SCENA PRIMA |
|
REG. Publio, tu qui! Si tratta |
della gloria di Roma, |
dell'onor mio, del pubblico riposo, |
e in Senato non sei? |
PUBLIO Raccolto ancora, |
signor, non è. |
REG. Va, non tardar; sostieni |
fra i padri il voto mio: mostrati degno |
dell'origine tua. |
PUBLIO Come! e m'imponi |
che a fabbricar m'adopri |
io stesso il danno tuo? |
REG. Non è mio danno |
quel che giova alla patria. |
PUBLIO Ah di te stesso, |
signore, abbi pietà. |
REG. Publio, tu stimi |
dunque un furore il mio? Credi ch'io solo, |
fra ciò che vive, odii me stesso? Oh quanto |
t'inganni! Al par d'ogni altro |
bramo il mio ben, fuggo il mio mal. Ma questo |
trovo sol nella colpa, e quello io trovo |
nella sola virtù. Colpa sarebbe |
della patria col danno |
ricuperar la libertà smarrita; |
ond'è mio mal la libertà, la vita: |
virtù col proprio sangue |
è della patria assicurar la sorte; |
ond'è mio ben la servitù, la morte. |
PUBLIO Pur la patria non è... |
REG. La patria è un tutto, |
di cui siam parti. Al cittadino è fallo |
considerar se stesso |
separato da lei. L'utile o il danno, |
ch'ei conoscer dee solo, è ciò che giova |
o nuoce alla sua patria, a cui di tutto |
è debitor. Quando i sudori e il sangue |
sparge per lei, nulla del proprio ei dona; |
rende sol ciò che n'ebbe. Essa il produsse, |
l'educò, lo nudrì. Con le sue leggi |
dagl'insulti domestici il difende, |
dagli esterni con l'armi. Ella gli presta |
nome, grado ed onor: ne premia il merto; |
ne vendica le offese; e madre amante |
a fabbricar s'affanna |
la sua felicità, per quanto lice |
al destin de' mortali esser felice. |
Han tanti doni, è vero, |
il peso lor. Chi ne ricusa il peso, |
rinunci al benefizio; a far si vada |
d'inospite foreste |
mendìco abitatore; e là, di poche |
misere ghiande e d'un covil contento, |
viva libero e solo a suo talento. |
PUBLIO Adoro i detti tuoi. L'alma convinci, |
ma il cor non persuadi. Ad ubbidirti |
la natura repugna. Al fin son figlio, |
non lo posso obbliar. |
REG. Scusa infelice |
per chi nacque romano. Erano padri |
Bruto, Manlio, Virginio... |
PUBLIO E` ver; ma questa |
troppo eroica costanza |
sol fra' padri restò. Figlio non vanta |
Roma fin or, che a proccurar giungesse |
del genitor lo scempio. |
REG. Dunque aspira all'onor del primo esempio. |
Va. |
PUBLIO Deh... |
REG. Non più. Della mia sorte attendo |
la notizia da te. |
PUBLIO Troppo pretendi, |
troppo, o signor. |
REG. Mi vuoi straniero, o padre? |
Se stranier, non posporre |
l'util di Roma al mio; se padre, il cenno |
rispetta, e parti. |
PUBLIO Ah se mirar potessi |
i moti del cor mio, rigido meno |
forse con me saresti. |
REG. Or dal tuo core |
prove io vo' di costanza e non d'amore. |
PUBLIO Ah, se provar mi vuoi, |
chiedimi, o padre, il sangue; |
e tutto a' piedi tuoi, |
padre, lo verserò. |
Ma che un tuo figlio istesso |
debba volerti oppresso? |
Gran genitor, perdona, |
tanta virtù non ho. |
|
SCENA II |
|
REG. Il gran punto s'appressa, ed io pavento |
che vacillino i padri. Ah voi di Roma |
deità protettrici, a lor più degni |
sensi inspirate. |
MAN. A custodir l'ingresso |
rimangano i littori; e alcun non osi |
qui penetrar. |
REG. (Manlio! A che viene?) |
MAN. Ah lascia |
che al sen ti stringa, invitto eroe. |
REG. Che tenti! |
Un console... |
MAN. Io nol sono |
Regolo, adesso: un uom son io che adora |
la tua virtù, la tua costanza; un grande |
emulo tuo, che a dichiarar si viene |
vinto da te; che, confessando ingiusto |
l'avverso genio antico, |
chiede l'onor di diventarti amico. |
