De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

ATTILIO REGOLO

Di: Pietro Metastasio

ATTO SECONDO

 

[SCENA PRIMA][SCENA SECONDA][SCENA TERZA][SCENA QUARTA]

[SCENA QUINTA][SCENA SESTA][SCENA SETTIMA][SCENA OTTAVA]

[SCENA NONA][SCENA DECIMA][SCENA UNDICESIMA]

[SCENA DODICESIMA] [FINE ATTO SECONDO]

 

SCENA PRIMA
REG. Publio, tu qui! Si tratta
della gloria di Roma,
dell'onor mio, del pubblico riposo,
e in Senato non sei?
PUBLIO Raccolto ancora,
signor, non è.
REG. Va, non tardar; sostieni
fra i padri il voto mio: mostrati degno
dell'origine tua.
PUBLIO Come! e m'imponi
che a fabbricar m'adopri
io stesso il danno tuo?
REG. Non è mio danno
quel che giova alla patria.
PUBLIO Ah di te stesso,
signore, abbi pietà.
REG. Publio, tu stimi
dunque un furore il mio? Credi ch'io solo,
fra ciò che vive, odii me stesso? Oh quanto
t'inganni! Al par d'ogni altro
bramo il mio ben, fuggo il mio mal. Ma questo
trovo sol nella colpa, e quello io trovo
nella sola virtù. Colpa sarebbe
della patria col danno
ricuperar la libertà smarrita;
ond'è mio mal la libertà, la vita:
virtù col proprio sangue
è della patria assicurar la sorte;
ond'è mio ben la servitù, la morte.
PUBLIO Pur la patria non è...
REG. La patria è un tutto,
di cui siam parti. Al cittadino è fallo
considerar se stesso
separato da lei. L'utile o il danno,
ch'ei conoscer dee solo, è ciò che giova
o nuoce alla sua patria, a cui di tutto
è debitor. Quando i sudori e il sangue
sparge per lei, nulla del proprio ei dona;
rende sol ciò che n'ebbe. Essa il produsse,
l'educò, lo nudrì. Con le sue leggi
dagl'insulti domestici il difende,
dagli esterni con l'armi. Ella gli presta
nome, grado ed onor: ne premia il merto;
ne vendica le offese; e madre amante
a fabbricar s'affanna
la sua felicità, per quanto lice
al destin de' mortali esser felice.
Han tanti doni, è vero,
il peso lor. Chi ne ricusa il peso,
rinunci al benefizio; a far si vada
d'inospite foreste
mendìco abitatore; e là, di poche
misere ghiande e d'un covil contento,
viva libero e solo a suo talento.
PUBLIO Adoro i detti tuoi. L'alma convinci,
ma il cor non persuadi. Ad ubbidirti
la natura repugna. Al fin son figlio,
non lo posso obbliar.
REG. Scusa infelice
per chi nacque romano. Erano padri
Bruto, Manlio, Virginio...
PUBLIO E` ver; ma questa
troppo eroica costanza
sol fra' padri restò. Figlio non vanta
Roma fin or, che a proccurar giungesse
del genitor lo scempio.
REG. Dunque aspira all'onor del primo esempio.
Va.
PUBLIO Deh...
REG. Non più. Della mia sorte attendo
la notizia da te.
PUBLIO Troppo pretendi,
troppo, o signor.
REG. Mi vuoi straniero, o padre?
Se stranier, non posporre
l'util di Roma al mio; se padre, il cenno
rispetta, e parti.
PUBLIO Ah se mirar potessi
i moti del cor mio, rigido meno
forse con me saresti.
REG. Or dal tuo core
prove io vo' di costanza e non d'amore.
PUBLIO Ah, se provar mi vuoi,
chiedimi, o padre, il sangue;
e tutto a' piedi tuoi,
padre, lo verserò.
Ma che un tuo figlio istesso
debba volerti oppresso?
Gran genitor, perdona,
tanta virtù non ho.
SCENA II
REG. Il gran punto s'appressa, ed io pavento
che vacillino i padri. Ah voi di Roma
deità protettrici, a lor più degni
sensi inspirate.
MAN. A custodir l'ingresso
rimangano i littori; e alcun non osi
qui penetrar.
REG. (Manlio! A che viene?)
MAN. Ah lascia
che al sen ti stringa, invitto eroe.
