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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

Giovan Battista Guarini

IL PASTOR FIDO

Atto Secondo

 [SCENA PRIMA] [SCENA SECONDA] [SCENA TERZA]

[SCENA QUARTA] [SCENA QUINTA] [SCENA SESTA]

 

AT.2, SC.1

ERG. Oh quanti passi ho fatti! al fiume, al poggio,

al prato, al fonte, a la palestra, al corso

t'ho lungamente ricercato: alfine

qui pur ti trovo, e ne ringrazio il cielo.

MIRT. Ond'hai tu nuova, Ergasto,

degna di tanta fretta? hai vita o morte?

ERG. Questa non ti darei, ben ch'io l'avessi;

e quella spero dar, ben ch'io non l'abbia.

Ma tu non ti lasciar sì fieramente

vincer al tuo dolor: vinci te stesso,

se vuoi vincer altrui; vivi, e respira

talvolta. Ma, per dirti la cagione

del mio venir a te sì ratto, ascolta.

Conosci tu (ma chi non la conosce?)

la sorella d'Ormino? è di persona

anzi grande che no; di vista allegra,

di bionda chioma, e colorita alquanto.

MIRT. Com'ha nome? ERG. Corisca. MIRT. I' la conosco

troppo bene, e con lei alcuna volta

ho favellato ancora. ERG. Or sappi ch'ella

da un tempo in qua, vedi ventura! è fatta,

non so già come o con che privilegio,

de la bella Amarillide compagna,

onde a lei tutto ho l'amor tuo scoperto

segretamente e quel che da lei brami,

holle mostrato, ed ella prontamente

m'ha la sua fede in ciò promessa e l'opra.

MIRT. Oh mille volte e mille,

se questo è vero, e più d'ogn'altro amante

fortunato Mirtillo! Ma del modo

t'ha ella detto nulla? ERG. Appunto nulla,

e ti dirò perché. Dice Corisca

che non può ben deliberar del modo,

prima ch'alcuna cosa ella non sappia

de l'amor tuo più certa, ond'ella possa

meglio spiare e più sicuramente

l'animo de la ninfa, e sappia come

reggersi, o con preghiere o con inganni,

quel che tentar, quel che lasciar sia buono.

Per questo solo i' ti venìa cercando

sì ratto. E' sarà ben che tu da capo

tutta la storia del tuo amor mi narri.

MIRT. Così a punto farò; ma sappi, Ergasto,

che questa rimembranza

(ah, troppo acerba a chi si vive amando

fuori d'ogni speranza)

è quasi un agitar fiaccola al vento,

per cui, quanto l'incendio

sempre s'avanza, tanto

a l'agitata fiamma ella si strugge,

o scuoter pungentissima saetta

altamente confitta,

che, se senti di svellerla, maggiore

fai la piaga e 'l dolore.

Ben cosa ti dirò, che chiaramente

farà veder com'è fallace e vana

la speme degli amanti e come amore

la radice ha soave, il frutto amaro.

Ne la bella stagion che 'l dì s'avanza

sovra la notte, or compie l'anno a punto,

questa leggiadra pellegrina, questo

novo sol di beltade,

venne a far di sua vista,

quasi d'un'altra primavera, adorno

il mio solo per lei leggiadro allora

e fortunato nido, Elide e Pisa,

condotta da la madre

in que' solenni dì che del gran Giove

i sacrifici e i giochi

si soglion celebrar, famosi tanto,

per farne a' suoi begli occhi

spettacolo beato;

ma furon que' begli occhi

spettacolo d'Amore

d'ogn'altro assai maggiore.

Ond'io, che fin allor fiamma amorosa

non avea più sentita,

oimè! non così tosto

mirato ebbi quel volto,

che di subito n'arsi,

e, senza far difesa al primo sguardo

che mi drizzò negli occhi,

sentii correr nel seno

una bellezza imperiosa e dirmi:

"Dammi il tuo cor, Mirtillo".

ERG. Oh quanto può ne' petti nostri Amore!

né ben il può saper se non chi 'l prova.

MIRT. Mira ciò che sa fare anco ne' petti

più semplici e più molli Amore industre.

Io fo del mio pensiero una mia cara

sorella consapevole, compagna

de la mia cruda ninfa

que' pochi dì ch'Elide l'ebbe e Pisa.

Da questa sola, come Amor m'insegna,

fedel consiglio ed amoroso aiuto

nel mio bisogno i' prendo.

Ella de le sue gonne femminili

vagamente m'adorna

e d'innestato crin cinge le tempie;

poi le 'ntreccia e le 'nfiora,

e l'arco e la faretra

al fianco mi sospende;

e m'insegna a mentir parole e sguardi,

e sembianti nel volto, in cui non era

di lanugine ancora

pur un vestigio solo.

E, quando ora ne fue,

seco là mi condusse, ove solea

la bella ninfa diportarsi, e dove

trovammo alcune nobili e leggiadre

vergini di Megara,

e di sangue e d'amor, siccome intesi,

a la mia dea congiunte.

Tra queste ella si stava

sì come suol tra le violette umìli

nobilissima rosa;

e, poi che 'n quella guisa

state furono alquanto,

senz'altro far di più diletto o cura,

levossi una donzella

di quelle di Megara, e così disse:

"Dunque in tempo di giochi

e di palme sì chiare e sì famose,

starem noi neghittose?

Dunque non abbiam noi

armi da far tra noi finte contese

così ben come gli uomini? Sorelle,

se 'l mio consiglio di seguir v'aggrada,

proviam oggi tra noi così da scherzo

noi le nostr'armi, come

contra gli uomini, allor che ne fie tempo,

l'userem da dovero.

Bacianne, e si contenda

tra noi di baci; e quella, che d'ogni altra

baciatrice più scaltra,

li saprà dar più saporiti e cari,

n'avrà per sua vittoria

questa bella ghirlanda."

Risero tutte a la proposta e tutte

subito s'accordâro;

e si sfidavan molte, e molte ancora,

senza che dato lor fosse alcun segno,

facean guerra confusa.