REG. Dell'alme generose |
solito stil. Più le abbattute piante |
non urta il vento, o le solleva. Io deggio |
così nobile acquisto |
alla mia servitù. |
MAN. Sì, questa appieno |
qual tu sei mi scoperse; e mai sì grande, |
com'or fra' ceppi, io non ti vidi. A Roma |
vincitor de' nemici |
spesso tornasti; or vincitor ritorni |
di te, della fortuna. I lauri tuoi |
mossero invidia in me; le tue catene |
destan rispetto. Allora |
un eroe, lo confesso, |
Regolo mi parea; ma un nume adesso. |
REG. Basta, basta, signor: la più severa |
misurata virtù tentan le lodi |
in un labbro sì degno. Io ti son grato |
che d'illustrar con l'amor tuo ti piaccia |
gli ultimi giorni miei. |
MAN. Gli ultimi giorni! |
Conservarti io pretendo |
lungamente alla patria; e, affinché sia |
in tuo favor l'offerto cambio ammesso, |
tutto in uso porrò. |
REG. Così cominci, |
Manlio, ad essermi amico? E che faresti, |
se ancor m'odiassi? In questa guisa il frutto |
del mio rossor tu mi defraudi. A Roma |
io non venni a mostrar le mie catene |
per destarla a pietà: venni a salvarla |
dal rischio d'un'offerta, |
che accettar non si dee. Se non puoi darmi |
altri pegni d'amor, torna ad odiarmi. |
MAN. Ma il ricusato cambio |
produrria la tua morte. |
REG. E questo nome |
sì terribil risuona |
nell'orecchie di Manlio! Io non imparo |
oggi che son mortale. Altro il nemico |
non mi torrà che quel che tormi in breve |
dee la natura; e volontario dono |
sarà così quel, che saria fra poco |
necessario tributo. Il mondo apprenda |
ch'io vissi sol per la mia patria; e, quando |
viver più non potei, |
resi almen la mia morte utile a lei. |
MAN. Oh detti! Oh sensi! Oh fortunato suolo |
che tai figli produci! E chi potrebbe |
non amarti, signor? |
REG. Se amar mi vuoi, |
amami da romano. Eccoti i patti |
della nostra amistà. Facciamo entrambi |
un sacrifizio a Roma; io della vita, |
tu dell'amico. E` ben ragion che costi |
della patria il vantaggio |
qualche pena anche a te. Va; ma prometti |
che de' consigli miei tu nel Senato |
ti farai difensore. A questa legge |
sola di Manlio io l'amicizia accetto. |
Che rispondi, signor? |
MAN. Sì, lo prometto. |
REG. Or de' propizi numi |
in Manlio amico io riconosco un dono. |
MAN. Ah perché fra que' ceppi anch'io non sono! |
REG. Non perdiamo i momenti. Ormai raccolti |
forse saranno i padri. Alla tua fede |
della patria il decoro, |
la mia pace abbandono e l'onor mio. |
MAN. Addio, gloria del Tebro. |
REG. Amico, addio. |
MAN. Oh qual fiamma di gloria, d'onore |
scorrer sento per tutte le vene, |
alma grande, parlando con te! |
No, non vive sì timido core, |
che in udirti con quelle catene |
non cambiasse la sorte d'un re. |
SCENA III |
|
REG. A respirar comincio: i miei disegni |
il fausto Ciel seconda. |
LIC. Al fin ritorno |
con più contento a rivederti. |
REG. E donde |
tanta gioia, o Licinio? |
LIC. Ho il cor ripieno |
di felici speranze. In fino ad ora |
per te sudai. |
REG. Per me! |
LIC. Sì. Mi credesti |
forse ingrato così, ch'io mi scordassi |
gli obblighi miei nel maggior uopo? Ah tutto |
mi rammento, signor. Tu sol mi fosti |
duce, maestro e padre. I primi passi |
mossi, te condottiero, |
per le strade d'onor: tu mi rendesti... |
REG. Al fine, in mio favor, dì, che facesti? |
LIC. Difesi la tua vita |
e la tua libertà. |
REG. Come? |
LIC. All'ingresso |
del tempio, ove il Senato or si raccoglie, |
attesi i padri, e ad uno ad un li trassi |
nel desio di salvarti. |
REG. (Oh dei, che sento!) |
E tu... |
LIC. Solo io non fui. Non si defraudi |