REG. Che tenti!
Un console...
MAN. Io nol sono
Regolo, adesso: un uom son io che adora
la tua virtù, la tua costanza; un grande
emulo tuo, che a dichiarar si viene
vinto da te; che, confessando ingiusto
l'avverso genio antico,
chiede l'onor di diventarti amico.
REG. Dell'alme generose
solito stil. Più le abbattute piante
non urta il vento, o le solleva. Io deggio
così nobile acquisto
alla mia servitù.
MAN. Sì, questa appieno
qual tu sei mi scoperse; e mai sì grande,
com'or fra' ceppi, io non ti vidi. A Roma
vincitor de' nemici
spesso tornasti; or vincitor ritorni
di te, della fortuna. I lauri tuoi
mossero invidia in me; le tue catene
destan rispetto. Allora
un eroe, lo confesso,
Regolo mi parea; ma un nume adesso.
REG. Basta, basta, signor: la più severa
misurata virtù tentan le lodi
in un labbro sì degno. Io ti son grato
che d'illustrar con l'amor tuo ti piaccia
gli ultimi giorni miei.
MAN. Gli ultimi giorni!
Conservarti io pretendo
lungamente alla patria; e, affinché sia
in tuo favor l'offerto cambio ammesso,
tutto in uso porrò.
REG. Così cominci,
Manlio, ad essermi amico? E che faresti,
se ancor m'odiassi? In questa guisa il frutto
del mio rossor tu mi defraudi. A Roma
io non venni a mostrar le mie catene
per destarla a pietà: venni a salvarla
dal rischio d'un'offerta,
che accettar non si dee. Se non puoi darmi
altri pegni d'amor, torna ad odiarmi.
MAN. Ma il ricusato cambio
produrria la tua morte.
REG. E questo nome
sì terribil risuona
nell'orecchie di Manlio! Io non imparo
oggi che son mortale. Altro il nemico
non mi torrà che quel che tormi in breve
dee la natura; e volontario dono
sarà così quel, che saria fra poco
necessario tributo. Il mondo apprenda
ch'io vissi sol per la mia patria; e, quando
viver più non potei,
resi almen la mia morte utile a lei.
MAN. Oh detti! Oh sensi! Oh fortunato suolo
che tai figli produci! E chi potrebbe
non amarti, signor?
REG. Se amar mi vuoi,
amami da romano. Eccoti i patti
della nostra amistà. Facciamo entrambi
un sacrifizio a Roma; io della vita,
tu dell'amico. E` ben ragion che costi
della patria il vantaggio
qualche pena anche a te. Va; ma prometti
che de' consigli miei tu nel Senato
ti farai difensore. A questa legge
sola di Manlio io l'amicizia accetto.
Che rispondi, signor?
MAN. Sì, lo prometto.
REG. Or de' propizi numi
in Manlio amico io riconosco un dono.
MAN. Ah perché fra que' ceppi anch'io non sono!
REG. Non perdiamo i momenti. Ormai raccolti
forse saranno i padri. Alla tua fede
della patria il decoro,
la mia pace abbandono e l'onor mio.
MAN. Addio, gloria del Tebro.
REG. Amico, addio.
MAN. Oh qual fiamma di gloria, d'onore
scorrer sento per tutte le vene,
alma grande, parlando con te!
No, non vive sì timido core,
che in udirti con quelle catene
non cambiasse la sorte d'un re.
SCENA III
REG. A respirar comincio: i miei disegni
il fausto Ciel seconda.
LIC. Al fin ritorno
con più contento a rivederti.
REG. E donde
tanta gioia, o Licinio?
LIC. Ho il cor ripieno
di felici speranze. In fino ad ora
per te sudai.
REG. Per me!
LIC. Sì. Mi credesti
forse ingrato così, ch'io mi scordassi
gli obblighi miei nel maggior uopo? Ah tutto
mi rammento, signor. Tu sol mi fosti
duce, maestro e padre. I primi passi
mossi, te condottiero,
per le strade d'onor: tu mi rendesti...
REG. Al fine, in mio favor, dì, che facesti?
LIC. Difesi la tua vita
e la tua libertà.
