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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

Niccolò Machiavelli

 

Libro Terzo (26-49)

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[XXXIV] [XXXV] [XXXVI] [XXXVII] [XXXVIII] [XXXIXI] [XL]

[XLI] [XLII] [XLIII] [XLIV] [XLV] [XLVI] [XLVII] [XLVIII] [XLIX]

 

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Come per cagione di femine
si rovina uno stato.
Nacque nella città d'Ardea intra i patrizi e gli plebei una sedizione per cagione d'uno parentado: dove, avendosi a maritare una femina ricca, la domandarono parimente uno plebeo ed uno nobile; e non avendo quella padre, i tutori la volevono congiugnere al plebeo, la madre al nobile: di che nacque tanto tumulto, che si venne alle armi; dove tutta la Nobilità si armò in favore del nobile, e tutta la plebe in favore del plebeo. Talché, essendo superata la plebe, si uscì d'Ardea, e mandò a' Volsci per aiuto: i nobili mandarono a Roma. Furono prima i Volsci, e, giunti intorno ad Ardea, si accamparono. Sopravvennono i Romani, e rinchiusono i Volsci infra la terra e loro; tanto che gli costrinsono, essendo stretti dalla fame, a darsi a discrezione. Ed entrati i Romani in Ardea, e morti tutti i capi della sedizione, composono le cose di quella città.
Sono in questo testo più cose da notare. Prima, si vede come le donne sono state cagioni di molte rovine, ed hanno fatti gran danni a quegli che governano una città, ed hanno causato di molte divisioni in quelle: e, come si è veduto in questa nostra istoria, lo eccesso fatto contro a Lucrezia tolse lo stato ai Tarquinii; quell'altro, fatto contro a Virginia, privò i Dieci dell'autorità loro. Ed Aristotile, intra le prime cause che mette della rovina de' tiranni, è lo avere ingiuriato altrui per conto delle donne, o con stuprarle, o con violarle, o con rompere i matrimonii; come di questa parte, nel capitolo dove noi trattamo delle congiure, largamente si parlò. Dico, adunque, come i principi assoluti ed i governatori delle republiche non hanno a tenere poco conto di questa parte; ma debbono considerare i disordini che per tale accidente possono nascere, e rimediarvi in tempo che il rimedio non sia con danno e vituperio dello stato loro o della loro republica: come intervenne agli Ardeati; i quali, per avere lasciato crescere quella gara intra i loro cittadini, si condussero a dividersi infra loro; e, volendo riunirsi, ebbono a mandare per soccorsi esterni: il che è uno grande principio d'una propinqua servitù.
Ma veniamo allo altro notabile, del modo del riunire le città; del quale nel futuro capitolo parlereno.
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Come e' si ha ad unire una città divisa;
e come e' non è vera quella opinione,
che, a tenere le città,
bisogni tenerle divise.
Per lo esemplo de' Consoli romani che riconciliorono insieme gli Ardeati, si nota il modo come si debbe comporre una città divisa: il quale non è altro, né altrimenti si debbe medicare, che ammazzare i capi de' tumulti, perché gli è necessario pigliare uno de' tre modi: o ammazzargli, come feciono costoro; o rimuovergli della città; o fare loro fare pace insieme, sotto oblighi di non si offendere. Di questi tre modi, questo ultimo è più dannoso, meno certo e più inutile. Perché gli è impossibile, dove sia corso assai sangue, o altre simili ingiurie, che una pace, fatta per forza, duri, riveggendosi ogni dì insieme in viso; ed è difficile che si astenghino dallo ingiuriare l'uno l'altro, potendo nascere infra loro ogni dì, per la conversazione, nuove cagioni di querele.
Sopra che non si può dare il migliore esemplo che la città di Pistoia. Era divisa quella città, come è ancora, quindici anni sono, in Panciatichi e Cancellieri; ma allora era in sull'armi, ed oggi le ha posate. E dopo molte dispute infra loro vennono al sangue, alla rovina delle case, al predarsi la roba, e ad ogni altro termine di nimico. Ed i Fiorentini, che gli avevano a comporre, sempre vi usarono quel terzo modo; e sempre ne nacque maggiori tumulti e maggiori scandali: tanto che, stracchi, e' si venne al secondo modo, di rimuovere i capi delle parti; de' quali alcuni messono in prigione alcuni altri confinarono in vari luoghi: tanto che l'accordo fatto potette stare, ed è stato infino a oggi. Ma sanza dubbio più sicuro saria stato il primo. Ma perché simili esecuzioni hanno il grande ed il generoso, una republica debole non le sa fare, ed ènne tanto discosto, che a fatica la si conduce al rimedio secondo. E questi sono di quegli errori che io dissi nel principio, che fanno i principi de' nostri tempi, che hanno a giudicare le cose grandi; perché doverrebbono volere udire come si sono governati coloro che hanno avuto a giudicare anticamente simili casi. Ma la debolezza de' presenti uomini, causata dalla debole educazione loro e dalla poca notizia delle cose, fa che si giudicano i giudicii antichi, parte inumani, parte impossibili. Ed hanno certe loro moderne opinioni, discosto al tutto dal vero, come è quella che dicevano e' savi della nostra città, un tempo fa: che bisognava tenere Pistoia con le parti, e Pisa con le fortezze; e non si avveggono, quanto l'una e l'altra di queste due cose è inutile.
Io voglio lasciare le fortezze, perché di sopra ne parlamo a lungo; e voglio discorrere la inutilità che si trae del tenere le terre, che tu hai in governo, divise. In prima, egli è impossibile che tu ti mantenga tutte a due quelle parti amiche, o principe o republica che le governi. Perché dalla natura è dato agli uomini pigliare parte in qualunque cosa divisa, e piacergli più questa che quella. Talché, avendo una parte di quella terra male contenta, fa che, la prima guerra che viene, te la perdi; perché gli è impossibile guardare una città che abbia e' nimici fuori e dentro. Se la è una republica che la governi, non ci è il più bel modo a fare cattivi i tuoi cittadini ed a fare dividere la tua città, che avere in governo una città divisa; perché ciascuna parte cerca di avere favori, e ciascuna si fa amici con varie corruttele: talché ne nasce due grandissimi inconvenienti; l'uno, che tu non ti gli fai mai amici, per non gli potere governare bene, variando il governo spesso, ora con l'uno, ora con l'altro omore; l'altro, che tale studio di parte divide di necessità la tua republica. Ed il Biondo, parlando de' Fiorentini e de' Pistolesi, ne fa fede, dicendo: "Mentre che i Fiorentini disegnavono di riunire Pistoia, divisono sé medesimi". Pertanto, si può facilmente considerare il male che da questa divisione nasca.
Nel 1502, quando si perdé Arezzo, e tutto Val di Tevere e Val di Chiana, occupatoci dai Vitelli e dal duca Valentino, venne un monsignor di Lant, mandato dal re di Francia a fare ristituire ai Fiorentini tutte quelle terre perdute; e trovando Lant in ogni castello uomini che, nel vicitarlo, dicevano che erano della parte di Marzocco, biasimò assai questa divisione: dicendo, che, se in Francia uno di quegli sudditi del re dicesse di essere della parte del re, sarebbe gastigato, perché tale voce non significherebbe altro, se non che in quella terra fusse gente inimica del re, e quel re vuole che le terre tutte sieno sue amiche, unite e sanza parte. Ma tutti questi modi e queste opinioni diverse dalla verità, nascono dalla debolezza di chi è signore; i quali, veggendo di non potere tenere gli stati con forza e con virtù, si voltono a simili industrie: le quali qualche volta ne' tempi quieti giovano qualche cosa, ma, come e' vengono le avversità ed i tempi forti, le mostrano la fallacia loro.
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Che si debbe por mente
alle opere de' cittadini,
perché molte volte sotto una opera pia
si nasconde uno principio di tirannide.
Essendo la città di Roma aggravata dalla fame, e non bastando le provisioni publiche a cessarla, prese animo uno Spurio Melio, essendo assai ricco, secondo quegli tempi, di fare provisione privatamente di frumento, e pascerne col suo grado la plebe. Per la quale cosa, egli ebbe tanto concorso di popolo in suo favore, che il Senato, pensando all' inconveniente che di quella sua liberalità poteva nascere, per opprimerla avanti che la pigliasse più forze, gli creò uno Dittatore addosso, e fecelo morire. Qui è da notare, come molte volte le opere che paiono pie e da non le potere ragionevolmente dannare, diventono crudeli, e per una republica sono pericolosissime, quando le non siano a buona ora corrette. E per discorrere questa cosa più particularmente, dico che una republica sanza i cittadini riputati non può stare, né può governarsi in alcuno modo bene. Dall'altro canto, la riputazione de' cittadini è cagione della tirannide delle republiche. E volendo regolare questa cosa, bisogna ordinarsi talmente, che i cittadini siano riputati, di riputazione che giovi, e non nuoca, alla città ed alla libertà di quella. E però si debbe esaminare i modi con i quali e' pigliano riputazione; che sono in effetto due: o publici o privati. I modi publici sono, quando uno, consigliando bene, operando meglio, in beneficio comune, acquista riputazione. A questo onore si debba aprire la via ai cittadini, e preporre premii ed ai consigli ed alle opere, talché se ne abbiano ad onorare e sodisfare. E quando queste riputazioni, prese per queste vie, siano stiette e semplici, non saranno mai pericolose: ma quando le sono prese per vie private, che è l'altro modo preallegato, sono pericolosissime ed in tutto nocive. Le vie private sono, faccendo beneficio a questo ed a quello altro privato, col prestargli danari, maritargli le figliuole, difenderlo dai magistrati, e faccendogli simili privati favori, i quali si fanno gli uomini partigiani, e danno animo, a chi è così favorito, di potere corrompere il publico e sforzare le leggi. Debbe, pertanto, una republica bene ordinata aprire le vie come è detto, a chi cerca favori per vie publiche, e chiuderle a chi li cerca per vie private, come si vede che fece Roma perché in premio di chi operava bene per il publico, ordinò i trionfi, e tutti gli altri onori che la dava ai suoi cittadini, ed in danno di chi sotto vari colori per vie private cercava di farsi grande, ordinò l'accuse; e quando queste non bastassero, per essere accecato il popolo da una spezie di falso bene, ordinò il Dittatore, il quale con il braccio regio facesse ritornare dentro al segno chi ne fosse uscito, come la fece per punire Spurio Melio. Ed una che di queste cose si lasci impunita, è atta a rovinare una republica; perché difficilmente con quello esemplo si riduce dipoi in la vera via.
