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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

ARABELLA

di

EMILIO DE MARCHI

 

PARTE SECONDA
I UN UOMO CHE NON HA VISTO NULLA
II IN CASA DELLE DUE "BEATE"
III UN'ANIMA IN PENA
IV UN'ALTR'ANIMA IN PENA
V LA PRIMA BATTAGLIA
VI UN CATTIVO ROSARIO
VII NELLO STUDIO DELL'AVVOCATO

 

PARTE SECONDA
I
UN UOMO CHE NON HA VISTO NULLA
Il terzo venerdì di quaresima, il Berretta fu avvertito che don Felice Vittuone aveva urgentissimo bisogno di parlargli: passare subito in sagrestia.
Capitato per caso Ferruccio, il portinaio lo lasciò di guardia alla porta, si spazzolò le spalle, infilò una giacca, applicò tre o quattro buffetti alla cupola di un vecchio cappello di feltro, che non usava che nelle grandi occasioni, e in quattro passi fu alla chiesa.
Il prevosto lo faceva chiamare spesso per piccole commissioni di cucitura e di rammendatura; perciò il portinaio, non sospettando una trappola, entrò difilato in sagrestia come in casa sua e domandò al Bossi se c'era don Felice.
"Eccolo qui" disse il sagrestano.
Lo scricchiolio di un paio di scarpe, che risalivano la navata della chiesa, precedette il prevosto, un buon vecchietto piccolo e brutto, con molti capelli bianchi, un po' tremolante, un sant'uomo amato dai poveri per la sua carità e per la sua tolleranza. In questa benedetta faccenda del testamento Ratta egli rappresentava la parte della conciliazione, ma capiva che la sapienza non basta a conciliare l'acqua col fuoco, il diavolo coll'acqua santa.
"Sei tu, Pietro? bravo bravo" e rivoltosi a un chiericotto dondolante su due gambe storte, che una vestaglia verdognola non riusciva a nascondere agli occhi di Dio (che scruta le reni e i cuori), gli domandò qualche cosa sottovoce.
"Ha detto che vien subito. Sta confessando una donna."
"Allora passiamo di qua, Berretta."
Il Berretta seguì il prevosto per un lungo corridoio rivestito sulle due pareti da massicci armadi, fino a un gran stanzone, detto la guardaroba, dov'è anche la penitenzeria degli uomini. Anche questa stanza era rivestita su tre pareti da alti armadi antichi a grossi intagli. La quarta parete contro la porta aprivasi in due finestre, innanzi alle quali scendevano le tende di un grosso telone giallastro, che in quella giornata semipiovosa davano all'ambiente un'aria proprio di quaresima. Tra l'una e l'altra finestra pendeva un gran crocifisso avvolto da un zendado polveroso. Il Cristo scendeva coi piedi a toccare lo schienale di una vecchia poltrona di vacchetta presso un inginocchiatoio, dove più volte il portinaio, da buon cristiano, aveva versato il fardello de' suoi peccati. Quel camerone è riservato agli uomini nei momenti di molto concorso. Lungo il corridoio, col capo appoggiato agli armadi, si schierano i bottegai del quartiere che credono ancora alla santità del peso e delle misure e aspettano in fila la volta di gettarsi ai piedi del vecchio Cristo, che in duecento o trecento anni che sta lì, ne ha sentite d'ogni colore e, abbassando la testa impolverata in un atteggiamento di stanchezza, par che dica: "Che fare? ci vuol pazienza..."
Il Berretta nel rivedere il luogo e la croce risentì per una naturale associazione d'impressioni un rimescolamento che aveva nel fondo un rimorso, simile a una piccola puntura di spillo. E stava ancora coll'animo sospeso quando da una porticina di fianco sbucò un altro prete, che non aveva nulla a che fare colla nettezza e colla bonomia di don Felice. Era invece un vecchio olivastro, una faccia da contadino, rugosa come una castagna secca: era insomma don Giosuè Pianelli.
"Ci siamo!" disse in cor suo il portinaio, che capì o credette di capire all'ingrosso il motivo di questa chiamata, e si preparò a sostenere un processo.
"Ti ho fatto chiamare, caro Pietro, per qualche schiarimento. Sedete, don Giosuè."
"Son comodo" disse il canonico, raggruppandosi più che sedendo sopra uno sgabello di legno, mentre il prevosto andava a mettersi nella poltrona di pelle, sotto la croce, come il Berretta era solito vederlo due volte all'anno. Il portinaio rimase in piedi tra i due preti inquisitori, sotto la soggezione di quel gran Signore in croce.
"Io non ho bisogno di dirti che facciamo conto sulla tua sincerità, va bene, Berretta? Conosci don Giosuè?"
"Eh, se mi conosce, altro che!" prese a dire il canonico, facendo in modo da poter osservare il portinaio nella luce obliqua che pioveva di sotto le tende.
"Dunque, saprai, il mio Pietro, che don Giosuè Pianelli è stato il confessore della povera sora Ratta, che fu per i poveri di questa parrocchia un vero angelo di carità. I sussidi sono scarsi e la miseria cresce ogni dì."
"Di miseria non c'è mai miseria" aggiunge don Giosuè, seguitando con un tono irritato: "Cresce la miseria, crescono i vizi, crescono i birboni, mentre cala la religione e la carità... Sono i begli effetti del massonismo trionfante."
"Don Giosuè non ha torto" riprese il buon vecchietto "ma di cristiani ce ne sono ancora e il nostro Berretta è uno di questi: non è vero? bravo, bravo."
Il portinaio spalancò la bocca, aprì le braccia a un movimento d'ometto meccanico e rimase lì. Avrebbe pagato un occhio del capo a non esserci. Sentiva già da lontano che i due preti andavano tirando i fili d'una rete per pigliarlo in mezzo. Ma gli mancò la forza di scappare, che in certi frangenti, come dice la lepre, è il miglior rimedio.
"La santa Pasqua è vicina, e tu sai, non è vero, Berretta? tu sai tutta l'importanza dei sacramenti. Si tratta ora di compiere un'opera di giustizia, che si riduce in fondo a un'opera di carità, sicuro! Si tratta del bene dei poveri, sicuro! Tu hai detto a qualcuno che il signor Antonio Maccagno..."
"Tognino, Tognino" corresse don Giosuè, mettendo nella storpiatura del nome un suo gusto particolare.
"Tu hai detto che il signor Maccagno, tuo padrone, ha preso una carta..."
"Io, io, io?" balbettò troppo in fretta il portinaio, rispondendo prima d'essere interrogato.
Don Giosuè chiuse un occhio e guardò fisso coll'altro il prevosto. Quell'occhio nero e lucente, pieno di espressione, avrebbe voluto dire: "Capite?"
"Aspetta, lascia finire a don Felice. Parlerai dopo, il mio galantuomo." E don Giosuè fece sentire un'ironia che sonò male all'orecchio del povero sarto.
"Dunque, è vero o è falso che la notte prima del funerale, presente cadavere, tu hai aiutato il sor Antonino..."
"Tognino!" ribadì l'altro, che preferiva avere il suo uomo storpiato.
"... a cercare una carta nella stanza della morta?"
"Io ho detto? quando ho detto questo? io, una carta? che carta? non so un bel niente, io, di carte... Io faccio il sarto..."
Così disse il portinaio, con aria distratta, muovendo il capo ad ogni frase, ora a destra, ora a sinistra come un automa meccanico; ma il cuore era un martellamento d'inferno. Capì subito che se si lasciava pigliare a questa trappola egli era perduto. Divenne rosso rosso, come se il vino rubato alla vecchia Ratta gli andasse tutto in una volta alla testa.
"Non so niente io, di carte..."
"Ha coraggio di spergiurare sotto gli occhi di nostro Signore questo bel galantuomo" saltò su il canonico.
"Abbiate pazienza, don Giosuè. Intellige quae dico. Il Berretta può benissimo aver detto una cosa e la gente aver interesse a capirne un'altra: va bene?"
"Sissignore, sor prevosto, che Dio lo benedica, deve essere proprio così. C'è della gente che mi manderebbe volentieri in galera, e della gente che vorrebbe vedermi impiccato. Che ne so io di questi pasticci? Io faccio il sarto, vedo e non vedo, sento e non sento, piglio da tutti e non m'intrigo nei pettegolezzi. Di che carte mi parlano?"
"Senti, il mio bravo Pietro, noi non facciamo nessun aggravio a te. Sappiamo bene che sei un galantuomo e che anche tu devi obbedire al più forte. Lasciamo stare quel che puoi aver detto o meno: e aiutaci a depurare la verità. L'hai sorvegliata tu la morta la notte avanti al funerale? Sì? bravo, bravo. Ed eri solo in camera?"
Il Berretta, coi dieci diti delle mani irrigiditi in aria, faceva ogni sforzo per poter dir di no, un bel no, che l'avrebbe salvato dal rispondere altri sì; ma non seppe sputarlo fuori. La strada del male non era la sua e il diavolo non aiuta che i suoi.
"E in quella notte non è venuto il sor Antonino?"
"Vuol dire il sor Tognino" corresse per la terza volta il canonico.
"Di' la verità, non c'è nulla di male."
"Bisogna che io mi ricordi" sillabò, alzando gli occhi alla volta, e portando alla bocca la punta d'una mano.
"Eh, eh, guarda il balordo" sogghignò don Giosuè andando colle mani fin sotto il naso del suo galantuomo.
"Noi non dobbiamo far violenze alla coscienza, caro don Giosuè. Bisogna pure che il nostro Berretta si ricordi e verifichi il fatto, spiritu et veritate. Non gli vogliamo far del male, si sa; né lui è uomo capace di far del male al prossimo, mentre ci può essere della gente interessata a far del male a lui."
"Lei dice bene, sor prevosto: che Dio lo benedica per i suoi morti."
"Lo conosco da un pezzo il babbuino: oggi gli giova di far l'indiano per non pagare dazio. Volete che non se ne ricordi? prova un poco ad alzare gli occhi, aperti ve', a questo Signore in croce e torna a ripetere: 'Non me ne ricordo'. Sostieni che il sor Tognino non è venuto quella notte, verso le due; dì': non è vero, Signor Gesù Cristo, che io ho fatto lume al padrone mentre egli cercava una carta... Ah! tu vorresti scappare, adesso."
Don Giosuè afferrò il portinaio per un braccio e cominciò a scrollarlo, come se cercasse di svegliare uno dei sette dormienti.
"Non so niente, dico..." gridò piagnucolando il poveretto con voce più scossa e indebolita.
Come diavolo il prete aveva saputo questi particolari? eran voci corse, c'eran dei testimoni, oppure era una trappola per farlo cascare? Fra i due giudici il più pericoloso non era, come si potrebbe credere, quel che pareva il più terribile, quello cioè che gridava di più, che lo minacciava, che l'irritava colla sua voce rauca, col suo dito lungo, magro, color tabacco. La forza non è sempre nella forza. Ciò che lo avviliva maggiormente, che gli toglieva l'animo di resistere e di spergiurare, che lo disarmava in quel contrasto, era la presenza bonaria e paterna di don Felice, la voce buona, carezzevole di questo buon vecchio tremolante, che mentre accaloravasi a proteggerlo, rimescolava tutte le forze morali della resistenza.
"Senti, caro Pietro," riprese la voce paterna e insinuante del prevosto "capirai benissimo che qui non si tratta del nostro interesse, né di cattive intenzioni che si abbiano contro di te, povero diavolo. Si tratta puramente e semplicemente d'un diritto di giustizia, sicuro! Si tratta del pane di molta povera gente, che si presume danneggiata non da te, povero diavolo, ma da un uomo, a cui Dio avrebbe tolto per un momento il lume della coscienza. O le voci che corrono son false e tu, il mio buon Pietro, hai il dovere di dimostrare che son false e che quello che hai potuto dire a terze persone è egualmente falso: o le voci son vere, cioè hanno fondamento nel vero, anzi tu sei stato, tuo malgrado, testimonio del vero, e allora, caro figliuolo, pensa al carico di coscienza che stai per assumere. Senza cattiva intenzione tu ti fai complice d'un ladroneccio, ti copri di una responsabilità che io, ne' tuoi panni, non vorrei per tutto l'oro del mondo portare davanti al tribunale di Dio."
"Ma se io non posso parlare" singhiozzò l'uomo, alzando le due mani sopra la testa e tenendole così aperte nell'aria. "Se ci andasse di mezzo la vita?"
"Ah, t'hanno dunque minacciato," entrò a dire don Giosuè "bene, bene, bene!..."
E fregandosi le mani, fe' una giravolta nella stanza.
"Ti hanno minacciato? e dubiti che questo Signore che ti sta sul capo sia meno forte dei prepotenti che ti minacciano? e quando pur sapessi che c'è qualche pericolo a dir la verità, puoi tu comperare la tua sicurezza a prezzo d'un tradimento? e credi che vi possa essere sicurezza nel campo della ingiustizia? e ti par bello dormire sul letto di spine de' tuoi rimorsi, il mio Pietro? in balìa al genio delle tenebre, il mio Pietro?"
Così batteva sul cuore del portinaio la voce amorosa e terribile.
"Io non ho rubato nulla a nessuno, per la benedetta Madonna! Sono un povero uomo che non fa male a nessuno; non ho detto niente a nessuno; non voglio andare in cellulare" provò ancora a ripetere con monotonia, annaspando colle mani in aria, buttando gli occhi in tutti i cantucci dov'era sicuro di non incontrare gli occhi de' suoi giudici, chinando il capo per isfuggire al baglior bianco di quel Signore in croce. "Non voglio andare al cellulare: prima mi ammazzo."
"Non è la strada più lunga per andare all'inferno, babbuino, l'ammazzarsi... Senti il parere di chi ti vuol bene, asino! non capisci che il tuo negare a noi non serve a nulla, perché ne sappiamo più di te?"
A ogni frase don Giosuè dava una ruvida scossa al suo uomo.
"Che cosa hai detto al Mornigani? non sai che ti hanno visto col lume in mano a far chiaro al tuo ladrone, voglio dire al tuo padrone?"
Il portinaio, scosso, sospinto da queste parole e dalla mano vigorosa del prete, non sapendo dove trovare un rifugio, andò a stramazzare ginocchione sulla predella, come un uomo veramente mazzolato, strinse la testa nelle mani e ruppe in tali singhiozzi, che don Felice ne sentì una profonda compassione. Voltatosi verso don Giosuè, non volle più che seguitasse a tormentarlo.
"Sta bene," disse costui "badate però a non lasciarmelo scappare."
"È un buon ambrosiano incapace a far del male."
"Fategli fare una buona confessione; io intanto corro ad avvertirne l'avvocato."
Don Giosuè uscì e ritornò sui suoi passi a prendere il tricorno, che nella furia delle idee aveva dimenticato in sagrestia. Si strinse nel mantello, ritraversò la chiesa, così invasato dal suo primo trionfo, che non salutò nemmeno con una riverenza il padrone di casa. Uscì e prese la strada più corta verso Sant'Ambrogio, dove abitava l'avvocato, senza sentire l'acquerugiola fredda che veniva dal cielo.
II
IN CASA DELLE DUE "BEATE"
Qualche giorno dopo quest'incontro, verso sera, la Colomba, la Nunziadina e Ferruccio finivano di desinare nella scarsa luce del crepuscolo - eravamo ai primi di aprile - colle finestre aperte sulla bella pianta di castagno amaro e sui giardini vestiti del bel verde tenero della primavera, quando a un tratto l'uscio sbatté e venne dentro il Berretta, colla faccia stravolta, cogli occhi fuori dalla testa, pallido come la morte.
"Dio buono, che vi è capitato?" gridarono a una voce le due donne. "A quest'ora? che volete, che c'è di brutto?"
Il vecchio portinaio venne avanti, si lasciò cadere sulla sedia, come un uomo che si sfascia, e disse:
"Sono un uomo morto".
"Che cosa dite, adesso?" gridò la Colomba già eccitata da quell'improvvisa apparizione. E muovendosi per la stanza, soggiunse: "Aspettate che accendo la lucerna".
Il Berretta con una mano tremante di paralitico fe' segno a Ferruccio di chiudere l'uscio e le finestre. Mentre il ragazzo obbediva, alla zia Colomba non riusciva d'accendere lo zolfanello sulla pietra del camino. La Nunziadina nel correre da una parte all'altra in preda alla convulsione, fece sonare nel buio le gruccette sull'ammattonato.
Finalmente la fiamma rischiarò quei quattro visi intorno al tavolo, tre dei quali si fissarono in uno come in un specchio.
"Mi ha denunciato."
"Chi?"
"Che cosa dice questo benedetto uomo" tornò a trillare la zia Colomba, che sollevò un poco lo stoppino della lampada, come se sperasse con ciò di veder meglio le parole.
La luce livida del petrolio fece parere ancor più livido il disgraziato, che da sei o sette giorni non s'era toccata la barba.
Ferruccio gli sedette vicino e col tono d'un uomo che ragiona, chiese:
"Chi vi ha denunciato? parlate chiaro; chi vi ha denunciato?"
"Ci sono state le guardie a cercarmi. O povero me! io son morto."