REG. Come?
LIC. All'ingresso
del tempio, ove il Senato or si raccoglie,
attesi i padri, e ad uno ad un li trassi
nel desio di salvarti.
REG. (Oh dei, che sento!)
E tu...
LIC. Solo io non fui. Non si defraudi
la lode al merto. Io feci assai, ma fece
Attilia più di me.
REG. Chi?
LIC. Attilia. In Roma
figlia non v'è d'un genitor più amante.
Come parlò! Che disse!
Quanti affetti destò! Come compose
il dolor col decoro! In quanti modi
rimproveri mischiò, preghiere e lodi!
REG. E i padri?
LIC. E chi resiste
agli assalti d'Attilia? Eccola: osserva
come ride in quel volto
la novella speranza.
SCENA IV
ATT. Amato padre,
pure una volta...
REG. E ardisci
ancor venirmi innanzi? Ah non contai
te fin ad or fra' miei nemici.
ATT. Io, padre,
io tua nemica!
REG. E tal non è chi folle
s'oppone a' miei consigli?
ATT. Ah di giovarti
dunque il desio d'inimicizia è prova?
REG. Che sai tu quel che nuoce o quel che giova?
Delle pubbliche cure
chi a parte ti chiamò? Della mia sorte
chi ti fé protettrice? Onde...
LIC. Ah signore,
troppo...
REG. Parla Licinio! Assai tacendo
meglio si difendea; pareva almeno
pentimento il silenzio. Eterni dei!
Una figlia!... un roman!
ATT. Perché son figlia...
LIC. Perché roman son io, credei che oppormi
al tuo fato inumano...
REG. Taci: non è romano
chi una viltà consiglia.
Taci: non è mia figlia
chi più virtù non ha.
Or sì de' lacci il peso
per vostra colpa io sento;
or sì la mia rammento
perduta libertà.
SCENA V
ATT. Ma dì; credi, o Licinio,
che mai di me nascesse
più sfortunata donna? Amare un padre,
affannarsi a suo prò, mostrar per lui
di tenera pietade il cor trafitto
saria merito ad altri; è a me delitto.
LIC. No; consolati, Attilia, e non pentirti
dell'opera pietosa. Altro richiede
il dover nostro, ed altro
di Regolo il dover. Se gloria è a lui
della vita il disprezzo, a noi sarebbe
empietà non salvarlo. Al fin vedrai
che grato ei ci sarà. Non ti spaventi
lo sdegno suo. Spesso l'infermo accusa
di crudel, d'inumano
quella medica man, che lo risana.
ATT. Que' rimproveri acerbi
mi trafiggono il cor: non ho costanza
per soffrir l'ire sue.
LIC. Ma dì: vorresti
pria d'un tal genitor vederti priva?
ATT. Ah questo no: mi sia sdegnato, e viva.
LIC. Vivrà. Cessi quel pianto:
tornatevi di nuovo,
begli occhi, a serenar. Se veggo, oh Dio!
mestizia in voi, perdo coraggio anch'io.
Da voi, cari lumi,
dipende il mio stato;
voi siete i miei numi,
voi siete il mio fato:
a vostro talento
mi sento cangiar.
Ardir m'inspirate,
se lieti splendete;
se torbidi siete,
mi fate tremar.
SCENA VI
ATT. Ah che pur troppo è ver! non han misura
della cieca fortuna
i favori e gli sdegni. O de' suoi doni
è prodiga all'eccesso,
o affligge un cor fin che nol vegga oppresso.
Or l'infelice oggetto
son io dell'ire sue. Mi veggo intorno
di nembi il ciel ripieno;
e chi sa quanti strali avranno in seno.
Se più fulmini vi sono,
ecco il petto, avversi dei:
me ferite, io vi perdono;
ma salvate il genitor.
Un'immagine di voi
in quell'alma rispettate;
un esempio a noi lasciate
di costanza e di valor.
SCENA VII
REG. Tu palpiti, o mio cor! Qual nuovo è questo
moto incognito a te? Sfidasti ardito
le tempeste del mar, l'ire di Marte,
d'Africa i mostri orrendi,
ed or tremando il tuo destino attendi!
Ah, n'hai ragion: mai non si vide ancora
in periglio sì grande
la gloria mia. Ma questa gloria, oh dei,
non è dell'alme nostre