la lode al merto. Io feci assai, ma fece |
Attilia più di me. |
REG. Chi? |
LIC. Attilia. In Roma |
figlia non v'è d'un genitor più amante. |
Come parlò! Che disse! |
Quanti affetti destò! Come compose |
il dolor col decoro! In quanti modi |
rimproveri mischiò, preghiere e lodi! |
REG. E i padri? |
LIC. E chi resiste |
agli assalti d'Attilia? Eccola: osserva |
come ride in quel volto |
la novella speranza. |
|
SCENA IV |
ATT. Amato padre, |
pure una volta... |
REG. E ardisci |
ancor venirmi innanzi? Ah non contai |
te fin ad or fra' miei nemici. |
ATT. Io, padre, |
io tua nemica! |
REG. E tal non è chi folle |
s'oppone a' miei consigli? |
ATT. Ah di giovarti |
dunque il desio d'inimicizia è prova? |
REG. Che sai tu quel che nuoce o quel che giova? |
Delle pubbliche cure |
chi a parte ti chiamò? Della mia sorte |
chi ti fé protettrice? Onde... |
LIC. Ah signore, |
troppo... |
REG. Parla Licinio! Assai tacendo |
meglio si difendea; pareva almeno |
pentimento il silenzio. Eterni dei! |
Una figlia!... un roman! |
ATT. Perché son figlia... |
LIC. Perché roman son io, credei che oppormi |
al tuo fato inumano... |
REG. Taci: non è romano |
chi una viltà consiglia. |
Taci: non è mia figlia |
chi più virtù non ha. |
Or sì de' lacci il peso |
per vostra colpa io sento; |
or sì la mia rammento |
perduta libertà. |
|
SCENA V |
|
ATT. Ma dì; credi, o Licinio, |
che mai di me nascesse |
più sfortunata donna? Amare un padre, |
affannarsi a suo prò, mostrar per lui |
di tenera pietade il cor trafitto |
saria merito ad altri; è a me delitto. |
LIC. No; consolati, Attilia, e non pentirti |
dell'opera pietosa. Altro richiede |
il dover nostro, ed altro |
di Regolo il dover. Se gloria è a lui |
della vita il disprezzo, a noi sarebbe |
empietà non salvarlo. Al fin vedrai |
che grato ei ci sarà. Non ti spaventi |
lo sdegno suo. Spesso l'infermo accusa |
di crudel, d'inumano |
quella medica man, che lo risana. |
ATT. Que' rimproveri acerbi |
mi trafiggono il cor: non ho costanza |
per soffrir l'ire sue. |
LIC. Ma dì: vorresti |
pria d'un tal genitor vederti priva? |
ATT. Ah questo no: mi sia sdegnato, e viva. |
LIC. Vivrà. Cessi quel pianto: |
tornatevi di nuovo, |
begli occhi, a serenar. Se veggo, oh Dio! |
mestizia in voi, perdo coraggio anch'io. |
Da voi, cari lumi, |
dipende il mio stato; |
voi siete i miei numi, |
voi siete il mio fato: |
a vostro talento |
mi sento cangiar. |
Ardir m'inspirate, |
se lieti splendete; |
se torbidi siete, |
mi fate tremar. |
|
SCENA VI |
|
ATT. Ah che pur troppo è ver! non han misura |
della cieca fortuna |
i favori e gli sdegni. O de' suoi doni |
è prodiga all'eccesso, |
o affligge un cor fin che nol vegga oppresso. |
Or l'infelice oggetto |
son io dell'ire sue. Mi veggo intorno |
di nembi il ciel ripieno; |
e chi sa quanti strali avranno in seno. |
Se più fulmini vi sono, |
ecco il petto, avversi dei: |
me ferite, io vi perdono; |
ma salvate il genitor. |
Un'immagine di voi |
in quell'alma rispettate; |
un esempio a noi lasciate |
di costanza e di valor. |
|
SCENA VII |
|
REG. Tu palpiti, o mio cor! Qual nuovo è questo |
moto incognito a te? Sfidasti ardito |
le tempeste del mar, l'ire di Marte, |
d'Africa i mostri orrendi, |
ed or tremando il tuo destino attendi! |
Ah, n'hai ragion: mai non si vide ancora |
in periglio sì grande |
la gloria mia. Ma questa gloria, oh dei, |
non è dell'alme nostre |
un affetto tiranno? Al par d'ogni altro |
domar non si dovrebbe? Ah no. De' vili |
questo è il linguaggio. Inutilmente nacque |