"Le guardie?" tornarono a domandare in coro le tre voci.
E dopo un respiro seguitarono a vicenda incalzandosi:
"Le guardie? a cercar voi? ma che guardie?"
"Ci sono state le guardie alla porta. O povero me. Io mi butto nel Naviglietto, io mi annego."
"Quest'uomo a furia di bere quella schifosa acquavite non sa più quel che si dice, non sa più" soggiunse con asprezza la Colomba.
Ferruccio, sottovoce, con pazienza, cercò di strappare di bocca a suo padre una confessione.
Perché l'avevano denunciato? chi? il signor Tognino?
"Bisogna dire che n'abbiate fatta una ben grossa se quel pezzo d'onestà vi denuncia" entrò a dire la Colomba, incrociando le braccia sul petto. "Sentiamo dunque..."
"Non ci sono le guardie? lì, lì sulla scala, è chiuso l'uscio?"
"È chiuso" disse piagnucolando la Nunziadina, facendo cantare il catenaccio.
Ce ne volle della pazienza per tirare dalla bocca di quel mezzo inebetito una storia con un costrutto.
Il vecchio Berretta non avrebbe voluto parlare in faccia al figliuolo, ma finalmente tira di qua, dàlli di là, la faccenda delle trenta bottiglie rubate alla vecchia Ratta venne fuori. Vennero in seguito le minacce che il sor Tognino aveva fatto quella tal notte, se il Berretta parlava.
"Parlar di che?"
"Della carta."
"Di che carta?"
"Del testamento."
"Testamento di chi?"
"Della vecchia."
O Signor benedetto! il sor Tognino era venuto a cercare una carta. Aveva un cappello molle in testa. Faceva freddo; lui stava vicino al fuoco. Lo chiamò a fargli lume, ma lui non voleva. Cercò anche nel letto, ma lui non aveva viste carte. Se osava parlare lo denunciava. Ma i preti avevan saputo la cosa e lo tirarono sotto il Crocifisso a giurare. C'era di mezzo il Mornigani, il mezzo avvocato, l'Olimpia e monsignor arcivescovo. Tutti lo volevano morto, cominciando da don Giosuè Pianelli. Egli non aveva visto niente, aveva detto niente a nessuno, nemmeno ad Aquilino; ma il sor Tognino aveva saputo tutto, fece la deposizione e mandò le guardie a prenderlo per menarlo al cellulare. Aveva veduto le guardie dalla bottega della sora Palmira, verso le tre e mezzo, e non tornò più a casa. Aveva fatto il giro di tutti i bastioni; al cellulare lui non voleva andare, no, no. Prima si gettava nel Naviglietto...
"Oh, oh, oh!..." urlò cacciando le mani nei pochi capelli grigi. "Mi getto nel Naviglietto!"
Mentre il Berretta raccontava a spizzico e a salti la dolorosa istoria, le donne e Ferruccio rimasero atterriti a sentire, scattando di tempo in tempo sui nervi, uscendo in parole monche di dolore, di meraviglia, di spavento, guardandosi in faccia senza voce e senza respiro.
"Voi avete aiutato quell'uomo a cercare una carta?" domandò Ferruccio, distendendo le mani sotto il viso di suo padre. "Che carta? era forse un testamento?"
"Io no, io ho fatto lume, perché ha voluto lui. Ho giurato e non ho visto niente."
"Ma le bottiglie le avete prese?"
"Le ho prese perché la Ratta non mi pagava mai. Sono stato malato; è la Giuditta che ha parlato, o me pover'uomo."
"È venuto da voi il sor Tognino?"
"Ieri sera e mi ha detto: 'So che hai parlato coi preti. Ti ho denunciato, brutta faccia di ladro'. Sono venute anche le guardie, e io sono scappato sui bastioni. Io non mangio più, non bevo più, non parlo più. Io mi annego nel Naviglietto..."
"Zia Colomba" proruppe Ferruccio con una intonazione, quasi con un grido di pianto. "Questo è brutto, questo è orribile. O quest'uomo non sa quel che dice, o noi siamo una gente disgraziata e disonorata."
E il ragazzo si prese la testa nelle mani, come se con quel gesto cercasse di tenerla ferma sulle spalle.
"Ora capisco quel che diceva l'Angiolina d'un testamento rubato. È di là il ladro" declamò la zia Colomba, agitando un pugno in aria. "Ma il ladro ha paura di avere in questo pover'uomo un terribile testimonio e lo fa arrestare. È così?"
"Ma noi non possiamo permettere che le guardie lo menino via. È mio padre, zia Colomba, oh che vergogna, pensate!"
E il giovane, non potendo più resistere alla violenza della sua emozione, cominciò a singhiozzare e a contrastare coi suoi singhiozzi.
La zia Nunziadina, non sapendo più stare a quella scena, scappò via saltellando e andò a nascondersi nello stanzino.
"Le guardie intanto non sanno ch'egli è qui," riprese la Colomba "e qui non morirà di fame. Tu potrai vedere domattina il padrone e sentirai com'è questa faccenda delle bottiglie, se pure si tratta di bottiglie. Ma mi par di vedere in uno specchio che c'è qualche altra ragione e che il ladro è di là, e un ladro grosso, di quelli che non si possono pigliare."
"Sicuro che è una cosa orribile e spaventosa" riprese a dire Ferruccio, rimettendosi a passeggiare in fretta attraverso la cucina, come se recitasse una parte sul palcoscenico. "È il disonore questo, capite, zia? ma voi, voi..." e così dicendo correva verso quel pover'uomo mezzo stordito dalla paura e dall'acquavite "voi non avete offerto di pagare? non avete detto ch'io avrei pagato? dovessi vendere anche le scarpe, dovessi vivere a pane e acqua tutta la vita, ma bisogna ch'io salvi quest'uomo dal disonore. O me poveretto, o la mia povera mamma, se guarda in terra! o zia, che vergogna!..."
E nel nervoso parossismo il ragazzo si buttò sulla sedia, appoggiò i gomiti sulla tavola, strinse le tempie nei pugni, e stette coll'occhio infocato a guardare fisso mentre il Berretta, movendo il capo ora a destra ora a manca, pareva diventato scemo dallo spavento.
La Colomba, soffocata anche lei dalla passione, cominciò col baciare la testa a Ferruccio, poi lo scosse, lo tirò a sé, inghiottendo con fatica quel gruppo di dolori che aveva in gola, gli disse a scatti, col fare d'una donna pratica di mondo:
"Bisogna che tu veda il sor Tognino, subito: cercalo per mare e per terra, finché l'hai trovato, e digli che le bottiglie le paghiamo noi: ora ti darò quei pochi denari... Se non trovi lui cerca la sora Arabella".
La Colomba abbassò gli occhi, ma, sentendo che Ferruccio cominciava a tremare come una foglia, lo prese più forte per le due spalle e, scrollandolo, soggiunse con tono quasi di rimprovero:
"Ciò che importa è che quest'uomo non vada in prigione. Sarà forse più la paura che il male; ma coi lupi non si scherza e il sor Tognino è un lupo. Se è vera la storia di questa carta, se è vero che il tuo padrone ha sporca la coscienza, sai che son gli stracci che vanno all'aria. Cercalo subito, parlagli chiaro: adesso ti dò i denari... O cara Madonna benedetta, anche questa mi era riservato di vedere."
E dopo aver smosse alcune robe per sbarazzare la strada andò in camera. La Nunziadina aveva acceso due lumini innanzi alla Madonna della Salette.
"Piglio il libro della Cassa di risparmio."
"Lo arresteranno?"
"Che arrestare? Si fa presto a dir certe cose... Lo faremo arrestar lui quel... quel... quel..."
Le parole stentavano a uscir dalla bocca della povera donna, come stenta uscir l'acqua da una bottiglia capovolta. Tornò in cucina, cacciò il libretto nella tasca di Ferruccio, abbottonò la giacca, mise in testa al figliuolo il cappello e accompagnandolo fin sulla scala al buio, seguitò a dirgli:
"Va da lei, di' che sei nipote della Colomba, che serviva in casa dei Grissini. Avete fatto la prima comunione insieme. Contale la storia delle bottiglie, della carta, delle guardie e falle vedere che non si deve disonorare un povero giovane per un poco di vino. Torna subito. Non dire che tuo padre è qui. Recita un'avemaria alla Madonna e che la tua povera mamma, se può, interceda per te".
III
UN'ANIMA IN PENA
Era sera fatta.
Ferruccio prese la via della Guastalla, quasi deserta in quell'ora, e guidato dalla riga dei lampioni, che mettevano un filo luminoso nel buio del suo cervello sconvolto e annuvolato, venne al ponte di porta Vittoria, traversò la piazza spopolata del Verziere, provando l'impressione di chi arriva per la prima volta in una città straniera, o meglio ancora di un prigioniero che ignoti nemici trascinano a una misteriosa destinazione.
Sperò di trovare il signor Tognino al caffè Martini in piazza della Scala, dove convengono la sera gli uomini d'affari a consultare gli ultimi telegrammi di borsa, e incontrò per caso il Botola, un brutto vecchio mal vestito che da qualche tempo veniva nello studio a discorrere in gran segretezza col padrone. Il pignoratario lo chiamò e cominciò a fargli un gran discorso a proposito del Mornigani e d'una villa sul lago di Como... ma Ferruccio non aveva il capo a queste cose. Lo piantò, traversò di nuovo la piazza della Scala, e per la via di Santa Margherita venne verso la via Torino.
Era il momento del maggior movimento. I cittadini, approfittando delle prime giornate di primavera, uscivano a passeggiare in mezzo allo splendore delle loro belle botteghe, sotto un cielo fatto chiaro e bianco dalla luna che lentamente si distrigava dai pizzi del Duomo. Passeggiavano, affollavano i portici e la Galleria, riempivano i caffè colla pace di chi ha guadagnato il suo riposo. Ferruccio traversò la piazza del Duomo quasi a corsa. In tre minuti fu in via Torino a chiedere del principale.
"Lui non c'è," disse la portinaia "è andato in campagna, credo alle Cascine."
"C'è la signora?" domandò esitando.
"Lei sì, ma non so se a quest'ora può ricevere. Provi."
Il ragazzo cominciò a montare le scale a due gradini per volta.
Arabella non era una conoscenza nuova per il figliuolo del Berretta e anche lei avrebbe dovuto ricordarsi del Ferruccio del portinaio che l'aveva accompagnata molte volte bambina alla scuola delle monache, quando veniva in casa sua in Carrobbio a portare il pane e il latte della colazione. Ma la signora, che non poneva mai piede nell'ammezzato, seppe solamente molto tardi che ci fosse uno studio in casa, e riconobbe il giovinetto la prima volta, quando presso le feste di Natale venne a raccomandare la povera Stella. Incontratisi, avevano rinnovata la conoscenza. Parlarono di vivi e di morti o per meglio dire parlò lei, perché in quanto a lui, preso dalla soggezione e dal rispetto per la bella signora, non aveva saputo che rispondere sissignora e nossignora. La padroncina aveva promesso di raccomandarlo a suo suocero e forse Ferruccio dovette a lei se il principale gli aumentò lo stipendio alla fine dell'anno.
Nei primi mesi del matrimonio Ferruccio aveva fatto un gran discorrere colle zie dei preparativi, della bellezza e della bontà della sposina, poi a un tratto cessò di parlarne e non la nominò più come se fosse morta.
Che cosa era accaduto?
Per quanto egli guardasse dentro di sé non gli riusciva di vederne il motivo; ma tutte le volte che il discorso cadeva naturalmente o era condotto da altri a nominare la signora Arabella, il ragazzo (e a vent'anni egli si sentiva un vero ragazzo) procurava di uscirne presto, o di dargli un'altra piega, qualche volta le fiamme gli uscivano dal viso, o socchiudeva gli occhi, come fanno certi timorati di Dio, quando sono costretti a guardare in faccia a una bella creatura.
Da solo a solo, specialmente di notte, quando si svegliava in mezzo a un sogno lusinghiero, si compiaceva di contemplarla nel buio, a occhi aperti. Capiva che era una sciocchezza, una baia, un passatempo poetico, ma nella sua povertà e nella sua miseria di spirito questa bella immagine signorile teneva il posto che una Madonna dipinta tiene sopra un povero altare di campagna: finché si abituò a riporre la bella visione tra le squallide idee della sua vita di mortificazioni e di stenti con quella devozione con cui la Nunziadina teneva riguardata nelle logore pagine della sua Filotea una splendida immagine di pizzo a fondo d'oro, a cui dava ogni tanto un'occhiata per far belli gli occhi.
Perché l'avrebbe cacciata via questa dolce seduzione che lo proteggeva così bene contro le tentazioni e le disperazioni volgari? Altri giovanotti della sua età, che hanno denari da spendere, e anche quelli che non ne hanno, talvolta cercano goder la vita nella compagnia di donne senza onore, e consumano la salute e i quattrini in vizi e in passatempi vergognosi. Egli, senza credere con questo di far male, compiacevasi del suo segreto, se lo portava nel cuore misteriosamente custodito, godeva insomma castamente di un bene, che non rubava a nessuno, e che nessuno gli poteva rubare, perché veniva tutto da lui e, dirò così, dai suoi risparmi morali e dalle sue mortificazioni.
Questo primo fuoco del giovine commesso si sarebbe spento a poco a poco da sé, divorato da qualche altro fuoco più naturale, se la guerra spietata mossa dai diseredati e dai parenti alla famiglia Maccagno non avesse trascinato anche lui a dividere le ansie e i patimenti della poverina.
Gli ignobili insulti che la donnaccia aveva lanciato contro la signora, furono per Ferruccio peggio che una manata di fango negli occhi. In principio fu una fortuna ch'egli non avesse spirito di reagire. Forse si sarebbe compromesso troppo. Ma la persecuzione non fece che ribadire e dare consistenza di patimento a un sentimento, a cui non aveva ancora trovato un nome.
Fu questo patimento che, traboccando a suo dispetto, gli trasse un fiume di lagrime il giorno che aiutò a portare la povera signora svenuta su per le scale.
Fu questo patimento o spavento che lo spinse e lo fece correre fino alle Cascine in cerca della signora Beatrice e che lo persuase a rimanere in una casa, dove ormai capiva di non aver più nulla da guadagnare.
Ma improvvisamente, ecco, sentivasi ghermito anche lui dal destino che perseguitava buoni e cattivi. Una moneta d'oro può per qualche tempo coprire una piccola macchia d'olio: ma l'olio è più forte dell'oro. Così il male, come la macchia d'olio, dilatandosi, usciva a deturpare le anime più innocenti.
Era orribile il pensiero che, per salvare la fama e la ricchezza d'un prepotente, suo padre dovesse andare in prigione! Ed egli aveva fino a ieri mangiato il pane di questo prepotente! Non capiva ancora bene, troppe furie uscivano in una volta dal suo cuore in tempesta, ma sentiva dal suo stesso spavento che in questa orribile guerra d'interessi e di prepotenze era in giuoco la vita di qualcuno.
Ansante e strabuffato si attaccò al cordone del campanello e dette una forte strappata.
Venne ad aprire l'Augusta che, vedendolo così slavato e stravolto, domandò subito che cosa fosse accaduto.
"Ho bisogno di parlare alla signora Arabella."
"Una disgrazia? venga avanti, vado a vedere se è ancora su. Di solito si ritira presto."
La donna condusse il giovane nel salotto da pranzo, collocò una lampada a globo di vetro sul caminetto e andò ad avvertire la signora.
In piedi cogli occhi fissi al globo luminoso, Ferruccio rimase solo, ancora ansante e affannato per la corsa fatta, travolto da una vertigine di tutti i sensi, in cui le molte e torbide sensazioni precipitarono in un affanno solo profondo e straziante, che assorbì tutte le forze della sua vita.
Si pentiva d'essere venuto a confessare la sue vergogne alla signora, come se temesse di rompere colle sue mani un delicato e prezioso incanto coll'accusare sé, figlio di un uomo cercato dalla polizia; ma nello stesso tempo sentiva che non si sarebbe mosso di lì, prima d'aver parlato a lei, la sola in cui c'era a sperare qualche cosa di bene.
E stava così assorto, le mani in mano, fermo sulle gambe indolenzite, assopito nella luce della lampada, vagando in una confusione oscura d'idee e di affetti, quando una voce lo scosse. Non si era neanche accorto di lei.
IV
UN'ALTR'ANIMA IN PENA
Arabella da quindici giorni aveva lasciato il letto, ma la cattiva stagione non permetteva ancora di parlar di campagna.
Molti fatti nuovi e imprevisti erano intervenuti a mutare il suo sentimento, a scuoterla da uno stato di abbattimento e d'inerzia morale, che non di rado è così comodo confondere coll'umiltà e colla rassegnazione.
La lettera di don Felice (persona degna d'ogni fede) era stata per lei come la chiave di molte cose misteriose, che prima non sapeva spiegare, una fiaccola che, se non rischiara tutti gli angoli di un brutto sotterraneo, è abbastanza per mostrare l'orrore del sito e per non invogliare a rimanervi di più.
