De Bibliotheca
La biblioteca di Babele
CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Prose della Volgar Lingua

 di: Pietro Bembo


Primo libro
 I 
Se la natura, Monsignor messer Giulio, delle mondane cose producitrice e de’ suoi doni sopra esse dispensatrice, sì come ha la voce agli uomini e la disposizione a parlar data, così ancora data loro avesse necessità di parlare d’una maniera medesima in tutti, ella senza dubbio di molta fatica scemati ci avrebbe e alleviati, che ci soprastà. Con ciò sia cosa che a quelli che ad altre regioni e ad altre genti passar cercano, che sono sempre e in ogni parte molti, non converrebbe che, per intendere essi gli altri e per essere da loro intesi, con lungo studio nuove lingue apprendessero. Anzi sì come la voce è a ciascun popolo quella stessa, così ancora le parole, che la voce forma, quelle medesime in tutti essendo, agevole sarebbe a ciascuno lo usar con le straniere nazioni; il che le più volte, più per la varietà del parlare che per altro, è faticoso e malagevole come si vede. Perciò che qual bisogno particolare e domestico, o qual civile commodità della vita può essere a colui presta, che sporre non la sa a coloro da cui esso la dee ricevere, in guisa che sia da lor conosciuto quello che esso ricerca? Senza che non solo il poter mostrare ad altrui ciò che tu addomandi, t’è di mestiero affine che tu il consegua, ma oltre acciò ancora il poterlo acconciamente e con bello e grazioso parlar mostrare, quante volte è cagione che un uomo da un altr’uomo, o ancora da molti uomini, ottien quello che non s’otterrebbe altramente? Perciò che tra tutte le cose acconce a commuovere gli umani animi, che liberi sono, è grande la forza delle umane parole. Né solamente questa fatica, che io dico, del parlare, ma un’altra ancora vie di questa maggiore sarebbe da noi lontana, se più che una lingua non fosse a tutti gli uomini, e ciò è quella delle scritture; la quale perciò che a più largo e più durevole fine si piglia per noi, è di mestiero che da noi si faccia eziandio più perfettamente, con ciò sia cosa che ciascun che scrive, d’esser letto disidera dalle genti, non pur che vivono, ma ancora che viveranno, dove il parlare da picciola loro parte e solo per ispazio brevissimo si riceve; il qual parlare assai agevolmente alle carte si manderebbe, se niuna differenza v’avesse in lui. Ora che, qualunque si sia di ciò la cagione, essere il vediamo così diverso, che non solamente in ogni general provincia propriamente e partitamente dall’altre generali provincie si favella, ma ancora in ciascuna provincia si favella diversamente, e oltre acciò esse stesse favelle così diverse alterando si vanno e mutando di giorno in giorno, maravigliosa cosa è a sentire quanta variazione è oggi nella volgar lingua pur solamente, con la qual noi e gli altri Italiani parliamo, e quanto è malagevole lo eleggere e trarne quello essempio, col quale più tosto formar si debbano e fuori mandarne le scritture. Il che aviene perciò, che quantunque di trecento anni e più per adietro infino a questo tempo, e in verso e in prosa, molte cose siano state in questa lingua scritte da molti scrittori, sì non si vede ancora chi delle leggi e regole dello scrivere abbia scritto bastevolmente. E pure è ciò cosa, a cui doverebbono i dotti uomini sopra noi stati avere inteso; con ciò sia cosa che altro non è lo scrivere che parlare pensatamente, il qual parlare, come s’è detto, questo eziandio ha di più, che egli e ad infinita moltitudine d’uomini ne va, e lungamente può bastare. E perciò che gli uomini in questa parte massimamente sono dagli altri animali differenti, che essi parlano, quale più bella cosa può alcun uomo avere, che in quella parte per la quale gli uomini agli altri animali grandemente soprastanno, esso agli altri uomini essere soprastante, e spezialmente di quella maniera che più perfetta si vede che è e più gentile? Per la qual cosa ho pensato di poter giovare agli studiosi di questa lingua, i quali sento oggimai essere senza numero, d’un ragionamento ricordandomi da Giuliano de’ Medici, fratel cugin vostro, che è ora Duca di Nemorso, e da messer Federico Fregoso, il quale pochi anni appresso fu da Giulio papa secondo arcivescovo di Salerno creato, e da messer Ercole Strozza di Ferrara, e da meser Carlo mio fratello in Vinegia fatto, alquanti anni adietro, in tre giornate, e da esso mio fratello a me, che in Padova a quelli dì mi trovai essere, poco appresso raccontato, e quello alla sua verità, più somigliantemente che io posso, in iscrittura recandovi, nel quale per aventura di quanto acciò fa mestiero si disputò e si disse. Il che a voi, Monsignore, come io stimo, non fia
II
Perciò che essendo in Vinegia non guari prima venuto Giuliano, il quale, come sapete, a quel tempo Magnifico per sopranome era chiamato da tutti, nel tempo che voi et egli e Pietro e il cardinale de’ Medici suoi fratelli, per la venuta in Italia e in Firenze di Carlo ottavo Re di Francia di pochi anni stata, fuori della patria vostra dimoravate (il qual cardinale, la Dio mercé, ora papa Leon decimo e Signor mio, a voi ha l’ufficio e il nome suo lasciato) e i due che io dissi, messer Federigo, che il più giovane era, e messer Ercole, ritrovandovisi per loro bisogne altresì, mio fartello a desinare gl’invitò seco; sì come quegli uomini, i quali e per cagion di me, che amico e dell’uno di lor fui e degli altri ancor sono, e perché il valevano, egli amava e onorava sopra gli altri. Era per aventura quel dì il giorno del natal suo, che a’ dieci dì di dicembre veniva; né ad esso doveva ritornar più, se non in quanto infermo e con poca vita il ritrovasse, perciò che egli si morì a’ trenta dì del dicembre che seguì appresso. Ora avendo questi tre con mio fratello desinato, sì come egli mi raccontava, e ardendo tuttavia nella camera nella quale essi erano, alquanto dallor discosto, un buon fuoco, disse messer Ercole, il quale per accidente d’infermità sciancato e debole era della persona: — Io, Signori, con licenza di voi, al fuoco m’accosterò, non perché io freddo abbia, ma acciò che io non l’abbia. — Come a voi piace — rispose a messer Ercole mio fratello; e agli altri due rivoltosi, seguitò: — Anzi fie bene che ancor noi vi ci accostiamo. — Accostiamvici — disse Giuliano — ché questo rovaio, che tutta mattina ha soffiato, acciò fare ci conforta. — Perché levatisi, e messer Federigo altresì, e avvicinativisi, e recatovi da’ famigliari le sedie, essi a sedere vi si posero al dintorno; il che fatto, disse messer Ercole a Giuliano: — Io non ho altra fiata cotesta voce udito ricordare, che voi, Magnifico, Rovaio avete detto, e per aventura se io udita l’avessi, intesa non l’averei, se la stagione non la mi avesse fatta intendere, come ora fa; perciò che io stimo che Rovaio sia vento di tramontana, il cui fiato si sente rimbombare tuttavia. — A che rispostogli da Giuliano che così era; e di questa voce, d’una cosa in altra passando, venuti a dire della volgar lingua, con la quale non solamente ragioniamo tuttodì, ma ancora scriviamo; e ciascuno degli altri onoratamente parlandone, e in questo tra sé convenendo, che bene era lo scrivere volgarmente a questi tempi; messer Ercole, il quale solo della latina vago, e quella così lodevolmente, come s’è veduto, in molte maniere di versi usando, quest’altra sempre sì come vile e povera e disonorata scherniva, disse: — Io non so per me quello che voi in questa lingua vi troviate, perché si debba così lodarla e usarla nello scrivere, come dite. Ben vorrei e sarebbemi caro, che o voi aveste me a quello di lei credere persuaso che voi vi credete, in maniera che voglia mi venisse di scrivere alle volte volgarmente, come voi scrivete, o io voi svolgere da cotesta credenza potessi e, nella mia openione traendovi, esser cagione che voi altro che latinamente non scriveste. E sopra tutto, messer Carlo, vorre’ io ciò potere con messer Pietro vostro fratello, del quale sicuramente m’incresce, che essendo egli nella latina lingua già avezzo, egli la tralasci e trametta così spesso, come egli fa, per iscrivere volgarmente —. E così detto, si tacque.