Il che veggendo allor la megarese,

ordinò prima la tenzone e poi

disse: "De' nostri baci

meritamente sia giudice quella

che la bocca ha più bella".

Tutte concordemente

elesser la bellissima Amarilli;

ed ella, i suoi begli occhi

dolcemente chinando,

di modesto rossor tutta si tinse,

e mostrò ben che non men bella è dentro,

di quel che sia di fuori;

o fosse che 'l bel volto

avesse invidia a l'onorata bocca

e s'adornasse anch'egli

de la purpurea sua pomposa vesta,

quasi volesse dir: "Son bello anch'io".

ERG. Oh come a tempo ti cangiasti in ninfa,

avventuroso e quasi

de le dolcezze tue presago amante!

MIRT. Già si sedeva a l'amoroso ufficio

la bellissima giudice, e, secondo

l'ordine e l'uso di Megara, andava

ciascheduna per sorte

a far de la sua bocca e de' suoi baci

prova con quel bellissimo e divino

paragon di dolcezza,

quella bocca beata,

quella bocca gentil che può ben dirsi

conca d'Indo odorata

di perle orientali e pellegrine;

e la parte che chiude

ed apre il bel tesoro,

con dolcissimo mèl purpura mista.

Così potess'io dirti, Ergasto mio,

l'ineffabil dolcezza

ch'i' sentii nel baciarla!

Ma tu da questo prendine argomento,

che non la può ridir la bocca stessa

che l'ha provata. Accogli pur insieme

quant'hanno in sé di dolce

o le canne di Cipro o i favi d'Ibla;

tutto è nulla, rispetto

a la soavità ch'indi gustai.

ERG. Oh furto avventuroso, oh dolci baci!

MIRT. Dolci sì, ma non grati,

perché mancava lor la miglior parte

de l'intero diletto:

davagli Amor, non gli rendeva Amore.

ERG. Ma dimmi: e come ti sentisti allora

che di baciar a te cadde la sorte?

MIRT. Su queste labbra, Ergasto,

tutta sen venne allor l'anima mia;

e la mia vita, chiusa

in così breve spazio,

non era altro che un bacio,

onde restâr le membra,

quasi senza vigor, tremanti e fioche.

E quando io fui vicino

al folgorante sguardo,

come quel che sapea

che pur inganno era quell'atto e furto,

temei la maestà di quel bel viso.

Ma, da un sereno suo vago sorriso

assicurato poi,

pur oltre mi sospinsi.

Amor si stava, Ergasto,

com'ape suol, ne le due fresche rose

di quelle labbra ascoso.

E mentre ella si stette

con la baciata bocca,

al baciar de la mia,

immobile e ristretta,

la dolcezza del mèl sola gustai.

Ma, poi che mi s'offerse anch'ella e porse

l'una e l'altra dolcissima sua rosa,

(fosse o sua gentilezza o mia ventura,

so ben che non fu Amore),

e sonâr quelle labbra

e s'incontrâro i nostri baci (oh caro

e prezioso mio dolce tesoro,

t'ho perduto, e non moro?),

allora sentii de l'amorosa pecchia

la spina pungentissima soave

passarmi il cor, che forse

mi fu renduto allora

per poterlo ferire.

Io, poi ch'a morte mi sentii ferito,

come suol disperato,

poco mancò che l'omicide labbra

non mordessi e segnassi;

ma mi ritenne, oimè! l'aura adorata

che, quasi spirto d'anima divina,

risvegliò la modestia

e quel furore estinse.

ERG. O modestia, molestia

degli amanti importuna!

MIRT. Già fornito il su' arringo avea ciascuna

e con sospension d'animo grande

la sentenza attendea,

quando la leggiadrissima Amarilli,

giudicando i miei baci

più di quelli d'ogn'altra saporiti,

di propria man con quella

ghirlandetta gentil, che fu serbata

premio a la vincitrice, il crin mi cinse.

Ma, lasso! aprica piaggia

così non arse mai sotto la rabbia

del can celeste allor che latra e morde,

come ardea il cor mio

tutto allor di dolcezza e di desio,

e più che mai ne la vittoria vinto.

Pur mi riscossi tanto,

che la ghirlanda trattami di capo

a lei porsi, dicendo:

"Questa a te si convien, questa a te tocca,

che festi i baci miei

dolci ne la tua bocca".

Ed ella, umanamente

presala, al suo bel crin ne feo corona;

e d'un'altra, che prima

cingea le tempie a lei, cinse le mie.

Ed è questa ch'io porto,

e porterò fin al sepolcro sempre,

arida come vedi,

per la dolce memoria di quel giorno,

ma molto più per segno

de la perduta mia morta speranza.

ERG. Degno se' di pietà più che d'invidia,

Mirtillo, anzi pur Tantalo novello,

ché nel gioco d'Amor chi fa da scherzo,

tormenta da dovero. Troppe care

ti costâr le tue gioie; e del tuo furto

e il piacer e 'l gastigo insieme avesti.

Ma s'accorse ella mai di questo inganno?

MIRT. Ciò non so dirti, Ergasto.

So ben ch'ella, in que' giorni

ch'Elide fu de la sua vista degno,

mi fu sempre cortese

di quel soave ed amoroso sguardo.

Ma il mio crudo destino

la 'nvolò sì repente,

che me ne avvidi appena; ond'io, lasciando

quanto già di più caro aver solea,

tratto da la virtù di quel bel guardo,

qui, dove il padre mio

dopo tant'anni ancor, come t'è noto,

serba l'antico suo povero albergo,

men venni, e vidi, ah misero! già corso

e sempiterno occaso

quell'amoroso mio giorno sereno,

che cominciò da sì beata aurora.

Al mio primo apparir, sùbito sdegno

lampeggiò nel bel viso;

poi chinò gli occhi e girò il piede altrove.

"Misero!", allor i' dissi,

"questi son ben de la mia morte i segni".