Man mano che le forze fisiche tornavano e che essa ripigliava le sue abitudini nella bella casa fresca e nuova, presa da un senso di abbandono, quasi di squilibrio nel corpo, cresceva in lei il dubbio, se poteva rimanere senza rimorso e senza vergogna a godere della sua agiatezza, acconciarsi, come scriveva don Felice, alla sua parte di complice inerte e soddisfatta dell'ingiustizia, continuando a godere i frutti d'una ricchezza, per la quale aveva perduto il frutto più caro del suo sacrificio, per la quale aveva quasi bussato all'uscio della morte.
Se Dio non l'aveva voluta di là, questo era un segno che il suo dovere non era ancora tutto compiuto. Ma il suo dovere, oggi, non poteva più essere, come ieri, semplicemente d'obbedire e tacere.
Il suo dovere era di combattere, forse più per gli altri che per sé. Segretamente scrisse a don Felice chiedendo qualche schiarimento e dei consigli. L'Augusta portava e riportava le lettere. Non chiesta e non desiderata, arrivò anche una lettera della zia Sidonia, che scusavasi di non venire ad abbracciare la nipote come avrebbe desiderato il suo cuore. La compassionava mostrando di separare la causa di Arabella da quella di suo suocero, uomo indegno del nome di fratello, che come aveva speculato sulla bontà dei signori Botta, costringendo un povero angiolino a sposare un uomo indegno del nome di marito, così sperava di speculare sulla dabbenaggine dei parenti, confiscando un'eredità carpita colla frode e col tradimento.
E come se queste scosse non bastassero, si aggiunsero altre noie da parte della mamma.
Questa benedetta donna si era fissa in mente che Arabella avesse i sacchi dell'oro in casa e che il matrimonio era stato fatto principalmente per aggiustare gli strappi, per rabberciare i buchi, per provvedere a tutti i bisogni della famiglia. È vero che il signor Tognino aveva dato di frego a un grosso debito, ma i bisogni erano più grossi. All'avvicinarsi della Pasqua scadeva una rata d'affitto, e i fieni erano in ribasso, le bestie valevan nulla e il povero papà Paolino, uomo in croce, non sapeva a che santo votarsi.
La promessa che aveva fatto il signor Tognino di interessarlo nell'azienda di San Donato non aveva ancora portato a nulla, perché la guerra dei parenti e gli intrighi di una causa imprevista tenevano le cose sospese. Arabella, a sentir la mamma, avrebbe potuto o dovuto fare di più.
Suo suocero aveva della bontà per lei, non le diceva mai di no, e se la ragazza avesse fatto presente lo stato della famiglia che cosa erano due o tre mila lire per un uomo quasi milionario?
Una volta la buona donna disse tanto, che persuase suo marito a venire a Milano a discorrere personalmente colla figliuola. Papà Paolino venne, ma trovò Arabella così pallida, così malinconica, con un'aria così poco felice, che dopo aver girato e rigirato un pezzo di cappello nelle mani e masticato dei discorsi vaghi, se ne tornò via senza dir nulla, con un velo sugli occhi.
La mamma pensò allora di ricorrere a qualche ambasciatore più coraggioso e più eloquente. Che cosa non avrebbe fatto la povera donna per il bene della sua famiglia?
La malata cominciava a uscir dal letto. Suo suocero, sempre attento e premuroso, aveva pensato a farle regalare da Lorenzo una ricca vestaglia di lana, tutta bianca, con dei risvolti di seta celeste e badava attentamente che le stanze fossero ben riscaldate e che quello zoticone non portasse in casa il puzzo del tabacco e del cognac.
Più volte, combattuta tra il sì e il no, essa fu sul punto d'approfittare di queste buone disposizioni di suo suocero per consegnargli la lettera di don Felice; ma ebbe paura sempre di far peggio, d'irritare il vecchio, di chiudersi la via a comprendere il resto.
Un giorno, in principio di quaresima, sedeva nella sua poltrona davanti al caminetto, ancor debole e svogliata, quando l'Augusta venne ad annunciare la visita di un uomo di campagna e d'un ragazzetto.
Entrò il Pirello della Cascine, con un cesto sul braccio, in compagnia di Naldo, che aveva una lettera della mamma. Erano i soliti rimproveri. Nel suo stile blando e lagrimoso, la mamma finiva coll'accusarla d'ingratitudine e di cattivo cuore. Se non voleva procurare le due mila lire, consegnasse almeno duecento lire subito in mano del Pirello: o preferiva esporre sua madre e il suo benefattore al disonore di un sequestro?
Le facce contrite del vecchio contadino e del ragazzetto facevano un muto commento alla lettera.
Arabella, colta in un momento di malinconia nervosa, contrastata, offesa nelle sue intenzioni e ne' suoi pensieri, accasciata da un rancore che non trovava in nessuna parte compatimento, invece di interrogare quei muti ambasciatori di tristezza, cominciò a piangere come forse non piangeva da un pezzo, come forse non piangeva più dai giorni della sua fanciullezza; era un pianto che da tre o quattro mesi andava via via addensandosi nel suo cuore.
Naldo, ammaestrato dalla mamma, si accostò alla sorella, e carezzandola, le disse con una vocina di pitocchetto:
"Fallo in memoria del nostro povero papà, Ara..."
Il Pirello, spremendo anche lui due lagrime di compassione colla cantilena propria dei villani furbi, che cercano d'intenerire un padrone in buona fede, entrò a dire:
"Fa proprio pietà ai sassi, povero sor padrone! Domani deve pagare una bestia, e il mediatore ha detto che se non ha i denari sequestra il latte e il formaggio cosa che, oltre il dispiacere, è una malora in questa stagione. Se ci fosse il fieno alto, pazienza, ma la Merica seguita a mandar giù roba, che oggi come oggi, vale di più, con poco rispetto parlando, quel che si mette sul prato, che non quel che si raccoglie. Povero padrone! con quel cuore che darebbe via anche la camicia, è proprio tribolato."
Naldo, vestito di pochi panni mal lavati, col peggior paio delle sue scarpe sui piedi, andava ripetendo colla nenia imparata:
"Fallo per il nostro povero papà, Ara."
Arabella con una piccola scossa di donna irritata lo fece tacere; ma pentita del suo mal garbo se lo strinse subito al cuore, lo baciò sulla fronte, gli accomodò il colletto e la cravatta, mentre contemplava nei lineamenti delicati e signorili del povero ragazzo una sembianza che si allontanava sempre più dalla sua memoria, quasi ottenebrata da una nebbia di nuovi dolori.
"Darò quel che potrò" disse alzandosi, e passò nella camera da letto.
Essa non aveva denari, perché suo suocero amava tener lui i conti della casa; ma pensò che avrebbe potuto disporre liberamente, senza rimorso, di una bella fornitura di corallo, unico avanzo salvato e ricuperato dallo zio Demetrio dal naufragio di casa Pianelli. Questo astuccio era la sola ricchezza che aveva ereditata da suo padre, la sola dote che aveva portato andando sposa.
Di questo piccolo tesoro, che per la sua antichità e per il lavoro artistico poteva valere un prezzo, come si dice, di capriccio, essa poteva liberarsene senza correre il pericolo di dar via roba non sua, e poiché l'accusavano d'ingratitudine e di cattivo cuore voleva dimostrare a' suoi che dava quanto aveva di più caro e di più geloso.
Aprì il cassetto dove teneva le sue robe più fine, e tra i pizzi e le garze cercò il vecchio astuccio verde dagli orli consumati; ma non ve lo trovò più.
Turbata da quel senso di penosa meraviglia che ci assale in questi casi, quando non si osa sospettare della gente che ne sta intorno e non ci si rassegna a credere agli occhi propri, rimandò le sue ricerche a più tardi, raccolse invece due o tre anelli d'oro in uno scatolino, anche questi memorie del passato, vi aggiunse la medaglia d'argento degli esami, e consegnò tutto a Naldo, con un biglietto per la mamma.
"Credo che questi oggetti basteranno per ora a impedire un sequestro" disse al Pirello. "Domani manderò altre cose, se sarà necessario..."
E, quando furono partiti, tornò col batticuore a cercare il suo vecchio astuccio verde; aprì tutti i cassetti, buttò in aria ogni cosa.
L'Augusta, una buona ragazzona friulana, che nei pochi mesi del suo servizio aveva imparato a voler bene alla padrona, la sorprese nel momento che, affaticata, cogli occhi riarsi dalle lagrime non asciugate, tentava inutilmente di rimettere i cassetti a posto.
Arabella non poté nascondere il motivo delle sue lagrime.
Oltre il bene che la padroncina sapeva acquistarsi colla sua bontà, c'era per l'Augusta un'altra ragione fondamentale che la spingeva a proteggere la sua siora: ed era l'odio accanito che quel pezzo di friulana portava ai siori omeni. Questi dovevano avergliene fatta una grossa al suo paese, da dove era quasi fuggita, una grossa a cui non accennava che con frasi e con pugni in aria, ma che non avrebbe dimenticato più, come non si dimentica più un male irreparabile. Nei pochi mesi che serviva in casa Maccagno aveva avuto campo d'osservare che gli omini sono malignazi, birboni, egoisti anche a Milano come al suo paese, forse come dappertutto, tranne forse quel povero putelo che scriveva nel mezà, con quegli ocioni neri e grandi come parioli e con quei riccioloni che facevan vogia a vederli.
L'Augusta non avrebbe voluto fare la spia, perché non era nata per questo mestiere; ma la siora poteva sospettare di lei e la verità è sacrosanta come la messa cantata. Dopo aver tentennato un pezzo la testa, come se pesasse il pro e il contro, incrociate le braccia al petto, disse inchinandosi verso la padrona, che non cessava mai dal rimestare nei cassetti:
"So mi dove che 'l xe sto astucio".
"Parla, dunque."
"L'ho visto in te la camera del sior."
Avvertita da un pronto consiglio di prudenza e messa in guardia contro le insidie, Arabella ebbe la virtù di reprimere un senso di stupore e d'irritazione, mostrando di prendere la cosa naturalmente. Mandò l'Augusta fuori di casa con un pretesto, e corse a far nuove ricerche nella stanza di Lorenzo.
Era la prima volta, dopo la grave malattia, che osava porre il piede nello studio del signor agente di cambio, trasformato in poco tempo in una specie d'antro o di covile, tanto era il disordine e lo scompiglio della roba.
Il caminetto, il tavolino, il letto, erano più che ingombri, sepolti dalle cose più disparate, messe là, buttate là, e dimenticate; stivali, bottiglie di liquori, scatolette, cartuccie, pistole, morsi di cavallo, pipe e giornali illustrati e il tutto condito di quell'acredine speciale che manda il tabacco trinciato di seconda qualità, delizia e ristoro dei cacciatori di forza.
Arabella, superata l'afa e la ripugnanza, cominciò a cercare con febbrile impazienza il suo astuccio verde. Che cosa l'aveva persuasa a credere così subito alle indicazioni di una donna di servizio? Non era in istato di rispondere, ma sentiva quasi che la spiegazione data dall'Augusta non poteva essere più vera e più naturale.
Cominciò a cercare cogli occhi intorno, sui tavolini e sulle sedie, e non trovando quel che le stava a cuore di trovare, provò ad aprire qualche cassetto della scrivania, colla mano tremante di una doppia emozione, tra il desiderio di ritrovare un oggetto caro e il timore di scoprire qualche cosa di più triste e di più penoso.
Durante la lunga malattia di sua moglie, Lorenzo, abbandonato a se stesso, precipitò nelle vecchie abitudini, da cui non era uscito se non come un soldato ubriaco, che fa degli sforzi enormi per star diritto innanzi al caporale.
Ogni cosa intorno a lui parlava di un uomo incapace di un pensiero d'ordine e di un'elevata aspirazione. Arabella si arrestò un minuto a contemplare quel gran disordine con un senso di scoraggiamento. La vista di un vecchio mazzo di carte, abbandonato sul camino, richiamò ciò che più volte si era presentato al suo pensiero, vale a dire la possibilità che Lorenzo fosse tornato al vizio di prima. Il giuoco è una passione terribile, che non perdona, secondo essa aveva udito dire: e forse la sua bella fornitura di vecchio corallo era andata a pagare un nuovo debito...
La mente correva ancora dietro a questi presentimenti quando, in un cassettino a destra, la mano, frugando, cadde sull'astuccio. Fu un attimo di gioia; un attimo. L'astuccio era vuoto.
Vuoto! - Questa parola rimbombò nella testa per un istante e rese ottusi i suoi sensi.
La prima idea fu di parlarne a suo suocero, che rappresentava il giudice della casa; ma un secondo riflesso fece presente quel che la gente diceva e scriveva anche di lui. Qual giudice? Essa era in mano ai ladri...
Questa volgarità di parola scattò, quasi con dispetto, dal fondo amareggiato della sua coscienza, l'avvilì, come se per la prima volta sentisse e vedesse la volgarità della sua casa insudiciare la dignità di una donna onesta.
Era una casa di ladri! Come pretendere che questi ladri restituissero la roba sua? che cosa scrivere allo zio Demetrio, che a riscattare quel tesoro di famiglia aveva consacrato tutti i risparmi di una vita sobria e solitaria? E un vagabondo gliel'aveva carpito, approfittando d'un istante di delirio o di debolezza, forse penetrando di notte, come un ladro volgare, nella sua camera... C'era ben motivo di piangere; ma con suo stupore gli occhi non davan lagrime: qualche cosa di forte e di ribelle vi si opponeva.
Dai cassettini uscirono dei vecchi ritratti di donne. Eran le antiche simpatie di suo marito, il suo genere, come soleva esprimersi egli stesso, parlando delle avventure galanti degli amici. Eran forse le memorie non distrutte di un passato allegro, forse non dimenticato, forse rimpianto... chi sa? forse ricercato. Anche quelle care creature dalle gonnelle corte, dalle pose arrischiate avevano preso col tempo una forte tinta di tabacco. Le buttò via con schifo. Essa non poteva essere gelosa di questo passato, per quanto ripugni a una donna onesta di vedere attraverso a quali viottoli suo marito è arrivato fino a lei.
C'era anche un libro in quel tritume di carta che rappresentava gli affari del signor agente di cambio, un logoro romanzo tradotto, dalla copertina gialla, che portava scritto in un angolo un nome di donna.
E dal libro uscì un ritratto, lucido e fresco, che pareva fatto ieri. Era una donna non molto giovine ma di una bellezza maestosa e teatrale.
Mentre la moglie onesta sforzavasi di trovare dei sensi logici nella torbida violenza da cui fu assalita, il suono di un passo, e uno sbattere di usci nella stanza vicina, la strappò repentinamente al suo dolore. Richiuse i cassetti, dopo avere deposto il libro, ma nascose l'astuccio e il ritratto nell'ampia manica della vestaglia. Si sforzò di alzarsi, ma non poté, come se a un tratto le venisse meno la forza nelle gambe.
Coi gomiti appoggiati alla scrivania, strinse nelle mani la testa che mandava vampe di fuoco, mentre un brivido le corse per tutto il corpo, le parve che tornasse la febbre terribile dei primi giorni.
Lasciò passare una lunga visione di mali, come un ingenuo che giunto alla riva di un gran fiume si ferma ad aspettare che l'acqua passi tutta, prima di tentare il guado. Quando la prima tempesta fu alquanto sedata, trovò che in fondo al suo cuore non c'era soltanto del dolore...
Non avrebbe osato sperare di trovarci tanto orgoglio!
Ed era un orgoglio amaro ed aspro, che dava un vigore insolito alla sua natura, come certe medicine ripugnanti al palato che rinforzano la fibra.
Se non le fosse sembrato un assurdo, avrebbe osato dire che dal mezzo di questo suo dolore scaturiva una vena di acre piacere, o, se piacere è dir troppo, di soddisfazione selvaggia, qualche cosa insomma di ancora indecifrabile, che si sarebbe potuto paragonare al sentimento che prova una schiava affranta dalle verghe quando vede il furore del suo padrone scagliarsi su un altro corpo ignudo.
Quando aveva essa amato codesto suo padrone, perché dovesse fargli l'onore d'essere gelosa?
E perché avrebbe odiata a morte la donna che, frammettendosi, qualche poco glielo contrastava?
Era sorpresa di sentirsi così calma e così ragionevole davanti al testimonio della sua umiliazione; ma capì ben presto che da quell'uomo non poteva venire a lei nessuna umiliazione, che quella donna poteva aver nome anche liberazione.
L'enorme mare di ribrezzo, che l'anima e il corpo avevano assaporato a goccia a goccia in quattro mesi di matrimonio, soverchiava già i limiti della sua pazienza e del suo dovere. Qualcuno finalmente gettava una fune alla vittima vicina ad affogare.
Prese con sé il ritratto di Olimpia come un documento, e pensò di chiedere alla zia Sidonia, già così disposta a compatirla, delle spiegazioni che la buona zia era smaniosa di dare colla speranza di avere nella nipotina una forte alleata nella gran guerra che i parenti e gli offesi facevano ai Maccagno.
Per alcuni giorni non si mostrò diversa in casa; anzi cercò di essere lieta e disinvolta. Guardandosi nello specchio si trovò per la prima volta meno pallida. Anche la voce, se doveva giudicare da ciò che ne sentiva, aveva acquistato un tono più vibrato e sicuro.