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Che gli peccati de' popoli
nascono dai principi.
Non si dolghino i principi di alcuno peccato che facciono i popoli ch'egli abbiano in governo; perché tali peccati conviene che naschino o per la sua negligenza, o per essere lui macchiato di simili errori. E chi discorrerà i popoli che ne' nostri tempi sono stati tenuti pieni di ruberie e di simili peccati, vedrà che sarà al tutto nato da quegli che gli governavano, che erano di simile natura. La Romagna, innanzi che in quella fussono spenti da papa Alessandro VI quegli signori che la comandavano, era un esempio d'ogni sceleratissima vita, perché quivi si vedeva per ogni leggiere cagione seguire occisioni e rapine grandissime. Il che nasceva dalla tristitia di quelli principi; non dalla natura trista degli uomini, come loro dicevano. Perché, sendo quegli principi poveri, e volendo vivere da ricchi, erano necessitati volgersi a molte rapine, e quelle per vari modi usare. Ed intra l'altre disoneste vie che tenevano, e' facevano leggi, e proibivono alcuna azione; dipoi erano i primi che davano cagione della inosservanza di esse, né mai punivano gli inosservanti, se non poi, quando vedevano assai essere incorsi in simile pregiudizio; ed allora si voltavano alla punizione, non per zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuotere la pena. Donde nasceva molti inconvenienti, e sopra tutto, questo, che i popoli s'impoverivano, e non si correggevano; e quegli che erano impoveriti, s'ingegnavano, contro a' meno potenti di loro, prevalersi. Donde surgevano tutti quelli mali che di sopra si dicano, de' quali era cagione il principe. E che questo sia vero, lo mostra Tito Livio quando e' narra che, portando i Legati romani il dono della preda de' Veienti ad Apolline, furono presi da' corsali di Lipari in Sicilia, e condotti in quella terra: ed inteso Timasiteo, loro principe, che dono era questo, dove gli andava e chi lo mandava, si portò, quantunque nato a Lipari, come uomo romano, e mostrò al popolo quanto era impio occupare simile dono; tanto che, con il consenso dello universale, ne lasciò andare i Legati con tutte le cose loro. E le parole dello istorico sono queste: "Timasitheus multitudinem religione implevit, quae semper regenti est similis". E Lorenzo de' Medici, a confermazione di questa sentenza, dice:
E quel che fa 'l signor, fanno poi molti;
Che nel signor son tutti gli occhi volti.
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A uno cittadino
che voglia nella sua republica
fare di sua autorità alcuna opera buona,
è necessario, prima, spegnere l'invidia:
e come, vedendo il nimico,
si ha a ordinare la difesa d'una città.
Intendendo il Senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto per venire a' danni di Roma; e come i Latini e gli Ernici, stati per lo addietro amici del Popolo romano, si erano accostati con i Volsci, perpetui inimici di Roma; giudicò questa guerra dovere essere pericolosa. E trovandosi Cammillo tribuno di potestà consolare, pensò che si potesse fare sanza creare il Dittatore, quando gli altri Tribuni suoi collegi volessono cedergli la somma dello imperio. Il che detti Tribuni fecero volontariamente: "Nec quicquam (dice Tito Livio) de maiestate sua detractum credebant, quod maiestati eius concessissent". Onde Cammillo, presa a parole questa ubbidienza, comandò che si scrivesse tre eserciti. Del primo volle essere capo lui, per ire contro a' Toscani. Del secondo fece capo Quinto Servilio, il quale volle stesse propinquo a Roma, per ostare ai Latini ed agli Ernici, se si movessono. Al terzo esercito prepose Lucio Quinzio, il quale scrisse per tenere guardata la città e difese le porte e la curia, in ogni caso che nascesse. Oltre a di questo, ordinò che Orazio, uno de' suoi collegi, provedesse l'armi ed il frumento e l'altre cose che richieggono i tempi della guerra. Prepose Cornelio, ancora, suo collega, al Senato ed al publico consiglio, acciocché potesse consigliare le azioni che giornalmente si avevano a fare ed esequire: in modo furono quegli Tribuni, in quelli tempi, per la salute della patria, disposti a comandare ed a ubbidire. Notasi per questo testo, quello che faccia uno uomo buono e savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile e' possa fare alla sua patria, quando, mediante la sua bontà e virtù, egli ha spenta la invidia; la quale è molte volte cagione che gli uomini non possono operare bene, non permettendo detta invidia che gli abbino quella autorità la quale è necessaria avere nelle cose d'importanza. Spegnesi questa invidia in due modi. O per qualche accidente forte e difficile, dove ciascuno, veggendosi perire, posposta ogni ambizione, corre volontariamente ad ubbidire a colui che crede che con la sua virtù lo possa liberare: come intervenne a Cammillo, il quale avendo dato di sé tanti saggi di uomo eccellentissimo, ed essendo stato tre volte Dittatore, ed avendo amministrato sempre quel grado ad utile publico, e non a propria utilità aveva fatto che gli uomini non temevano della grandezza sua; e per esser tanto grande e tanto riputato, non stimavano cosa vergognosa essere inferiori a lui (e però dice Tito Livio saviamente quelle parole "Nec quicquam" ecc.) in un altro modo si spegne l'invidia quando, o per violenza o per ordine naturale, muoiono coloro che sono stati tuoi concorrenti nel venire a qualche riputazione ed a qualche grandezza; quali, veggendoti riputato più di loro, è impossibile che mai acquieschino, e stieno pazienti. E quando e' sono uomini che siano usi a vivere in una città corrotta, dove la educazione non abbia fatto in loro alcuna bontà, è impossibile che per accidente alcuno, mai si ridichino; e per ottenere la voglia loro, e satisfare alla loro perversità d'animo sarebbero contenti vedere la rovina della loro patria. A vincere questa invidia non ci è altro rimedio che la morte di coloro che l'hanno; e quando la fortuna è tanto propizia a quell'uomo virtuoso, che si muoiano ordinariamente, diventa, sanza scandalo, glorioso, quando sanza ostacolo e sanza offesa e' può mostrare la sua virtù; ma quando e' non abbi questa ventura, gli conviene pensare per ogni via a torsegli dinanzi; e prima che e' facci cosa alcuna, gli bisogna tenere modi che vinca questa difficultà. E chi legge la Bibbia sensatamente, vedrà Moisè essere stato forzato, a volere che le sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali, non mossi da altro che dalla invidia, si opponevano a' disegni suoi. Questa necessità conosceva benissimo frate Girolamo Savonerola; conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze. L'uno non potette vincerla, per non avere autorità a poterlo fare (che fu il frate), e per non essere inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne arebbero avuto autorità. Nonpertanto per lui non rimase, e le sue prediche sono piene di accuse de' savi del mondo e d'invettive contro a loro: perché chiamava così questi invidi, e quegli che si opponevano agli ordini suoi. Quell'altro credeva, col tempo, con la bontà, con la fortuna sua, col benificare alcuno, spegnere questa invidia; vedendosi di assai fresca età, e con tanti nuovi favori che gli arrecava el modo del suo procedere, che credeva potere superare quelli tanti che per invidia se gli opponevano, sanza alcuno scandolo, violenza e tumulto: e non sapeva che il tempo non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna varia, e la malignità non truova dono che la plachi. Tanto che l'uno e l'altro di questi due rovinarono, e la rovina loro fu causata da non avere saputo o potuto vincere questa invidia.
L'altro notabile è l'ordine che Cammillo dette, dentro e fuori, per la salute di Roma. E veramente, non sanza cagione gli istorici buoni, come è questo nostro, mettono particularmente e distintamente certi casi, acciocché i posteri imparino come gli abbino in simili accidenti difendersi. E debbesi in questo testo notare, che non è la più pericolosa né la più inutile difesa, che quella che si fa tumultuariamente e sanza ordine. E questo si mostra per quello terzo esercito che Cammillo fece scrivere per lasciarlo, in Roma, a guardia della città: perché molti arebbero giudicato e giudicherebbero questa parte superflua, sendo quel popolo, per l'ordinario, armato e bellicoso; e per questo, che non bisognasse di scriverlo altrimenti, ma bastasse farlo armare quando il bisogno venisse. Ma Cammillo, e qualunque fusse savio come era esso, la giudica altrimenti; perché non permette mai che una moltitudine pigli l'arme, se non con certo ordine e certo modo. E però, in su questo esemplo, uno che sia preposto a guardia d'una città, debba fuggire come uno scoglio il fare armare gli uomini tumultuosamente; ma debba avere prima scritti e scelti quegli che voglia si armino, chi gli abbino ad ubbidire, dove a convenire, dove a andare; e, quegli che non sono scritti, comandare che stieno ciascuno alle case sue, a guardia di quelle. Coloro che terranno questo ordine in una città assaltata, facilmente si potranno difendere: chi farà altrimenti, non imiterà Cammillo, e non si difenderà.
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Le republiche forti
e gli uomini eccellenti
ritengono in ogni fortuna
il medesimo animo
e la loro medesima dignità.
Intra l'altre magnifiche cose che 'l nostro istorico fa dire e fare a Cammillo, per mostrare come debbe essere fatto un uomo eccellente, gli mette in bocca queste parole: "Nec mihi dictatura animos fecit, nec exilium ademit". Per le quali si vede, come gli uomini grandi sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se la varia, ora con esaltarli, ora con opprimerli, quegli non variano, ma tengono sempre lo animo fermo, ed in tale modo congiunto con il modo del vivere loro, che facilmente si conosce per ciascuno, la fortuna non avere potenza sopra di loro. Altrimenti si governano gli uomini deboli perché invaniscono ed inebriano nella buona fortuna, attribuendo tutto il bene che gli hanno a quella virtù che non conobbono mai. D'onde nasce che diventano insopportabili ed odiosi a tutti coloro che gli hanno intorno. Da che poi depende la subita variazione della sorte; la quale come veggono in viso, caggiono subito nell'altro difetto, e diventano vili ed abietti. Di qui nasce che i principi così fatti pensano nelle avversità più a fuggirsi che a difendersi, come quelli che, per avere male usata la buona fortuna, sono ad ogni difesa impreparati.