III
Allora mio fratello, vedendo gli altri star cheti, così rispose: — Io mi credo che a ciascuno di noi che qui siamo, sarebbe vie più agevole in favore di questo lodare e usare la volgar lingua che noi sovente facciamo, la quale voi parimente e schifate e vituperate sempre, recarvi tante ragioni che voi in tutto mutaste sentenza, che a voi possibile in alcuna parte della nostra openione levar noi. Nondimeno, messer Ercole, io non mi maraviglio molto, non avendo voi ancora dolcezza veruna gustata dello scrivere e comporre volgarmente, sì come colui che, di tutte quelle della latina lingua ripieno, a queste prendere non vi sete volto giamai, se v’incresce che messer Pietro mio fratello tempo alcuno e opera vi spenda e consumi, del latinamente scrivere tralasciandosi come dite. Anzi ho io degli altri ancora, dotti e scienziati solamente nelle latine lettere, già uditi allui medesimo dannare questo stesso e rimproverargliele, a’ quali egli brievemente suole rispondere e dir loro, che a sé altrettanto incresce di loro allo ‘ncontro, i quali molta cura e molto studio nelle altrui favelle ponendo e in quelle maestrevolmente essercitandosi, non curano se essi ragionar non sanno nella loro, a quegli uomini rassomigliandogli, che in alcuna lontana e solinga contrada palagi grandissimi di molta spesa, a marmi e ad oro lavorati e risplendenti, procacciano di fabricarsi, e nella loro città abitano in vilissime case. — E come, — disse messer Ercole — stima egli messer Pietro che il latino parlare ci sia lontano? — Certo sì, che egli lo stima, — rispose mio fratello — non da sé solo posto, ma bene in rispetto e in comperazione del volgare, il quale è a noi più vicino; quando si vede che nel volgare tutti noi tutta la vita dimoriamo, il che non aviene del latino. Sì come a’ romani uomini era ne’ buoni tempi più vicina la latina favella che la greca, con ciò sia cosa che nella latina essi tutti nascevano e quella insieme col latte dalle nutrici loro beeano e in essa dimoravano tutti gli anni loro comunemente, dove la greca essi apprendevano per lo più già grandi e usavanla rade volte e molti di loro per aventura né l’usavano né l’apprendevano giamai. Il che a noi aviene della latina, che non dalle nutrici nelle culle, ma da’ maestri nelle scuole, e non tutti, anzi pochi l’apprendiamo, e presa, non a ciascuna ora la usiamo, ma di rado e alcuna volta non mai —. Quivi seguitando le parole di mio fratello: — Così è — disse il Magnifico — senza fallo alcuno, messer Ercole, come il Bembo dice; e questo ancora più oltre, che a noi la volgar lingua non solamente vicina si dee dire che ella sia, ma natìa e propria, e la latina straniera. Che sì come i Romani due lingue aveano, una propria e naturale, e questa era la latina, l’altra straniera, e quella era la greca, così noi due favelle possediamo altresì, l’una propria e naturale e domestica, che è la volgare, istrana e non naturale l’altra, che è la latina. Vedete ora, quale di voi due in ciò è più tosto da biasimare e da riprendere, o messer Pietro, il quale usando la favella sua natìa non perciò lascia di dare opera e tempo alla straniera, o voi, che quella schernendo e rifiutando che natìa vostra è, lodate e seguitate la strana —.