Qualche cosa di forte e d'individuale nasceva in lei. Forse la monachella di Cremenno aveva finito di patire... Dio, la ragione, la giustizia, l'opinione pubblica erano con lei e per lei. Ecco perché, quando l'Augusta venne ad annunciare in ora così insolita che Ferruccio desiderava parlarle, corse in sala, col passo ardito di chi si muove al primo segnale della battaglia.
V
LA PRIMA BATTAGLIA
"Che c'è? una disgrazia?" chiese al giovine.
"Sì, una disgrazia, una terribile disgrazia" esclamò Ferruccio, aprendo le braccia e socchiudendo gli occhi: "una cosa orribile, se lei non ci aiuta, buona signora."
"Che cosa?" chiese Arabella, conducendo il giovine verso il canapè e invitandolo con un gesto a sedere.
Ferruccio, con voce contristata e riscaldata dal dolore, cominciò a raccontare il suo caso, senza mai alzare gli occhi in viso alla signora, descrisse la disperazione del povero suo padre, quando vide le guardie sull'uscio venute per arrestarlo, e fece sentire tutto lo strazio di un cuore generoso ed onesto all'idea del disonore che sarebbe pesato su tutta la sua vita.
"Pensi che disgrazia anche per me, se il signor Tognino fa questa figura a quel povero uomo. Pensi, un vecchio di sessant'anni! un vecchio di sessant'anni che viene condotto via come un malfattore. O Dio, Dio, Dio..."
Ferruccio si coprì la faccia colle due mani. L'animo intimidito e scontroso, eccitato e scosso dalla sferza tagliente del dolore, snodavasi e usciva di mezzo ai piccoli impacci dell'ignoranza e della soggezione, trovava la sua voce naturale, e colla voce l'eloquenza che tocca e che persuade. Era forse la prima volta che l'anima romantica della povera Marietta parlava con tanto fervore nella voce del figliuolo; quasi se ne accorse egli stesso, soffermandosi una volta in mezzo alla corsa sfrenata della sua disperazione ad ascoltare una voce, che parlava forte e commovente al suo stesso orecchio.
"Lei che è tanto buona, lei che è l'angelo di questa casa, lei, cara signora Arabella, non deve permettere questo castigo. Pensi che è come condannare a morte un povero vecchio coi capelli bianchi. È come dire a un povero giovine di vent'anni: va, sei disonorato per sempre... No, no, per amor della mia povera mamma non ci facciano questa tremenda figura. Io pagherò tutto, due volte, tre volte: servirò tutta la vita per nulla, ma dica al signor Tognino che per così poco non si uccidono due uomini. A lei vuol bene, a lei non dirà di no, e il Signore l'ha messa in questa casa, buona signora, apposta per impedire molto male..."
"Quando è accaduto tutto ciò?..." interruppe Arabella, commossa dalle parole e dalle ingenue dichiarazioni del giovine.
"È cosa che risale a questo inverno. Il signor Tognino aveva quasi perdonato, ma ora per un altro motivo vuol dar corso alla denuncia."
"Quale altro motivo?"
"Mio padre avrebbe detto a qualcuno d'aver aiutato il signor Tognino a cercare una carta."
"So ormai di che cosa si tratta e ho promesso già ad altri di far sentire anche la mia voce in questa dolorosa faccenda."
"La zia Colomba mi ha dato questo libretto di risparmio e mi ha raccomandato di consegnarlo a lei."
"Non c'è bisogno di denaro... anzi ce n'è anche troppo. Metta via il suo libretto e lo riporti alla sua buona zia. Io cercherò di parlare domani mattina per tempo a mio suocero, e sarà la volta che ci parleremo chiaro."
"Se lei non ci salva, io non so quel che farò nella mia disperazione... Sento che è meglio morire..."
Arabella, sentendo parlar di morire, essa che era stata a un filo dalla morte, s'immedesimò nella tristezza del giovine, e dimenticò per un istante, quasi affascinata dalla sua stessa malinconia, le circostanze che lo avevano condotto a implorare il suo soccorso. Vide che Ferruccio, lottando con se stesso per non piangere, divorava le sue lagrime, e celava gli occhi per paura di incontrarne altri due che l'avrebbero avvilito. Avevan fatta la prima comunione insieme e per il ragazzetto essa era stata una specie di maestra, o di sorella maggiore.
"Capisco il suo dolore e il suo spavento, povero Ferruccio, e la ringrazio di essere venuto a parlarmene. Ciò mi persuaderà a uscire da un'inerzia morale della quale già mi sentivo colpevole. Siamo impigliati un po' tutti in quest'intrighi, e lei vede che io ne ho sofferto per la prima."
Ferruccio rivedeva la signora per la prima volta dopo il triste accidente, e, alzando gli occhi per commiserarla, gli parve di rivedere una bellezza più radiante e più consacrata. Il viso attenuato dalla malattia, la bianchezza quasi di marmo, gli occhi grandi e splendidi, i capelli che fluivano in un certo disordine sui pizzi della vestaglia bianca, la voce che lo incoraggiava e lo avviliva nello stesso tempo, tutto ciò ebbe la virtù di portare anche lui un istante al di fuori o al di sopra del suo stesso patimento.
"Vada a casa a consolare la sua gente e dica pure che prendo la cosa sopra di me. Lasci all'Augusta il suo indirizzo e domani mattina manderò a portare io stessa la risposta. Ne farò una questione mia personale. Un giorno o l'altro avrei dovuto cercare un pretesto per dichiarare anch'io la mia guerra. È necessario uscirne, e al più presto. Vada e non dica più che gli manca la forza di vivere: è negar la Provvidenza, Ferruccio."
"O signora Arabella!..." singhiozzò il giovine.
Assalito, quasi travolto dalla violenza morale di quel dolce rimprovero, il romantico figlio della povera Marietta piegò un ginocchio sopra uno sgabello ch'era ai loro piedi, e in atto di compunzione e di supplica baciò con riverenza e con umiltà popolana la mano della signora, mormorando:
"Mi scusi, grazie, mi scusi".
In quel punto l'uscio s'aprì con furia, ed entrò il signor Tognino in persona. Da un mese era in sospetto di tutti e di tutto. Proprio in quel giorno il Botola gli aveva dato per certo che don Felice aveva scritto segretamente alla nuora e che questa aveva già avuto dei segreti colloqui col prevosto.
Tutto ciò il Botola aveva saputo dal Mornigani che da qualche tempo gli faceva la corte. Per questa stessa via era stato informato del tradimento del Berretta. Avvertito dalla portinaia che c'era di sopra Ferruccio e sentito dall'Augusta che il giovine pareva un morto in piedi, entrò nel salotto coll'ansietà di chi s'affretta a scongiurare qualche altro pericolo. Ma nell'entrare si arrestò di botto, come se urtasse contro una spranga di ferro.
"Eccolo, proprio a tempo!..." esclamò Arabella, alzandosi repentinamente. La sua voce era ferma e tranquilla, ma soffrì di sentire una vampa di rossore scaldarle il viso. "Questo povero giovine è venuto ad implorare grazia per suo padre. Mi si raccomandava in ginocchio colle lagrime agli occhi."
"Quel signor povero giovine favorirà a prender l'uscio e dopo l'uscio le scale e non metterà più piede in casa mia."
Il signor Tognino recitò queste parole con tono aspro e risoluto, indicando col braccio teso l'uscio semiaperto. E in quella voce sinistra, che Arabella non conosceva ancora, scaturì per un istante il vecchio Valsassina del Borgo. Ritto nel mezzo della stanza, rimase un bel pezzo in quella posizione, come se stentasse a uscire da una eccitazione malvagia che gl'induriva i muscoli.
"Senta, sor Tognino..." provò a dire il ragazzo, congiungendo le mani.
"Va via!" gridò l'altro, piegando una volta il braccio e stendendolo di nuovo a indicare la porta. "Non ho nessuna compassione di chi fa lega coi birbanti e di chi mi insulta in casa mia."
E volgendosi ad Arabella, che stava come impassibile a contemplare la scena, soggiunse con un risentimento che mirava ad ingrossare le cose:
"Al padre di questo povero giovine ho già perdonato una volta; ma ora vedo che mi paga coll'ingratitudine e lo tratto da ladro".
"Mi ha mandato la zia Colomba..." provò a dire Ferruccio, mostrando il libretto di risparmio.
"T'avesse mandato Cristo, la denuncia è fatta. Volete la guerra e io ve la faccio. E tu, ripeto, piglia quest'uscio o ti, ti..."
E il figlio del Valsassina, piegando i diti ad artiglio fece due passi contro il giovine, con un moto minaccioso di belva ferita, che il contegno modesto e umile del povero figliuolo non aveva provocato.
Arabella entrò in mezzo e disse freddamente a Ferruccio:
"Vada, obbedisca, non insista. Piglio la cosa sopra di me..."
E lo accompagnò ella stessa fin all'uscio, che richiuse. Quindi si voltò per cercare la sua bestia feroce.
Il signor Tognino gettò sul canapè il cappello - quel medesimo cappello molle a larghe tese, che il Berretta gli aveva visto in testa la notte famosa - e cominciò a camminare con passo adirato tra il caminetto e la parete opposta.
"Mi fanno la guerra e io mi difendo. Quell'asino va a dire ai preti che io ho rubata una carta e io dimostro al questore, perbacco! ch'egli mi ha rubato cinquanta bottiglie di vin vecchio e mezzo carro di legna. Son nel diritto, sì o no, risponda?"
La domanda era rivolta in modo da far intendere che esigeva una risposta.
Arabella, in piedi presso il caminetto, colle mani appoggiate alla pietra, finse di non aver capito.
Nel bagliore della lucerna, i suoi capelli irraggiavano una specie di aureola fosforescente intorno al volto delicato e colorito dall'animazione della battaglia interiore.
Il vecchio fissò l'occhio semichiuso su quella splendida visione di donna, e, inteso a farsi dare ragione per forza e ad offuscare colla violenza delle parole l'impressione che le parole di Ferruccio avevano potuto lasciare nell'animo di lei, seguitò:
"Non le pare nemmeno che le mie parole meritino una risposta?" e si arrestò su due piedi, incrociando le braccia sullo stomaco, fissando lo sguardo sopra la sua bella nuora, che aveva un contegno quasi provocante questa sera.
"Scusi, signore," prese a dire Arabella freddamente "io non posso giudicare di fatti che non conosco. Ma so che i torti si fabbricano anche a furia di ragioni."
"Lei però dice di non conoscere i fatti..."
"Non li conosco e non desidero nemmeno di conoscerli..." rispose con accento più risentito, fissando i suoi occhi lucenti in faccia al vecchio, che un poco li sostenne, ma poi abbassò i suoi e ritornò a passeggiare, il capo avanti, le mani dietro la vita, colle quali seguitava ad agitare con stizza nervosa un paio di guanti sciupati.
"Io dico soltanto questo, signor Maccagno, che non è segno di forza il mostrare di aver paura di un povero vecchio."
"Sa lei quel che si dice?" interrogò di nuovo il suocero, fermandosi su due piedi e fissando negli occhi la nuora quasi per leggervi quel che vi era d'entro.
Già non trovava più la dolce pecorella di prima. I preti già l'avevano guastata. Gli occhi del vecchio Maccagno schizzavano fuoco.
"Forse non sono ancora istupidita del tutto" continuò Arabella, ridendo con un piglio ironico, che non era nell'indole sua.
Nello sforzo della passione, la sua bellezza alquanto claustrale si rischiarò e prese in alcuni tratti il vigore di una donna forte che accetta una sfida.
"Lei non conosce i fatti, dice, ma si permette di giudicarli..."
"Nossignore."
"Sissignora!" gridò il vecchio, battendo la mano secca e nodosa sulla tavola. E colla furia di chi corre a difendere qualche cosa di prezioso, seguitò: "Io non ho studiato sui libri come lei, ma so leggere più in fondo di lei. Non solo lei non conosce i fatti, ma li conosce male, il che è peggio, e li giudica come li conosce. Avrei molto piacere che lei si tenesse fuori dagli affari che non la riguardano. Scusi... Avrei voluto dirglielo prima, ma spero di dirglielo a tempo."
"Non mi sono messa da me in questi affari che lei dice."
"Lo so, lo so, ma ha fatto male a credere a ciò che dei maligni interessati le hanno scritto..."
"Ora è lei che giudica male..."
"Maligni interessati, che io chiamerò ad uno ad uno davanti al giudice..."
"Ella si irrita inutilmente con me..."
"Non inutilmente con chi prende le parti de' miei nemici..." soggiunge il vecchio, agitando furiosamente il suo paio di guanti.
"Di ciò parleremo un'altra volta, se le piacerà. Ora si tratta di quel povero vecchio..."
"Di quel povero vecchio..." ripeté con grossa ironia, ridendo sulle sue parole. "Già, già: di quel povero vecchio... e anche un po' di quel povero giovine..." e nel sorriso sarcastico guizzò una passione oscura, che, o egli chiamò a difesa de' suoi interessi, o essa tirò lui a dir di più del giusto. Mal chiamata o mal trattenuta, questa passione, quasi ignota al suo stesso padrone, entrò in mezzo a spaventarli entrambi.
Arabella scattò dal suo posto e venne a piantarsi davanti al suo accusatore. Che voleva dire il signor Maccagno? era a lei, o a una delle solite donne di sua conoscenza, che il vecchio Maccagno osava rivolgere una frase, che nella sua ironia lasciava trasparire un pensiero vile, un'accusa villana?
Credette di poter rispondere anche lei un mare di aspre parole: ma non poté dirne una. Il viso divenne duro, quasi superbo. Gli occhi si impicciolirono in una luce fuggente di supremo disprezzo, portò la mano alla bocca per chiudere la via a una volgarità che la sua dignità non le permise di dire. Non la disse, ma la fece vedere con un moto altero della testa, che riassumeva tacitamente tutta la ripugnanza che suscitava in lei l'oltraggio dell'umana vigliaccheria. Quando finalmente quel tumulto di sensazioni fu alquanto sedato, volgendosi per uscire, giunta sulla soglia si fermò, e come se parlasse a due persone, che sentiva associate nel disprezzo, alzata la testa, disse con voce lenta e irritata: "Ebbene, sissignore, anche quel povero giovine mi preme..."
E uscì, chiudendo dietro di sé i battenti.
Il vecchio le corse dietro un tratto, gridando:
"No, no, figliuola, mi ascolti..." e rimase lì, atterrito davanti all'uscio che Arabella gli chiuse sul viso.
Atterrito, è la parola vera. Il suo demonio, per chiamare con un vecchio nome una passionaccia oscura e ingannatrice, l'aveva trascinato a dire una brutta parola all'unica creatura ch'egli stimava e amava sulla terra.
Perché l'aveva dunque pronunciata? aveva bisogno di prove per credere che Arabella era un angelo di onestà, di sacrificio, di virtù, un essere capace di sopportare le battaglie della vita per sé e per gli altri? tutto ciò sapeva benissimo anche prima, lui, che da sei mesi viveva, si può dire, giorno per giorno, ora per ora, della vita e dei respiri di quella figliuola. Era lui che da sei mesi lottava da leone contro le maligne influenze dell'ambiente per mantenere intorno ad Arabella quasi un'oasi di purezza, per fare che una stilla di fango non cadesse a contaminare un lembo del suo vestito. Ed ora il suo demonio l'aveva condotto a gettarle una manata di quel fango in viso...
"Scusi, Arabella; senti, figliuola..."
E istintivamente pose la mano alla serratura e cercò di sforzare i battenti.
Ma poiché Arabella non rispondeva, gli mancò la forza d'insistere. Si mosse come un uomo che ha smarrita la sua strada e ritorna sui passi, più per la paura di perdersi maggiormente, che non per la speranza di trovare la strada buona. Uscì coll'intenzione di cercare Lorenzo, ma, giunto dabbasso, passò nell'altra corte, salì le scale dell'ammezzato, tolse la chiavetta ed entrò nello studio.
Uh! il grand'uomo che avrebbe voluto far processi d'ingiuria a mezzo mondo, eccolo qui, peggio degli altri, a supporre subito quasi una tresca tra la nuora e quel ragazzo... Perché questo era stato il suo primo pensiero contro cui urtò nell'entrare, quando li vide così vicini. Per questo pensiero aveva cacciato il ragazzo come si caccia un cane. Ebbene, aveva torto, non solo di immaginare certe cose, ma d'ingerirsene... lui... vecchio...
In questi pensieri che luccicavano, dirò così, nel suo cervello rabbuiato come i frantumi sparsi d'uno specchio rotto a colpi di sassi, si rintanò nella piccola stanza, dove entrò senza lume, guidato dalla scarsa luce che dalla viuzza sottoposta sbattevano i fanali sulle finestre polverose dell'ammezzato.
Rannicchiato nelle braccia della sdruscita poltrona di pelle, tra le grandi ombre delle scansie, appoggiò i gomiti ai cartocci che ingombravano la scrivania, strinse la fronte nelle mani, tentò di mettere un poco d'ordine nella confusione delle molte sensazioni che cozzavano per la prima volta a rompere l'armonia del suo cervello sano e pratico.