Avea sentita acerbamente intanto

la non prevista e sùbita partita

il mio tenero padre,

e, dal dolore oppresso,

ne cadde infermo, assai vicino a morte;

ond'io costretto fui

di ritornar a le paterne case.

Fu il mio ritorno, ahi lasso!

salute al padre, infermitate al figlio,

ché, d'amorosa febbre

ardendo, in pochi dì languido venni.

E, da l'uscir che fe' di Tauro il sole

fin a l'entrar di Capricorno, sempre

in cotal guisa stetti;

e sarei certo ancora,

se non avesse il mio pietoso padre

opportuno consiglio

a l'oracolo chiesto, il qual rispose

che sol potea sanarmi il ciel d'Arcadia.

Così tornaimi, Ergasto,

a riveder colei

che mi sanò del corpo,

(oh voce degli oracoli fallace!)

per farmi l'alma eternamente inferma.

ERG. Strano caso nel vero

tu mi narri, Mirtillo, e non può dirsi

che di molta pietà non ne sii degno.

Ma solo una salute

al disperato è 'l disperar salute.

E tempo è già ch'io vada a far di quanto

m'hai detto consapevole Corisca.

Tu vanne al fonte e là m'attendi, dove

teco sarò quanto più tosto anch'io.

MIRT. Vanne felicemente! Il ciel ti dia

di cotesta pietà quella mercede

che dar non ti poss'io cortese Ergasto.

AT.2, SC.2

DOR. O del mio bello e dispietato Silvio

cura e diletto, avventuroso e fido,

foss'io sì cara al tuo signor crudele,

come se' tu Melampo! Egli, con quella

candida man ch'a me distringe il core,

te, dolcemente lusingando, nutre,

e teco il dì, teco la notte alberga:

mentr'io, che l'amo tanto, invan sospiro,

e 'nvano il prego; e, quel che più mi duole,

ti dà sì cari e sì soavi baci,

ch'un sol che n'avess'io, n'andrei beata.

E, per più non poter, ti bacio anch'io,

fortunato Melampo. Or, se benigna

stella, forse, d'Amore a me t'invia

perché l'orme di lui mi scorga, andiamo

dove Amor me, te sol Natura inchina.

Ma non sent'io tra queste selve un corno

sonar vicino? SILVIO Te' Melampo, te'!

DOR. Se 'l desio non m'inganna, quella è voce

del bellissimo Silvio, che 'l suo cane

chiama tra queste selve. SILVIO Te', Melampo,

te', te'! DOR. Senz'alcun fallo è la sua voce.

Oh felice Dorinda! il ciel ti manda

quel ben che vai cercando. E` meglio ch'io

serbi il cane in disparte: io farò forse

de l'amor suo con questo mezzo acquisto.

Lupino! LUP. Eccomi. DOR. Va' con questo cane,

e ti nascondi in quella fratta. Intendi?

LUP. Intendo. DOR. E non uscir, s'io non ti chiamo.

LUP. Tanto farò. DOR. Va' tosto, LUP. E tu fa' tosto,

ché, se venisse fame a questa bestia,

in un boccone non mi manicasse.

DOR. Oh come se' da poco! Su, va' via!

SILVIO Dove misero me! dove debb'io

volger più il piede a seguitarti, o caro,

o mio fido Melampo? Ho monte e piano

cercato indarno, e son già molle e stanco.

Maladetta la fèra che seguisti!

Ma ecco ninfa, che di lui novella

mi darà forse. Oh come male inciampo!

Questa è colei che mi dà sempre noia.

Pur soffrir mi bisogna. O bella ninfa,

dimmi: vedesti il mio fedel Melampo,

che testé dietro ad una damma sciolsi?

DOR. Io bella, Silvio? io bella?

Perché così mi chiami,

crudel, se bella agli occhi tuoi non sono?

SILVIO O bella o brutta, hai tu il mio can veduto?

A questo mi rispondi, o ch'io mi parto.

DOR. Tu se' pur aspro a chi t'adora, Silvio!

Chi crederia che 'n sì soave aspetto

fosse sì crudo affetto?

Tu segui per le selve

e per gli alpestri monti

una fèra fugace, e dietro l'orme

d'un veltro, oimè! t'affanni e ti consumi;

e me, che t'amo sì, fuggi e disprezzi.

Deh! non seguir damma fugace; segui,

segui amorosa e mansueta damma,

che, senza esser cacciata,

è già presa e legata.

SILVIO Ninfa, qui venni a ricercar Melampo,

non a perder il tempo. Addio. DOR. Deh! Silvio

crudel, non mi fuggire,

ch'i' ti darò del tuo Melampo nova.

SILVIO Tu mi beffi, Dorinda? DOR. Silvio mio,

per quello amor che mi t'ha fatta ancella,

io so dove è il tuo cane.

Nol lasciasti testé dietro a una damma?

SILVIO Lasciailo e ne perdei tosto la traccia.

DOR. Or il cane e la damma è in poter mio.

SILVIO In tuo poter? DOR. In mio poter. Ti duole

d'esser tenuto a chi t'adora, ingrato?

SILVIO Cara Dorinda mia, dàglimi tosto.

DOR. Ve', mobile fanciullo, a che son giunta!

ch'una fèra ed un can mi ti fa cara.

Ma vedi, core mio, tu non gli avrai

senza mercede. SILVIO E` ben ragion: darotti.

(Vo' schernirla, costei). DOR. Che mi darai?

SILVIO Due belle poma dora, che l'altr'ieri

la bellissima mia madre mi diede.

DOR. A me poma non mancano; potrei

a te darne di quelle che son forse

più saporite e belle, se i miei doni

tu non avessi a schivo. SILVIO E che vorresti?

un capro od una agnella? Ma il mio padre

non mi concede ancor tanta licenza.

DOR. Né di capro ho vaghezza né d'agnella:

te solo, Silvio, e l'amor tuo vorrei.

SILVIO Né altro vuoi che l'amor mio? DOR. Non altro.

SILVIO Sì sì, tutto tel dono. Or dammi dunque,

cara ninfa, il mio cane e la mia damma.