Questa virtù, e questo vizio, che io dico trovarsi in un uomo solo, si truova ancora in una republica, ed in esemplo ci sono i Romani ed i Viniziani. Quelli primi, nessuna cattiva sorte gli fece mai diventare abietti né nessuna buona fortuna gli fece mai essere insolenti; come si vide manifestamente dopo la rotta ch'egli ebbero a Canne, e dopo la vittoria ch'egli ebbero contro a Antioco; perché, per quella rotta, ancora che gravissima per essere stata la terza, non invilirono mai; e mandarono fuori eserciti; non vollono riscattare i loro prigioni contro agli ordini loro; non mandarono ad Annibale o a Cartagine a chiedere pace: ma, lasciate stare tutte queste cose abiette indietro, pensarono sempre alla guerra armando, per carestia di uomini, i vecchi ed i servi loro. La quale cosa conosciuta da Annone cartaginese, come di sopra si disse, mostrò a quel Senato quanto poco conto si aveva a tenere della rotta di Canne. E così si vide come i tempi difficili non gli sbigottivono, né gli rendevono umili. Dall'altra parte, i tempi prosperi non gli facevano insolenti: perché, mandando Antioco oratori a Scipione, a chiedere accordo, avanti che fussono venuti alla giornata, e ch'egli avesse perduto Scipione gli dette certe condizioni della pace; quali erano, che si ritirasse dentro alla Soria, ed il resto lasciasse nello arbitrio del Popolo romano. Il quale accordo recusando Antioco, e venendo alla giornata, e perdendola, rimandò imbasciadori a Scipione, con commissione che pigliassero tutte quelle condizioni erano date loro dal vincitore: alli quali non propose altri patti che quegli si avesse offerti innanzi che vincesse; soggiugnendo queste parole: "Quod Romani, si vincuntur, non minuuntur animis; nec, si vincunt, insolescere solent".
Al contrario appunto di questo si è veduto fare ai Viniziani: i quali nella buona fortuna, parendo loro aversela guadagnata con quella virtù che non avevano, erano venuti a tanta insolenza che chiamavano il re di Francia figliuolo di San Marco; non stimavano la Chiesa; non capivano in modo alcuno in Italia; ed eronsi presupposti nello animo di avere a fare una monarchia simile alla romana. Dipoi, come la buona sorte gli abbandonò e ch'egli ebbono una mezza rotta a Vailà, dal re di Francia, perderono non solamente tutto lo stato loro per ribellione, ma buona parte ne dettero al papa ed al re di Spagna per viltà ed abiezione d'animo; ed in tanto invilirono, che mandarono imbasciadori allo imperadore a farsi tributari, scrissono al papa lettere piene di viltà e di sommissione per muoverlo a compassione. Alla quale infelicità pervennono in quattro giorni, e dopo una mezza rotta: perché, avendo combattuto il loro esercito, nel ritirarsi venne a combattere ed essere oppresso circa la metà, in modo che, l'uno de' Provveditori, che si salvò, arrivò a Verona con più di venticinquemila soldati, intr'a piè ed a cavallo. Talmenteché, se a Vinegia e negli ordini loro fosse stata alcuna qualità di virtù, facilmente si potevano rifare, e rimostrare di nuovo il viso alla fortuna, ed essere a tempo o a vincere o a perdere più gloriosamente, o ad avere accordo più onorevole. Ma la viltà dello animo loro, causata dalla qualità de' loro ordini non buoni nelle cose della guerra, gli fece ad un tratto perdere lo stato e l'animo. E sempre interverrà così a qualunque si governa come loro. Perché questo diventare insolente nella buona fortuna ed abietto nella cattiva, nasce dal modo del procedere tuo, e dalla educazione nella quale ti se' nutrito: la quale, quando è debole e vana, ti rende simile a sé; quando è stata altrimenti, ti rende anche d'un'altra sorte; e, faccendoti migliore conoscitore del mondo, ti fa meno rallegrare del bene, e meno rattristare del male. E quello che si dice d'uno solo, si dice di molti che vivono in una republica medesima; i quali si fanno di quella perfezione, che ha il modo del vivere di quella.
E benché altra volta si sia detto come il fondamento di tutti gli stati è la buona milizia; e come, dove non è questa, non possono essere né leggi buone né alcuna altra cosa buona, non mi pare superfluo riplicarlo: perché ad ogni punto nel leggere questa istoria si vede apparire questa necessità; e si vede come la milizia non puoté essere buona, se la non è esercitata; e come la non si può esercitare, se la non è composta di tuoi sudditi. Perché sempre non si sta in guerra, né si può starvi. Però conviene poterla esercitare a tempo di pace; e con altri che con sudditi non si può fare questo esercizio, rispetto alla spesa. Era Cammillo andato, come di sopra dicemo, con lo esercito contro ai Toscani; ed avendo i suoi soldati veduto la grandezza dello esercito de' nimici, si erano tutti sbigottiti, parendo loro essere tanto inferiori da non potere sostenere l'impeto di quegli. E pervenendo questa mala disposizione del campo agli orecchi di Cammillo, si mostrò fuora, ed andando parlando per il campo a questi e quelli soldati, trasse loro del capo questa opinione; e nello ultimo, sanza ordinare altrimenti il campo, disse: "Quod quisque didicit, aut consuevit, faciet". E chi considera bene questo termine, e le parole disse loro, per inanimirli ad ire contro a' nimici, considerasi come e' non si poteva né dire né fare fare alcuna di quelle cose a uno esercito che prima non fosse stato ordinato ed esercitato ed in pace ed in guerra. Perché di quegli soldati che non hanno imparato a fare cosa alcuna, non può uno capitano fidarsi, e credere che faccino alcuna cosa che stia bene; e se gli comandasse uno nuovo Annibale, vi rovinerebbe sotto. Perché, non potendo uno capitano essere, mentre si fa la giornata, in ogni parte; se non ha prima in ogni parte ordinato di potere avere uomini che abbino lo spirito suo e bene gli ordini e modi del procedere suo, conviene di necessità che ci rovini. Se, adunque, una città sarà armata ed ordinata come Roma; e che ogni dì ai suoi cittadini, ed in particulare ed in publico, tocchi a fare isperienza e della virtù loro, e della potenza della fortuna; interverrà sempre che in ogni condizione di tempo ei fiano del medesimo animo, e manterranno la medesima loro degnità: ma quando e' fiano disarmati, e che si appoggeranno solo agl'impeti della fortuna e non alla propria virtù, varieranno col variare di quella, e daranno sempre, di loro, esemplo tale che hanno dato i Viniziani.
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Quali modi hanno tenuti alcuni
a turbare una pace.
Essendosi ribellate dal Popolo romano Circei e Velitre, due sue colonie, sotto speranza di essere difese dai Latini, ed essendo di poi i Latini, vinti, e mancando di quella speranza, consigliavano assai cittadini che si dovesse mandare a Roma oratori a raccomandarsi al Senato: il quale partito fu turbato da coloro che erano stati autori della ribellione; i quali temevano che tutta la pena non si voltasse sopra le teste loro. E per tôrre via ogni ragionamento di pace, incitarono la moltitudine ad amarsi, ed a correre sopra i confini romani. E veramente, quando alcuno vuole o che uno popolo o uno principe lievi al tutto l'animo da uno accordo, non ci è altro rimedio più vero né più stabile, che farli usare qualche grave sceleratezza contro a colui con il quale tu non vuoi che l'accordo si faccia: perché sempre lo terrà discosto quella paura di quella pena che a lui parrà per lo errore commesso avere meritata. Dopo la prima guerra che i Cartaginesi ebbono con i Romani, quelli soldati che dai Cartaginesi erano stati adoperati in quella guerra in Sicilia ed in Sardigna, fatta che fu la pace, se ne andarono in Affrica; dove non essendo sodisfatti del loro stipendio, mossono l'armi contro ai Cartaginesi; e fatti, di loro, due capi, Mato e Spendio, occuparono molte terre ai Cartaginesi, e molte ne saccheggiarono. I Cartaginesi, per tentare prima ogni altra via che la zuffa, mandarono, a quelli, ambasciadore Asdrubale loro cittadino, il quale pensavano avesse alcuna autorità con quelli, essendo stato per lo adietro loro capitano. Ed arrivato costui, e volendo Spendio e Mato obligare tutti quelli soldati a non sperare di avere mai più pace con i Cartaginesi e per questo obligarli alla guerra; persuasono loro, ch'egli era meglio ammazzare costui, con tutti i cittadini cartaginesi, quali erano appresso loro prigioni. Donde, non solamente gli ammazzarono, ma con mille supplicii in prima gli straziorono; aggiugnendo a questa sceleratezza uno editto che tutti i Cartaginesi, che per lo avvenire si pigliassono, si dovessono in simile modo uccidere. La quale diliberazione ed esecuzione fece quello esercito crudele ed ostinato contro ai Cartaginesi.
33
Egli è necessario,
a volere vincere una giornata,
fare lo esercito confidente
ed infra loro e con il capitano.
A volere che uno esercito vinca la giornata, è necessario farlo confidente, in modo che creda dovere in ogni modo vincere. Le cose che lo fanno confidente sono: che sia armato ed ordinato bene; conoschinsi l'uno l'altro. Né può nascere questa confidenza o questo ordine, se non in quelli soldati che sono nati e vissuti insieme. Conviene che il capitano sia stimato di qualità che confidino nella prudenza sua: e sempre confideranno, quando lo vegghino ordinato, sollecito ed animoso, e che tenga bene e con riputazione la maestà del grado suo: e sempre la manterrà, quando gli punisca degli errori, e non gli affatichi invano; osservi loro le promesse; mostri facile la via del vincere; quelle cose che discosto potessino mostrare i pericoli, le nasconda o le alleggerisca. Le quali cose, osservate bene, sono cagione grande che lo esercito confida, e confidando vince. Usavano i Romani di fare pigliare agli eserciti loro questa confidenza per via di religione: donde nasceva, che con gli augurii ed auspicii creavano i Consoli, facevano il deletto, partivano con gli eserciti, e venivano alla giornata. E sanza avere fatto alcuna di queste cose, non mai arebbe uno buono capitano e savio tentata alcuna fazione, giudicando di averla potuta perdere facilmente, s'e' suoi soldati non avessoro prima intesi gli Dii essere da parte loro. E quando alcuno Consolo, o altro loro capitano, avesse combattuto, contro agli auspicii, lo arebbero punito; come ei punirono Claudio Pulcro. E benché questa parte in tutte le istorie romane si conosca, nondimeno si pruova più certo per le parole che Livio usa nella bocca di Appio Claudio; il quale, dolendosi col popolo della insolenzia de' Tribuni della plebe, e mostrando che, mediante quelli, gli auspicii e le altre cose pertinenti alla religione si corrompevano, dice così: "Eludant nunc licet religiones. Quid enim interest, si pulli non pascentur, si ex cavea tardius exiverint, si occinuerit avis? Parva sunt haec; sed parva ista non contemnendo, maiores nostri maximam hanc rempublicam fecerunt". Perché in queste cose piccole è quella forza di tenere uniti e confidenti i soldati: la quale cosa è prima cagione d'ogni vittoria. Nonpertanto, conviene con queste cose sia accompagnata la virtù: altrimenti, le non vagliano. I Prenestini, avendo contro ai Romani fuori el loro esercito, se n'andarono ad alloggiare in sul fiume d'Allia, il luogo dove i Romani furono vinti da i Franciosi; il che fecero per mettere fiducia ne' loro soldati, e sbigottire i Romani per la fortuna del luogo. E benché questo loro partito fusse probabile, per quelle ragioni che di sopra si sono discorse; nientedimeno il fine della cosa mostrò che la vera virtù non teme ogni minimo accidente. Il che lo istorico benissimo dice con queste parole, in bocca poste del Dittatore, che parla così al suo Maestro de' cavagli: "Vides tu, fortuna illos fretos ad Alliam consedisse; at tu, fretus armis animisque, invade mediam aciem". Perché una vera virtù, un ordine buono, una sicurtà presa da tante vittorie, non si può con cose di poco momento spegnere; né una cosa vana fa loro paura, né un disordine gli offende: come si vede certo, che, essendo due Manlii consoli contro a' Volsci, per avere mandato temerariamente parte del campo a predare, ne seguì che, in un tempo, e quelli che erano iti e quelli che erano rimasti si trovavono assediati; dal quale pericolo, non la prudenza de' Consoli, ma la virtù de' propri soldati gli liberò. Dove Tito Livio dice queste parole: "Militum, etiam sine rectore, stabilis virtus tutata est".