Ormai non c'era più dubbio: anche Arabella era contro di lui. Ferruccio doveva averle raccontato cose tremende, ingrandendo apposta parole e fatti per destare più compassione, per tirare Arabella dalla sua parte. I preti sulla testimonianza del Berretta sostenevano e credevano di poter dimostrare ch'egli aveva trafugata una carta. Ora i Borrola, secondo ciò che gli aveva detto il Botola, erano andati a scovare delle nuove testimonianze. Intrighi sopra intrighi, intrighi d'avvocato, intrighi di sagrestia, mentre l'ortolana, il Boffa e gli altri malandrini gli minacciavano guerra di coltello. E Arabella osava parlare di pietà e di misericordia!...
Eran riusciti ad aizzarla contro di lui, mentre egli stava già per metterla in salvo. E mentre da una parte l'odio e il rancore eccitavano le solite furie, sentiva in fondo all'animo, in un luogo buio dove non arrivavano le voci dell'orgoglio, che questa benedetta figliuola gli faceva paura. Essere male giudicato da lei parevagli un castigo troppo duro, che non poteva sopportare.
Mosso dalla forza di questa paura, desideroso di gettare quasi un ponte tra lui e sua nuora, accese una candela, tolse via alcune carte, tirò avanti un foglio bianco e prese a scrivere lesto sotto la dettatura d'uno spirito che comandava:
"Mia cara nuora,
"Mi perdoni quel che ho detto in un momento di cattivo umore. Nella foga del discorso la parola ha detto ciò che non era nel mio pensiero, glielo giuro. E come potrei pensare cose meno che oneste e meno che buone di lei, cara mia figliuola, la più onesta e la più buona creatura ch'io conosco? mi perdoni e non mi tolga il suo affetto e la sua benevolenza.
"In questo momento ho bisogno di un'amica che mi voglia bene e che mi assista. Il mondo mi giudica male, se pur non ho abusato anch'io nel giudicare degli uomini. A ogni modo se qualche cosa di bene posso fare anch'io, non può essere che coll'aiuto e colla stima delle persone care e coraggiose come lei.
"A provarle che in me è sincero il pentimento, le prometto che domani andrò io stesso dal signor questore a ritirare la querela contro il Berretta, quantunque preveda di trasformare un ladro confesso in un pericoloso nemico. La guerra che mi fanno i parenti è senza fondamento. Può essere dispiaciuto a qualcuno di loro che la povera mia cugina abbia favorito me solo nelle sue disposizioni e ciò spiega il loro odio accanito contro di me e contro la mia famiglia; ma..."
A questo "ma" la penna si arrestò, provando una resistenza a proseguire, come se nel meccanismo del ragionamento fosse caduto un corpo estraneo a incagliarne il movimento. Non s'era mai fermato davanti a siffatti sassolini. L'uomo che corre non può arrestarsi a raccattarli. Nel caso suo aveva saltato ben altri muriccioli... Se si fermò, bisogna ritenere che sentisse in sé il bisogno di rifare la storia dei fatti per evitare delle inutili contraddizioni.
"..ma non tocca a noi giudicare le intenzioni di chi non è più. Nella mia fortuna avrei potuto fare del bene a tutti, specialmente ai Ratta poveri e bisognosi, se non che per invogliarmi a far del bene, il peggiore sistema è la guerra sorda e palese che mi minacciano. È il calunniare, l'insolentire pubblicamente, l'inveire contro me e contro la mia famiglia, il comperare false testimonianze, il corrompere i miei servitori, il fare insomma intorno al mio nome un osceno can-can, che mi fa comparire come la bestia feroce di Milano. Ella ha già più d'una prova se io sono una bestia così feroce. A questa guerra io son risoluto di opporre un'altra guerra; agli scandali altri scandali, a processi altri processi per tirar sul terreno della legalità una ciurma di affamati avvezzi a schiamazzare pel loro mestiere.
"Non è dunque la paura di un povero vecchio che mi ha fatto comparire duro e intransigente questa sera: è, come vede, il dovere naturale che ho verso di me e verso la società di difendermi colle armi stesse che mi offrono i miei nemici.
"Con tutto questo, cara Arabella, per dimostrarle che sopra il mio stesso diritto apprezzo il suo affetto e la sua stima, le prometto che ritirerò la querela, anzi autorizzo lei a mandare questa notizia a Ferruccio, per dimostrarle come io stimi e voglia bene anche a questo buon giovane. E se tutto ciò non basta, mi dica e mi suggerisca quel che posso fare per dimostrarle il mio pentimento e per riacquistarmi quell'affezione che spero d'aver meritato..."
Come se dalla fiamma della candela scoppiasse un piccolo razzo, a questo punto vide guizzare, tra le righe del suo nero inchiostro, una fila di minute scintille, e le parole farsi livide e confuse. Passò la mano sugli occhi e cominciò a rileggere il suo foglio, meravigliandosi d'aver scritto tanto in così poco tempo.
Dalla parte degli ammezzati la viuzza era già quietissima, quantunque non fosse ancora molto tardi. Di tanto in tanto sonava un passo sul lastricato e svoltava all'angolo; poi tutto ricadeva nel silenzio.
Fin dove può un uomo ingannare se stesso? Rileggendo la difesa ch'egli aveva scritto di sé, il vecchio affarista era indotto a credere alle sue stesse parole da una strana e assorbente commozione, che gli faceva gli occhi gonfi.
Quasi si compiaceva come una vittima dell'avarizia e dell'egoismo altrui. E mentre da un lato non riconosceva più se stesso, provava dall'altro un desiderio senza fine di umiliarsi al cospetto della nuora, di mettersi incatenato in mano sua, di lasciarsi guidare in quante opere di carità, d'indulgenza, di misericordia ella credesse utile di suggerire.
E stava per chiudere la lettera, quando nel silenzio del vicolo e nella profondità delle case risonò sguaiatamente una voce, che fece trasalire nella sua poltrona il vecchio malinconico. Era la solita voce:
"Maccagno birbone! non dormi? quando ti farai impiccare?"
Soffiò spaventato sulla candela e si rannicchiò nel buio. Era la prima volta che l'Angiolina osava farsi sentire di notte. Aveva aspettato che Tognino la facesse arrestare; quando si accorse che coi processi l'ometto non osava venire avanti, prese coraggio e volle cantargli una serenata.
"Non ti tira pei piedi la vecchia Ratta? corbaccio mercante di carne umana..."
La voce stridula e sguaiata, rimbombando nella stretta fessura della viuzza, fece aprire qualche finestra e arrestò qualche passo. Non era possibile che, passando nell'arco della porta, quelle maledizioni non salissero fino ad Arabella, a rinnovare i brividi e lo spavento dell'altra volta. Tognino, se avesse avuto un coltello, se avesse potuto... Sepolto nelle tenebre, alle ingiurie così gridate nell'aria rispondeva con grugniti di bestia ferita, aggrappandosi colle mani irritate alle gambe della scrivania. Che pace, che perdono, che benevolenza! questo era veleno, peste, abbominio. Il lupo scosse la febbre, arruffò le setole, e bestemmiando i sette sacramenti, lacerò in cento pezzi la lettera, in cui parlava di indulgenza e di perdono, e giurò di andar dritto per la sua strada, che, al punto in cui era arrivato, non poteva essere che una sola.
VI
UN CATTIVO ROSARIO
Durante la corsa di Ferruccio in mezzo alle strade di Milano, la Colomba, dopo aver fatto bere al Berretta una scodella di brodo e un bicchiere di vino, disse alla Nunziadina:
"Recitiamo il rosario, perché la Madonna addolorata abbia pietà dei nostri dolori".
Tirò di tasca la corona, memoria della povera Marietta, e cominciò dal mistero che contempla Gesù nell'orto.
Il Berretta, seduto sulla pietra del camino, e la Nunziadina immersa nell'ombra d'un paralume di cartone, rispondevano con un leggiero bisbiglio, con sospiri affannosi in cui stentavano a reggersi le avemarie. E avevan di grazia di poter tenere l'anima raccolta. A ogni passo su per la scala, a ogni gemito e scricchiolìo dell'uscio, il portinaio alzava la testa, aguzzava l'udito nell'aria, per paura che fossero le guardie. La Nunziadina pareva ancora più rimpicciolita sulle gruccette.
La lucerna, col lucignolo abbassato fin dove si può dire che la luce non guasta il buio, lasciava la stanza in una mezza oscurità, dentro la quale le tre figure parevano sprofondare.
Nessun rosario fu più distratto, più scucito. Il Berretta rispondeva or sì or no, sia che i rumori e la paura lo tenessero impennato, sia che la stanchezza e i patimenti d'una giornata di fuga e senza cibo lo tirassero a reclinare il capo e a dormicchiare sopra i pensieri.
Chi andava più lontana a battere la campagna, fuori d'ogni devoto sentiero, era la Colomba. Come se dalla corona si distaccassero, insieme alle avemarie, antiche reminiscenze, il suo cuore tornò indietro a ricordare un'altra notte di spavento, quella in cui era morta la madre di Ferruccio, un affare di vent'anni fa.
Delle tre sorelle la Marietta era la più bella, la più viva, la più romantica com'erano tutte le sartine del suo tempo. Aveva sposato il Berretta, non già perché il cuore le dicesse qualche cosa per quel povero martoro di sarto, ma perché così avevan voluto, o perché bisognava maritarla quella figliuola. Nel dare alla luce Ferruccio (un certo nome che essa aveva trovato in uno dei suoi romanzi) tre giorni dopo fu assalita da una maligna infezione e in ventiquattro ore moriva abbruciata dalla febbre, col ventre gonfio, delirando come una pazza, confessando anche ciò che avrebbe fatto bene a tacere, poverina.
"Hai sentito?" entrò a chiedere la Nunziadina, rompendo il filo dei pensieri che s'attorcigliavano al rosario.
"Che cosa?"
"Mi par di sentire..."
"È quest'uomo qui."
Il Berretta, puntellato ai ginocchi, dondolando, e balzando in piccole scosse, mandava dal naso un soffio pesante d'uomo che dorme.
Si entrò nel secondo mistero.
"Delirava la poverina, chiamando per nome tutte le ragazze della scuola, e i giovinetti che accompagnano le ragazze. A volte credeva di recitare sul teatro, faceva la tragedia e la commedia, sempre in mezzo a una fornace di febbre, sempre con quel ventre alto come una montagna, mentre il bimbo strillava di fame in un cesto. Il Berretta per consiglio del dottore era corso, a piedi, fino a Niguarda in cerca d'una balia.
"Che giornata, che notte di purgatorio! Che cosa non usciva di bocca alla malata? a crederle c'era da ritenere la povera tosa peggiore d'una donna perduta; o bisognava credere che il demonio approfittasse del male per far ballare innanzi alla moribonda solamente le immagini carnevalesche dei veglioni e delle festine da ballo, apposta per perdere un'anima.
"A crederle, Ferruccio non sarebbe stato figlio di quel pover'uomo, che col cuore in bocca correva a Niguarda a cercare la balia. Per fortuna, o per misericordia, il delirio cessò al tornare del Berretta colla contadina. La Marietta entrò in agonia, e non parlò più... Storie di vent'anni fa, che uscivano ora a farsi vive, sotto la scossa degli avvenimenti, mentre toccava al ragazzo di correre per salvare la vita di suo padre..."
"Non ti pare ch'egli tardi troppo?"
"Se tarda, è perché non ha trovato subito. Non è mica un bimbo d'un anno" brontolò la Colomba.
"Siam sole, e se venissero le guardie?"
"Che guardie d'Egitto! non farmi la stupida anche te..."
A queste parole ruvide, pronunciate con forti scosse di testa, la Nunziadina oscillò sulle gruccette e raggrinzò il bianco faccino a un greppio duro di bimba che vuol piangere.
Il portinaio, appoggiata la mano alla tempia sinistra, cominciò a russare raggirando un piccolo rantolo in fondo alla gola.
"Verso la mattina la povera Marietta, carbonizzata dal male, con due occhi spiritati e gonfi, cacciò le gambe dal letto per scappare, e cominciò a gridare: 'Il prete, il prete; voglio confessarmi, portatelo via'. Non si fu svelti abbastanza, stramazzò e la riposero morta sul letto."
"O Gesù, Giuseppe e Maria..." aspirò la Colomba, e con un sospiro mise giù la corona per non mescolare il bene col male.
Le reminiscenze del passato erano quasi più forti dei bisogni del presente. Il Signore solo sa leggere i segreti della coscienza, e se il male non ha fatto mentire una moribonda, Dio doveva averla giudicata e compatita nella sua misericordia. E da vent'anni ormai la stessa Colomba s'era abituata a considerare le cose come oneste e naturali, allontanando sempre dal pensiero il sospetto, tutte le volte che le varie e le piccole circostanze della vita e l'indole di Ferruccio venivano a ridestarlo. Ma a certe scosse di terremoto che fanno crepar la terra, escono spaventati i più vecchi sorci: e Dio, che non paga al sabato, può benissimo far scontare a un figliuolo il peccato della mamma.
"È qui, è il suo passo" disse la Nunziadina.
La zia Colomba alzò lo stoppino della lampada, tolse il paralume, e alla luce diffusa e bianca credette vedere entrare dall'uscio la faccia profilata della povera sorella, com'era rimasta sul cuscino dopo l'ultimo respiro.
"Mi ha cacciato come un cane, non mi ha lasciato parlare, mi ha coperto di vituperi..."
Ferruccio gettò il cappello sulla sedia e fece un giro intorno al tavolo.
"O povero me, io mi butto nel Naviglietto..." riprese a dire piagnucolando colla voce d'uomo che dorme il vecchio portinaio.
"Ah, ti ha cacciato via..." domandò la Colomba senza levar gli occhi d'addosso al figliuolo.
"Come un cane; non mi ha lasciato parlare."
"E la signora Arabella?"
"Io mi butto nel Naviglietto."
"Voi fatevi coraggio," disse il ragazzo a suo padre "la signora Arabella ha promesso di occuparsi della vostra causa e domani mattina manderà una risposta. Per fortuna c'è questa buona signora..."
"Dio la benedica..." esclamarono insieme le donne, congiungendo le mani.
"Essa ha detto che ne avrebbe parlato al signor Tognino, il quale alle volte esagera apposta... Se non avessi ancora questa speranza, io non so quel che farei di me."
Stringendo nei pugni i folti capelli, come se volesse strapparseli, girando inquieto per la stanza, esclamò:
"Che cosa ho fatto io di male a Dio e alla gente, perché debba soffrire a questo modo? e quella donna lassù non guarda, non ha un poco di compassione del suo Ferruccio?"
La zia Colomba corse verso il figliuolo e, abbracciandolo, cercò di soffocare contro il suo petto le parole che invocavano così fuor di proposito i poveri morti.
Tutta la notte il Berretta rimase in cucina seduto in terra coi gomiti nella cenere del camino. Fu il solo che bene o male trovasse la maniera di dormire. Le donne provarono a mettersi a letto, ma di dormire non ci fu verso. Finché Arabella non avesse mandata una risposta era come voler dormire sopra un letto di brace. I quattro poveri martiri respirarono in questa speranza che la cara e buona signora finisse col commuovere il sor Tognino e facesse ritirare la denunzia. Ci sarebbe riuscita? a tutti pareva impossibile che si potesse negare una grazia a quella santa interceditrice.
Verso il mattino la Colomba, pisolando, se la vide comparire a braccetto della povera Marietta, che mostravasi tutt'allegra e contenta; ma fu più l'ombra del suo pensiero che non un sogno vero.
Ferruccio non si levò manco le scarpe, ma quasi tutta la notte passeggiò sulla ringhiera, nel raggio chiaro della luna, che s'imbianchiva sul muro e versava dalla gronda un'ombra lunga e quieta.
Contò le ore fino alle tre e mezzo, sbattuto dalle sue agitazioni come un pezzo di legno in preda alle onde di un mare in burrasca. Cercò inutilmente nella serenità poetica della notte, nella pallida luce delle stelle, nell'aria frizzante che gli giocava nei capelli, un sollievo, una distrazione a quel senso doloroso e cocente, che gli pesava come una brace ardente sul cuore.
A che pro' vivere onesti e buoni, credere alle cose sante, mortificare la propria giovinezza, chiedere all'ideale la virtù che ti porta in alto al di sopra di tutti gli altri, se ogni monello della via avrà il diritto di chiamarti figlio di ladri? come affrontare lo sguardo delle persone oneste, se puoi temere che ti si legga in viso la tua vergogna? Molti ti compatiranno e diranno:
"Vedete quel povero giovane? ha il padre in prigione. Avrebbe potuto fare una buona carriera, è un giovane che ha studiato, ma non si può raccomandare, naturalmente, una persona che ha il padre al cellulare".
E come, allora, presentarsi a cercare un impiego con questa terribile paura che ti leggano negli occhi il disonore? e poiché di un pane maledetto egli non ne voleva più mangiare, ecco, insieme al disonore, la miseria e la fame.