DOR. Oh se sapessi quanto

vale il tesor di che sì largo sembri,

e rispondesse a la tua lingua il core!

SILVIO Ascolta, bella ninfa. Tu mi vai

sempre di certo amor parlando, ch'io

non so quel ch'e' si sia. Tu vuoi ch'i' t'ami,

e t'amo quanto posso e quanto intendo.

Tu di' ch'io son crudele, e non conosco

quel che sia crudeltà, né so che farti.

DOR. O misera Dorinda! ov'hai tu poste

le tue speranze? onde soccorso attendi?

In beltà che non sente ancor favilla

di quel foco d'Amor, ch'arde ogn'amante.

Amoroso fanciullo;

tu se' pur a me foco, e tu non ardi;

e tu, che spiri amore, amor non senti.

Te, sotto umana forma

di bellissima madre,

partorì l'alma dea che Cipro onora;

tu hai gli strali e 'l foco:

ben sallo il petto mio ferito ed arso.

Giugni agli òmeri l'ali:

sarai novo Cupido,

se non c'hai ghiaccio il core,

né ti manca d'Amore altro che amore.

SILVIO Che cosa è questo amore?

DOR. S'i' miro il tuo bel viso,

amore è un paradiso;

ma, s'i' miro il mio core,

è un infernal ardore.

SILVIO Ninfa, non più parole:

dammi il mio cane ormai!

DOR. Dammi tu prima il pattuito amore.

SILVIO Dato non te l'ho dunque? (Oimè, che pena

è il contentar costei!) Prendilo, fanne

ciò che ti piace. Chi tel nega o vieta?

Che vuoi tu più? che badi?

DOR. (Tu perdi ne l'arena i semi e l'opra,

sfortunata Dorinda!)

SILVIO Che fai? che pensi? ancor mi tieni a bada?

DOR. Non così tosto avrai quel che tu brami,

che poi mi fuggirai, perfido Silvio.

SILVIO No certo, bella ninfa. DOR. Dammi un pegno.

SILVIO Che pegno vuoi? DOR. Ah, che non oso a dirlo!

SILVIO Perché? DOR. Perch'ho vergogna. SILVIO E pur il chiedi!

DOR. Vorrei senza parlar esser intesa.

SILVIO Ti vergogni di dirlo e non avresti

vergogna di riceverlo? DOR. Se darlo

tu mi prometti, i' tel dirò. SILVIO Prometto,

ma vo' che tu me 'l dica. DOR. Ah, non m'intendi,

Silvio, mio ben! T'indenderei pur io,

s'a me 'l dicessi tu. SILVIO Più scaltra certo

se' tu di me. DOR. Più calda, Silvio, e meno

di te crudele io sono. SILVIO A dirti il vero,

io non son indovin: parla, se vuoi

esser intesa. DOR. Oh misera! Un di quelli

che ti dà la tua madre. SILVIO Una guanciata?

DOR. Una guanciata a chi t'adora, Silvio?

SILVIO Ma careggiar con queste ella sovente

mi suole. DOR. Ah! so ben io che non è vero.

E talor non ti bacia? SILVIO Né mi bacia,

né vuol ch'altri mi baci.

Forse vorresti tu per pegno un bacio?

Tu non rispondi. Il tuo rossor t'accusa.

Certo mi son apposto. I' son contento;

ma dammi con la preda il can tu prima.

DOR. Mel prometti tu, Silvio? SILVIO I' tel prometto.

DOR. E me l'attenderai? SILVIO Sì, ti dich'io.

Non mi dar più tormento. DOR. Esci Lupino!

Lupino! ancor non odi? LUP. Oh, se' noioso!

Chi chiama? Oh, vengo, vengo! Io non dormiva,

no certo. Il can dormiva. DOR. Ecco il tuo cane,

Silvio, che più di te cortese, in queste...

SILVIO Oh, come son contento! DOR.... in queste braccia,

che tanto sprezzi tu, venne a posarsi...

SILVIO Oh dolcissimo mio fido Melampo!

DOR.>... cari avendo i miei baci e i miei sospiri.

SILVIO Baciar ti voglio mille volte e mille.

Ti se' fatto alcun mal, forse, correndo?

DOR. Avventuroso can! perché non posso

cangiar teco mia sorte? A che son giunta,

che fin d'un can la gelosia m'accora?

Ma tu, Lupin, t'invia verso la caccia;

ché fra poco i' ti seguo. LUP. Io vo, padrona.

AT.2, SC.3

SILVIO Tu non hai alcun male. Al rimanente:

ov'è la damma che promessa m'hai?

DOR. La vuoi tu viva o morta? SILVIO Io non t'intendo.

Com'esser viva può, se 'l can l'uccise?

DOR. Ma se 'l can non l'uccise? SILVIO E` dunque viva?

DOR. Viva. SILVIO Tanto più cara e più gradita

mi fia cotesta preda. E fu sì destro

Melampo mio, che non l'ha guasta o tócca?

DOR. Sol è nel cor d'una ferita punta.

SILVIO Mi beffi tu, Dorinda, o pur vaneggi?

Com'esser viva può, nel cor ferita?

DOR. Quella damma son io,

crudelissimo Silvio,

che, senza esser attesa,

son da te vinta e presa,

viva, se tu m'accogli;

morta, se mi ti togli.

SILVIO E questa è quella damma e quella preda

che testé mi dicevi?

DOR. Questa e non altra. Oimè! perché ti turbi?

Non t'è più caro aver ninfa che fèra?

SILVIO Né t'ho cara né t'amo, anzi t'ho in odio,

brutta, vile, bugiarda ed importuna!

DOR. E` questo il guiderdon, Silvio crudele?

è questa la mercé che tu mi dài,

garzon ingrato? Abbi Melampo in dono,

e me con lui, ché tutto,

pur ch'a me torni, i' ti rimetto, e solo

de' tuoi begli occhi il sol non mi si nieghi.