IV
— Io son contento di concedervi, messer Carlo e Giuliano, — disse lo Strozza — che la volgare favella più a noi vicina sia o ancora più naturale e propria, che la latina non si vede essere, in quella guisa medesima che a’ Romani era la latina più vicina e più naturale della greca; pure che mi concediate ancor voi, quello che negare per niun modo non mi si può, che sì come a quel tempo e in que’ dotti secoli era ne’ romani uomini di molta maggior dignità e stima la greca lingua che la latina, così tra noi oggi molto più in prezzo sia e in onore e riverenza la latina avuta che la volgare. Il che se mi si conciede, come si potrà dire che ad alcun popolo, avente due lingue, l’una più degna dell’altra e più onorata, egli non si convenga vie più lo scrivere nella più lodata che nella meno? Oltra che se è vero quello che io ho udito dire alcuna volta, che la nostra volgar favella stata sia eziandio favella medesimamente volgare a’ Romani; con la quale tra essi popolarescamente si sia ragionato come ora si ragiona tra noi, tuttavolta senza passar con lei nello scrivere, al quale noi più arditi e
V
Alle cui parole il Magnifico senza dimora così rispose: — Egli vi sarà bene, messer Ercole, da me e da messer Carlo conceduto e da messer Federigo ancora, i quali tutti in questa contesa parimente contra voi sentiamo, che ne’ primi buoni tempi da’ romani uomini fosse la greca lingua in più dignità avuta che la latina, e al presente alla latina altresì più onore si dia che alla volgare; il che può avenire, sì perché naturalmente maggiore onore e riverenza pare che si debba per noi alle antiche cose portare che alle nuove, e sì ancora perciò che e allora la greca lingua più degni e riverendi scrittori avea e in maggior numero, che non avea la latina, e ora la latina medesimamente molti più avere se ne vede di gran lunga e più onorati, che non ha la volgare. Ma non per tutto ciò vi si concederà, che sempre nella più degna lingua si debba scrivere più tosto che nella meno. Perciò che se a questa regola dovessero gli antichi uomini considerazione e risguardo avere avuto, né i Romani avrebbono giamai scritto nella latina favella, ma nella greca; né i Greci altresì si sarebbono al comporre nella loro così bella e così rotonda lingua dati, ma in quella de’ loro maestri Fenici; e questi in quella d’Egitto, o in alcun’altra; e a questo modo, di gente in gente a quella favella ritornando nella quale primieramente le carte e gl’inchiostri si trovarono, bisognerà dire che male ha fatto qualunque popolo e qualunque nazione scrivere ha voluto in altra maniera, e male sia per fare qualunque altramente scriverà; e saremo a credere constretti che di tante e così differenti guise e tra sé diverse e lontane di parlari, quante sono per adietro state e saranno per innanzi fra tutti gli uomini, quella una forma, quell’un modo solo di lingua, con la quale primieramente sono state tessute le scritture, sia nel mondo da lodare e da usare, e non altra; il che è troppo più fuori del convenevole detto che mestier faccia che se ne questioni. È dunque bene, messer Ercole, confessare che non le più degne e più onorate favelle siano da usare tra gli uomini nello scrivere, ma le proprie loro, quando sono di qualità che ricever possano, quando che sia, ancora esse dignità e grandezza; sì come era la latina ne’ buoni tempi, alla quale Cicerone, perciò che tutta quella riputazione non l’era ancor data, che ad esso parea che le si convenisse dare, sentendola capevole a tanta riceverne, quanta ella dapoi ha per sua e per altrui opera ricevuto, s’ingegna accrescere autorità in molte delle sue composizioni lodandola, e consigliando i romani uomini e invitandogli allo scrivere romanamente e a fare abondevole e ricca la loro lingua più che l’altrui. Questo medesimo della nostra volgare messer Cino e Dante e il Petrarca e il Boccaccio e degli altri di lontano prevedendo, e con essa molte cose e nel verso e nella prosa componendo, le hanno tanta autorità acquistata e dignità, quanta ad essi è bastato per divenire famosi e illustri, non quanta per aventura si può in sommo allei dare e accrescere scrivendo. Perché non solamente senza pietà e crudeli doveremmo essere dalle genti riputati, dallei nelle nostre memorie partendoci e ad altre lingue passando, quasi come se noi dal sostentamento della nostra madre ci ritraessimo per nutrire una donna lontana, ma ancora di poco giudicio; con ciò sia cosa che, perciò che questa lingua non si vede ancora essere molto ricca e ripiena di scrittori, chiunque ora volgarmente grazia che a’ primi ritrovatori si dà delle belle e laudevoli cose, là dove, scrivendo latinamente, allui si potrà dire quello che a’ Romani si solea dire, i quali allo scriver greco si davano, che essi si faticavano di portare alberi alla selva. Che dove dite, messer Ercole, che la nostra volgar lingua era eziandio lingua a’ Romani negli antichi tempi, io stimo che voi ci tentiate; ché non posso credere che voi il vi crediate, né niuno altresì credo io essere che il si creda —.
VI
Allora messer Federico, il quale, gli altri ascoltando, buona pezza s’era taciuto, disse: — Io non so già quello che io della credenza di messer Ercole mi debba credere, il quale io sempre, Giuliano, per uomo giudiciosissimo ho conosciuto. Tanto vi posso io ben dire, che io questo che esso dice, ho già udito dire a degli altri, e sopratutto ad uno, che noi tutti amiamo grandemente e onoriamo e il quale di buonissimo giudicio suole essere in tutte le cose, come che egli in questa senza dubbio niuno prenda errore. — E perché — disse lo Strozza — prende egli così errore costui, messer Federigo, come voi dite? — Per questo, — rispose messer Federigo — che se ella stata fosse lingua a quelle stagioni, se ne vederebbe alcuna memoria negli antichi edifici e nelle sepolture, sì come se ne vedono molte della latina e della greca. Ché, come ciascuno di noi sa, infiniti sassi sono in Roma, serbati dal tempo infino a questo dì, scritti con latine voci e alquanti con greche, ma con volgari non niuno; e mostranvisi a’ riguardanti in ogni parte e in ogni via titoli di vilissime persone, in pietre senza niuna dignità scritti, e con voci nelle regole della lingua e della scrittura peccanti, sì come il volgo alle volte, quando parla e quando scrive, fa: nondimeno tutti o greci o latini. Che se la volgar lingua a que’ tempi stata fosse, posto che ella fosse stata più nel volgo, come que’ tali dicono, che nel senato o ne’ grandi uomini, impossibile tuttavia pure sarebbe, che almeno tra queste basse e vili memorie che io dico non se ne vedesse qualche segno. Oltra che ne’ libri ancora si sarebbe ella come che sia trapelata e passata infino a noi; che non è lingua alcuna, in alcuna parte del mondo dove lo scrivere sia in usanza, con la quale o versi o prosa non si compongano, e molto o poco non si scriva, solo che ella acconcia sia alla scrittura, come si vede che è questa. Perché si può conchiudere, che sì come noi ora due lingue abbiamo ad usanza, una moderna che è la volgare, l’altra antica, che è la latina, così aveano i romani uomini di quelli tempi, e non più: e queste sono la latina, che era loro moderna, e la greca, che era loro antica; ma che essi una terza n’avessero che loro fosse meno in prezzo che la latina, niuno, che dirittamente giudichi, estimerà giamai. E se noi al presente la greca lingua eziandio appariamo, il che s’è fatto con più cura e studio in questa nostra età che nelle altre più sopra, mercé in buona parte, Giuliano, del vostro singolare e venerando e non mai a bastanza lodato e onorato padre, il quale a giovare in ciò ancora le genti del nostro secolo e ad agevolar loro lo asseguimento delle greche lettere, maestri e libri di tutta l’Europa e di tutta l’Asia cercando e investigando e scuole fondando e ingegni sollevando, s’è molt’anni con molta diligenza faticato; ma se noi, dico, questa lingua appariamo, ciò solamente ad utilità della latina si fa, la quale, dalla greca dirivando, non pare che compiutamente apprendere e tenere e posseder tutta si possa senza quella, e non perché pensiamo di scrivere e comporre grecamente, che niuno è che a questo fare ponga opera, se non per giuoco —.