Non voglio lasciare indietro uno termine usato da Fabio, sendo entrato di nuovo con lo esercito in Toscana, per farlo confidente, giudicando quella tale fidanza essere più necessaria per averlo condotto in paese nuovo, incontro a nimici nuovi: che, parlando avanti la zuffa a' soldati, e detto ch'ebbe molte ragioni, mediante le quali ei potevono sperare la vittoria, disse che potrebbe ancora dire loro certe cose buone, e dove ei vedrebbono la vittoria certa, se non fusse pericoloso il manifestarle. Il quale modo, come e' fu saviamente usato, così merita di essere imitato.
34
Quale fama o voce o opinione
fa che il popolo
comincia a favorire uno cittadino:
e se ei distribuisce i magistrati
con maggiore prudenza che un principe.
Altra volta parlamo come Tito Manlio, che fu poi detto Torquato, salvò Lucio Manlio suo padre da una accusa che gli aveva fatta Marco Pomponio tribuno della plebe. E benché il modo del salvarlo fosse alquanto violento ed istraordinario, nondimeno quella filiale piatà verso del padre fu tanto grata allo universale, che, non solamente non ne fu ripreso, ma, avendosi a fare i Tribuni delle legioni, fu fatto Tito Manlio nel secondo luogo. Per il quale successo, credo che sia bene considerare il modo che tiene il popolo a giudicare gli uomini nelle distribuzioni sue; e che, per quello noi veggiamo, s'egli è vero quanto di sopra si conchiuse, che il popolo sia migliore distributore che uno principe.
Dico, adunque, come il popolo nel suo distribuire va dietro a quello che si dice d'uno per publica voce e fama, quando per sue opere note non lo conosce altrimenti, o per presunzione o opinione che si ha di lui. Le quali due cose sono causate o da' padri di quelli tali che, per essere stati grandi uomini e valenti nella città, si crede che i figliuoli debbeno essere simili a loro, infino a tanto che per le opere di quegli non s'intenda il contrario; o la è causata dai modi che tiene quello di chi si parla. I modi migliori che si possino tenere, sono: avere compagnia di uomini gravi, di buoni costumi, e riputati savi da ciascuno. E perché nessuno indizio si può avere maggiore d'un uomo, che le compagnie con quali egli usa; meritamente uno che usa con compagnie oneste, acquista buono nome, perché è impossibile che non abbia qualche similitudine di quelle. O veramente si acquista questa publica fama per qualche azione istraordinaria e notabile ancora che privata, la quale ti sia riuscita onorevolmente. E di tutte a tre queste cose che danno nel principio buona riputazione ad uno, nessuna la dà maggiore che questa ultima: perché quella prima de' parenti e de' padri è sì fallace, che gli uomini vi vanno a rilento; ed in poco si consuma, quando la virtù propria di colui che ha a essere giudicato non l'accompagna. La seconda, che ti fa conoscere per via delle pratiche tue, è meglio della prima, ma è molto inferiore alla terza, perché, infino a tanto che non si vede qualche segno che nasca da te sta la riputazione tua fondata in su l'opinione, la quale è facilissima a cancellarla. Ma quella terza, essendo principiata e fondata in sul fatto ed in su la opera tua, ti dà nel principio tanto nome, che bisogna bene che operi poi molte cose contrarie a questa, volendo annullarla. Debbono, adunque, gli uomini che nascono in una republica pigliare questo verso, ed ingegnarsi, con qualche operazione istraordinaria, cominciare a rilevarsi. Il che molti a Roma in gioventù fecero o con il promulgare una legge che venisse in comune utilità; o con accusare qualche potente cittadino come transgressore delle leggi; o col fare simili cose notabili e nuove, di che si avesse a parlare. Né solamente sono necessarie simili cose per cominciare a darsi la riputazione ma sono ancora necessarie per mantenerla ed accrescerla. Ed a volere fare questo, bisogna rinnovarle; come per tutto il tempo della sua vita fece Tito Manlio: perché, difeso ch'egli ebbe il padre tanto virtuosamente e istraordinariamente, e per questa azione presa la prima riputazione sua, dopo certi anni combatté con quel Francioso, e, morto, gli trasse quella collana d'oro che gli dette il nome di Torquato. Non bastò questo, che dipoi, già in età matura, ammazzò il figliuolo per avere combattuto sanza licenza, ancora ch'egli avesse superato il nimico. Le quali tre azioni allora gli dettero più nome e per tutti i secoli lo fanno più celebre, che non lo fece alcuno trionfo ed alcuna altra vittoria, di che elli fu ornato quanto alcuno altro Romano. E la cagione è, perché in quelle vittorie Manlio ebbe moltissimi simili; in queste particulari azioni n'ebbe o pochissimi o nessuno.
A Scipione maggiore non arrecarono tanta gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli dette lo avere, ancora giovinetto, in sul Tesino, difeso il padre; e lo avere, dopo la rotta di Canne, animosamente con la spada sguainata fatto giurare più giovani romani che ei non abbandonerebbero l'Italia, come di già infra loro avevano diliberato: le quali due azioni furono principio alla riputazione sua, e gli feciono scala ai trionfi della Spagna e dell'Affrica. La quale opinione da lui fu ancora accresciuta, quando ei rimandò la sua figliuola al padre, e la moglie al marito, in Ispagna. Questo modo del procedere non è necessario solamente a quelli cittadini che vogliono acquistare fama per ottenere gli onori nella loro republica, ma è ancora necessario ai principi per mantenersi la riputazione nel principato loro: perché nessuna cosa gli fa tanto stimare, quanto dare di sé rari esempli con qualche fatto o detto rado, conforme al bene comune, il quale mostri il signore o magnanimo o liberale o giusto, e che sia tale che si riduca come in proverbio intra i suoi suggetti.
Ma, per tornare donde noi cominciamo questo discorso, dico come il popolo, quando ei comincia a dare uno grado a uno suo cittadino, fondandosi sopra quelle tre cagioni soprascritte, non si fonda male; ma poi, quando gli assai esempli de' buoni portamenti d'uno lo fanno più noto, si fonda meglio, perché in tale caso non può essere che quasi mai s'inganni. Io parlo solamente di quelli gradi che si dànno agli uomini nel principio, avanti che per ferma isperienza siano conosciuti, o che passino da un'azione a un'altra dissimile: dove, e quanto alla falsa opinione, e quanto alla corrozione, sempre faranno minori errori che i principi. E perché e' può essere che i popoli s'ingannerebbono della fama, della opinione e delle opere d'uno uomo, stimandole maggiori che in verità non sono, il che non interverrebbe a uno principe, perché gli sarebbe detto, e sarebbe avvertito da chi lo consigliasse; perché ancora i popoli non manchino di questi consigli, i buoni ordinatori delle republiche hanno ordinato, che, avendosi a creare i supremi gradi nelle città, dove fosse pericoloso mettervi uomini insufficienti, e veggendosi la voga popolare essere diritta a creare alcuno che fosse insufficiente, sia lecito a ogni cittadino, e gli sia imputato a gloria, di publicare nelle concioni i difetti di quello, acciocché il popolo, non mancando della sua conoscenza, possa meglio giudicare.
E che questo si usasse a Roma, ne rende testimonio l'orazione di Fabio Massimo, la quale ei fece al popolo nella seconda guerra punica, quando nella creazione de' Consoli i favori si volgevano a creare Tito Ottacilio; e giudicandolo Fabio insufficiente a governare in quelli tempi il consolato, gli parlò contro, mostrando la insufficienza sua; tanto che gli tolse quel grado, e volse i favori del popolo a chi più lo meritava che lui. Giudicano, adunque, i popoli, nella elezione a' magistrati, secondo quelli contrassegni che degli uomini si possono avere più veri; e quando ei possono essere consigliati come i principi, errano meno de' principi: e quel cittadino che voglia cominciare a avere i favori del popolo, debbe con qualche fatto notabile, come fece Tito Manlio, guadagnarseli.
35
Quali pericoli si portano
nel farsi capo a consigliare una cosa;
e, quanto ella ha più dello istraordinario,
maggiori pericoli vi si corrono.
Quanto sia cosa pericolosa farsi capo d'una cosa nuova che appartenga a molti, e quanto sia difficile a trattarla ed a condurla, e, condotta, a mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo alta materia a discorrerla: però, riserbandola a luogo più conveniente, parlerò solo di quegli pericoli che portano i cittadini, o quelli che consigliano uno principe a farsi capo d'una diliberazione grave ed importante, in modo che tutto il consiglio di essa sia imputato a lui. Perché, giudicando gli uomini le cose dal fine, tutto il male che ne risulta s'imputa allo autore del consiglio; e, se ne risulta bene, ne è commendato: ma di lunge il premio non contrappesa a il danno. Il presente Sultan Salì, detto Gran Turco, essendosi preparato (secondo che ne riferiscono alcuni che vengono de' suoi paesi) di fare la impresa di Soria e di Egitto, fu confortato da uno suo Bascià, quale ei teneva ai confini di Persia, di andare contro al Sofì: dal quale consiglio mosso andò con esercito grossissimo a quella impresa; e arrivando in uno paese larghissimo, dove sono assai diserti e le fiumare rade, e trovandovi quelle difficultà che già fecero rovinare molti eserciti romani, fu in modo oppressato da quelle, che vi perdé, per fame e per peste, ancora che nella guerra fosse superiore, gran parte delle sue genti: talché, irato contro allo autore del consiglio, lo ammazzò. Leggesi, assai cittadini stati confortatori d'una impresa, e, per avere avuto quella tristo fine, essere stati mandati in esilio. Fecionsi capi alcuni cittadini romani, che si facesse in Roma il Consule plebeio. Occorse che il primo che uscì fuori con gli eserciti, fu rotto; onde a quegli consigliatori sarebbe avvenuto qualche danno, se non fosse stata tanto gagliarda quella parte, in onore della quale tale diliberazione era venuta.