Ti seguirò, compagna

del tuo fido Melampo assai più fida;

e, quando sarai stanco,

t'asciugherò la fronte,

e sovra questo fianco,

che per te mai non posa, avrai riposo.

Porterò l'armi, porterò la preda;

e, se ti mancherà mai fèra al bosco,

saetterai Dorinda. In questo petto

l'arco tu sempre esercitar potrai:

ché, sol come vorrai,

il porterò, tua serva,

il proverò, tua preda,

e sarò del tuo stral faretra e segno.

Ma con chi parlo? ahi, lassa!

teco, che non m'ascolti e via ten fuggi.

Ma fuggi pur: ti seguirà Dorinda

nel crudo inferno ancor, s'alcun inferno

più crudo aver poss'io

de la fierezza tua, del dolor mio.

AT.2, SC.4

COR. Oh, come favorisce i miei disegni

Fortuna molto più ch'io non sperai!

Non ha ragion di favorir colei

che, sonnacchiosa, il suo favor non chiede.

Ha ben ella gran forza, e non la chiama

"possente dea' senza ragione il mondo;

ma bisogna incontrarla e farle vezzi,

spianandole il sentiero. I neghittosi

saran di rado fortunati o mai.

Se non m'avesse la mia industria fatta

compagna di colei, che potrebbe ora

giovarmi una sì comoda e sicura

occasion di ben condurre a fine

il mio pensiero? Avria qualch'altra sciocca

la sua rival fuggita; e, segni aperti

de la sua gelosia portando in fronte,

di mal occhio guatata anco l'avrebbe,

e mal avrebbe fatto, ch'assai meglio

da l'aperto nemico altri si guarda,

che non fa da l'occulto. Il cieco scoglio

è quel ch'inganna i marinari ancora

più saggi. Chi non sa finger l'amico,

non è fiero nemico. Oggi vedrassi

quel che sa far Corisca. Ma sì sciocca

non son io già, che lei non creda amante.

A qualcun altro il farà creder forse,

che poco sappia; a me non già, che sono

maestra di quest'arte. Una fanciulla

tenera e semplicetta, che pur ora

spunta fuor de la buccia, in cui pur dianzi

stillò le prime sue dolcezze Amore,

lungamente seguìta e vagheggiata

da sì leggiadro amante, e, quel ch'è peggio,

baciata e ribaciata, e starà salda?

Pazzo è ben chi sel crede; io già nol credo.

Ma vedi il mio destìn come m'aita.

Ecco a punto Amarilli. Ah, i' vo' far vista

di non vederla e ritirarmi alquanto.

AT.2, SC.5

AMAR. Care selve beate,

e voi solinghi e taciturni orrori,

di riposo e di pace alberghi veri;

oh, quanto volentieri

a rivedervi i' torno! E se le stelle

m'avesser dato in sorte

di viver a me stessa e di far vita

conforme a le mie voglie,

i' già co' Campi Elisi,

fortunato giardin de' semidèi,

la vostr'ombra gentil non cangerei.

Ché, se ben dritto miro,

questi beni mortali

altro non son che mali.

Meno ha chi più n'abonda,

e posseduto è più che non possede:

ricchezze no, ma lacci

de l'altrui libertate.

Che val ne' più verdi anni

titolo di bellezza

o fama d'onestate,

e 'n mortal sangue nobiltà celeste;

tante grazie del cielo e de la terra:

qui larghi e lieti campi,

e là felici piagge,

fecondi paschi e più fecondo armento,

se 'n tanti beni il cor non è contento?

Felice pastorella,

cui cinge a pena il fianco

povera sì, ma schietta

e candida gonnella,

ricca sol di se stessa

e de le grazie di natura adorna;

che 'n dolce povertade

né povertà conosce né i disagi

de le ricchezze sente;

ma tutto quel possede,

per cui desio d'aver non la tormenta,

nuda sì, ma contenta!

Co' doni di natura

i doni di natura anco nudrìca;

col latte il latte avviva;

e col dolce de l'api

condisce il mèl de le natie dolcezze.

Quel fonte ond'ella beve,

quel solo anco la bagna e la consiglia;

paga lei, pago il mondo.

Per lei di nembi il ciel s'oscura indarno

e di grandine s'arma,

ché la sua povertà nulla paventa:

nuda sì, ma contenta.

Sola una dolce e d'ogn'affanno sgombra

cura le sta nel core:

pasce le verdi erbette

la greggia a lei commessa, ed ella pasce

de' suo' begli occhi il pastorello amante,

non qual le destinâro

o gli uomini o le stelle,

ma qual le diede Amore.

E tra l'ombrose piante

d'un favorito lor mirteto adorno,

vagheggiata, il vagheggia; né per lui

sente foco d'amor che non gli scopra;

ned ella scopre ardor ch'egli non senta:

nuda sì, ma contenta.

Oh vera vita, che non sa che sia

morire innanzi morte!

Potess'io pur cangiar teco mia sorte!

Ma vedi là Corisca. Il ciel ti guardi,

dolcissima Corisca. COR. Chi mi chiama?

Oh, più degli occhi miei, più de la vita

a me cara Amarilli, e dove vai

così soletta? AMAR. In nessun altro loco,

se non dove mi trovi e dove meglio

capitar non potea, poi che te trovo.

COR. Tu trovi chi da te non parte mai,

Amarilli mia dolce, e di te stava

pur or pensando e fra mio cor dicea:

"S'io son l'anima sua, come può ella

star senza me sì lungamente?" e, 'n questo,

tu mi se' sopraggiunta, anima mia.

Ma tu non ami più la tua Corisca.

AMAR. E perché ciò? COR. Come perché? tu 'l chiedi?

Oggi tu sposa... AMAR. Io sposa? COR. Sì, tu sposa

ed a me nol palesi? AMAR. E come posso

palesar quel che non m'è noto? COR. Ancora

tu t'infingi e mel neghi? AMAR. Ancor mi beffi?

COR. Anzi tu beffi me. AMAR. Dunque m'affermi

ciò tu per vero? COR. Anzi tel giuro; e certo

non ne sai nulla tu? AMAR. So che promessa

già fui; ma non so già che sì vicine

sien le mie nozze. E tu da chi 'l sapesti?