VII
Tacevasi, detto fin qui, messer Federigo, e gli altri affermavano che egli dicea bene, ciascun di loro a queste ragioni altre prove e altri argomenti aggiugnendo, quando messer Ercole: — Ben veggo io — disse — che troppo dura impresa ho pigliata, a solo e debole con tre contendere così pronti guerrieri e così spediti. Pure perciò che più d’onore mi può essere lo avere avuto ardire di contrapormi, che di vergogna se averrà che io vinto e abbattuto ne sia, io seguirò tuttavia, più tosto per intendere da voi delle cose che io non so, che per contendere. E, lasciando le altri parti da canto, se la nostra volgar lingua non era a que’ tempi nata, ne’ quali la latina fiorì, quando e in che modo nacque ella? — Il quando — rispose messer Federigo — sapere appunto, che io mi creda, non si può, se non si dice che ella cominciamento pigliasse infino da quel tempo, nel quale incominciarono i Barbari ad entrare nella Italia e ad occuparla, e secondo che essi vi dimorarono e tenner piè, così ella crescesse e venisse in istato. Del come, non si può errare a dire che, essendo la romana lingua e quelle de’ Barbari tra sé lontanissime, essi a poco a poco della nostra ora une ora altre voci, e queste troncamente e imperfettamente pigliando, e noi apprendendo similmente delle loro, se ne formasse in processo di tempo e nascessene una nuova, la quale alcuno odore e dell’una e dell’altra ritenesse, che questa volgare è, che ora usiamo. La quale se più somiglianza ha con la romana, che con le barbare avere non si vede, è perciò che la forza del natìo cielo sempre è molta, e in ogni terra meglio mettono le piante che naturalmente vi nascono, che quelle che vi sono di lontan paese portate. Senza che i Barbari, che a noi passati sono, non sono stati sempre di nazione quegli medesimi, anzi diversi; e ora questi Barbari la loro lingua ci hanno recata, ora quegli altri, in maniera che ad alcuna delle loro grandemente rassomigliarsi la nuova nata lingua non ha potuto. Con ciò sia cosa che e Francesi e Borgognoni e Tedeschi e Vandali e Alani e Ungheri e Mori e Turchi e altri popoli venuti ci sono, e molti di questi più volte, e Goti altresì, i quali una volta frall’altre settanta anni continui ci dimorarono. Successero a’ Goti i Longobardi; e questi primieramente da Narsete sollecitati, sì come potete nelle istorie aver letto ciascuno di voi, e fatta una grande e maravigliosa oste, con le mogli e co’ figliuoli e con tutte le loro più care cose vi passarono e occuparonla e furonne per più di dugento anni posseditori. Presi adunque e costumi e leggi, quando da questi Barbari e quando da quegli altri, e più da quelle nazioni che posseduta l’hanno più lungamente, la nostra bella e misera Italia cangiò, insieme con la reale maestà dell’aspetto, eziandio la gravità delle parole, e a favellare cominciò con servile voce; la quale, di stagione in stagione a’ nepoti di que’ primi passando, ancor dura, tanto più vaga e gentile ora che nel primiero incominciamento suo non fu, quanto ella di servaggio liberandosi ha potuto intendere a ragionare donnescamente. — Deh voglia Idio, — a queste parole traponendosi disse subitamente il Magnifico — che ella, messer Federigo, a più che mai servilmente ragionare non si ritorni; al che fare, se il cielo non ci si adopera, non mostra che ella sia per indugiarsi lungo tempo, in maniera e alla Francia e alle Spagne bella e buona parte de’ nostri dolci campi donando, e alla compagnia del governo invitandole, ce ne spogliamo volontariamente a poco a poco noi stessi; mercé del guasto mondo, che, l’antico valore dimenticato, mentre ciascuno di far sua la parte del compagno procaccia e quella negli agi e nelle piume disidera di godersi, chiama in aiuto di sé, contra il suo sangue medesimo, le straniere nazioni, e la eredità a sé lasciata dirittamente in quistion mette per obliqua via. — Così non fosse egli vero cotesto, Giuliano, che voi dite, come egli è — rispose messer Ercole — che noi ne staremmo vie meglio che noi non istiamo. Ma lasciando le doglianze adietro, che sono per lo più senza frutto, se la volgar lingua ebbi incominciamento ne’ tempi, messer Federigo, e nella maniera che detto avete, il che a me verisimile si fa molto, il verseggiare con essa e il rimare a qual tempo incominciò, e da quale nazione si prese egli? Con ciò sia cosa che io ho udito dire più volte che gl’italiani uomini apparata hanno questa arte, più tosto che ritrovata. — Né questo ancora sapere minutamente si può — rispose messer Federigo. — È il vero, che in quanto appartiene al tempo, sopra quel secolo, al quale successe quello di Dante, non si sa che si componesse, né a noi di questo fatto memoria più antica è passata; ma dello essersi preso da altri, bene tra sé sono di ciò in piato due nazioni: la Ciciliana e la Provenzale. Tuttavolta de’ Ciciliani poco altro testimonio ci ha, che a noi rimaso sia, se none il grido; ché poeti antichi, che che se ne sia la cagione, essi non possono gran fatto mostrarci, se non sono cotali cose sciocche e di niun prezzo, che oggimai poco si leggono. Il qual grido nacque perciò, che trovandosi la corte de’ napoletani re a quelli tempi in Cicilia, il volgare, nel quale si scriveva, quantunque italiano fosse, e italiani altresì fossero per la maggior parte quelli scrittori, esso nondimeno si chiamava ciciliano, e ciciliano scrivere era detto a quella stagione lo scrivere volgarmente, e così infino al tempo di Dante si disse. De’ Provenzali non si può dire così; anzi se ne leggono, per chi vuole, molti, da’ quali si vede che hanno apparate e tolte molte cose gli antichi Toscani, che fra tutti gl’italiani popoli a dare opera alle rime sono senza dubbio stati primieri, della qual cosa vi posso io buona testimonianza dare, che alquanti anni della mia fanciullezza ho fatti nella Provenza, e posso dire che io cresciuto mi sono in quella contrada. Perché errare non si può a credere che il rimare primieramente per noi da quella nazione, più che da altra, si sia preso —.