È cosa adunque certissima, che quegli che consigliano una republica, e quegli che consigliano uno principe, sono posti intra queste angustie, che, se non consigliano le cose che paiono loro utili, o per la città o per il principe, sanza rispetto, e' mancano dell'ufficio loro; se le consigliano, e' gli entrano in pericolo della vita e dello stato: essendo tutti gli uomini in questo ciechi, di giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine. E pensando in che modo ei potessono fuggire o questa infamia o questo pericolo, non ci veggo altra via che pigliare le cose moderatamente, e non ne prendere alcuna per sua impresa, e dire la opinione sua sanza passione, e sanza passione con modestia difenderla: in modo che, se la città o il principe la segue, che la segua voluntario, e non paia che vi venga tirato dalla tua importunità. Quando tu faccia così, non è ragionevole che uno principe ed uno popolo del tuo consiglio ti voglia male, non essendo seguito contro alla voglia di molti: perché quivi si porta pericolo dove molti hanno contradetto, i quali poi nello infelice fine concorrono a farti rovinare. E se in questo caso si manca di quella gloria che si acquista nello essere solo contro a molti a consigliare una cosa, quando ella sortisce buono fine, ci sono a rincontro due beni: il primo, del mancare di pericolo; il secondo, che, se tu consigli una cosa modestamente, e per la contradizione il tuo consiglio non sia preso e per il consiglio d'altrui ne seguiti qualche rovina, ne risulta a te gloria grandissima.
E benché la gloria che si acquista de' mali che abbia o la tua città o il tuo principe, non si possa godere, nondimeno è da tenerne qualche conto.
Altro consiglio non credo si possa dare agli uomini in questa parte: perché consigliandogli che tacessono, e che non dicessono l'opinione loro, sarebbe cosa inutile alla republica o al loro principe, e non fuggirebbono il pericolo; perché in poco tempo diventerebbono sospetti: ed ancora potrebbe loro intervenire come a quegli amici di Perse re de' Macedoni, il quale essendo stato rotto da Paulo Emilio, e fuggendosi con pochi amici, accadde che, nel replicare le cose passate, uno di loro cominciò a dire a Perse molti errori fatti da lui, che erano stati cagione della sua rovina; al quale Perse rivoltosi, disse: - Traditore, sì che tu hai indugiato a dirmelo ora che io non ho più rimedio! - e sopra queste parole di sua mano lo ammazzò. E così colui portò la pena d'essere stato cheto quando e' doveva parlare, e di avere parlato quando e' doveva tacere; non fuggì il pericolo per non avere dato il consiglio. Però credo che sia da tenere ed osservare i termini soprascritti.
36
Le cagioni perché i Franciosi
siano stati e siano ancora giudicati
nelle zuffe, da principio più che uomini,
La ferocità di quello Francioso che provocava qualunque Romano, appresso al fiume Aniene, a combattere seco, dipoi la zuffa fatta intra lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di quello che Tito Livio più volte dice, che i Franciosi sono nel principio della zuffa più che uomini, e nel successo del combattere riescono poi meno che femine. E pensando donde questo nasca, si crede per molti che sia la natura loro così fatta: il che credo sia vero; ma non è per questo che questa loro natura, che gli fa feroci nel principio, non si potesse in modo con l'arte ordinare, che la gli mantenesse feroci infino nello ultimo.
Ed a volere provare questo, dico come e' sono di tre ragioni eserciti: l'uno dove è furore ed ordine; perché dall'ordine nasce il furore e la virtù, come era quello de' Romani: perché si vede in tutte le istorie, che in quello esercito era un ordine buono, che vi aveva introdotto una disciplina militare per lungo tempo. Perché in uno esercito, bene ordinato, nessuno debbe fare alcuna opera se non regolarlo: e si troverrà, per questo, che nello esercito romano, dal quale, avendo elli vinto il mondo, debbono prendere esemplo tutti gli altri eserciti, non si mangiava, non si dormiva, non si meritricava, non si faceva alcuna azione o militare o domestica sanza l'ordine del console. Perché quegli eserciti che fanno altrimenti, non sono veri eserciti; e se fanno alcuna pruova, la fanno per furore e per impeto, e non per virtù. Ma dove la virtù ordinata usa il furore suo con i modi e co' tempi, né difficultà veruna lo invilisce, né li fa mancare l'animo: perché gli ordini buoni gli rinfrescono l'animo ed il furore, nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non manca, infino a tanto che gli ordini stanno saldi. Al contrario interviene in quelli eserciti dove è furore e non ordine, come erano i Franciosi, i quali tuttavia nel combattere mancavano, perché, non riuscendo loro con il primo impeto vincere, e non essendo sostenuto da una virtù ordinata quello loro furore nel quale egli speravano né avendo fuori di quello cosa in la quale ei cunfidassono come quello era raffreddo, mancavano. Al contrario i Romani, dubitando meno de' pericoli per gli ordini loro buoni non diffidando della vittoria, fermi ed ostinati combattevano col medesimo animo e con la medesima virtù nel fine che nel principio: anzi, agitati dalle armi, sempre si accendevano. La terza qualità di eserciti è dove non è furore naturale né ordine accidentale: come sono gli eserciti italiani de' nostri tempi, i quali sono al tutto inutili; e se non si abbattano a uno esercito che per qualche accidente si fugga, mai non vinceranno. E sanza addurre altri esempli, si vede, ciascuno dì, come ei fanno pruove di non avere alcuna virtù. E perché, con il testimonio di Tito Livio, ciascuno intenda come debbe essere fatta la buona milizia, e come è fatta la rea; io voglio addurre le parole di Papirio Cursore, quando ei voleva punire Fabio, Maestro de' cavalli, quando disse: "Nemo hominum, nemo Deorum, verecundiam habeat; non edicta imperatorum, non auspicia observentur; sine commeatu vagi milites in pacato, in hostico errent; immemores sacramenti, licentia sola se ubi velint exauctorent; infrequentia deserant signa; neque conveniatur ad edictum, nec discernantur, interdiu nocte; aequo iniquo loco, iussu iniussu imperatoris pugnent; et non signa, non ordines servent: latrocinii modo, caeca et fortuita pro sollemni et sacrata militia sit". E puossi per questo testo adunque, facilmente vedere se la milizia de' nostri tempi è cieca e fortuita, o sacrata e solenne; e quanto le manca a essere simile a quella che si può chiamare milizia; e quanto ella è discosto da essere furiosa ed ordinata, come la romana, o furiosa solo, come la franciosa.
37
Se le piccole battaglie
innanzi alla giornata sono necessarie;
e come si debbe fare a conoscere
uno inimico nuovo,
volendo fuggire quelle.
E' pare che nelle azioni degli uomini, come altra volta abbiamo discorso, si truovi, oltre alle altre difficultà, nel volere condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasca che pare impossibile potere mancare dell'uno, volendo l'altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E però si acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non se' aiutato in modo, che ella con la sua forza vinca questo ordinario e naturale inconveniente. Di questo mi ha fatto ricordare la zuffa di Manlio e del Francioso, dove Tito Livio dice: "Tanti ea dimicatio ad universi belli eventum momenti fuit, ut Gallorum exercitus, relictis trepide Castris, in Tiburtem agrum mox in Campaniam transierit". Perché io considero, dall'uno canto, che uno buono capitano debbe fuggire, al tutto, di operare alcuna cosa, che, essendo di poco momento, possa fare cattivi effetti nel suo esercito: perché cominciare una zuffa dove non si operino tutte le forze e vi si arrischi tutta la fortuna, è cosa al tutto temeraria; come io dissi di sopra, quando io dannai il guardare de' passi.
Dall'altra parte, io considero come i capitani savi, quando vengono allo incontro d'uno nuovo nimico, e ch'e' sia riputato, ei sono necessitati, prima che venghino alla giornata, fare provare, con leggieri zuffe, ai loro soldati, tali nimici; acciocché, cominciandogli a conoscere e maneggiare, perdino quel terrore che la fama e la riputazione aveva dato loro. E questa parte in uno capitano è importantissima; perché ella ha in sé quasi una necessità che ti costringe a farla, parendoti andare ad una manifesta perdita, sanza avere prima fatto, con piccole isperienze, di tôrre ai tuoi soldati quello terrore che la riputazione del nimico aveva messo negli animi loro.
Fu Valerio Corvino mandato dai Romani con gli eserciti contro ai Sanniti nuovi inimici, e che per lo addietro mai non avevano provate l'armi l'uno dell'altro, dove dice Tito Livio, che Valerio fece fare ai Romani con i Sanniti alcune leggieri zuffe "ne eos novum bellum, ne novus hostis terreret". Nondimeno è pericolo gravissimo, che, restando i tuoi soldati in quelle battaglie vinti, la paura e la viltà non cresca loro, e ne conseguitino contrari effetti a' disegni tuoi: cioè, che tu gli sbigottisca, avendo disegnato di assicurargli: tanto che questa è una di quelle cose che ha il male sì propinquo al bene, e tanto sono congiunti insieme, che gli è facil cosa prendere l'uno, credendo pigliare l'altro. Sopra che io dico, che uno buono capitano debbe osservare con ogni diligenza, che non surga alcuna cosa che per alcuno accidente possa tôrre l'animo allo esercito suo. Quello che gli può tôrre l'animo è cominciare a perdere; e però si debbe guardare dalle zuffe piccole, e non le permettere se non con grandissimo vantaggio, e con speranza di certa vittoria: non debbe fare imprese di guardare passi, dove non possa tenere tutto lo esercito suo: non debbe guardare terre, se non quelle che, perdendole, di necessità ne seguisse la rovina sua; e quelle che guarda, ordinarsi in modo, e con le guardie di esse e con lo esercito, che, trattandosi della ispugnazione di esse, ei possa adoperare tutte le forze sue; l'altre debbe lasciare indifese. Perché ogni volta che si perde una cosa che si abbandoni, e lo esercito sia ancora insieme, non si perde la riputazione della guerra né la speranza del vincerla: ma quando si perde una cosa che tu hai disegnata difendere, e ciascuno crede che tu la difenda, allora è il danno e la perdita; ed hai quasi, come i Franciosi, con una cosa di piccolo momento perduta la guerra.