COR. Da mio fratello Ormino. Esso l'ha inteso,

dice, da molti; e non si parla d'altro.

Par che tu te ne turbi. E` forse questa

novella da turbarsi? AMAR. Gli è un gran passo,

Corisca; e già la madre mia mi disse

che quel dì si rinasce. COR. A miglior vita

si rinasce per certo; e tu per questo

viver lieta dovresti. A che sospiri?

Lascia pur sospirar a quel meschino.

AMAR. Qual meschino? COR. Mirtillo, che trovossi

presente a ciò che 'l mio fratel mi disse,

e poco men che di dolor nol vidi

morire. E certo e' si moriva, s'io

non l'avessi soccorso, promettendo

di sturbar queste nozze; e, ben che questo

dicessi sol per suo conforto, io pure

sarei donna per farlo. AMAR. E ti darebbe

l'animo di sturbarle? COR. E di che sorte!

AMAR. E come ciò faresti? COR. Agevolmente,

pur che tu ti disponga e ci consenta.

AMAR. Se ciò sperassi e la tua fé mi dessi

di non l'appalesar, ti scovrirei

un pensier che nel cor gran tempo ascondo.

COR. Io palesarti mai? aprasi prima

la terra e per miracolo m'inghiotta.

AMAR. Sappi, Corisca mia, che, quand'io penso

ch'i' debbo ad un fanciullo esser soggetta,

che m'ha in odio e mi fugge e ch'altra cura

non ha che i boschi, e ch'una fèra e un cane

stima più che l'amor di mille ninfe,

malcontenta ne vivo e poco meno

che disperata; ma non oso a dirlo,

sì perché l'onestà non mel comporta,

sì perché al padre mio n'ho di già data

e, quel ch'è peggio, a la gran dea, la fede.

Che se per opra tua, ma però sempre

salva la fede mia, salva la vita

e la religion e l'onestate,

troncar di questo a me sì grave nodo

si potesser le fila, oggi saresti

tu ben la mia salute e la mia vita.

COR. Se per questo sospiri, hai gran ragione.

Amarilli. Deh! quante volte il dissi:

"Una cosa sì bella a chi la sprezza?

Sì ricca gioia a chi non la conosce?".

Ma tu se' troppo savia, a dirti il vero,

anzi pur troppo sciocca. E che non parli?

che non ti lasci intendere? AMAR. Ho vergogna.

COR. Hai un gran mal, sorella. I' vorrei prima

aver la febbre, il fistolo, la rabbia.

Ma, credi a me, la perderai tu ancora,

sorella mia, sì ben; basta una sola

volta che tu la superi e rinieghi.

AMAR. Vergogna, che 'n altrui stampò natura,

non si può rinegar, ché, se tu tenti

di cacciarla dal cor, fugge nel volto.

COR. O Amarilli mia, chi, troppo savia,

tace il suo male, alfin, da pazza, il grida.

Se questo tuo pensiero avessi prima

scoperto a me, saresti fuor d'impaccio.

Oggi vedrai quel che sa far Corisca.

Ne le più sagge man, ne le più fide

tu non potevi capitar. Ma, quando

sarai per opra mia già liberata

d'un cattivo marito, non vorrai tu

d'un buon amante provvederti? AMAR. A questo

penseremo a bell'agio. COR. Veramente

non puoi mancare al tuo fedel Mirtillo.

E tu sai pur s'oggi è pastor di lui,

né per valor, né per sincera fede,

né per beltà, de l'amor tuo più degno.

E tu 'l lasci morire (ah troppo cruda!),

senza che dir ti possa, almeno: "Io moro?".

Ascoltalo una volta. AMAR. Oh quanto meglio

farebbe a darsi pace, e la radice

sveller di quel desio ch'è senza speme!

COR. Dàgli questo conforto anzi che moia.

AMAR. Sarà piuttosto un raddoppiargli affanno.

COR. Lascia di questo tu la cura a lui.

AMAR. E di me che sarebbe, se mai questo

si risapesse? COR. Oh quanto hai poco core!

AMAR. E poco sia, purch'a bontà mi vaglia.

COR. Amarilli, se lecito ti fai

di mancarmi tu in questo, anch'io ben posso

giustamente mancarti. Addio. AMAR. Corisca,

non ti partir; ascolta. COR. Una parola

sola non udirei, se non prometti...

AMAR. Ti prometto d'udirlo, ma con questo,

ch'ad altro non m'astringa... COR. Altro non chiede.

AMAR. ... e tu gli facci credere che nulla

saputo i' n'abbia... COR. Mostrerò che tutto

abbia portato il caso. AMAR.... e ch'indi possa

partirmi a mio piacer, né mi contrasti...

COR. Quando ti piacerà, pur che l'ascolti.

AMAR.>... e brevemente si spedisca. COR. E questo

ancora si farà. AMAR.>... né mi s'accosti

quanto è lungo il mio dardo. COR. Oimè, che pena

m'è oggi il riformar cotesta tua

semplicità! Fuor che la lingua, ogn'altro

membro gli legherò, sì che sicura

star ne potrai: vuoi altro? AMAR. Altro non voglio.

COR. E quando il farai tu? AMAR. Quando a te piace,

pur che tanto di tempo or mi conceda

ch'i' torni a casa, ove di queste nozze

mi vo' meglio informar. COR. Vanne, ma guarda

di farlo accortamente. Or odi quello

ch'io vo pensando: ch'oggi sul meriggio

qui, sola, fra quest'ombre e senz'alcuna

de le tue ninfe tu ten venghi, dove

mi troverò per questo effetto anch'io.

Meco saran Nerine, Aglauro, Elisa,

e Fillide e Licori, tutte mie

non meno accorte e sagge che fedeli

e segrete compagne, ove, con loro

facendo tu, come sovente suoli,

il giuoco "de la cieca', agevolmente

Mirtillo crederà che non per lui,

ma per diporto tuo ci sii venuta.