chi sol vive a se stesso: e sol da questo |
nobile affetto ad obbliar s'impara |
sé per altrui. Quanto ha di ben la terra, |
alla gloria si dee. Vendica questa |
l'umanità del vergognoso stato |
in cui saria senza il desio d'onore; |
toglie il senso al dolore, |
lo spavento a' perigli, |
alla morte il terror; dilata i regni, |
le città custodisce; alletta, aduna |
seguaci alla virtù; cangia in soavi |
i feroci costumi, |
e rende l'uomo imitator de' numi. |
Per questa... Aimè! Publio ritorna, e parmi |
che timido s'avanzi. E ben, che rechi? |
Ha deciso il Senato? |
qual è la sorte mia? |
|
|
SCENA VIII |
PUBLIO Signor... (Che pena |
per un figlio è mai questa!) |
REG. E taci? |
PUBLIO Oh dei! |
Esser muto vorrei. |
REG. Parla. |
PUBLIO Ogni offerta |
il Senato ricusa. |
REG. Ah dunque ha vinto |
il fortunato al fin genio romano! |
Grazie agli dei; non ho vissuto in vano. |
Amilcare si cerchi. Altro non resta |
che far su queste arene: |
la grand'opra compii, partir conviene. |
PUBLIO Padre infelice! |
REG. Ed infelice appelli |
chi poté, fin che visse, |
alla patria giovar? |
PUBLIO La patria adoro, |
piango i tuoi lacci. |
REG. E` servitù la vita; |
ciascuno ha i lacci suoi. Chi pianger vuole, |
pianger, Publio, dovria |
la sorte di chi nasce, e non la mia. |
PUBLIO Di quei barbari, o padre, |
l'empio furor ti priverà di vita. |
REG. E la mia servitù sarà finita. |
Addio. Non mi seguir. |
PUBLIO Da me ricusi |
gli ultimi ancor pietosi uffizi? |
REG. Io voglio |
altro da te. Mentre a partir m'affretto, |
a trattener rimanti |
la sconsolata Attilia. Il suo dolore |
funesterebbe il mio trionfo. Assai |
tenera fu per me. Se forse eccede, |
compatiscila, o Publio. Al fin da lei |
una viril costanza |
pretender non si può. Tu la consiglia; |
d'inspirarle proccura |
con l'esempio fortezza: |
la reggi, la consola; e seco adempi |
ogni uffizio di padre. A te la figlia, |
te confido a te stesso; e spero... Ah veggo |
che indebolir ti vuoi. Maggior costanza |
in te credei: l'avrò creduto in vano? |
Publio, ah no: sei mio figlio, e sei romano. |
Non tradir la bella speme, |
che di te donasti a noi: |
sul cammin de' grandi eroi |
incomincia a comparir. |
Fa ch'io lasci un degno erede |
degli affetti del mio core; |
che di te senza rossore |
io mi possa sovvenir. |
|
SCENA IX |
|
PUBLIO Ah sì, Publio, coraggio: il passo è forte, |
ma vincerti convien. Lo chiede il sangue, |
che hai nelle vene; il grand'esempio il chiede, |
che su gli occhi ti sta. Cedesti a' primi |
impeti di natura; or meglio eleggi; |
il padre imìta, e l'error tuo correggi. |
ATT. Ed è vero, o german? |
BARCE Publio, ed è vero? |
PUBLIO Sì: decise il Senato; |
Regolo partirà. |
ATT. Come! |
BARCE Che dici! |
ATT. Dunque ognun mi tradì? |
BARCE Dunque... |
PUBLIO Or non giova... |
BARCE Amilcare, pietà. |
ATT. Licinio, aiuto. |
AMIL. Più speranza non v'è. |
LIC. Tutto è perduto. |
ATT. Dov'è Regolo? Io voglio |
almen seco partir. |
PUBLIO Ferma; l'eccesso |
del tuo dolor l'offenderebbe. |
ATT. E speri |
impedirmi così? |
PUBLIO Spero che Attilia |
torni al fine in se stessa, e si rammenti |
che a lei non è permesso... |
ATT. Sol che son figlia io mi rammento adesso. |
Lasciami. |
PUBLIO Non sperarlo. |
ATT. Ah parte intanto |
il genitor! |
BARCE Non dubitar ch'ei parta, |
finché Amilcare è qui. |
ATT. Chi mi consiglia? |
chi mi soccorre? Amilcare? |
AMIL. Io mi perdo |
fra l'ira e lo stupor. |
ATT. Licinio? |
LIC. Ancora |
dal colpo inaspettato |
respirar non poss'io. |
ATT. Publio? |