Filippo di Macedonia, padre di Perse, uomo militare e di gran condizione ne' tempi suoi, essendo assaltato dai Romani, assai de' suoi paesi, i quali elli giudicava non potere guardare, abbandonò e guastò: come quello che, per essere prudente, giudicava più pernizioso perdere la riputazione col non potere difendere quello che si metteva a difendere, che, lasciandolo in preda al nimico perderlo come cosa negletta. I Romani, quando dopo la rotta di Canne le cose loro erano afflitte, negarono a molti loro raccomandati e sudditi gli aiuti, commettendo loro che si difendessono il meglio potessono. I quali partiti sono migliori assai, che pigliare difese e poi non le difendere: perché in questo partito si perde amici e forze; in quello, amici solo. Ma tornando alle piccole zuffe, dico che, se pure uno capitano è costretto per la novità del nimico fare qualche zuffa, debbe farla con tanto suo vantaggio, che non vi sia alcuno pericolo di perderla: o veramente fare come Mario (il che è migliore partito), il quale, andando contro a' Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano a predare Italia, e venendo con uno spavento grande per la ferocità e moltitudine loro, e per avere di già vinto uno esercito romano, giudicò Mario essere necessario, innanzi che venisse alla zuffa, operare alcuna cosa per la quale lo esercito suo deponesse quel terrore che la paura del nimico gli aveva dato; e, come prudentissimo capitano, più che una volta collocò lo esercito suo in luogo donde i Cimbri con lo esercito loro dovessono passare. E così, dentro alle fortezze del suo campo, volle che i suoi soldati gli vedessono, ed assuefacessono li occhi alla vista di quello nimico; acciocché, vedendo una moltitudine inordinata, piena d'impedimenti, con armi inutili, e parte disarmati, si rassicurassono, e diventassono desiderosi della zuffa. Il quale partito, come fu da Mario saviamente preso, così dagli altri debbe essere diligentemente imitato, per non incorrere in quelli pericoli che io dico disopra, e non avere a fare come i Franciosi, "qui ob rem parvi ponderis trepidi, in Tiburtem agrum et in Campaniam transierunt". E perché noi abbiamo allegato in questo discorso Valerio Corvino, voglio, mediante le parole sue, nel seguente capitolo, come debbe essere fatto uno capitano, dimostrare.
38
Come debbe essere fatto uno capitano
nel quale lo esercito suo possa confidare.
Era, come di sopra dicemo, Valerio Corvino con lo esercito contro ai Sanniti, nuovi nimici del Popolo romano: donde che, per assicurare i suoi soldati, e per farli conoscere i nimici, fece fare a' suoi certe leggieri zuffe; e non gli bastando questo, volle, avanti alla giornata, parlare loro, e mostrò, con ogni efficacia, quanto ei dovevano stimare poco tali nimici, allegando la virtù de' suoi soldati, e la propria. Dove si può notare, per le parole che Livio gli fa dire, come debbe essere fatto uno capitano in chi lo esercito abbia a confidare; le quali parole sono queste: "Tum etiam intueri, cuius ductu auspicioque ineunda pugna sit, utrum, qui audiendus dumtaxat magnificus adhortator sit, verbis tantum ferox, operum militarium expers, an qui et ipse tela tractare, procedere ante signa, versari media in mole pugnae sciat. Facta mea, non dicta, vos, milites, sequi volo; nec disciplinam modo, sed exemplum etiam a me petere, qui hac dextra mihi tres consulatus, summamque laudem peperi". Le quali parole, considerate bene, insegnano a qualunque, come ei debbe procedere a volere tenere il grado del capitano: e quello che sarà fatto altrimenti, troverrà, con il tempo, quel grado, quando per fortuna o per ambizione vi sia condotto, torgli e non dargli riputazione; perché non i titoli illustrono gli uomini, ma gli uomini i titoli. Debbesi ancora dal principio di questo discorso considerare che, se gli capitani grandi hanno usati termini istraordinari a fermare gli animi d'uno esercito veterano quando con i nimici inconsueti debbe affrontarsi; quanto maggiormente si abbia a usare la industria quando si comandi uno esercito nuovo, che non abbia mai veduto il nimico in viso! Perché, se lo inusitato inimico allo esercito vecchio dà terrore, tanto maggiormente lo debbe dare ogni inimico a uno esercito nuovo. Pure, si è veduto molte volte dai buoni capitani tutte queste difficultà con somma prudenza essere vinte: come fece quel Gracco romano, ed Epaminonda tebano, de' quali altra volta abbiamo parlato, che con eserciti nuovi vinsono eserciti veterani ed esercitatissimi.
I modi che ei tenevano, era: parecchi mesi esercitargli in battaglie fitte e assuefargli alla ubbidienza ed allo ordine; e da quelli poi, con massima confidenza, nella vera zuffa gli adoperavano. Non si debba, adunque, diffidare alcuno uomo militare di non potere fare buoni eserciti, quando non gli manchi uomini; perché quel principe, che abbonda di uomini e manca di soldati, debbe solamente, non della viltà degli uomini, ma della sua pigrizia e poca prudenza, dolersi.
39
Che uno capitano
debbe essere conoscitore de' siti.
Intra le altre cose che sono necessarie a uno capitano di eserciti, è la cognizione de' siti e de' paesi; perché, sanza questa cognizione generale e particulare, uno capitano di eserciti non può bene operare alcuna cosa. E perché tutte le scienze vogliono pratica a volere perfettamente possederle, questa è una che ricerca pratica grandissima. Questa pratica, ovvero questa particulare cognizione, si acquista più mediante le cacce che per veruno altro esercizio. Però gli antichi scrittori dicono che quelli eroi che governarono nel loro tempo il mondo, si nutrirono nelle selve e nelle cacce; perché la caccia, oltre a questa cognizione, c'insegna infinite cose che sono nella guerra necessarie. E Senofonte, nella vita di Ciro, mostra che, andando Ciro ad assaltare il re d'Armenia, nel divisare quella fazione, ricordò a quegli suoi, che questa non era altro che una di quelle cacce le quali molte volte avevano fatte seco. E ricordava a quelli che mandava in agguato in su e' monti, che gli erano simili a quelli che andavano a tendere le reti in su e' gioghi; ed a quelli che scorrevano per il piano, erano simili a quegli che andavano a levare del suo covile la fiera, acciocché, cacciata, desse nelle reti.
Questo si dice per mostrare come le cacce, secondo che Senofonte appruova, sono una immagine d'una guerra: e per questo agli uomini grandi tale esercizio è onorevole e necessario. Non si può ancora imparare questa cognizione de' paesi in altro commodo modo, che per via di caccia, perché la caccia fa, a colui che la usa sapere come sta particularmente quel paese dove elli la esercita. E fatto che uno si è familiare bene una regione, con facilità comprende poi tutti i paesi nuovi; perché ogni paese ed ogni membro di quelli hanno insieme qualche conformità, in modo che dalla cognizione d'uno facilmente si passa alla cognizione dell'altro. Ma chi non ne ha bene pratico uno, con difficultà, anzi non mai se non con un lungo tempo, può conoscere l'altro. E chi ha questa pratica, in uno voltare d'occhio sa come giace quel piano, come surge quel monte, dove arriva quella valle, e tutte le altre simili cose, di che elli ha per lo addietro fatto una ferma scienza. E che questo sia vero, ce lo mostra Tito Livio con lo esemplo di Publio Decio; il quale, essendo Tribuno de' soldati nello esercito che Cornelio consolo conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi il Consolo ridotto in una valle, dove lo esercito de' Romani poteva dai Sanniti essere rinchiuso, e vedendosi in tanto pericolo, disse al Consolo: "Vides tu, Aule Corneli, cacumen illud supra hostem? arx illa est spei salutisque nostrae, si eam (quoniam caeci reliquere Samnites) impigre capimus". Ed innanzi a queste parole, dette da Decio, Tito Livio dice: "Publius Decius tribunus militum, conspicit unum editum in saltu collem, imminentem hostium castris aditu arduum impedito agmini, expeditis haud difficilem". Donde, essendo stato mandato sopra esso dal Consolo con tremila soldati, ed avendo salvo lo esercito romano e disegnando, venente la notte, di partirsi, e salvare ancora sé ed i suoi soldati, gli fa dire queste parole: "Ite mecum, ut, dum lucis aliquid superest, quibus locis hostes praesidia ponant, qua pateat hinc exitus, exploremus. Haec omnia sagulo militari amicus ne ducem circumire hostes notarent, perlustravit". Chi considerrà, adunque, tutto questo testo, vedrà quanto sia utile e necessario a uno capitano sapere la natura de' paesi: perché, se Decio non gli avesse saputi e conosciuti, non arebbe potuto giudicare quale utile faceva pigliare quel colle, allo esercito Romano, né arebbe potuto conoscere di discosto, se quel colle era accessibile o no; e condotto che si fu poi sopra esso, volendosene partire per ritornare al Consolo, avendo i nimici intorno, non arebbe dal discosto potuto speculare le vie dello andarsene, e gli luoghi guardati da' nimici. Tanto che, di necessità conveniva, che Decio avesse tale cognizione perfetta: la quale fece che, con il pigliare quel colle, ei salvò lo esercito romano; dipoi seppe, sendo assediato, trovare la via a salvare sé e quegli che erano stati seco.
40
Come usare la fraude
nel maneggiare la guerra
è cosa gloriosa.
Ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa; e, parimente è laudato colui che con fraude supera il nimico, come quello che lo supera con le forze. E vedesi questo per il giudicio che ne fanno coloro che scrivono le vite degli uomini grandi; i quali lodono Annibale e gli altri che sono stati notabilissimi in simili modi di procedere. Di che per leggersi assai esempli, non ne replicherò alcuno. Dirò solo questo, che io non intendo quella fraude essere gloriosa, che ti fa rompere la fede data ed i patti fatti; perché questa, ancora che la ti acquisti, qualche volta, stato e regno, come di sopra si discorse, la non ti acquisterà mai gloria. Ma parlo di quella fraude che si usa con quel nimico che non si fida di te, e che consiste proprio nel maneggiare la guerra; come fu quella di Annibale quando in sul lago di Perugia simulò la fuga per rinchiudere il Consolo e lo esercito romano, e quando, per uscire di mano di Fabio Massimo, accese le corna dello armento suo.