AMAR. Questo mi piace assai; ma non vorrei

che quelle ninfe fossero presenti

a le parole di Mirtillo, sai?

COR. T'indendo, e ben avvisi; e fie mia cura

che tu di questo alcun timor non aggia,

ch'io le farò sparir quando fia tempo.

Vattene pur, e ti ricorda intanto

d'amar la tua fidissima Corisca.

AMAR. Se posto ho il cor ne le sue mani, a lei

starà di farsi amar quanto le piace.

COR. Parti ch'ella stia salda? A questa ròcca

maggior forza bisogna. S'a l'assalto

de le parole mie può far difesa,

a quelle di Mirtillo certamente

resister non potrà. So ben anch'io

quel che nel cor di tenera fanciulla

possano i prieghi di gradito amante.

Se ridur ci si lascia, a tal partito

la stringerò ben io con questo giuoco,

che non l'avrà da giuoco. Ed io non solo

da le parole sue, voglia o non voglia,

potrò spiar, ma penetrar ancora

fin ne l'interne viscere il suo core.

Come questo abbia in mano e già padrona

sia del segreto suo, farò di lei

ciò che vorrò senza fatica alcuna,

e condurrolla a quel che bramo, in guisa

ch'ella stessa, non ch'altri, agevolmente

creder potrà che l'abbia a ciò condotta

il suo sfrenato amor, non l'arte mia.

AT.2, SC.6

COR. Oimè, son morta! SAT. Ed io son vivo. COR. Torna,

torna, Amarilli mia, ché presa sono.

SAT. Amarilli non t'ode. Ah! questa volta

ti converrà star salda. COR. Oimè, le chiome!

SAT. T'ho pur sì lungamente attesa al varco,

che ne la rete se' caduta. E sai,

questo non è il mantello; è 'l crin, sorella.

COR. A me, Satiro? SAT. A te. Non se' tu quella

Corisca sì famosa ed eccellente

maestra di menzogne, che mentite

parolette e speranze e finti sguardi

vendi a sì caro prezzo? che tradito

m'ha' in tanti modi e dileggiato sempre,

ingannatrice e pessima Corisca?

COR. Corisca son ben io; ma non già quella,

Satiro mio gentil, ch'agli occhi tuoi

un tempo fu sì cara. SAT. Or son gentile,

sì, scelerata; ma gentil non fui,

quando per Coridon tu mi lasciasti.

COR. Te per altrui? SAT. Or odi meraviglia

e cosa nuova a l'animo sincero!

E quando l'arco a Lilla e 'l velo a Clori,

la veste a Dafne ed i coturni a Silvia

m'inducesti a rubar, perché 'l mio furto

fosse di quell'amor poscia mercede,

ch'a me promesso, fu donato altrui;

e quando la bellissima ghirlanda,

che donata i' t'avea, donasti a Niso;

e quando, a la caverna, al bosco, al fonte

facendomi vegghiar le fredde notti,

m'hai schernito e beffato, allor ti parvi

gentile, ah, scelerata? Or pagherai,

credimi, or pagherai di tutto il fio.

COR. Tu mi strascini, oimè! come s'i' fussi

una giovenca. SAT. Tu 'l dicesti a punto.

Scòtiti pur, se sai; già non tem'io

che quinci or tu mi fugga: a questa presa

non ti varranno inganni. Un'altra volta

ten fuggisti, malvagia; ma se 'l capo

qui non mi lasci, indarno t'affatichi

d'uscirmi oggi di man. COR. Deh! non negarmi

tanto di tempo almen, che teco i' possa

dir mia ragion comodamente. SAT. Parla.

COR. Come vuoi tu ch'io parli, essendo presa?

Lasciami. SAT. Ch'i' ti lasci? COR. I' ti prometto

la fede mia di non fuggir. SAT. Qual fede,

perfidissima femmina? ancor osi

parlar meco di fede? I' vo' condurti

ne la più spaventevole caverna

di questo monte, ove non giunga mai

raggio di sol, non che vestigio umano.

Del resto non ti parlo; il sentirai.

Farò con mio diletto e con tuo scorno

quello strazio di te, che meritasti.

COR. Puoi tu dunque, crudele, a questa chioma

che ti legò già il core, a questo volto

che fu già il tuo diletto, a questa un tempo

più de la vita tua cara Corisca,

per cui giuravi che ti fôra stato

anco dolce il morire, a questa puoi

soffrir di far oltraggio? Oh cielo! oh sorte!

In cui pos'io speranza? a cui debb'io

creder mai più, meschina? SAT. Ah, scelerata!

pensi ancor d'ingannarmi? ancor mi tenti

con le lusinghe tue, con le tue frodi?

COR. Deh! Satiro gentil, non far più strazio

di chi t'adora. Oimè! non se' già fèra,

non hai già il cor di marmo o di macigno.

Eccomi a' piedi tuoi. Se mai t'offesi,

idolo del mio cor, perdon ti cheggio.

Per queste nerborute e sovrumane

tue ginocchia ch'abbraccio, a cui m'inchino;

per quello amor che mi portasti un tempo;

per quella soavissima dolcezza

che trar solevi già dagli occhi miei

che tue stelle chiamavi, or son duo fonti;

per queste amare lagrime, ti prego,

abbi pietà di me, lasciami omai.

SAT. (La perfida m'ha mosso; e, s'io credessi

solo a l'affetto, a fé che sarei vinto!)

Ma insomma io non ti credo. Tu se' troppo

malvagia e 'nganni più chi più si fida.

Sotto quell'umiltà, sotto que' preghi

si nasconde Corisca: tu non puoi

esser da te diversa. Ancor contendi?

COR. Oimè il mio capo! Ah crudo! ancor un poco

ferma, ti prego; ed una sola grazia

non mi negar, almen. SAT. Che grazia è questa?

COR. Che tu m'ascolti ancor un poco. SAT. Forse

ti pensi tu con parolette finte

e mendicate lagrime piegarmi?