VIII
Avea così detto messer Federigo, e tacendo mostrava d’avere la sua risposta fornita; laonde il Magnifico, incontanente seguendo, così disse: — Se a messer Carlo e a messer Ercole non è grave, a me sarebbe, messer Federigo, carissimo, che voi ci diceste quali sono quelle cose che i toscani rimatori hanno da’ Provenzali pigliate —. Allora mio fratello: — A me — disse — essere grave non può, Giuliano, udir cosa che a voi sia in grado che si ragioni; oltra che il sentire messer Federigo ragionarci della provenzale favella mi sarà sopra modo caro; per me adunque segua. — E per me altresì, — disse messer Ercole — che non so come non così ora soverchi mi paiono, come già far soleano, questi ragionamenti. Ma io mi maraviglio forte come la provenzale favella, della quale, che io sappia, poco si sente oggi ragionare per conto di poesia, possa essere tale stata, che dallei molte cose siano state tolte da’ poeti della Toscana, che pure hanno alcun grido. — Io dirò, — rispose a costor tutti messer Federigo — poscia che voi così volete, pure che vi sia chiaro, che dapoi che io a queste contrade passai, ho del tutto tramessa la lezione delle oltramontane cose, onde pochissima parte di molte, che già essere mi soleano famigliarissime, m’è alla memoria rimasa, da poter recare così ora sprovedutamente in pruova di ciò che io dissi. E affine che a messer Ercole non paia nuovo quello, di che egli forte si maraviglia, da questa parte brievemente incominciando, passerò alle mie promesse. Era per tutto il Ponente la favella provenzale ne’ tempi, ne’ quali ella fiorì, in prezzo e in istima molta, e tra tutti gli altri idiomi di quelle parti di gran lunga primiera; con ciò sia cosa che ciascuno, o Francese o Fiamingo o Guascone o Borgognone o altramente di quelle nazioni che egli si fosse, il quale bene scrivere e specialmente verseggiar volesse, quantunque egli Provenzale non fosse, lo faceva provenzalmente. Anzi ella tanto oltre passò in riputazione e fama, che non solamente Catalani, che vicinissimi sono alla Francia, o pure Spagniuoli più adentro, tra’ quali fu uno il Re Alfonso d’Aragona, figliuolo di Ramondo Beringhieri, ma oltre acciò eziandio alquanti Italiani si truova che scrissero e poetarono provenzalmente; e tra questi, tre ne furono della patria mia, di ciascuno de’ quali ho io già letto canzoni: Lanfranco Cicala e messer Bonifazio Calvo e, quello che dolcissimo poeta fu e forse non meno che alcuno degli altri di quella lingua piacevolissimo, Folchetto, quantunque egli di Marsiglia chiamato fosse, il che avenne non perché egli avesse origine da quella città, che fu di padre genovese figliuolo, ma perché vi dimorò gran tempo. Né solamente la mia patria diè a questa lingua poeti, come io dico, ma la vostra eziandio, messer Carlo, le ne diè uno, che messer Bartolomeo Giorgio ebbe nome, gentile uomo della vostra città; e Mantova un altro, che fu Sordello; e la Toscana un altro, e questi fu di Lunigiana, uno de’ marchesi Malespini, nomato Alberto. Fu adunque la provenzale favella estimata e operata grandemente, sì come tuttavia veder si può, ché più di cento suoi poeti ancora si leggono, e hogli già letti io, che non ne ho altrettanti letti de’ nostri. Né è da maravigliarsene, perciò che non patendo quelle genti molti discorrimenti d’altre nazioni, e per lo più lunga e tranquilla pace godendo e allegra vita menando, come fanno tutte naturalmente, avendovi oltre acciò molti signori più che non v’ha ora e molte corti, agevole cosa fu che tra esse in ispazio di lungo tempo lo scrivere venisse in prezzo, e che vi si trovasse primieramente il rimare, sì come io stimo; quando si vede che più antiche rime delle provenzali altra lingua non ha, da quelle poche in fuori che si leggono nella latina, già caduta del suo stato e perduta. Il che se mi si conciede, non sarà da dubitare che la fiorentina lingua da’ provenzali poeti, più che da altri, le rime pigliate s’abbia, et essi avuti per maestri; quando medesimamente si vede che al presente più antiche rime delle toscane altra lingua gran fatto non ha, levatone la provenzale.
IX
Senza che molte cose, come io dissi, hanno i suoi poeti prese da quelli, sì come sogliono far sempre i discepoli da’ loro maestri, che possono essere di ciò che io dico argomento, tra le quali sono primieramente molte maniere di canzoni, che hanno i Fiorentini, dalla Provenza pigliandole, recate in Toscana: sì come si può dire delle sestine, delle quali mostra che fosse il ritrovatore Arnaldo Daniello, che una ne fe’, senza più; o come sono dell’altre canzoni, che hanno le rime tutte delle medesime voci, sì come ha quella di Dante: Amor, tu vedi ben che questa donna la tua virtù non cura in alcun tempo; il quale uso infino da Pietro Ruggiero incominciò; o come sono ancora quelle canzoni, nelle quali le rime solamente di stanza in stanza si rispondono, e tante volte ha luogo ciascuna rima, quante sono le stanze, né più né meno: nella qual maniera il medesimo Arnaldo tutte le sue canzoni compose, come che egli in alcuna canzone traponesse eziandio le rime ne’ mezzi versi, il che fecero assai sovente ancora degli altri poeti di quella lingua, e sopra tutti Giraldo Brunello, e imitarono, con più diligenza che mestiero non era loro, i Toscani. Oltra che ritrovamento provenzale è stato lo usare i versi rotti; la quale usanza, perciò che molto varia in quelli poeti fu, che alcuna volta di tre sillabe gli fecero, alcuna altra di quattro e ora di cinque e d’otto e molto spesso di nove, oltra quelle di sette e d’undici, avenne che i più antichi Toscani più maniere di versi rotti usarono ne’ loro poemi ancora essi, che loro più vicini erano e più nuovi nella imitazione, e meno i meno antichi; i quali da questa usanza si discostarono, secondo che eglino si vennero da loro lontanando, in tanto che il Petrarca verso rotto niuno altro che di sette sillabe non fece.