Alle quali fraudi fu simile questa che usò Ponzio capitano dei Sanniti, per rinchiudere lo esercito romano dentro alle Forche Caudine: il quale, avendo messo lo esercito suo a ridosso de' monti, mandò più suoi soldati sotto veste di pastori con assai armento per il piano; i quali sendo presi dai Romani, e domandati dove era lo esercito de' Sanniti, convennono tutti, secondo l'ordine dato da Ponzio, a dire come egli era allo assedio di Nocera. La quale cosa, creduta dai Consoli, fece che ei si rinchiusono dentro ai balzi caudini; dove entrati, furono subito assediati dai Sanniti. E sarebbe stata questa vittoria, avuta per fraude, gloriosissima a Ponzio, se egli avesse seguitati i consigli del padre il quale voleva che i Romani o ei si salvassono liberamente o ei si ammazzassono tutti, e che non si pigliasse la via del mezzo, "quae, neque amicos parat neque inimicos tollit". La quale via fu sempre perniziosa nelle cose di stato come di sopra in altro luogo si discorse.
41
Che la patria si debbe difendere
o con ignominia o con gloria;
ed in qualunque modo è bene difesa.
Era, come di sopra si è detto, il Consolo e lo esercito romano assediato da' Sanniti: i quali avendo posto ai Romani condizioni ignominiosissime (come era volergli mettere sotto il giogo, e disarmati rimandargli a Roma), e per questo stando i Consoli come attoniti, e tutto lo esercito disperato; Lucio Lentolo, legato romano, disse che non gli pareva che fosse da fuggire qualunque partito per salvare la patria: perché, consistendo la vita di Roma nella vita di quello esercito, gli pareva da salvarlo in ogni modo; e che la patria è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria: perché, salvandosi quello esercito, Roma era a tempo a cancellare la ignominia; non si salvando, ancora che gloriosamente morisse, era perduto Roma e la libertà sua. E così fu seguitato il suo consiglio. La quale cosa merita di essere notata ed osservata da qualunque cittadino si truova a consigliare la patria sua: perché dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d'ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà. La quale cosa è imitata con i detti e con i fatti dai Franciosi, per difendere la maestà del loro re e la potenza del loro regno; perché nessuna voce odono più impazientemente che quella che dicesse: - Il tale partito è ignominioso per il re -; perché dicono che il loro re non può patire vergogna in qualunque sua diliberazione, o in buona o in avversa fortuna: perché, se perde, se vince, tutto dicono essere cose da re.
42
Che le promesse fatte per forza,
non si debbono osservare.
Tornati i Consoli con lo esercito disarmato e con la ricevuta ignominia a Roma, il primo che in Senato disse che la pace fatta a Caudio non si doveva osservare, fu il consolo Spurio Postumio; dicendo, come il popolo romano non era obligato, ma ch'egli era bene obligato esso e gli altri che avevano promessa la pace: e però il popolo, volendosi liberare da ogni obligo, aveva a dare prigioni nelle mani de' Sanniti lui e tutti gli altri che l'avevano promessa. E con tanta ostinazione tenne questa conclusione, che il Senato ne fu contento; e mandando prigioni lui e gli altri in Sannio, protestarono ai Sanniti la pace non valere. E tanto fu in questo caso, a Postumio, favorevole la fortuna, che i Sanniti non lo ritennono; e ritornato in Roma, fu Postumio appresso ai Romani più glorioso per avere perduto, che non fu Ponzio appresso ai Sanniti per avere vinto. Dove sono da notare due cose: l'una, che in qualunque azione si può acquistare gloria, perché nella vittoria si acquista ordinariamente; nella perdita si acquista o col mostrare tale perdita non essere venuta per tua colpa, o per fare subito qualche azione virtuosa che la cancelli: l'altra è, che non è vergognoso non osservare quelle promesse che ti sono state fatte promettere per forza; e sempre le promesse forzate che riguardano il publico, quando e' manchi la forza, si romperanno, e fia sanza vergogna di chi le rompe. Di che si leggono in tutte le istorie vari esempli; e ciascuno dì, ne' presenti tempi, se ne veggono. E non solamente non si osservano intra i principi le promesse forzate, quando e' manca la forza; ma non si osservano ancora tutte le altre promesse, quando e' mancano le cagioni che le feciono promettere. Il che se è cosa laudabile o no, o se da uno principe si debbono osservare simili modi o no, largamente è disputato da noi nel nostro trattato De Principe: però al presente lo tacereno.
43
Che gli uomini,
che nascono in una provincia,
osservino per tutti i tempi
quasi quella medesima natura.
Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritamente, che chi vuole vedere quello che ha a essere, consideri quello che è stato; perché tutte le cose del mondo, in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché, essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo effetto. Vero è, che le sono le opere loro ora in questa provincia più virtuose che in quella, ed in quella più che in questa, secondo la forma della educazione nella quale quegli popoli hanno preso il modo del vivere loro. Fa ancora facilità il conoscere le cose future per le passate; vedere una nazione lungo tempo tenere i medesimi costumi, essendo o continovamente avara, o continovamente fraudolente, o avere alcuno altro simile vizio o virtù. E chi leggerà le cose passate della nostra città di Firenze, e considererà quelle ancora che sono ne' prossimi tempi occorse, troverrà i popoli tedeschi e franciosi pieni di avarizia, di superbia, di ferocità e d'infidelità; perché tutte queste quattro cose in diversi tempi hanno offeso molto la nostra città. E quanto alla poca fede, ognuno sa quante volte si dette danari a re Carlo VIII, ed elli prometteva rendere le fortezze di Pisa, e non mai le rendé. In che quel re mostrò la poca fede, e l'assai avarizia sua. Ma lasciamo andare queste cose fresche. Ciascuno può avere inteso quello che seguì nella guerra che fece il popolo fiorentino contro a' Visconti duchi di Milano; ed essendo Firenze privo degli altri ispedienti, pensò di condurre lo imperadore in Italia, il quale con la riputazione e forze sue assaltasse la Lombardia. Promisse lo imperadore venire con assai genti, e fare quella guerra contro a' Visconti, e difendere Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini gli dessono centomila ducati per levarsi, e centomila poi ch'ei fosse in Italia. Ai quali patti consentirono i Fiorentini; e pagatigli i primi danari, e dipoi i secondi, giunto che fu a Verona, se ne tornò indietro sanza operare alcuna cosa, causando essere restato da quegli che non avevano osservate le convenzioni erano fra loro. In modo che, se Firenze non fosse stata o costretta dalla necessità o vinta dalla passione, ed avesse letti e conosciuti gli antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata né questa né molte altre volte ingannata da loro; essendo loro stati sempre a un modo, ed avendo in ogni parte e con ognuno usati i medesimi termini. Come ei si vede ch'ei fecero anticamente a' Toscani, i quali essendo oppressi dai Romani, per essere stati da loro più volte messi in fuga e rotti; e veggendo mediante le loro forze non potere resistere allo impeto di quegli; convennono, con i Franciosi che di qua dall'Alpi abitavano in Italia, di dare loro somma di danari, e che fussono obligati congiugnere gli eserciti con loro, ed andare contro ai Romani: donde ne seguì che i Franciosi, presi i danari, non vollono dipoi pigliare l'armi per loro, dicendo avergli avuti, non per fare guerra con i loro nimici, ma perché si astenessino di predare il paese toscano. E così i popoli toscani, per l'avarizia e poca fede de' Franciosi, rimasono ad un tratto privi de' loro danari, e degli aiuti che gli speravono da quegli. Talché si vede, per questo esemplo de' Toscani antichi, e per quello de' Fiorentini, i Franciosi avere usati i medesimi termini; e per questo facilmente si può conietturare, quanto i principi si possono fidare di loro.
44
E' si ottiene con l'impeto e con l'audacia
molte volte
quello che con modi ordinarii
non si otterrebbe mai.
Essendo i Sanniti assaltati dallo esercito di Roma, e non potendo con lo esercito loro stare alla campagna a petto ai Romani, diliberarono lasciare guardate le terre in Sannio e di passare con tutto lo esercito loro in Toscana, la quale era in triegua con i Romani; e vedere, per tale passata, se ei potessono con la presenzia dello esercito loro indurre i Toscani a ripigliare l'armi; il che avevano negato ai loro ambasciadori. E nel parlare che feciono i Sanniti ai Toscani, nel mostrare, massime, qual cagione gli aveva indotti a pigliare l'armi, usarono uno termine notabile, dove dissono: "rebellasse, quod pax servientibus gravior, quam liberis bellum esset". E così, parte con le persuasioni, parte con la presenza dello esercito loro, gl'indussono a ripigliare l'armi. Dove è da notare che quando uno principe desidera ottenere una cosa da uno altro, debbe, se la occasione lo patisce, non gli dare spazio a diliberarsi, e fare in modo che vegga la necessità della presta diliberazione; la quale è quando colui che è domandato vede che dal negare o dal differire ne nasca una subita e pericolosa indegnazione.
Questo termine si è veduto bene usare ne' nostri tempi da papa Iulio con i Franciosi, e da monsignore di Fois capitano del re di Francia col marchese di Mantova: perché papa Iulio, volendo cacciare i Bentivogli di Bologna, e giudicando, per questo, avere bisogno delle forze franciose, e che i Viniziani stessono neutrali; ed avendone ricerco l'uno e l'altro, e traendo da loro risposta dubbia e varia; diliberò col non dare loro tempo fare venire l'uno e l'altro nella sentenza sua: e partitosi da Roma con quelle tante genti ch'ei poté raccozzare, ne andò verso Bologna; ed ai Viniziani mandò a dire che stessono neutrali, ed al re di Francia, che gli mandasse le forze. Talché, rimanendo tutti distretti dal poco spazio di tempo, e veggendo come nel papa doveva nascere una manifesta indegnazione differendo o negando, cederono alle voglie sue, ed il re gli mandò aiuto, ed i Viniziani si stettono neutrali. Monsignor di Fois, ancora, essendo con lo esercito in Bologna, ed avendo intesa la ribellione di Brescia, e volendo ire alla ricuperazione di quella, aveva due vie; l'una per il dominio del re, lunga e tediosa; l'altra, breve, per il dominio di Mantova: e non solamente era necessitato passare per il dominio di quel marchese, ma gli conveniva entrare per certe chiuse intra paludi e laghi, di che è piena quella regione, le quali con fortezze ed altri modi erano serrate e guardate da lui. Onde che Fois, diliberato d'andare per la più corta, e per vincere ogni difficultà né dare tempo al marchese a diliberarsi, a un tratto mosse le sue genti per quella via, ed al marchese significò gli mandasse le chiavi di quel passo. Talché il marchese, occupato da questa subita diliberazione, gli mandò le chiavi: le quali mai gli arebbe mandate se Fois più trepidamente si fosse governato, essendo quello marchese in lega con il Papa e con i Viniziani, ed avendo uno suo figliuolo nelle mani del Papa; le quali cose gli davano molte oneste scuse a negarle. Ma assaltato dal subito partito, per le cagioni che di sopra si dicono, le concesse. Così feciono i Toscani coi Sanniti, avendo, per la presenza dello esercito di Sannio, preso quelle armi che gli avevano negato, per altri tempi, pigliare.