Per poche bottiglie di vino un uomo ricco e potente cacciava un vecchio in carcere e un giovane nella necessità di dover stendere la mano. E un delitto di questa natura si osava compiere in nome della giustizia. Giustizia questa? "Ma, Signore, se è giustizia questa, io preferisco credere all'iniquità del ladro che ti assalta sulla strada. Allora, forza per forza, giustizia per giustizia, vendetta per vendetta, io stringerò il manico di un coltello, mi presenterò a quell'uomo che mi assassina l'anima, la fede, le speranze, tutto, e scriverò anch'io la mia sentenza nel sangue di quest'uomo."
"O povero me!" sospirava davanti a questi pensieri, passeggiando su e giù per la ringhiera.
Tacevano i giardini e gli orti nella luce smorta. Solo il vento usciva ogni tanto con un bisbiglio tra i rami in fiore e fra le tenere foglie del castagno. L'ora scoccava in quel silenzio chiaro dal vicino campanile, preceduta dal rantolo delle ruote e dei pesi, che scorrono dentro la torre.
Al disopra delle case chiuse e addormentate, al disopra degli orticelli e dei muricciuoli, al disopra delle ombre e di tutte le cieche sensazioni che l'aria, l'ora, la luce, le ombre e le tristezze della notte versavano nell'animo travagliato del giovane, s'innalzava un pensiero che a volte pigliava i contorni d'una figura umana, a volte mandava i bagliori di una fonte, da cui stillasse a' suoi tormenti un soave refrigerio. Una dolcezza mistica, che usciva di mezzo ai patimenti, quale soltanto era dato ai martiri cristiani di provare nei deliri cocenti del supplizio, lo invitava a benedire la mano che percote. La sua disgrazia l'aveva avvicinato a quella donna, s'era inginocchiato davanti a lei, aveva pianto nelle sue mani; l'aveva fatta piangere ed essa gli aveva posta una delle sue manine d'angelo addosso.
Queste immagini avevano la forza di eccitar l'entusiasmo della sventura. Non si poteva a un tempo soffrir di più e inebbriarsi di più del proprio martirio. Da lei sola stava per dipendere ora la libertà, l'onore, la vita di suo padre, la vita e l'onore di un povero giovane; e in questa totale dipendenza da lei, Ferruccio provava la spinta che ci trae ad abbandonarci nei momenti della disperazione nelle braccia aperte di una mamma.
Verso la mattina piegò la testa anche lui sul letto e si addormentò di un sonno chiuso e senza sogni, quale prende un uomo sfinito dal lungo cammino.
La Colomba raccomandò a Nunziadina di star quieta in letto, cacciò le gambe, si vestì in fretta e guidata dalla luce bianca del cielo, si preparava ad uscir di casa per parlare al padre Barca, uomo influente e giudizioso. Volle prima dare un'occhiata al vecchio e al ragazzo: dormivano tutti e due, l'uno colla schiena appoggiata al muro, l'altro raggomitolato sul letto. Fece il segno della croce e uscì dalla porta a vetri che mette sulla ringhiera. Ma si tirò indietro spaventata. Nel cortile c'erano due guardie di questura.
Si attaccò colle mani alle imposte per reggersi, e sentì cinque o sei colpi tremendi nello stomaco, come se glielo picchiassero col martello. Chiuse la finestra e colle due mani sulle orecchie corse nello stanzino dove dormiva il ragazzo. Stette ancora un minuto sospesa, come se tardasse apposta, per carità, a dargli il terribile colpo; ma quando sentì che picchiavano all'uscio della scala, pose una mano sulle mani del nipote, lo scosse e disse:
"Ferruccio..."
"Che c'è? che c'è?"
"Ci son le guardie."
"Dove?"
"In corte... Senti che picchiano."
Ferruccio sollevò la testa e stette col viso stravolto, forse senza capire.
"Che cosa si fa? O cari angeli, che cosa si fa?"
Di fuori picchiarono più forte, finché anche il vecchio si scosse dal suo letargo.
Ferruccio saltò dal letto, si abbottonò la giacca, ficcò le mani nella folta selva dei capelli e disse:
"Non aprite, ci penso io".
Andò in cucina intanto che suo padre, irrigidito dal freddo e intorpidito dal sonno e dalla cattiva posizione, cominciava a brancolare sul suolo per tirarsi su.
Ferruccio ripeté:
"Ci penso io..."
E aprì il cassetto del tavolo di cucina per trarne un comune coltello.
La zia Colomba che gli teneva dietro, lo afferrò ai polsi e mettendogli il viso quasi sul viso, con un'espressione risoluta gli disse tre volte di no, con tre rapide scosse della testa:
"No, figliuolo, il coltello no: no".
Ferruccio si lasciò dolcemente disarmare.
In quel punto una delle guardie, che pareva il capo, comparve sulla ringhiera, sforzò senza molta fatica le vecchie e tarlate imposte della finestra lunga che metteva sul ballatoio, entrò, e disse con tono d'uomo ragionevole che sa di parlare a persone ragionevoli:
"Stiano zitti, buona gente, che è il meglio che si possa fare. Siamo venuti di buon'ora apposta per non dare troppo disturbo. Siete voi il Pietro Berretta?"
"Sono innocente, o misericordia! No, Ferruccio, salvami, fammi scappare..." pregò il vecchio portinaio, aggrappandosi alle braccia del figliuolo. E senza aspettare che gli mettessero le mani addosso, corse a rifugiarsi nello stanzino, affrettandosi a chiudere l'antiporto dietro di sé.
La guardia ch'era nella stanza, vista la mossa, corse per tagliargli la strada; ma Ferruccio, acciecato da un fiotto di sangue che gli montò al capo, urtò con tutta la forza nel tavolo di cucina e lo rovesciò contro lo sbirro, che sospinto da quella strana macchina, barcollò sulle gambe e cadde mettendo i gomiti nei vetri della finestra.
All'urto, al crepitìo dei vetri sull'ammattonato, la Colomba mandò un grido e corse a rifugiarsi nella stanza di Nunziadina, che alzò dal cuscino la piccola testa imbacuccata, per chiedere il motivo di quel diavolo in casa.
Intanto il Berretta ebbe tempo di chiudere l'uscio per di dentro contro gli sforzi di una seconda guardia, che, entrata dalla porta principale, cominciava un lavoro di leva. L'uscio nella sua fragile costituzione non avrebbe resistito a lungo, se Ferruccio, inferocito dalla guerra, visto che il maggior pericolo era da questa parte, non avesse lasciato il primo sbirro intrigato nelle gambe del tavolo per scagliarsi sull'altro.
Lo afferrò colle mani alla vita, e puntando un piede al muro collo slancio e col vigore elastico de' suoi vent'anni, riuscì a strappare la guardia dall'uscio, innanzi al quale si piantò lui, pallido come un cadavere, ansante, ruggente, non armato che della sua generosa sventatezza.
La lotta stava per cominciare da capo, se la prima guardia, uscita tra la finestra e il tavolo, col viso e colle mani tagliuzzate dal vetro, per spirito brutale di vendetta non l'avesse assalito colla spada sguainata, correndo a colpirlo col pomo di questa sul viso e sulla testa, assalendolo di fianco e mandandolo ruzzolone col capo in sangue in un canto della stanza.
Le due guardie non ebbero difficoltà a levar dai gangheri l'uscio e a metter le mani sul vecchio imprudente.
Ma intanto al diavolo si erano risvegliati i pochi casigliani e la gente cominciò a radunarsi sulla porta delle "due beate". Da un piccolo male Ferruccio ne aveva fatto nascere dieci grossi, oltre ai pettegolezzi e al disonore e allo spavento delle donne. Ma a vent'anni non si sa ancora scegliere con giudizio in mezzo ai mali.
VII
NELLO STUDIO DELL'AVVOCATO
Nello studio dell'avvocato Baruffa, in piazza di Sant'Ambrogio, la seconda festa di Pasqua si dettero convegno i diseredati per concordare un'azione comune contro il signor Tognino.
Il primo a comparire, verso le due, fu Aquilino Ratta, che per sistema preferiva aspettare al farsi aspettare. Quando uno è stato una volta soldato sa che cosa vuol dire la precisione.
Aveva un bel redingotto di panno color cannella sopra un panciotto chiaro a fiorellini celesti, preludio di primavera, roba che una volta era di gran moda anche tra gli eleganti. Per la circostanza si era preso con sé anche un paio di guanti di pelle tra il nero e lo stracciato, pronto a metterseli quando vedesse la convenienza di farlo. In ogni circostanza Aquilino amava stare colla maggioranza, cantare col clero e bevere coi sonatori.
Al convegno eran stati invitati ricchi e poveri; e Aquilino non voleva comparire né ineducato coi forti, né superbo coi deboli.
I Boffa e una confraternita di poveri straccioni avevano combinato di entrare nell'azione comune, pagando la loro piccola parte a rate mensili. Don Giosuè era incaricato di raccogliere le firme, le contribuzioni, e di guidare la mandra. Le monache del Buon Pastore si fecero rappresentare da don Felice Vittuone. La famiglia Borrola e tre o quattro Maccagno ricchi si dichiararono pronti a sostenere l'avvocato. Costui, oltre al puntiglio suo personale e alla voglia di tormentare un intrigante che l'aveva messo pulitamente alla porta, provava un gusto, per dir così, professionale. Un processo, per quanto magro, può sempre diventare un processo lungo, e alle volte il miglior brodo è quello che si spreme dagli ossi.
"Sono il primo?" domandò Aquilino, fermandosi sulla soglia.
Il Mornigani, quello stesso che chiamavano el mèzz avvocat, alzò la grossa testa dalla tavola, dove stava scrivendo, e indicando colla cannuccia una cassapanca antica rasente il muro, sotto il ritratto a stampa di Pio IX, disse:
"Sedetevi, è presto ancora".
"Ho ricevuto una lettera di convocazione per le due..."
"Sono soltanto le due... Sedetevi e ditemi il vostro nome, galantuomo."
Aquilino a sentirsi trattato col voi, come un fattore di campagna, fu per rispondere all'illustrissimo signor scrivano che non gli pareva di aver succiato con lui a balia; ma preferì compatire al farsi compatire. Sedette e cominciò a carezzare col dito il pelo scarso di un cilindro sufficientemente rispettabile.
"Il mio nome è Aquilino Ratta, del fu Vincenzo, impiegato al Regio Lotto, Banco numero 94" disse in un tono freddo, in cui si sentiva una certa fierezza burocratica.
"Siete parente della vecchia Ratta testè defunta?" disse di nuovo il mezzo avvocato, alzando il capo in modo che pareva volesse guardare colle narici.
"Sissignore, lo siamo" ribatté con un fare cerimonioso e carico d'ironia. "La povera signora Carolina Ratta era una nostra prima cugina."
"Conoscete gli interessati?"
"I Ratta quasi tutti, per servirla."
"Potreste fornire delle prove, galantuomo, che la vecchia defunta avesse intenzione di favorire in modo speciale i parenti poveri? l'avvocato mi ha incaricato per far presto di raccogliere quante più notizie possono giovare all'istruttoria della causa."
Aquilino questa volta arrossì e socchiuse gli occhi. Era disposto a comparire, ma chi dava a uno sgangherato scrivano il diritto di chiamarlo galantuomo? Galantuomini dobbiamo essere tutti, ma appunto per questo non c'è bisogno che altri venga a dirtelo. Aquilino non avrebbe mai detto a una persona rispettabile: "Si accomodi, signor rispettabile cavaliere". Ma chi ha educazione, chi non ne ha. E anche questa volta, guardando in fondo al cilindro, si limitò a rispondere:
"Ecco, prove, diremo così, palpabili, non ne abbiamo. Possediamo delle allusioni".
"Degli indizi volete dire, delle prove indirette..."
"Lei ha studiata la legge e troverà la parola giusta" ribeccò con più fiera ironia, indicando un libro stracciato sul tavolo, che aveva tutto l'aspetto di un vocabolario. "Per conto mio so che andavo tutte le sere a fare una partita a tarocco e so che la buona parente voleva sempre me per compagno. Alla madonna d'agosto m'invitò a mangiare un'anatra, e dopo pranzo, presente la sora Santina..."
"Chi è questa Santina?"
"La sora Santina era la donzella di casa Ratta, quella stessa che il signor Tognino mise alla porta."
"La donna di servizio, volete dire."
"Tutti dicevano donzella, e io sto col clero."
"La governante, la fantesca, sì, sì, la conosciamo."
"Come vuol lei, sorr..." rispose Aquilino, tirando in lungo le erre per far capire che uno può avere della superbia ed essere un bel niente. "Presente la sora Santina la buona parente mi disse: 'Aquilino, quando sarò morta sarete contenti tutti'. 'Che cosa dice, signora cugina? tutt'altro! lei deve campare più di noi.' 'Non sarebbe giusto' dice lei; 'più che vecchi non si campa. Io mi ricorderò dei parenti del mio povero Gioacchino'."
"Chi è questo Gioacchino?" domandò lo scrivano, che andava pigliando degli appunti sopra un foglio.
"Gioacchino adesso non è più niente, perché è morto: ma da vivo era il marito della povera defunta. Più tardi, il giorno di San Carlo, che è ai quattro di novembre..."
"Sappiamlo..." interruppe il Mornigani, gonfiando le narici.
"Andai per farle i miei auguri e l'ho trovata seduta nella sua poltrona accanto alla finestra. 'Sei Aquilino?' domandò."
Il vice-ricevitore cercò di riprodurre il tono asmatico dell'ottuagenaria.
"'Sissignora, sono io, sora cugina' rispondo.
'Sei buono, Aquilino, di levarmi un dente che mi dà fastidio?'
'Proverò', dico io. Era un dentone a sinistra già tutto sconnesso, lungo come una lesina, che gli dava pena, poverina. E io con un poco di filo, trac, glielo levai netto come un corno."
Il Mornigani, che nel suo interno godeva più che alle marionette, imitò il gesto con cui il vice-ricevitore accompagnò il suo trac, e fingendo di tener preziosa nota della disposizione, scrisse in fretta, ripetendo sottovoce "dente... corno... anatra..."
Aquilino, che non tollerava d'esser preso a zimbello, alzò un dito all'altezza dell'occhio e osservò:
"Non credo necessario che ciò sia scritto a verbale; ma ho voluto soltanto citare il fatto per dimostrare, dirò così, l'intimità e il sanfason con cui essa ci trattava. Punto primo una signora non si lascia mettere le mani in bocca dal primo che capita".
"E questo dente lo conservate ancora?"
Aquilino tuffò due dita nelle tasche del panciotto e trasse un scatolino bianco di farmacista, l'aprì e mostrò al Mornigani un bel dente, sano come un corallo, tuffato in mezzo a della bambagia.
Il mezzo avvocato, soffocando nelle gote la gran voglia di ridere, e simulando un serio interessamento, si alzò un poco, e s'inchinò a osservare attraverso una grossa lente col manico, che tolse dal tavolo, il prezioso documento. E vide anche lui un bel dente sano, bianco, ingrandito dalla lente nella misura di una chicchera da caffè.
"So anch'io che un dente non può parlare" osservò a tempo Aquilino, prima che la gente corresse a giudicarlo un ignorante. "Non lo conservo se non come una prova di confidenza."
"Io credo qualche cosa di più. Si sono viste delle ragioni appoggiate a documenti meno solidi" seguitò gonfiando le grosse narici il furbo scrivano, che si preparava a fondare su quel dente una allegra storiella da far ridere tutti i preti della sagrestia. Non volendo guastare il suo uomo, prese un tono serio, e ripigliando la penna in mano, domandò:
"Conoscete un certo Berretta?"
"Berretta? ne conosco due. Uno era tamburino della mia compagnia, ma questo è morto a Mestre, nel '49, a due passi dal bravo Poerio. Avrà sentito nominare Poerio..."
"Un fabbricante di cioccolata?"
Ora toccò ad Aquilino ridere di gusto nel fondo del suo interno.
Tanta superbia e non saper nemmeno il nome dei fondatori della patria! Ma non credette della sua dignità di perdere il fiato con un frustapenne. Crollò il capo e seguitò:
"Nossignore, la cioccolata non c'entra".
E sorrise amorosamente, mentre coi due diti stringeva e rotolava il piccolo pizzo di barba che riempiva la fossetta del mento.
"L'altro Berretta che conosco è il portinaio."
"Sapete che fu arrestato?"
"Arrestato?" esclamò Aquilino tutto sorpreso. "Arrestato dalle guardie?"
"Dalle guardie, sissignore, e tradotto al cellulare."
"Io resto di carta. Ma perché?"
"Il sor Tognino ha scoperto che tutte le notti il Berretta metteva in cantina una bottiglia di barolo: quando la cantina fu troppo piena, l'ha fatto menar via..."
Il mezzo avvocato alzò un poco il viso dalla carta e rise coi buchi del naso, che all'Aquilino faceva l'effetto d'una trappola.
"Io casco dalle nuvole. Don Giosuè assicurava che il Berretta sarebbe stato un buon testimonio nella nostra causa."
"Per questo il sor Tognino l'ha fatto legare."
"Ma, punto primo, per far legare un uomo ci vuole un motivo."
"La sete, la sete, la sete, galantuomo."