PUBLIO Ah germana, |
più valor, più costanza. Il fato avverso |
come si soffra il genitor ci addìta. |
Non è degno di lui chi non l'imìta. |
ATT. E tu parli così! tu, che dovresti |
i miei trasporti accompagnar gemendo! |
Io non t'intendo, o Publio. |
AMIL. Ed io l'intendo. |
Barce è la fiamma sua: Barce non parte, |
se Regolo non resta; ecco la vera |
cagion del suo coraggio. |
PUBLIO (Questo pensar di me! Stelle, che oltraggio!) |
AMIL. Forse, affinché il Senato |
non accettasse il cambio, ei pose in opra |
tutta l'arte e l'ingegno. |
PUBLIO Il dubbio in ver d'un africano è degno. |
AMIL. E pur... |
PUBLIO Taci, e m'ascolta. |
Sai che l'arbitro io sono |
della sorte di Barce? |
AMIL. Il so. L'ottenne |
già dal Senato in dono |
la madre tua: questa cedendo al fato, |
signor di lei tu rimanesti. |
PUBLIO Or odi |
qual uso io fo del mio dominio. Amai |
Barce più della vita, |
ma non quanto l'onor. So che un tuo pari |
creder nol può; ma toglierò ben io |
di sì vili sospetti |
ogni pretesto alla calunnia altrui. |
Barce, liberi sei; parti con lui. |
BARCE Numi! Ed è ver? |
AMIL. D'una virtù sì rara... |
PUBLIO Come s'ama fra noi, barbaro, impara. |
|
SCENA X |
|
ATT. Vedi il crudel come mi lascia! |
BARCE Udisti, |
come Publio parlò? |
ATT. Tu non rispondi! |
BARCE Tu non m'odi, idol mio! |
AMIL. Addio, Barce; m'attendi. |
LIC. Attilia, addio. |
ATT., BARCE Dove? |
LIC. A salvarti il padre. |
AMIL. Regolo a conservar. |
ATT. Ma per qual via? |
BARCE Ma come? |
LIC. A' mali estremi |
diasi estremo rimedio. |
AMIL. Abbia rivali |
nella virtù questo romano orgoglio. |
ATT. Esser teco vogl'io. |
BARCE Seguirti io voglio. |
LIC. No; per te tremerei. |
AMIL. No; rimaner tu dèi. |
BARCE Né vuoi spiegarti? |
ATT. Né vuoi ch'io sappia almen... |
LIC. Tutto fra poco |
saprai. |
AMIL. Fidati a me. |
LIC. Regolo in Roma |
si trattenga, o si mora. |
AMIL. Faccia pompa d'eroi l'Africa ancora. |
Se minore è in noi l'orgoglio, |
la virtù non è minore; |
né per noi la via d'onore |
è un incognito sentier. |
Lungi ancor dal Campidoglio |
vi son alme a queste uguali; |
pur del resto de' mortali |
han gli dei qualche pensier. |
|
SCENA XI |
|
ATT. Barce! |
BARCE Attilia! |
ATT. Che dici? |
BARCE Che possiamo sperar? |
ATT. Non so. Tumulti |
certo a destar corre Licinio; e questi |
esser ponno funesti |
alla patria ed a lui, senza che il padre |
per ciò si salvi. |
BARCE Amilcare sorpreso |
dal grand'atto di Publio e punto insieme |
da' rimproveri suoi, men generoso |
esser non vuol di lui. Chi sa che tenta |
e a qual rischio s'espone? |
ATT. Il mio Licinio |
deh secondate, o dei! |
BARCE Lo sposo mio, |
numi, assistete! |
ATT. Io non ho fibra in seno, |
che non mi tremi. |
BARCE Attilia, |
non dobbiamo avvilirci. Al fin più chiaro |
è adesso il ciel di quel che fu; si vede |
pur di speranza un raggio. |
ATT. Ah Barce, è ver; ma non mi dà coraggio. |
Non è la mia speranza |
luce di ciel sereno; |
di torbido baleno |
è languido splendor: |
splendor, che in lontananza |
nel comparir si cela; |
che il rischio, oh Dio! mi svela, |
ma non lo fa minor. |
|
SCENA XII |
|
BARCE Rassicurar proccuro |
l'alma d'Attilia oppressa, |
ardir vo consigliando, e tremo io stessa. |
Ebbi assai più coraggio |
quando meno sperai. La tema incerta |
solo allor m'affliggea d'un mal futuro; |
or di perder pavento un ben sicuro. |
S'espone a perdersi |
nel mare infido |
chi l'onde instabili |
solcando va. |
Ma quel sommergersi |
vicino al lido |
è troppo barbara |
fatalità. |
FINE ATTO SECONDO |
|