X
Presero oltre acciò medesimamente molte voci i fiorentini uomini da questi, e la loro lingua, ancora e rozza e povera, iscaltrirono e arricchirono dell’altrui. Con ciò sia cosa che Poggiare, Obliare, Rimembrare, Assembrare, Badare, Donneare, dagli antichi Toscani detta, e Riparare, quando vuol dire stare e albergare, e Gioire sono provenzali, e Calere altresì; dintorno alla qual voce essi aveano in usanza famigliarissima, volendo dire che alcuno non curasse di che che sia, dire che egli lo poneva in non calere, o veramente a non cale, o ancora a non calente: della qual cosa sono nelle loro rime moltissimi essempi, dalle quali presero non solamente altri scrittori della Toscana, e Dante, che e nelle prose e nel verso se ne ricordò, ma il Petrarca medesimo, quando e’ disse: Per una donna ho messo egualmente in non cale ogni pensiero. Sono ancora provenzali Guiderdone e Arnese e Soggiorno e Orgoglio e Arringo e Guisa e Uopo — Come Uopo? — disse messer Ercole — non è egli Uopo voce latina? — È,— rispose messer Federigo — tuttavolta molto prima da’ Provenzali usata, che si sappia, che da’ Toscani, perché da loro si dee credere che si pigliasse; e tanto più ancora maggiormente, quanto avendo i Toscani in uso quest’altra voce Bisogno, che quello stesso può, di questo Uopo non facea loro uopo altramente. Sì come è da credere che si pigliasse Chero, quantunque egli latina voce sia, essendo eziandio toscana voce Cerco, perciò che molto prima da’ Provenzali fu questa voce ad usar presa, che da’ Toscani; la qual poi torcendo, dissero Cherere e Cherire, e Caendo molto anticamente, e Chesta. Quantunque Uopo s’è alcuna volta ancora più provenzalmente detta, che si fe’ Uo’, in vece di Uopo, recandola in voce d’una sillaba, sì come la recò Dante, il quale nel suo Inferno disse: Più non t’è uo’ ch’aprirmi ‘l tu’ talento. È medesimamente Quadrello voce provenzale, e Onta e Prode e Talento e Tenzona e Gaio e Isnello e Guari e Sovente e Altresì e Dottare e Dottanza, che si disse eziandio Dotta; sì come la disse il medesimo Dante in quei versi pure del suo Inferno: Allor temetti più che mai la morte, e non v’era mestier più che la dotta, s’i’ non avessi viste le ritorte. È nondimeno più in uso Dottanza, sì come voce di quel fine che amato era molto dalla Provenza, il qual fine piacendo per imitazione altresì a’ toscani, e Pietanza e Pesanza e Beninanza e Malenanza e Allegranza e Dilettanza e Piacenza e Valenza e Fallenza e molte altre voci di questa maniera in Guido Guinicelli si leggono, in Guido Cavalcanti, in messer Cino, in messer Onesto, in Buonagiunta, in messer Piero dalle Vigne, e in altri e poeti e prosatori di quella età. Passò questo uso di fine a Dante, e al Boccaccio altresì: tuttavia e all’uno e all’altro pervenne oggimai stanco. Quantunque Dante molto vago si sia dimostrato di portare nella Toscana le provenzali voci: sì come è A randa, che vale quanto appena, e Bozzo, che è bastardo e non legittimo, e Gaggio, come che egli di questa non fosse il primo che in Toscana la si portasse, e sì come è Landa e Miraglio e Smagare che è trarre di sentimento e quasi dalla primiera immagine, e ponsi ancora semplicemente per affannare, la qual voce et esso usò molto spesso, e gli altri poeti eziandio usarono, e il Boccaccio, oltre ad essi, alcuna fiata la pose nelle sue prose. Al Petrarca parve dura, e leggesi usata da lui solamente una volta; tuttavia in quelli sonetti, che egli levò dagli altri del canzonier suo, sì come non degni della loro compagnia: Che da se stesso non sa far cotanto, che ‘l sanguinoso corso del suo lago resti, perch’io dolendo tutto smago. Né queste voci sole furò Dante da’ Provenzali, ma dell’altre ancora, sì come è Drudo e Marca e Vengiare, Giuggiare, Approcciare, Inveggiare e Scoscendere, che è rompere, e Bieco e Croio e Forsennato e Tracotanza e Oltracotanza, che è trascuraggine, e Trascotato; la qual voce usarono parimente degli altri Toscani, e il Boccaccio molto spesso. Anzi ho io un libro veduto delle sue Novelle, buono e antico, nel quale sempre si legge scritta così Trascutato, voce del tutto provenzale, quella che negli altri ha trascurato. Pigliasi eziandio alle volte Trascotato per uomo trapassante il diritto e il dovere, e Tracotanza per così fatto trapassamento. Fu in queste imitazioni, come io dico, molto meno ardito il Petrarca. Pure usò Gaio e Lassato e Sevrare e Gramare e Oprire, che è aprire, voce famigliarissima della Provenza, la quale, passando a quel tempo forse in Toscana, passò eziandio a Roma, e ancora dell’un luogo e dell’altro non s’è partita; usò Ligio, che in tutti i provenzali libri si legge; usò Tanto o quanto, che posero i provenzali in vece di dire pur un poco, in quel verso, Costei non è chi tanto o quanto stringa; e usollo più d’una volta. Senza che egli alquante voci provenzali, che sono dalle toscane in alcuna loro parte differenti, usò più volentieri e più spesso secondo la provenzal forma che la toscana; perciò che e Alma disse più sovente che Anima, e Fora che Saria, e Ancidere che Uccidere, e Augello che Uccello, e più volentieri pose Primiero, quando e’ poté, che Primo, sì come aveano tuttavia in parte fatto ancora degli altri prima di lui. Anzi egli Conquiso, che è voce provenzale, usò molte volte; ma Conquistato, che è toscana, non giamai. Oltra che il dire, Avìa, Solìa, Credìa, che egli usò alle volte, e usò medesimamente provenzale.
XI
Usò eziandio il Petrarca Ha, in vece di sono, quando e’ disse: Fuor tutti i nostri lidi ne l’isole famose di Fortuna due fonti ha, e ancora: Che s’al contar non erro, oggi ha sett’anni, che sospirando vo di riva in riva; pure da’ Provenzali, come io dico, togliendolo, i quali non solamente Ha in vece d’è e di sono ponevano, anzi ancora Avea in vece d’era e d’erano, et Ebbe in vece di fu e di furono dicevano, e così per gli altri tempi tutti e guise di quel verbo discorrendo, facevano molto spesso. Il quale uso imitarono degli altri e poeti e prosatori di questa lingua, e sopra tutti il Boccaccio, il qual disse, Non ha lungo tempo, e Quanti sensali ha in Firenze, e Quante donne v’avea, che ve n’avea molte, e Nella quale, come che oggi ve n’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe già uno, et Ebbevi di quelli, e altri simili termini, non una volta disse, ma molte. Et è ciò nondimeno medesimamente presente uso della Cicilia. E per dire del Petrarca, avenne alle volte che egli delle italiche voci medesime usò col provenzale sentimento; il che si vede nella voce Onde. Perciò che era On provenzale voce, usata da quella nazione in moltissime guise oltra il sentimento suo latino e proprio. Ciò imitando, usolla alquante volte licenziosamente il Petrarca, e tra le altre questa: A la man, ond’io scrivo, è fatta amica, nel qual luogo egli pose Onde, in vece di dire con la quale; e quest’altra: Or quei begli occhi, ond’io mai non mi pento de le mie pene, dove Onde può altrettanto, quanto per cagion de’ quali; il che, quantunque paia arditamente e licenziosamente detto, è nondimeno con molta grazia detto, sì come si vede