Aquilino rimase così colpito da questa notizia, che non dette più peso al titolo di galantuomo, che per la terza volta il frustapenne gli buttava sul viso. Raccolse la mente e, tentennando il capo, parlò con se stesso, osservando che con Tognino non era facile scherzare. I preti fanno tutto facile e credono che il diavolo abbia ancora paura dell'asperges; ma il diavolo è vecchio più dei preti, e l'acqua santa, in giornata, non fa paura nemmeno ai cani idrofobi. Credevano di pigliar Tognino nel trappolino come un topolino; e Tognino cominciava col far legare il Berretta, e, un dopo l'altro, c'era da aspettarsi che facesse legare l'Angiolina per insulti e calunnie, e poi forse anche il Boffa, che gli aveva mostrato un pugno, e, guerra per guerra, non è la corda che manca a Milano: basta! A buon conto egli aveva la coscienza di essere sempre rimasto nei limiti del rispetto: e quando un uomo opera col testimonio della coscienza, non deve aver paura del suo diritto. Con tutto ciò era prudente andar col piede di piombo. Si fa presto a fare un buco nell'acqua.
"Dite un po', Aquilino," riprese dopo un istante lo scrivano "non conoscereste per caso una certa Olimpia?"
In un altro momento il reduce delle patrie battaglie avrebbe potuto far osservare che, se Aquilino era il suo nome di battesimo, non credeva per questo d'aver mangiato un sacco di sale col sor avvocato dalle gambe lunghe. Ma ora gli stava a cuore di schiarire le circostanze e rispose che non conosceva affatto la signora Olimpia.
"È una cantante, ma di quelle che cantano poco."
"Non conosco gente di teatro."
"Si dice che sia l'amante del sor Maccagno iunior."
"Iunior? uno svizzero?"
"Ecco il nostro don Giosuè!" sorse a dire con intonazione vivace il Mornigani, andando incontro al canonico, e fregandosi una mano sul palmo dell'altra, come se si lavasse con un pezzo di sapone.
Aquilino osservò che il mezzo avvocato vestito di nero con falde lunghe e penzolanti pareva un prete, mentre il canonico, salvo sempre il dovuto rispetto, pareva un cavallante. La religione cattolica sarebbe forse meno perseguitata, se i ministri di Dio avessero meno paura dell'acqua del pozzo.
Il Mornigani, ridendo col rumore d'una carrucola, dopo aver abbracciato don Giosuè colla confidenza che chierici, giornalisti e cantanti hanno col loro riverito prossimo, esclamò:
"Oh che diavolo d'un don Giosuè! Sappiamo che lei ci ha fatto una visita".
"Sta zitto, gambero" brontolò il vecchio prete, urtando il pettegolo nel gomito.
"Che male infine? per salvare una pecorella smarrita nostro Signore..."
"Va via, mammalucco!" brontolò di nuovo il prete, facendo la faccia del ranocchio.
"Ih, ih, ih..." tornò a ridere il Mornigani, sbattendo sotto lo zimarrone nero le due gambe, lunghe e sottili come quelle d'un cavalletto da pittore. "L'avvocato ha moglie e figli ed è uomo troppo rigoroso per esporsi ai pericoli della carne. Se è vero che Olimpia ha visto qualche cosa, non bisogna lasciarla scappare."
"Canta ancora questa...?" si arrischiò a domandare il prete.
"Sollo io? o canta o fa cantare i merli..."
E il gamba lunga tornò a dare una fregatina sulla mano.
Aquilino, per quanto cercasse di non occuparsi dei discorsi altrui, non poté a meno d'osservare che è poca creanza parlare a voce alta in pubblico luogo di cose a doppio fondo, e ridere e corbellare con un prete così. C'è della gente che l'educazione non sa neanche dove stia di casa. Sentendo un'altra volta nominare la bella Olimpia, la bella cantante, fu a un pelo di domandare se questa brava signora entrava anche lei nella causa dell'eredità.
Ma il suo desiderio fu troncato a mezzo dalla voce chiara e limpida d'una donna, che entrò senza aspettare il permesso.
L'Angiolina, invece del solito vestito di cotone e del solito scialle color frittata, che l'allacciava come una mortadella di Bologna, aveva un bel vestito di seta verdognola, con fosforescenza d'ale di farfalla, con una catena al collo, con anelli sui grossi diti, con buccole massiccie negli orecchi, d'un oro giallo come il risotto, che litigava col pomodoro del suo faccione ancora fresco.
Con lei entrò la Santina, la donzella di casa Ratta. Questa povera cristiana malaticcia, con due occhi che parevan pieni di cenere, venne avanti avviluppata fin sopra ai capelli in uno sciallo scuro, che dava alla sua persona magra e prolissa la figura di una sanguisuga.
"È qui che l'avvocato tiene la circonferenza? Madonna della Saletta, non poteva pigliar casa un po' più vicino? È come andare in Siberia. To' Aquilino. Sempre puntuale come un orologio, Aquilino. Bravo e coi guanti! e anche il cilindro... Conoscete la Santina? È mezza malata e senza voce e non voleva venire! ma io l'ho condotta per forza. Ci dobbiamo essere tutti a questo quarantotto. L'avvocato mi deve sentire. Ho mangiato apposta tre acciughe stamattina per mettermi in forza di cantare, e se l'avvocato non ha gli orecchi foderati di stagno, sentirà una bella campana. Intanto Tognin Gattagno non ha osato fare dei processi all'Angiolina; e invece si vede questo, che un'Angiolina fa dei processi a Tognin Raffagno. Dove si paga? qui? pago subito..."
L'ortolana si accostò al banco dove il Mornigani prese nota del nome e delle generalità. Intanto don Giosuè moveva incontro a don Felice Vittuone, che entrava in quella e lo fermò sullo stipite. Il buon vecchietto, tirato in quella bega da un sentimento di dovere e di giustizia, avrebbe voluto far trionfare delle idee di conciliazione. Una causa non giova che agli avvocati, mentre, secondo il suo discreto modo di vedere, sarebbe stato più utile cercare di ottenere una transazione amichevole e finirla colla pace di Dio.
"Voi conoscete benissimo san Tomaso, caro don Felice, ma non conoscete affatto chi sia il nostro Tognino" osservò don Giosuè con una certa furia, mettendo le sue mani giallognole sopra il magro stomaco del vecchietto, che sorrideva con indulgenza. "Sono idee buone per una predica, caro voi. Non vi dà l'ombra di un soldo sto malandrino, se cominciate a parlare di conciliazione e di transazione."
"Colla rendita di un anno può contentare una parte..."
"Ci manderà tanta corda per impiccarci. Transazione vorrebbe dire riconoscere in qualche maniera i nostri diritti, e Tognino è birbone, ma non bestia."
"A questo mondo bisogna guardarsi anche dal guadagnar troppo..." osservò evangelicamente il prevosto; ma don Giosuè, infuriandosi, cercò dimostrare che gli asini non piacciono nemmeno al Signore.
"Eppure è a cavallo d'un asino che ha voluto trionfare in Gerusalemme" notò l'altro celiando con bonomia.
"Per questo l'hanno messo in croce."
Sospinti dal battente dell'uscio, i due preti dovettero cedere il posto e lasciar passare la elegante e venusta Sidonia Borrola, che entrò a braccetto del cavalier Massimiliano Maccagno, capitano d'artiglieria, venuto apposta a Milano dal suo distretto di Alessandria per assistere all'adunanza.
Mauro Borrola, che aveva la pancia a portare, entrò un momento dopo ansante e sudato. Visto i due preti, cominciò a gonfiare le ganascie e a brontolare il suo rosario contro i pipistrelli. Ma don Giosuè non gli lasciò il tempo d'andare in collera. Fattogli un segno con un dito curvo come un uncino, lo tirò nel vano della finestra per metterlo a parte d'un segreto, in cui entrava ancora la bella Olimpia, la cantante, la quale...
A ogni frase del vecchio prete il faccione di Mauro Borrola prendeva un'espressione di meraviglia e di maggior benevolenza, come un sipario che dal buio viene a poco a poco rischiarato dai lumi della ribalta. Si voltò a cercare Sidonia, per comunicarle la importante notizia; ma il Mornigani aveva già introdotta la signora e stava introducendo gli altri nello studio.
Era lo studio dell'avvocato una sala lunga con tre finestre, che davano sopra i piccoli giardini verso il canale di San Gerolamo, con travi e stipiti dipinti a rabeschi rococò, logorati dal tempo, ma conservanti ancora al disotto delle rinzaffature qualche traccia dell'oro e del fasto d'una volta.
Tra una finestra e l'altra erano appese in semplici cornici di legno le stampe dei famosi quadri del Duomo, rappresentanti molti episodi della vita di san Carlo Borromeo e di sotto ai quadri in ovali di gesso i ritratti dei sommi pontefici.
Nel fondo era la libreria colla scrivania del famoso avvocato consulente, zeppa di carte, di cartelle, di libri, e nel mezzo apriva le braccia un mite crocifisso addossato a un fondo di panno rosso ricamato d'oro.
Davanti alla scrivania il Mornigani aveva disposto tre o quattro file di sedie di pelle, dove di volta in volta fece sedere gl'invitati, pigliando il nome di ciascuno sopra una lista di carta, e procurando di avvicinare le persone più pulite sul davanti e la poveraglia in fondo.
L'Angiolina, non contenta del suo posto, mosse una sedia e andò a collocarsi nel bel mezzo della prima fila, di fianco alla bella e superba cantante, che si degnò di guardar la sua vicina con occhiate lunghe piene di compatimento.
"Oggi canto anch'io, madama; sentirà che voce!" disse apposta per far rabbia a una smorfiosa infarinata come il pan francese.
Madama Sidonia si compiacque di sorridere d'un sorriso che non uscì dalla pelle. Si tirò su, si impettì, e fece capire che non aveva gusto di parlare con persone sconosciute. Venendo in quel momento a capitarle davanti Mauro, si mosse d'un posto e mise tra lei e l'ortolana il ventre del marito.
Intanto, su per le scale, raccolti e guidati dal Boffa, che per la circostanza non s'era nemmen lavata la faccia, venivano altri parenti, cugini di terzo grado, che di Ratta non avevano che il nome, messi insieme per forza, per fare il numero grosso e per incutere paura a Tognino. C'erano in mezzo a quei poco ben vestiti faccie scialbe di portinai, che respirano l'aria dei sottoscala senza luce, faccie scure di magnani e di ciabattini, faccie lunghe e livide di sarti e di cucitrici, faccie istupidite di contadini che non avevano conosciuta mai questa loro parente milionaria, che non capivan nulla: gente che don Giosuè era andato a scovare fin dai cascinali della Valsassina (i Maccagno venivano di là) e del basso Milanese, aiutandosi sui registri parrocchiali e servendosi a questo scopo dell'aiuto della curia arcivescovile.
Il Mornigani, aiutato dalle mani legnose di don Giosuè, riuscì a spingere a poco a poco quella torma di scarpe grosse, pesanti come il piombo, e a distribuirla in fondo sull'ultima fila di sedie: prese ancora qualche nome sulla lista, notò la professione, l'abitazione, il grado accademico, i titoli cavallereschi, e, quando gli parve che ci fossero tutti, andò ad avvertire l'avvocato.
Tra fabbri, magnani, agricoltori, portinai, ortolani, preti, impresari, regi impiegati, meccanici, cantanti e cavalieri, erano in tutti una trentina, senza contare le procure e quelli che avevan data carta bianca in mano all'avvocato patrocinatore.
Tutta questa gente raccolta nella sala sotto la soggezione dei sommi pontefici, mantenne sul principio un contegno freddo e mortificato, tra la paura e la diffidenza. Rotta a poco a poco la soggezione, che teneva l'un l'altro in rispetto e quasi in sospetto, cominciò un ronzìo, un bisbiglio come una pentola che sente il calore. Le parole si mescolarono, le mani si toccarono, si rinnovarono conoscenze, producendo in fine un frastuono che il Mornigani fece subito cessare con un batter secco delle sue mani lunghe e piatte come pantofole.
Si sentì squillare a lungo un campanello elettrico. Una porta, a destra della scrivania, si aprì e comparve un giovanotto biondo biondo, cogli occhiali lucidi, con un fascio di carte sulle mani, colla cannuccia in bocca, si pose a sedere a un tavolino in disparte, dove collocò gli atti, dove si diè un'energica fregatina di mani. Quindi cominciò la pulizia degli occhiali.
Qualcuno riconobbe nel giovanottino biondo biondo un bravo avvocatino, un bel partito per una ragazza educata nei savi principii. Da un anno faceva la pratica nello studio Baruffa.
Un altro squillo nervoso di campanello. La porta si apre di nuovo, e, preceduto da un moderato scricchiolìo di scarpe, ecco entrare l'avvocato in persona, inchinarsi tre volte all'assemblea, che si alzò per rispetto, venire a stringere la mano, strisciando le suole sul mosaico, a Sidonia, al capitano, all'Angiolina, che allungò la sua col mezzo guanto di refe, all'Aquilino che arrossì un poco dell'onore (non si è mai veterani abbastanza nella vita): salutò con un cenno amichevole tutti gli altri più lontani che riassunse con una morbida occhiata e andò a mettersi nella poltrona di damasco, svolse un rotolo, si piegò verso il giovine biondo per chiedere una spiegazione, chiamò col dito il Mornigani, che corse a prendere altre carte.
Intanto la gente ebbe comodità di osservare che l'avvocato Gerolamo Baruffa, cavaliere di San Gregorio, era ancora un bell'uomo fresco, poco in là della cinquantina, colla fronte alta e spaziosa, che andava a finire in un cranio lucido come una biglia, costeggiato da capelli ancora neri. Due basette regolate e leggermente toccate da un pennello facevano comparire più candida la carnagione morbida e ben nutrita. Gli occhi grandi si nascondevano spesso sotto due folti sopraccigli e non uscivan dal loro nascondiglio, se non quando avevan bisogno di perlustrare, diremo così, i dintorni d'una posizione. L'Angiolina notò due cose: che aveva due manine da signora e che una volta il sant'uomo adocchiò con una certa compiacenza la bella cantante.
Quando il Mornigani tornò colle carte, l'avvocato, data una scossa al campanello, si alzò, si passò la mano sul labbro e con tono sommesso, quasi di confidenza, in mezzo a un religioso silenzio, prese a dire:
"Signori..."
Aquilino socchiuse gli occhi e per sentir meglio aprì la bocca.
"Non ho bisogno, o signori, di spiegare il motivo per il quale noi siamo oggi qui raccolti, né di manifestare il grado d'interesse ch'io porto a questa, non dirò causa vostra, o causa mia, ma a buon diritto causa nostra; imperocché nel beneficio dell'eredità Ratta io devo essere interessato non meno di voi, sia pei dritti miei acquisiti in molti anni di non interrotta fiducia, come pei dritti di pie istituzioni che ho più che l'onore - il dovere - di rappresentare."
Questo esordio, detto con voce solida e chiara, che rispondeva a meraviglia a un pensiero chiaro e solido, fece una buona impressione sull'animo degli uditori, che con una leggera scossa si accomodarono meglio, tesero i colli, aprirono occhi e orecchi.
L'avvocato, dopo aver contemplato un poco la punta delle unghie, seguitò:
"Le linee fondamentali della causa son presto segnate. Noi siamo qui non già per impugnare la validità di un testamento, che la sagacia d'un uomo, che per ora mi limiterò a chiamare avveduto e scaltro, ha saputo preparare in tempo opportuno, munito di tutti i requisiti che la legge domanda in documenti di simil natura. Io ho riscontrato il testamento depositato in mano del notaio Baltresca e ho trovato che per la forma puossi considerare come un testamento di ferro, inespugnabile. È tutto di mano della defunta, debitamente firmato, con data che risale all'agosto dell'anno scorso, ed è in questo testamento di ferro, o signori, che d'una sostanza di quasi quattrocento mila lire vien nominato erede universale il signor Tognino Maccagno, primo cugino della defunta testatrice, coll'obbligo a lui di assegnare vari piccoli legati o donazioni ai parenti più bisognosi".
"Il birbonaccio!" scappò detto all'Angiolina, che non poteva più star ferma sulla scranna.
La parola non fece ridere nessuno, perché ognuno era sotto la greve impressione di quel testamento di ferro. L'avvocato chetò la donna con un gesto della manina e seguitò:
"Noi, ripeto, non possiamo impugnare l'autenticità di quel documento chirografico e io sarei non una, ma due volte mentecatto, se volessi contrapporre a questo un altro testamento del '78, da me in parte ispirato e alle mie mani affidato dalla stessa defunta signora Carolina, due anni prima che si facessero sentire e operassero sopra di lei delle influenze, che mi limiterò a chiamare per ora poco leali e poco corrette. Di queste disposizioni del '78 farò dar lettura a voi tra poco, affinché possiate conoscere se le ispirazioni del vostro avvocato erano in quel tempo, come s'è voluto far credere da maligni interessati, subdole e rapaci".