un affetto tiranno? Al par d'ogni altro
domar non si dovrebbe? Ah no. De' vili
questo è il linguaggio. Inutilmente nacque
chi sol vive a se stesso: e sol da questo
nobile affetto ad obbliar s'impara
sé per altrui. Quanto ha di ben la terra,
alla gloria si dee. Vendica questa
l'umanità del vergognoso stato
in cui saria senza il desio d'onore;
toglie il senso al dolore,
lo spavento a' perigli,
alla morte il terror; dilata i regni,
le città custodisce; alletta, aduna
seguaci alla virtù; cangia in soavi
i feroci costumi,
e rende l'uomo imitator de' numi.
Per questa... Aimè! Publio ritorna, e parmi
che timido s'avanzi. E ben, che rechi?
Ha deciso il Senato?
qual è la sorte mia?
SCENA VIII
PUBLIO Signor... (Che pena
per un figlio è mai questa!)
REG. E taci?
PUBLIO Oh dei!
Esser muto vorrei.
REG. Parla.
PUBLIO Ogni offerta
il Senato ricusa.
REG. Ah dunque ha vinto
il fortunato al fin genio romano!
Grazie agli dei; non ho vissuto in vano.
Amilcare si cerchi. Altro non resta
che far su queste arene:
la grand'opra compii, partir conviene.
PUBLIO Padre infelice!
REG. Ed infelice appelli
chi poté, fin che visse,
alla patria giovar?
PUBLIO La patria adoro,
piango i tuoi lacci.
REG. E` servitù la vita;
ciascuno ha i lacci suoi. Chi pianger vuole,
pianger, Publio, dovria
la sorte di chi nasce, e non la mia.
PUBLIO Di quei barbari, o padre,
l'empio furor ti priverà di vita.
REG. E la mia servitù sarà finita.
Addio. Non mi seguir.
PUBLIO Da me ricusi
gli ultimi ancor pietosi uffizi?
REG. Io voglio
altro da te. Mentre a partir m'affretto,
a trattener rimanti
la sconsolata Attilia. Il suo dolore
funesterebbe il mio trionfo. Assai
tenera fu per me. Se forse eccede,
compatiscila, o Publio. Al fin da lei
una viril costanza
pretender non si può. Tu la consiglia;
d'inspirarle proccura
con l'esempio fortezza:
la reggi, la consola; e seco adempi
ogni uffizio di padre. A te la figlia,
te confido a te stesso; e spero... Ah veggo
che indebolir ti vuoi. Maggior costanza
in te credei: l'avrò creduto in vano?
Publio, ah no: sei mio figlio, e sei romano.
Non tradir la bella speme,
che di te donasti a noi:
sul cammin de' grandi eroi
incomincia a comparir.
Fa ch'io lasci un degno erede
degli affetti del mio core;
che di te senza rossore
io mi possa sovvenir.
SCENA IX
PUBLIO Ah sì, Publio, coraggio: il passo è forte,
ma vincerti convien. Lo chiede il sangue,
che hai nelle vene; il grand'esempio il chiede,
che su gli occhi ti sta. Cedesti a' primi
impeti di natura; or meglio eleggi;
il padre imìta, e l'error tuo correggi.
ATT. Ed è vero, o german?
BARCE Publio, ed è vero?
PUBLIO Sì: decise il Senato;
Regolo partirà.
ATT. Come!
BARCE Che dici!
ATT. Dunque ognun mi tradì?
BARCE Dunque...
PUBLIO Or non giova...
BARCE Amilcare, pietà.
ATT. Licinio, aiuto.
AMIL. Più speranza non v'è.
LIC. Tutto è perduto.
ATT. Dov'è Regolo? Io voglio
almen seco partir.
PUBLIO Ferma; l'eccesso
del tuo dolor l'offenderebbe.
ATT. E speri
impedirmi così?
PUBLIO Spero che Attilia
torni al fine in se stessa, e si rammenti
che a lei non è permesso...
ATT. Sol che son figlia io mi rammento adesso.
Lasciami.
PUBLIO Non sperarlo.
ATT. Ah parte intanto
il genitor!
BARCE Non dubitar ch'ei parta,
finché Amilcare è qui.
ATT. Chi mi consiglia?
chi mi soccorre? Amilcare?
AMIL. Io mi perdo
fra l'ira e lo stupor.
ATT. Licinio?
LIC. Ancora
dal colpo inaspettato