essere ancora in molti altri luoghi del medesimo poeta, pure dalla Provenza tolto, come io dissi. Sono, oltre a tutto questo, le provenzali scritture piene d’un cotal modo di ragionare, che dicevano: Io amo meglio, in vece di dire io voglio più tosto. Il qual modo, piacendo al Boccaccio, egli il seminò molto spesso per le composizioni sue: Io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni, che, facendo loro agio, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia; e altrove: Amando meglio il figliuolo vivo con moglie non convenevole allui, che morto senza alcuna. Senza che uso de’ Provenzali per aventura ha stato lo aggiugnere la I nel principio di moltissime voci (come che essi la E vi ponessero in quella vece, lettera più acconcia alla lor lingua in tale ufficio, che alla toscana) sì come sono Istare, Ischifare, Ispesso, Istesso e dell’altre, che dalla S, a cui alcun’altra consonante stia dietro, cominciano, come fanno queste. Il che tuttavia non si fa sempre; ma fassi per lo più quando la voce, che dinanzi a queste cotali voci sta, in consonante finisce, per ischifare in quella guisa l’asprezza, che ne uscirebbe se ciò non si facesse; sì come fuggì Dante, che disse: Non isperate mai veder lo cielo; e il Petrarca, che disse: Per iscolpirlo imaginando in parte. E come che il dire in Ispagna paia dal latino esser detto, egli non è così, perciò che quando questa voce alcuna vocale dinanzi da sé ha, Spagna le più volte e non Ispagna si dice. Il qual uso tanto innanzi procedette, che ancora in molte di quelle voci, le quali comunalmente parlandosi hanno la E dinanzi la detta S, quella E pure nella I si cangiò bene spesso: Istimare, Istrano e somiglianti. Oltra che alla voce Nudo s’aggiunse non solamente la I, ma la G ancora, e fecesene Ignudo, non mutandovisi perciò il sentimento di lei in parte alcuna, il quale in quest’altra voce Ignavo si muta nel contrario di quello della primiera sua voce, che nel latino solamente è ad usanza, la qual voce nondimeno italiana è più tosto, sì come dal latino tolta, che toscana. Né solamente molte voci, come si vede, o pure alquanti modi del dire presero dalla Provenza i Toscani; anzi essi ancora molte figure del parlare, molte sentenze, molti argomenti di canzoni, molti versi medesimi le furarono, e più ne furaron quelli, che maggiori stati sono e miglior poeti riputati. Il che agevolmente vederà chiunque le provenzali rime piglierà fatica di leggere, senza che io, a cui sovenire di ciascuno essempio non può, tutti e tre voi gravi ora recitandolevi. Per le quali cose, quello estimar si può, che io, messer Ercole, rispondendo vi dissi, che il verseggiare e rimare da
XII
Avea messer Federigo al suo ragionamento posto fine, quando il Magnifico e mio fratello, dopo alquante parole dell’uno e dell’altro fatte sopra le dette cose, s’avidero che messer Ercole, tacendo e gli occhi in una parte fermi e fissi tenendo, non gli ascoltava, ma pensava ad altro. Il quale, poco appresso riscossosi, ad essi rivolto disse: — Voi avete detto non so che, che io, da nuovo pensamento soprapreso, non ho udito. Vaglia a ridire, se io di troppo non vi gravo. — Di nulla ci gravate, — rispose il Magnifico — ma noi ragionavamo in onore di messer Federigo, lodando la sua diligenza posta nel vedere i provenzali componimenti, da molti non bisognevole e soverchia riputata. Ma voi di che pensavate così fissamente? — Io pensava, — diss’egli — che se io ora, dalle cose che per messer Federigo e per voi della volgar lingua dette si sono persuaso, a scrivere volgarmente mi disponessi, sicuramente a molto strano partito mi crederei essere, né saperei come spedirmene, senza far perdita da qualche canto; il che, quando io latinamente penso di scrivere, non m’aviene. Perciò che la latina lingua altro che una lingua non è, d’una sola qualità e d’una forma, con la quale tutte le italiane genti e dell’altre che italiane non sono parimente scrivono, senza differenza avere e dissomiglianza in parte alcuna questa da quella, con ciò sia cosa che tale è in Napoli la latina lingua, quale ella è in Roma e in Firenze e in Melano e in questa città e in ciascuna altra, dove ella sia in uso o molto o poco, ché in tutte medesimamente è il parlar latino d’una regola e d’una maniera; onde io a latinamente scrivere mettendomi, non potrei errare nello appigliarmi. Ma la volgare sta altramente. Perciò che ancora che le genti tutte, le quali dentro a’ termini della Italia sono comprese, favellino e ragionino volgarmente, nondimeno ad un modo volgarmente favellano i napoletani uomini, ad un altro ragionano i lombardi, ad un altro i toscani, e così per ogni popolo discorrendo, parlano tra sé diversamente tutti gli altri. E sì come le contrade, quantunque italiche sieno medesimamente tutte, hanno nondimeno tra sé diverso e differente sito ciascuna, così le favelle, come che tutte volgari si chiamino, pure tra esse molta differenza si vede essere, e molto sono dissomiglianti l’una dall’altra. Per la qual cosa, come io dissi, impacciato mi troverei, che non saperei, volendo scrivere volgarmente, tra tante forme e quasi facie di volgari ragionamenti, a quale appigliarmi —.
XIII
Allora mio fratello, sorridendo: — Egli si par bene — disse — che voi non abbiate un libro veduto, che il Calmeta composto ha della volgar poesia, nel quale egli, affine che le genti della Italia non istiano in contesa tra loro, dà sentenza sopra questo dubbio, di qualità che niuna se ne può dolere. — Voi di poco potete errare, messer Carlo, — rispose lo Strozza — a dire che io libro alcuno del Calmeta non ho veduto, il quale, come sapete, scritture che volgari siano e componimenti di questa lingua, piglio in mano rade volte o non mai. Ma pure che sentenza è quella sua così maravigliosa che voi dite? — È — rispose mio fratello — questa, che egli giudica e termina in favore della cortigiana lingua, e questa non solamente alla pugliese e alla marchigiana o pure alla melanese prepone, ma ancora con tutte l’altre della Italia a quella della Toscana medesima ne la mette sopra, affermando a’ nostri uomini, che nello scrivere e comporre volgarmente niuna lingua si dee seguire, niuna apprendere, se non questa —. A cui il Magnifico: — E quale domine lingua cortigiana chiama costui? con ciò sia cosa che parlare cortigiano è quello che s’usa nelle corti, e le corti sono molte: perciò che e in Ferrara è corte, e in Mantova e in Urbino, e in Ispagna e in Francia e in Lamagna sono corti, e in molti altri luoghi. Laonde lingua cortigiana chiamare si può in ogni parte del mondo quella che nella corte s’usa della contrada, a differenza di quell’altra che rimane in bocca del popolo, e non suole essere così tersa e così gentile. — Chiama — rispose mio fratello — cortigiana lingua quella della romana corte il nostro Calmeta, e dice che, perciò che facendosi in Italia menzione di corte ogniuno dee credere che di quella di Roma si ragioni, come tra tutte primiera, lingua cortigiana esso vuole che sia quella che s’usa in Roma, non mica da’ romani uomini, ma da quelli della corte