COR. Deh! Satiro cortese, e pur tu vuoi

far di me strazio? SAT. Il proverai. Vien' pure.

COR. Senza avermi pietà? SAT. Senza pietate.

COR. E 'n ciò se' tu ben fermo? SAT. In ciò ben fermo.

Hai tu finito ancor questo incantesimo?

COR. O villano indiscreto ed importuno,

mezz'uomo e mezzo capra, e tutto bestia,

carogna fracidissima e difetto

di natura nefando, se tu credi

che Corisca non t'ami, il vero credi.

Che vuoi tu ch'ami in te? quel tuo bel ceffo?

quella sucida barba? quell'orecchie

caprigne? e quella putrida e bavosa

isdentata caverna? SAT. O scelerata!

a me questo? COR. A te questo. SAT. A me, ribalda?

COR. A te caprone! SAT. Ed io con queste mani

non ti trarrò cotesta tua canina

ed importuna lingua? COR. Se t'accosti

e fossi tanto ardito... SAT. In tale stato

una vil femminuzza, in queste mani,

e non teme? e m'oltraggia? e mi dispregia?

Io ti farò... COR. Che mi farai, villano?

SAT. I' ti mangerò viva. COR. E con qua' denti,

se tu non gli hai? SAT. O ciel, come il comporti?

Ma s'io non te ne pago.... Vien' pur via.

COR. Non vo' venir. SAT. Non ci verrai, malvagia?

COR. No, mal tuo grado; no. SAT. Tu ci verrai,

se mi credessi di lasciarci queste

braccia. COR. Non ci verrò, se questo capo

di lasciarci credessi. SAT. Orsù! veggiamo

chi di noi ha più forte e più tenace,

tu il collo, od io le braccia. Tu ci metti

le mani, né con questo anco potrai

difenderti, perversa. COR. Or il vedremo.

SAT. Sì certo. COR. Tira ben. Satiro, addio;

fiàccati il collo. SAT. Oimè dolente! ahi lasso!

oimè il capo! oimè il fianco! oimè la schiena!

oh che fiera caduta! A pena i' posso

movermi e rilevarmene. E pur vero

è ch'ella fugga e qui rimanga il teschio?

Oh maraviglia inusitata! O ninfe,

o pastori, accorrete e rimirate

il magico stupor di chi sen fugge

e vive senza capo. Oh come è lieve!

quanto ha poco cervello e come il sangue

fuor non ne spiccia! Ma che miro? o sciocco!

o mentecatto! Senza capo lei?

Senza capo se' tu. Chi vide mai

uom di te più schernito? Or mira s'ella

ha saputo fuggir, quando tu meglio

la pensavi tener. Perfida maga!

Non ti bastava aver mentito il core

e 'l volto e le parole e 'l riso e 'l guardo,

s'anco il crin non mentivi? Ecco! poeti,

questo è l'oro nativo e l'ambra pura

che pazzamente voi lodate. Omai

arrossite, insensati, e, ricantando,

vostro soggetto in quella vece sia

l'arte d'una impurissima e malvagia

incantatrice, che i sepolcri spoglia

e, dai fracidi teschi il crin furando,

al suo l'intesse e così ben l'asconde,

che v'ha fatto lodar quel che aborrire

dovevate assai più che di Megera

le viperine e mostruose chiome.

Amanti, or non son questi i vostri nodi?

Mirate e vergognatevi, meschini.

E se, come voi dite, i vostri còri

son pur qui ritenuti, omai ciascuno

potrà senza sospiri e senza pianto

ricoverar il suo. Ma che più tardo

a publicar le sue vergogne? Certo

non fu mai sì famosa né sì chiara

la chioma ch'è là sù con tante stelle

ornamento del ciel, come fie questa

per la mia lingua, e molto più colei

che la portava, eternamente infame.

CORO Ah, ben fu di colei grave l'errore,

cagion del nostro male,

che le leggi santissime d'Amore,

di fé mancando, offese;

poscia ch'indi s'accese

degli immortali dèi l'ira mortale,

che, per lagrime e sangue

di tante alme innocenti, ancor non langue.

Così la Fé, d'ogni virtù radice,

e d'ogn'alma ben nata unico fregio,

là su si tiene in pregio!

Così di farci amanti, onde felice

si fa nostra natura,

l'eterno Amante ha cura!

Ciechi mortali, voi che tanta sete

di possedere avete,

l'urna amata guardando

d'un cadavero d'òr, quasi nud'ombra

che vada intorno al suo sepolcro errando;

qual amore o vaghezza

d'una morta bellezza il cor v'ingombra?

Le ricchezze e i tesori

son insensati amori. Il vero e vivo

amor de l'alma, è l'alma: ogn'altro oggetto,

perché d'amare è privo,

degno non è de l'amoroso affetto.

L'anima, perché sola è riamante,

sola è degna d'amor, degna d'amante.

Ben è soave cosa

quel bacio che si prende

da una vermiglia e delicata rosa

di bella guancia. E pur chi 'l vero intende,

com'intendete vui,

avventurosi amanti che 'l provate,

dirà che quello è morto bacio, a cui

la baciata beltà bacio non rende.

Ma i colpi di due labbra innamorate,

quando a ferir si va bocca con bocca

e che in un punto scocca

Amor con soavissima vendetta

l'una e l'altra saetta,

son veri baci, ove con giuste voglie

tanto si dona altrui, quanto si toglie.

Baci pur bocca curiosa e scaltra

o seno o fronte o mano: unqua non fia

che parte alcuna in bella donna baci

che baciatrice sia,

se non la bocca, ove l'un'alma e l'altra

corre e si bacia anch'ella, e con vivaci

spiriti pellegrini

dà la vita al bel tesoro

de' bacianti rubini,

sì che parlan tra loro

gran cose in picciol suono,

e segreti dolcissimi che sono

a lor solo palesi, altrui celati.

Tal gioia amando prova, anzi tal vita,

alma con alma unita,

e son come d'amor baci baciati

gli incontri di duo còri amanti amati.

 

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.27.08