45
Quale sia migliore partito nelle giornate,
o sostenere l'impeto de' nimici,
e, sostenuto, urtargli;
ovvero da prima con furia assaltargli.
Erano Decio e Fabio, consoli romani, con due eserciti all'incontro degli eserciti de' Sanniti e de' Toscani; e venendo alla zuffa ed alla giornata insieme, è da notare, in tale fazione, quale de' due diversi modi di procedere tenuti dai due Consoli sia migliore. Perché Decio con ogni impeto e con ogni suo sforzo assaltò il nimico; Fabio solamente lo sostenne, giudicando lo assalto lento essere più utile, riserbando l'impeto suo nello ultimo, quando il nimico avesse perduto el primo ardore del combattere, e, come noi diciamo, la sua foga. Dove si vede, per il successo della cosa, che a Fabio riuscì molto meglio il disegno che a Decio: il quale si straccò ne' primi impeti; in modo che, vedendo la banda sua più tosto in volta che altrimenti, per acquistare con la morte quella gloria alla quale con la vittoria non aveva potuto aggiugnere, ad imitazione del padre sacrificò sé stesso per le romane legioni. La quale cosa intesa da Fabio, per non acquistare manco onore vivendo, che si avesse il suo collega acquistato morendo, spinse innanzi tutte quelle forze che si aveva a tale necessità riservate; donde ne riportò una felicissima vittoria. Donde si vede che il modo del procedere di Fabio è più sicuro e più imitabile.
46
Donde nasce
che una famiglia in una città
tiene un tempo i medesimi costumi.
E' pare che non solamente l'una città dall'altra abbia certi modi ed instituti diversi, e procrei uomini o più duri o più effeminati, ma nella medesima città si vede tale differenza essere nelle famiglie, l'una dall'altra. Il che si riscontra essere vero in ogni città, e nella città di Roma se ne leggono assai esempli: perché e' si vede i Manlii essere stati duri ed ostinati, i Publicoli uomini benigni ed amatori del popolo, gli Appii ambiziosi e nimici della Plebe: e così molte altre famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite dall'altre. Le quali cose non possono nascere solamente dal sangue, perché conviene che varii mediante la diversità de' matrimonii; ma è necessario venga dalla diversa educazione che ha l'una famiglia dall'altra. Perché gl'importa assai che un giovanetto da' teneri anni cominci a sentire dire bene o male d'una cosa; perché conviene di necessità ne faccia impressione, e da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della sua vita. E se questo non fusse, sarebbe impossibile che tutti gli Appii avessono avuto la medesima voglia, e fossono stati agitati dalle medesime passioni, come nota Tito Livio in molti di loro: e per ultimo, essendo uno di loro fatto Censore ed avendo il suo collega alla fine de' diciotto mesi, come ne disponeva la legge, diposto il magistrato, Appio non lo volle diporre, dicendo che lo poteva tenere cinque anni, secondo la prima legge ordinata da' Censori. E benché sopra questo se ne facessero assai concioni, e generassissene assai tumulti, non pertanto non ci fu mai rimedio che volesse diporlo, contro alla volontà del Popolo e della maggiore parte del Senato. E chi leggerà la orazione gli fece contro Publio Sempronio tribuno della plebe, vi noterà tutte le insolenzie appiane, e tutte le bontà ed umanità usate da infiniti cittadini per ubbidire alle leggi ed agli auspicii della loro patria.
47
Che uno buono cittadino
per amore della patria
debbe dimenticare le ingiurie private.
Era Marzio consolo con lo esercito contro ai Sanniti, ed essendo stato in una zuffa ferito, e per questo portando le genti sue pericolo, giudicò il Senato essere necessario mandarvi Papirio Cursore dittatore per sopperire ai difetti del consolo. Ed essendo necessario che il Dittatore fosse nominato da Fabio, quale era consolo con gli eserciti in Toscana; e dubitando, per essergli nimico, che non volesse nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo, che, posto da parte i privati odii, dovesse per beneficio publico nominarlo. Il che Fabio fece, mosso dalla carità della patria; ancora che col tacere e con molti altri modi facesse segno che tale nominazione gli premesse. Dal quale debbono pigliare esemplo tutti quelli che cercano di essere tenuti buoni cittadini.
48
Quando si vede fare
uno errore grande a uno nimico,
si debbe credere
che vi sia sotto inganno.
Essendo rimaso Fulvio Legato nello esercito che e' Romani avevano in Toscana, essendo ito il Consolo per alcune cerimonie a Roma, i Toscani, per vedere se potevano avere quello alla tratta, posono uno aguato propinquo a' campi romani, e mandarono alcuni soldati con veste di pastori con assai armento, e li feciono venire alla vista dello esercito romano: i quali così travestiti si accostarono allo steccato del campo; onde che il Legato, maravigliatosi di questa loro presunzione, non gli parendo ragionevole, tenne modo ch'egli scoperse la fraude; e così restò il disegno de' Toscani rotto. Qui si può commodamente notare, che uno capitano di eserciti non debbe prestare fede ad uno errore che evidentemente si vegga fare al nimico: perché sempre vi sarà sotto fraude, non sendo ragionevole che gli uomini siano tanto incauti. Ma spesso il disiderio del vincere acceca gli animi degli uomini, che non veggono altro che quello pare facci per loro.
I Franciosi, avendo vinto i Romani ad Allia, e venendo a Roma, e trovando le porte aperte e sanza guardia, stettero tutto quel giorno e la notte sanza entrarvi, temendo di fraude, e non potendo credere che fusse tanta viltà e tanto poco consiglio ne' petti romani, che gli abbandonassono la patria. Quando nel 1508, stando li Fiorentini, a campo a Pisa, Alfonso Del Mutolo, cittadino pisano, si trovava prigione de' Fiorentini e' promisse che, s'egli era libero, che darebbe una porta di Pisa allo esercito fiorentino. Fu costui libero: dipoi, per praticare la cosa, venne molte volte a parlare con i legati de' commessari; e veniva non di nascosto ma scoperto ed accompagnato da' Pisani; i quali lasciava da parte, quando parlava con i Fiorentini. Talmenteché si poteva conietturare il suo animo doppio; perché non era ragionevole, se la pratica fosse stata fedele, ch'elli l'avesse trattata sì alla scoperta. Ma il disiderio che si aveva di avere Pisa, accecò in modo i Fiorentini, che, condottisi con l'ordine suo alla porta a Lucca, vi lasciarono più loro capi ed altre genti, con disonore loro, per il tradimento doppio che fece detto Alfonso.
49
Una republica,
a volerla mantenere libera,
ha ciascuno dì
bisogno di nuovi provvedimenti;
e per quali meriti Quinto Fabio
fu chiamato Massimo.
È di necessità, come altre volte si è detto, che ciascuno dì in una città grande naschino accidenti che abbiano bisogno del medico; e secondo che gl'importano più, conviene trovare il medico più savio. E se in alcuna città nacquono mai simili accidenti, nacquono in Roma e strani ed insperati; come fu quello quando e' parve che tutte le donne romane avessono congiurato contro ai loro mariti di ammazzargli: tante se ne trovò che gli avevano avvelenati, e tante che avevano preparato il veleno per avvelenargli. Come fu ancora quella congiura de' Baccanali, che si scoprì nel tempo della guerra macedonica, dove erano già inviluppati molte migliaia di uomini e di donne; e, se la non si scopriva, sarebbe stata pericolosa per quella città, o se pure i Romani non fussono stati consueti a gastigare le moltitudini degli erranti: perché, quando e' non si vedesse per altri infiniti segni la grandezza di quella Republica, e la potenza delle esecuzioni sue, si vede per le qualità della pena che la imponeva a chi errava. Né dubitò fare morire per via di giustizia una legione intera per volta, ed una città; e di confinare otto o diecimila uomini con condizioni istraordinarie, da non essere osservate da uno solo, non che da tanti: come intervenne a quelli soldati che infelicemente avevano combattuto a Canne; i quali confinò in Sicilia, ed impose loro che non albergassono in terra, e che mangiassono ritti.
Ma di tutte le altre esecuzioni era terribile il decimare gli eserciti, dove a sorte, di tutto uno esercito, era morto di ogni dieci uno. Né si poteva, a gastigare una moltitudine, trovare più spaventevole punizione di questa. Perché quando una moltitudine erra, dove non sia l'autore certo, tutti non si possono gastigare, per essere troppi; punirne parte, e parte lasciarne impuniti, si farebbe torto a quegli che si punissono, e gli impuniti arebbono animo di errare un'altra volta. Ma ammazzandone la decima parte a sorte, quando tutti lo meritano, chi è punito si duole della sorte, chi non è punito ha paura che un'altra volta non tocchi a lui, e guardasi da errare.
Furono punite, adunque, le venefiche e le baccanali, secondo che meritavano i peccati loro. E benché questi morbi in una republica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perché sempre quasi si ha tempo a correggergli: ma non si ha già tempo in quelli che riguardano lo stato, i quali, se non sono da uno prudente corretti, rovinano la città.
Erano in Roma, per la liberalità che i Romani usavano di donare la civiltà a' forestieri, nate tante genti nuove, che le cominciavano avere tanta parte ne' suffragi, che il governo cominciava variare, e partivasi da quelle cose e da quelli uomini dove era consueto andare. Di che accorgendosi Quinto Fabio, che era Censore, messe tutte queste genti nuove, da chi dipendeva questo disordine, sotto quattro Tribù acciocché non potessono, ridutti in sì piccoli spazi, corrompere tutta Roma. Fu questa cosa bene conosciuta da Fabio, e postovi, sanza alterazione, conveniente rimedio; il quale fu tanto accetto a quella civiltà, ch'e' meritò di essere chiamato Massimo.

 

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Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 21.22.21