E sollevando a un tratto il tono della voce, con un severo aggrottamento dei sopraccigli, soggiunse:
"Signori! ciò che noi vogliamo e speriamo massimamente di dimostrare coi mezzi che la legge mette a disposizione nostra si è che il testamento Baltresca, per così chiamarlo, non è l'ultimo dei testamenti segnati dalla defunta Carolina: ma che dopo di questo ve ne deve essere un altro del dicembre dell'anno testé spirato. Dimostreremo quindi che, o questo testamento esiste in mani che mi limiterò a chiamare per ora avare e strette, o che viceversa il testamento fu distrutto. Dell'esistenza di questo importante documento abbiamo, o signori, due qualità di prove, le une dirette, indirette le altre. Le dirette sono: - Primo: una copia di esso in carta semplice e non firmata, fatta da don Giosuè Pianelli, qui presente, confessore della defunta Carolina, uomo superiore a ogni sospetto. Di questa copia farò dare lettura a tempo opportuno, perché ciascuno di voi possa farsi un'idea dell'entità della causa, della sua importanza morale e materiale e della presunzione nostra. - Secondo: la testimonianza dello stesso reverendo canonico don Giosuè pronto a giurare che veramente la defunta ha scritta una carta. Se non che la diffidenza da cui era tormentata la debole vegliarda, la trattenne dal rilasciare a persona di fiducia nostra il prezioso documento. Ciò fu ragion sufficiente perché altre mani, che mi limiterò a chiamar agili, se ne impadronissero, quindi ogni traccia di questo nuovo atto, che doveva essere per la pia signora un atto di resipiscenza e di riparazione, sparì; una volontà più forte della sua, quella volontà che da molto tempo la dominava spaventandola, rese frustraneo ogni tentativo di ribellione: la coercizione spense il libero arbitrio: la violenza, il diritto..."
L'avvocato Baruffa batté colle nocche sul tavolo, come se schiacciasse gli ossi a questo povero diritto così spesso conculcato, e alzò la testa con un moto leonino. Un fitto bisbiglio l'applaudì. Ripreso il discorso, alzò le due mani e avviò un'altra argomentazione, dicendo con voce più chiara:
"Ora voi direte: se il prezioso documento, se quello che dovrebbe essere per noi il testamento d'oro è scomparso, e non ci resta che battere il capo sul testamento di ferro, su che cosa andiamo noi a fabbricare le nostre speranze? - rispondo: sulle prove indirette, cioè: - Primo: noi sappiamo che intenzione della defunta non fu mai di negare ai parenti anche più poveri il beneficio della sua eredità... (e di ciò molti di voi saranno chiamati a testimoniare)".
"C'è la Santina, c'è Aquilino..." saltò su di nuovo l'Angiolina.
"Abbiate pazienza, buona donna. Ora parlo io, poi sentiremo anche voi."
"Dopo, sor avvocato, sentirà la messa cantata."
Una grossa ilarità salutò queste parole. L'avvocato, che era rimasto attaccato con un dito al pollice dell'altra mano, portò il dito sull'indice e contò:
"Secondo! La pietà della buona defunta non poteva suggerirle di defraudare della sua carità le istituzioni di beneficenza. E infatti nel testamento del '78 è fatta gran parte a queste istituzioni. Come si spiega il cambiamento nel testamento Baltresca? Aveva la pia signora perduta ogni fede nella religione e nella carità? - Terza prova indiretta (e alzò il medio): la confessione del portinaio Pietro Berretta, il quale ha dichiarato come veramente, la notte dopo la morte, il signor Tognino Maccagno, presente cadavere, entrasse a cercare una carta nella stanza della defunta".
"Ah, ah, ah..." esclamarono diverse bocche, ed erano i pochi a cui questa circostanza arrivava nuova.
Gli altri, come se non potessero resistere al fascino di quei tre diti che l'avvocato teneva alti sulle loro teste, si mossero e ballarono sulle sedie.
"Quarto! La confessione del Berretta fece tanto paura al nominato Tognino Maccagno, che egli cercò subito di infirmarla, e non potendo sottrarre un uomo come si sottrae una carta, procurò di diminuirne la credulità coll'accusare un povero uomo di furto qualificato e facendolo tradurre come un malfattore in carcere. Il signor Maccagno vuol dimostrare con ciò che il testimonio è bugiardo, perché è ladro: noi andremo più in fondo, o signori, e sapremo dimostrare che il signor Maccagno è ladro, perché è bugiardo..."
"Bravo, bene..." scoppiò da varie parti.
L'ambiente si riscaldava. Tutti si guardavano in viso con occhiate piene di calore, che sommate produssero una corrente di simpatia verso il valentuomo, il quale con animata eloquenza e ferrea dialettica sapeva così bene interpretare ciò che ognuno sentiva nel cuore come un gruppo ingarbugliato. La solidarietà dell'impresa faceva scomparire le differenze sociali e nel comune interesse tutti si sentirono alleati e fratelli. Fu per qualche tempo un agitato muoversi di braccia e di gambe; chi lodava l'argomentazione dell'avvocato, chi l'avvedutezza di don Giosuè, chi si fece rosso per il gusto e per la speranza, chi per poco non si sentì il testamento in saccoccia. E l'avvocato, tenendo sempre elevati e diritti i suoi quattro diti, lasciò passare con un sorriso di compiacenza il piccolo subbuglio; poi, aggiungendo ai quattro diti grossi anche il mignolo, gridò in tono di vittoria:
"Quinto!"
Il silenzio divenne di nuovo perfetto. Si sarebbe sentito volare una mosca.
L'Angiolina, che non poteva più stare nei vestiti, si alzò, si voltò verso la platea e sollevata anche lei la sua mano grossa e aperta come un ventaglio, gridò anche lei:
"Quinto!"
"Nuova e preziosa testimonianza abbiamo in persona, che il segreto professionale m'impedisce ora di nominare, la quale è in grado di provare che il signor Maccagno entrò veramente nella stanza della defunta, mise sottosopra roba e carte... cercò nei cassettoni... frugò nello stipo... nel letto medesimo dove la morta giaceva. A che scopo? A cercar che?"
E mentre l'avvocato lasciava cadere queste gravi parole, come altrettante gocce d'oro colato, era a vedersi la diversa espressione delle faccie, certi occhi imbambolati, certi cordoni del collo tesi, certe bocche semiaperte a gustare tutto il sapore di quelle grandi cose. I cuori s'eran fatti duri e stretti, non respiravasi più per non disturbare. L'oratore, continuando in un tono domestico, come tra parentesi, conchiuse:
"Qui non posso dir tutto, ma ciò che dirò in tribunale sarà abbastanza pel signor Maccagno. A ogni modo voi vedete che se l'eredità fatta dal suddetto signore è splendida, non si può con egual sicurezza dimostrare che essa sia solida e invidiabile! Oh! noi non andremo a impugnare i testamenti di ferro; ma inviteremo il fortunato erede a confutare i nostri testimoni e a dimostrare al giudice e al pubblico ch'egli è un uomo onesto e delicato. Noi non potremo negare l'esistenza di un atto che nomina unico erede di una sostanza di quattrocento mila lire un cugino quasi ignoto fino a ieri alla stessa testatrice; ma noi - e quando dico noi intendo tutti voi - obbligheremo l'abile signor Maccagno a dimostrare che coercizione morale non ci fu, quando si videro allontanati dalla casa della ricca benefattrice i più vecchi e fedeli amici, che da quindici, venti, venticinque anni l'avevano assistita col consiglio disinteressato e prudente; quando si videro da lei, piissima credente, respinti gli stessi sacerdoti a cui aveva chiesto più volte il conforto dei beni spirituali; quando si vide allontanata dalla testatrice la fantesca Santina Rovatti, che essa s'era tratta in casa fanciulla e del cui fedele servizio s'era per vent'anni lodata..."
"Sì! sì!..." proruppe singhiozzando la povera donzella di casa Ratta, a cui l'avvocato inacerbiva una piaga.
E molti le furono intorno a compassionarla, a compatirla, mentre l'avvocato, che sentiva d'avere il suo uditorio in pugno, incalzava più forte:
"Qual meraviglia se una vecchia di ottantacinque anni cedesse e cadesse vittima di questo sistema di ingiustizia e di violenza, ripudiasse quel che aveva già ordinato e scritto, scrivesse quel che le facevano scrivere, andando contro nella debolezza senile della sua ragione ai sentimenti più naturali del suo cuore?... Qual meraviglia che un giorno, vicina a battere alla porta del supremo giudice, quando pare che nel morente riviva la fiamma della coscienza, chiamasse il suo antico confessore e, approfittando d'un momento in cui si sentiva meno sorvegliata, distruggesse, in poche righe, disposizioni estorte per ritornare con un atto di naturale rinsavimento alle primiere disposizioni più consone alla sua benevolenza e alla sua coscienza? E ciò ha potuto avvenire in quel momento appunto perché Tognino Maccagno non era là. E ciò avvenne perché la stessa Giuditta Canzi, la donna spia che le avevano messo al fianco, non ha potuto negarlo. Ciò era naturale, dico, consono a' suoi sentimenti, perché... (e nel calore del dire la testa dell'avvocato s'era fatta rossa come un pomo) perché non una, ma cento prove abbiamo che la testatrice fu sempre benevola verso i parenti poveri. Agli uni faceva pervenire segrete limosine, agli altri dava sussidio di consigli ed appoggi, molti invitava alla sua mensa e, non richiesta, si abbandonava a lusinghiere promesse. Aquilino Ratta, qui presente, eroe delle patrie battaglie, onesto impiegato, soldato non avvezzo a mentire, verrà a testimoniare fin dove arrivasse la confidenza della veneranda signora verso i parenti di umile condizione."
Aquilino, non resistendo alla seduzione di quella voce armoniosa e calda, che carezzava così bene il suo amor proprio, mentre arrossiva colla timidezza di una fanciulla, tuffò la mano nel taschino del panciotto, ne tirò fuori lo scatolino, lo scoperchiò e mostrò ai vicini il bellissimo dente, che prese a girare di mano in mano come una reliquia.
"Ecco, ecco il terreno," continuava intanto a tonare la voce dell'avvocato "ecco il terreno, sul quale cercheremo di tirare il nostro fortunato avversario. Se noi staremo uniti e compatti, se non ci spaventeremo dei primi sacrifici, vi prometto che gli faremo un tal letto, che quello di Procuste in paragone dovrà sembrare un letto di rose."
"Bravo, molto bene!" sorse a dire col suo vocione di baritono il cavalier Borrola, agitando la mazza col pomo d'avorio, acceso anche lui dall'entusiasmo, a cui non sfugge mai un'anima d'artista davanti all'eloquenza vera.
Pigliando la parola per sé e per gli altri, recitò anche lui un discorso, in cui si fece interprete dei sentimenti conculcati, dei diritti vilipesi, dei...
Ma l'assemblea non era più in grado d'ascoltare dei discorsi. I pianti della donzella di casa Ratta, le saette dell'Angiolina, il dente di Aquilino, le rivelazioni, i sottintesi dell'avvocato, le illusioni suscitate, fomentate, ingrandite, il desiderio di fare qualche cosa in odio a Tognino Maccagno, il fascino luminoso delle quattrocentomila lire, che stendevasi di sopra coi bagliori di un immenso sole, riscaldò siffattamente gli animi, che a fatica poté farsi sentire, in mezzo allo schiamazzo delle voci, la voce del campanello.
Ognuno aveva idee proprie da suggerire, argomenti da portare, una prova da metter fuori, una testimonianza, un ricordo da aggiungere per frangia. Aquilino, preso in mezzo in un cerchio, cercava di spiegare a tre o quattro poveracci stracciati come ladri il meccanismo della causa, che Battistino Orefice, il pittore di scene, seguitava a definire un buco nell'acqua.
L'Angiolina, che il diavolo non poteva più tenere, s'era messa a sedere davanti al tavolo dell'avvocato e predicando, coi pomelli rossi, andava mettendo sottosopra le carte. Il brav'uomo non arrivava a tempo a togliergliele di mano. Finalmente un'altra scampanellata rinforzata dai colpi sonori di due mani larghe come pantofole, rimise l'ordine.
"Silenzio!... Come ho detto, farò dar lettura del primo testamento del '78, al quale si riferivano le disposizioni che la testatrice qualche giorno prima di morire dettò a don Giosuè Pianelli. Anzi comincerò a dar conoscenza di queste disposizioni nella copia che don Giosuè tenne con sé e che si trova allegata agli atti del presente processo. Silenzio, laggiù, se dobbiamo intenderci. Ecco dunque la forma del documento che il nostro buon amico Maccagno avrebbe avuto l'agilità... di far scomparire: 'In nome della Santissima Trinità, io sottoscritta, Carolina Maccagno vedova di Gioacchino Ratta, ancor sana di mente, ancorché debole di corpo e prossima a presentarmi al tribunale del supremo Giudice, memore dell'affetto che mi lega a tutti i membri della mia famiglia e di quella del mio compianto consorte, dichiaro annullate quelle qualunque disposizioni testamentarie che posso aver segnate nella mia debolezza e non riconosco per mia ultima e sincera e libera volontà, conforme agli obblighi della mia coscienza, che il testamento del 20 agosto 1878 da me dettato e consegnato al signor avvocato cav. Gerolamo Baruffa, abitante nella piazza di Sant'Ambrogio in Milano, al civico numero 24, e nomino di nuovo detto avvocato Baruffa mio esecutore testamentario, incaricandolo di dividere la mia sostanza nei modi che in detto testamento sono indicati a beneficio, parte de' bisognosi miei parenti e di pie istituzioni di carità, parte agli altri parenti, non che a suffragio dell'anima mia. In fede...' E qui manca la firma. Ma che l'atto autentico sia stato scritto e firmato dalla morente, c'è qui don Giosuè, il quale potrà riferire."
Tutti si voltarono verso il prete, che rosso e caldo in viso quanto si poteva vedere al disotto del suo colorito di vecchia pipa, agitando le mani legnose e parlando coi soliti gusci in bocca, raccontò a chi ne aveva bisogno come veramente la signora Carolina avesse scritta, firmata e poi trattenuta la carta; come, prima di morire, avesse fatto segno di aver firmato, ma in quel momento entrò il sor Tognino, reduce da Lodi, dov'era stato chiamato tra i giurati, s'impadronì delle chiavi, e addio. Firmata o non firmata, una carta ci doveva essere, laddove invece...
"Laddove invece," seguitò l'Angiolina, picchiando un pugno sulle carte dell'avvocato e voltandosi verso l'adunanza a predicare, "laddove invece s'è trovata una bella..."
L'avvocato la fece sedere per forza e, agitando il campanello sul naso dell'ortolana, gridò:
"Avete inteso? facciamo silenzio? adesso, se state zitti, farò dar lettura del testamento del '78, o meglio, per accorciare la seduta, essendo il documento abbastanza particolareggiato e prolisso, lo metterò a disposizione di quelli di voi che vorranno consultarlo, tutti i giorni dalle undici al tocco. Di tutti i parenti fino al terzo grado è unita una lista che io sto compilando colla più scrupolosa diligenza, e ciascuno di voi è interessato a portare alla causa comune quegli schiarimenti che valgano a far trionfare la giustizia".
Il rumore, l'acciottolìo, le ciarle non cessarono se non quando la gente incominciò a infilar la porta. Tutti sapevano ormai chi fosse Tognino Maccagno e di quanto fossero suoi creditori. Tutti imprecavano contro di lui, ladro, usurpatore, ciascuno in misura del danno che credeva d'aver sofferto. Sulla scala continuarono le discussioni: si trascinarono fin sulla piazza. Don Giosuè che era l'anima nera di quella congiura prese note, indirizzi, e col suo scartafaccio sotto l'ascella traversò di corsa la piazza per non arrivare tardi al vespero in Duomo.
Aquilino Ratta rimase un pezzo sotto le piante a spiegare il meccanismo della causa a Michele Ratta e al Boffa, che parevano inebetiti dalla speranza. Aquilino, uomo sereno e non avido, poteva dire di dominare la questione meglio di ogni altro. Tra chi vedeva tutto azzurro e già si sentiva i denari in tasca, e chi parlava di un buco nell'acqua, Aquilino stava in una via di mezzo, né troppo azzurro, né troppo buco. Probabilità buone c'erano e non c'erano: l'avvocato era bravo, ma neanche Tognino era grullo. Aquilino era di questo parere, che non bisogna insegnare ai gatti la maniera d'arrampicar sulle piante. I gatti furono sempre gatti e lo saranno sempre. Una cosa sola per parte sua capiva poco, ovvero aveva penetrato poco bene; là dove l'avvocato tirò in scena il letto di Procuste. Capiva che era un'allusione alla storia romana, ma anche supponendo che Procuste fosse stato, per modo di dire, un filosofo famoso dei tempi antichi, non vedeva come c'entrasse il letto; a meno che il filosofo usasse dormire sulla nuda terra.
"E quell'altra parola, chiro... chirografico?" chiese il lattivendolo.
"Quella è chiara. È un modo fino per dire che Tognino è chiro...grafico...!"
E Aquilino allungò la parola, accompagnandola con un giro della mano, che spiegò come un ventaglio e chiuse in fretta come se pigliasse una mosca a volo.

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Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.26.30

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