggi
romane, e cercandone altri nell'idea universale del diritto; se non furon essi che,
lavorando a costruir, con rottami e con nuovi materiali, una pratica criminale intera ed
una, prepararono il concetto, indicarono la possibilità, e in parte l'ordine, d'una
legislazion criminale intera ed una; essi che, ideando una forma generale, aprirono ad
altri scrittori, dai quali furono troppo sommariamente giudicati, la strada a ideare una
generale riforma. |
In quanto finalmente all'accusa, così generale e così
nuda, d'aver raffinato i tormenti, abbiamo in vece veduto che fu cosa dalla maggior parte
di loro espressamente detestata e, per quanto stava in loro, proibita. Molti de' luoghi
che abbiam riferiti possono anche servire a lavarli in parte dalla taccia d'averne
trattato con quell'impassibile tranquillità. Ci si permetta di citarne un altro che
parrebbe quasi un'anticipata protesta. "Non posso che dar nelle furie", scrive
il Farinacci, (non possum nisi vehementer excandescere) "contro que' giudici
che tengono per lungo tempo legato il reo, prima di sottoporlo alla tortura; e con quella
preparazione la rendon più crudele.(18) " |
Da queste testimonianze, e da quello che sappiamo
essere stata la tortura negli ultimi suoi tempi, si può francamente dedurre che i
criminalisti interpreti la lasciarono molto, ma molto, men barbara di quello che l'avevan
trovata. E certo sarebbe assurdo l'attribuire a una sola causa una tal diminuzione di
male; ma, tra le molte, mi par che sarebbe anche cosa poco ragionevole il non contare il
biasimo e le ammonizioni ripetute e rinnovate pubblicamente, di secolo in secolo, da
quelli ai quali pure s'attribuisce un'autorità di fatto sulla pratica de' tribunali. |
Cita poi il Verri alcune loro proposizioni; le quali
non basterebbero per fondarci sopra un generale giudizio storico, quand'anche fossero
tutte esattamente citate. Eccone, per esempio, una importantissima, che non lo è:
"Il Claro asserisce che basta vi siano alcuni indizii contro un uomo, e si può
metterlo alla tortura(19)". |
Se quel dottore avesse parlato così, sarebbe piuttosto
una singolarità che un argomento; tanto una tal dottrina è opposta a quella d'una
moltitudine d'altri dottori. Non dico di tutti, per non affermar troppo più di quello che
so; benché, dicendolo, non temerei d'affermar più di quello che è. Ma in realtà il
Claro disse, anche lui, il contrario; e il Verri fu probabilmente indotto in errore
dall'incuria d'un tipografo, il quale stampò: Nam sufficit adesse aliqua indicia
contra reum ad hoc ut torqueri possit(20) , in vece di Non sufficit, come trovo
in due edizioni anteriori(21) . E per accertarsi dell'errore, non è neppur necessario
questo confronto, giacché il testo continua così: "se tali indizi non sono anche
legittimamente provati"; frase che farebbe ai cozzi con l'antecedente, se questa
avesse un senso affermativo. E soggiunge subito: "ho detto che non basta (dixi
quoque non sufficere) che ci siano indizi, e che siano legittimamente provati, se non
sono anche sufficienti alla tortura. Ed è una cosa che i giudici timorati di Dio devono
aver sempre davanti agli occhi, per non sottoporre ingiustamente alcuno alla tortura: cosa
del resto che li sottopone essi medesimi a un giudizio di revisione. E racconta l'Afflitto
d'aver risposto al re Federigo, che nemmen lui, con l'autorità regia, poteva comandare a
un giudice di mettere alla tortura un uomo, contro il quale non ci fossero indizi
sufficienti". |
Così il Claro; e basterebbe questo per esser come