respirar non poss'io.
ATT. Publio?
PUBLIO Ah germana,
più valor, più costanza. Il fato avverso
come si soffra il genitor ci addìta.
Non è degno di lui chi non l'imìta.
ATT. E tu parli così! tu, che dovresti
i miei trasporti accompagnar gemendo!
Io non t'intendo, o Publio.
AMIL. Ed io l'intendo.
Barce è la fiamma sua: Barce non parte,
se Regolo non resta; ecco la vera
cagion del suo coraggio.
PUBLIO (Questo pensar di me! Stelle, che oltraggio!)
AMIL. Forse, affinché il Senato
non accettasse il cambio, ei pose in opra
tutta l'arte e l'ingegno.
PUBLIO Il dubbio in ver d'un africano è degno.
AMIL. E pur...
PUBLIO Taci, e m'ascolta.
Sai che l'arbitro io sono
della sorte di Barce?
AMIL. Il so. L'ottenne
già dal Senato in dono
la madre tua: questa cedendo al fato,
signor di lei tu rimanesti.
PUBLIO Or odi
qual uso io fo del mio dominio. Amai
Barce più della vita,
ma non quanto l'onor. So che un tuo pari
creder nol può; ma toglierò ben io
di sì vili sospetti
ogni pretesto alla calunnia altrui.
Barce, liberi sei; parti con lui.
BARCE Numi! Ed è ver?
AMIL. D'una virtù sì rara...
PUBLIO Come s'ama fra noi, barbaro, impara.
SCENA X
ATT. Vedi il crudel come mi lascia!
BARCE Udisti,
come Publio parlò?
ATT. Tu non rispondi!
BARCE Tu non m'odi, idol mio!
AMIL. Addio, Barce; m'attendi.
LIC. Attilia, addio.
ATT., BARCE Dove?
LIC. A salvarti il padre.
AMIL. Regolo a conservar.
ATT. Ma per qual via?
BARCE Ma come?
LIC. A' mali estremi
diasi estremo rimedio.
AMIL. Abbia rivali
nella virtù questo romano orgoglio.
ATT. Esser teco vogl'io.
BARCE Seguirti io voglio.
LIC. No; per te tremerei.
AMIL. No; rimaner tu dèi.
BARCE Né vuoi spiegarti?
ATT. Né vuoi ch'io sappia almen...
LIC. Tutto fra poco
saprai.
AMIL. Fidati a me.
LIC. Regolo in Roma
si trattenga, o si mora.
AMIL. Faccia pompa d'eroi l'Africa ancora.
Se minore è in noi l'orgoglio,
la virtù non è minore;
né per noi la via d'onore
è un incognito sentier.
Lungi ancor dal Campidoglio
vi son alme a queste uguali;
pur del resto de' mortali
han gli dei qualche pensier.
SCENA XI
ATT. Barce!
BARCE Attilia!
ATT. Che dici?
BARCE Che possiamo sperar?
ATT. Non so. Tumulti
certo a destar corre Licinio; e questi
esser ponno funesti
alla patria ed a lui, senza che il padre
per ciò si salvi.
BARCE Amilcare sorpreso
dal grand'atto di Publio e punto insieme
da' rimproveri suoi, men generoso
esser non vuol di lui. Chi sa che tenta
e a qual rischio s'espone?
ATT. Il mio Licinio
deh secondate, o dei!
BARCE Lo sposo mio,
numi, assistete!
ATT. Io non ho fibra in seno,
che non mi tremi.
BARCE Attilia,
non dobbiamo avvilirci. Al fin più chiaro
è adesso il ciel di quel che fu; si vede
pur di speranza un raggio.
ATT. Ah Barce, è ver; ma non mi dà coraggio.
Non è la mia speranza
luce di ciel sereno;
di torbido baleno
è languido splendor:
splendor, che in lontananza
nel comparir si cela;
che il rischio, oh Dio! mi svela,
ma non lo fa minor.
SCENA XII
BARCE Rassicurar proccuro
l'alma d'Attilia oppressa,
ardir vo consigliando, e tremo io stessa.
Ebbi assai più coraggio
quando meno sperai. La tema incerta
solo allor m'affliggea d'un mal futuro;
or di perder pavento un ben sicuro.
S'espone a perdersi
nel mare infido
chi l'onde instabili
solcando va.
Ma quel sommergersi
vicino al lido
è troppo barbara
fatalità.
FINE ATTO SECONDO

 

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 21.24.54