certi, che dovette intender tutt'altro che di rendere assoluto l'arbitrio con quell'altra
proposizione che il Verri traduce così: "in materia di tortura e d'indizi, non
potendosi prescrivere una norma certa, tutto si rimette all'arbitrio del giudice(22)
". La contradizione sarebbe troppo strana; e lo sarebbe di più, se è possibile, con
quello che l'autor medesimo dice altrove: "benché il giudice abbia l'arbitrio, deve
però stare al diritto comune... e badino bene gli ufiziali della giustizia, di non andar
avanti tanto allegramente (ne nimis animose procedant), con questo pretesto
dell'arbitrio(23)". |
Cosa intese dunque, con quelle parole: remittitur
arbitrio judicische il Verri traduce: "tutto si rimette all'arbitrio del
giudice"? |
Intese... Ma che dico? e perché cercare in questo
un'opinion particolare del Claro? Quella proposizione, egli non faceva altro che
ripeterla, giacché era, per dir così, proverbiale tra gl'interpreti; e già due secoli
prima, Bartolo la ripeteva anche lui, come sentenza comune: Doctores communiter dicunt
quod in hoc(quali siano gl'indizi sufficienti alla tortura) non potest dari certa
doctrina, sed relinquitur arbitrio judicis(24) . E con questo non intendevan già di
proporre un principio, di stabilire una teoria, ma d'enunciar semplicemente un fatto;
cioè che la legge, non avendo determinato gl'indizi, gli aveva per ciò stesso lasciati
all'arbitrio del giudice. Guido da Suzara, anteriore a Bartolo d'un secolo circa, dopo
aver detto o ripetuto anche lui, che gl'indizi son rimessi all'arbitrio del giudice,
soggiunge: "come, in generale, tutto ciò che non è determinato dalla legge(25)
". E per citarne qualcheduno de' meno antichi, Paride dal Pozzo, ripetendo quella
comune sentenza, la commenta così: "a ciò che non è determinato dalla legge, né
dalla consuetudine, deve supplire la religion del giudice; e perciò la legge sugl'indizi
mette un gran carico sulla sua coscienza(26)i ". E il Bossi, criminalista del secolo
XVI, e senator di Milano: "Arbitrio non vuol dir altro (in hoc consistit) se
non che il giudice non ha una regola certa dalla legge, la quale dice soltanto non doversi
cominciar dai tormenti, ma da argomenti verisimili e probabili. Tocca dunque al giudice a
esaminare se un indizio sia verisimile e probabile(27) ". |
Ciò ch'essi chiamavano arbitrio, era in somma la cosa
stessa che, per iscansar quel vocabolo equivoco e di tristo suono, fu poi chiamata poter
discrezionale: cosa pericolosa, ma inevitabile nell'applicazion delle leggi, e buone e
cattive; e che i savi legislatori cercano, non di togliere, che sarebbe una chimera, ma di
limitare ad alcune determinate e meno essenziali circostanze, e di restringere anche in
quelle più che possono. |
E tale, oso dire, fu anche l'intento primitivo, e il
progressivo lavoro degl'interpreti, segnatamente riguardo alla tortura, sulla quale il
potere lasciato dalla legge al giudice era spaventosamente largo. Già Bartolo, dopo le
parole che abbiam citate sopra, soggiunge: "ma io darò le regole che potrò".
Altri ne avevan date prima di lui; e i suoi successori ne diedero di mano in mano molte
più, chi proponendone qualcheduna del suo, chi ripetendo e approvando le proposte da
altri; senza lasciar però di ripeter la formola ch'esprimeva il fatto della legge, della
quale non erano, alla fine, che interpreti. |
Ma con l'andar del tempo, e con l'avanzar del lavoro,
vollero modificare anche il linguaggio; e n'abbiam l'attestato dal Farinacci, posteriore
ai citati qui, anteriore però all'epoca del nostro processo, e allora autorevolissimo.
Dopo aver ripetuto, e confermato con un subisso d'autorità, il principio, che
"l'arbitrio non si deve intender libero e assoluto, ma legato dal diritto e
dall'equità"; dopo averne cavate, e confermate con altre autorità, le conseguenze,
che "il giudice deve inclinare alla parte più mite, e regolar l'arbitrio con la
disposizion generale delle leggi, e con la dottrina de' dottori approvati, e che non può
formare indizi a suo capriccio"; dopo aver trattato, più estesamente, credo, e più
ordinatamente che nessuno avesse ancor fatto, di tali indizi, conclude: "puoi dunque
vedere che la massima comune de' dottori - gl'indizi alla tortura sono arbitrari al
giudice - è talmente, e anche concordemente ristretta da' dottori medesimi, che non a
torto molti giurisperiti dicono doversi anzi stabilir la regola contraria, cioè che
gl'indizi non sono arbitrari al giudice(28) ". E cita questa sentenza di Francesco
Casoni: "è error comune de' giudici il credere che la tortura sia arbitraria; come
se la natura avesse creati i corpi de' rei perché essi potessero straziarli a loro
capriccio(29) ". |
Si vede qui un momento notabile della scienza, che,
misurando il suo lavoro, n'esige il frutto; e dichiarandosi, non aperta riformatrice (ché
non lo pretendeva, né le sarebbe stato ammesso), ma efficace ausiliaria della legge,
consacrando la propria autorità con quella d'una legge superiore ed eterna, intima ai
giudici di seguir le regole che ha trovate, per risparmiar degli strazi a chi poteva
essere innocente, e a loro delle turpi iniquità. Triste correzioni d'una cosa che, per
essenza, non poteva ricevere una buona forma; ma tutt'altro che argomenti atti a provar la
tesi del Verri: "né gli orrori della tortura si contengono unicamente nello spasimo
che si fa patire... ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di
amministrarla(30) ". |
Ci si permetta in ultimo qualche osservazione sopra un
altro luogo da lui citato; ché l'esaminarli tutti sarebbe troppo in questo luogo, e non
abbastanza certamente per la questione. "Basti un solo orrore per tutti; e questo
viene riferito dal celebre Claro milanese, che è il sommo maestro di questa pratica: - Un
giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela venire nella sua
stanza secretamente, ivi accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la libertà affine
d'indurla ad accusarsi del delitto, e che con un tal mezzo un certo reggente indusse una
giovine ad aggravarsi d'un omicidio, e la condusse a perdere la testa. - Acciocché non si
sospetti che quest'orrore contro la religione, la virtù e tutti i più sacri principii
dell'uomo sia esagerato, ecco cosa dice il Claro: Paris dicit quod judex potest,
etc.(31) ". |
Orrore davvero; ma per veder che importanza possa avere
in una question di questa sorte, s'osservi che, enunciando quell'opinione, Paride dal
Pozzo(32) non proponeva già un suo ritrovato; raccontava, e pur troppo con approvazione,
un fatto d'un giudice, cioè uno de' mille fatti che produceva l'arbitrio senza
suggerimento di dottori; s'osservi che il Baiardi, il quale riferisce quell'opinione,
nelle sue aggiunte al Claro (non il Claro medesimo), lo fa per detestarla anche lui, e per
qualificare il fatto di finzione diabolica(33) ; s'osservi che non cita alcun altro
il quale sostenesse un'opinion tale, dal tempo di Paride dal Pozzo al suo, cioè per lo
spazio d'un secolo. E andando avanti, sarebbe più strano che ce ne fosse stato alcuno. E
quel Paride dal Pozzo medesimo, Dio ci liberi di chiamarlo, col Giannone, eccellente
giureconsulto(34) ; ma l'altre sue parole che abbiam riferite sopra, basterebbero a
far veder che queste bruttissime non bastano a dare una giusta idea nemmen delle dottrine
di questo solo. |
Non abbiam certamente la strana pretensione d'aver
dimostrato che quelle degl'interpreti, prese nel loro complesso, non servirono, né furon
rivolte a peggiorare. Questione interessantissima, giacché si tratta di giudicar
l'effetto e l'intento del lavoro intellettuale di più secoli, in una materia così
importante, anzi così necessaria all'umanità; questione del nostro tempo, giacché, come
abbiamo accennato, e del resto ognun sa, il momento in cui si lavora a rovesciare un
sistema, non è il più adattato a farne imparzialmente la storia; ma questione da
risolversi, o piuttosto storia da farsi, con altro che con pochi e sconnessi cenni. Questi
bastan però, se non m'inganno, a dimostrar precipitata la soluzione contraria; come
erano, in certo modo, una preparazion necessaria al nostro racconto. Ché in esso noi
avremo spesso a rammaricarci che l'autorità di quegli uomini non sia stata efficace
davvero; e siam certi che il lettore dovrà dir con noi: fossero stati ubbiditi! |
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