che in Roma fanno dimora. — E in Roma — disse il Magnifico — fanno dimora medesimamente diversissime genti pure di corte. Perciò che sì come ciascuno di noi sa, molti cardinali vi sono, quale spagniuolo, quale francese, quale tedesco, quale lombardo, quale toscano, quale viniziano; e di molti signori vi stanno al continuo che sono ancora essa membri della corte, di strane nazioni bene spesso, e molto tra sé differenti e lontane. E il Papa medesimo, che di tutta la corte è capo, quando è valenziano, come veggiamo essere ora, quando genovese e quando d’un luogo e quando d’altro. Perché, se lingua cortigiana è quella che costoro usano, et essi sono tra sé così differenti, come si vede che sono, né quelli medesimi sempre, non so io ancor vedere quale il nostro Calmeta lingua cortigiana si chiami. — Chiama, dico, quella lingua, — disse da capo mio fratello — che in corte di Roma è in usanza; non la spagniuola o la francese o la melanese o la napoletana da sé sola, o alcun’altra, ma quella che del mescolamento di tutte queste è nata, e ora è tra le genti della corte quasi parimente a ciascuna comune. Alla qual parte, dicendogli non ha guari messer Trifone Gabriele nostro, a cui egli, sì come ad uomo che udito avea molte volte ricordare essere dottissimo e sopra tutto intendentissimo delle volgari cose, questa nuova openion sua là dove io era isponea, come ciò potesse essere, che tra così diverse maniere di favella ne uscisse forma alcuna propria, che si potesse e insegnare e apprendere con certa e ferma regola sì che se ne valessino gli scrittori, esso gli rispondea, che sì come i Greci quattro lingue hanno alquanto tra sé differenti e separate, delle quali tutte una ne traggono, che niuna di queste è, ma bene ha in sé molte parti e molte qualità di ciascuna, così di quelle che in Roma, per la varietà delle genti che sì come fiumi al mare vi corrono e allaganvi d’ogni parte, sono senza fallo infinite, se ne genera et escene questa che io dico, la quale altresì, come quella greca si vede avere, sue regole, sue leggi ha, suoi termini, suoi confini, ne’ quali contenendosi valere se ne può chiunque scrive. — Buona somiglianza — disse il Magnifico seguendo le parole di mio fratello — e bene paragonata; ma che rispose messer Trifone a questa parte? — Rispose — disse mio fratello — che oltra che le lingue della Grecia eran quattro, come esso dicea, e quelle di Roma tante che non si numererebbono di leggiere, delle quali tutte formare e comporne una terminata e regolata non si potea come di quattro s’era potuto, le quattro greche nella loro propria maniera s’erano conservate continuo, il che avea fatto agevole agli uomini di quei tempi dare alla quinta certa qualità e certa forma. Ma le romane si mutavano secondo il mutamento de’ signori che facevano la corte, onde quella una che se ne generava, non istava ferma, anzi, a guisa di marina onda, che ora per un vento a quella parte si gonfia, ora a questa si china per un altro, così ella, che pochi anni adietro era stata tutta nostra, ora s’era mutata e divenuta in buona parte straniera. Perciò che poi che le Spagne a servire il loro pontefice a Roma i loro popoli mandati aveano, e Valenza il colle Vaticano occupato avea, a’ nostri uomini e alle nostre donne oggimai altre voci, altri accenti avere in bocca non piaceva, che spagniuoli. Così quinci a poco, se il cristiano pastore, che a quello d’oggi venisse appresso, fosse francese, il parlare della Francia passerebbe a Roma insieme con quelle genti, e la cortigiana lingua, che s’era oggimai cotanto inispagnuolita, incontanente s’infranceserebbe, e altrettanto di nuova forma piglierebbe, ogni volta che le chiavi di S. Pietro venissero a mano di posseditore diverso di nazione dal passato. Ora, allo ‘ncontro, molte cose recò il Calmeta in difesa della sua nuova lingua, poco sustanzievoli nel vero e a quelle somiglianti che udito avete, volendo a messer Trifone persuadere, che il parlare della romana corte era grave, dolce, vago, limato, puro, il che diceva dell’altre lingue non avenire, né pure della toscana così apieno. Ma egli nulla di ciò gli credette, né gliele fece buono in parte alcuna; onde egli o per la fatica del ragionare, o pure perciò che messer Trifone non accettava le sue ragioni, tutto cruccioso e caldo si dipartì
XIV
— Bene e ragionevolmente, sì come egli sempre fa, rispose messer Trifone al Calmeta, — disse il Magnifico — in ciò che raccontato ci avete. Ma egli l’arebbe per aventura potuto strignere con più forte nodo, e arebbel fatto: se non l’avesse, sì come io stimo, la sua grande e naturale modestia ritenuto. — E quale è questo nodo più forte, Giuliano, — disse lo Strozza — che voi dite? — È — diss’egli — che quella lingua che esso all’altre tutte prepone, non solamente non è di qualità da preporre ad alcuna, ma io non so ancora se dire si può, che ella sia veramente lingua. — Come, che ella non sia lingua? — disse messer Ercole — non si parla e ragiona egli in corte di Roma a modo niuno? — Parlavisi — rispose il Magnifico — e ragionavisi medesimamente come negli altri luoghi; ma questo ragionare per aventura e questo favellare tuttavia non è lingua, perciò che non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore. Già non si disse alcuna delle cinque greche lingue esser lingua per altro, se non perciò che si trovavano in quella maniera di lingua molti scrittori. Né la latina lingua chiamiamo noi lingua, solo che per cagion di Plauto, di Terenzio, di Virgilio, di Varrone, di Cicerone e degli altri che, scrivendo, hanno fatto che ella è lingua, come si vede. Il Calmeta scrittore alcuno non ha da mostrarci, della lingua che egli cotanto loda agli scrittori. Oltre acciò ogni lingua alcuna qualità ha in sé, per la quale essa è lingua o povera o abondevole o tersa o rozza o piacevole o severa, o altre parti ha a queste simili che io dico; il che dimostrare con altro testimonio non si può che di coloro che hanno in quella lingua scritto. Perciò che se io volessi dire che la fiorentina lingua più regolata si vede essere, più vaga, più pura che la provenzale, i miei due Toschi vi porrei dinanzi, il Boccaccio e il Petrarca senza più, come che molti ve n’avesse degli altri, i quali due tale fatta l’hanno, quale essendo non ha da pentirsi. Il Calmeta quale auttore ci recherà per dimostrarci che la sua lingua queste o quelle parti ha, per le quali ella sia da preporre alla mia? sicuramente non niuno, che di nessuno si sa che nella cortigiana lingua scritto abbia infino a questo giorno —. Quivi tramettendosi messer Ercole: — A questo modo — disse — si potranno per aventura le parole di messer Carlo far vere, che non essendo lingua quella che il Calmeta per lingua a tutte le italiane lingue prepone, niun popolo della Italia dolere si potrà della sua sentenza. Ma io non per questo sarò, Giuliano, fuori del dubbio che io vi proposi. — Sì sarete sì, — rispose il Magnifico — se voi per aventura seguitar quegli altri non voleste, i quali perciò che non sanno essi ragionar toscanamente, si fanno a credere che ben fatto sia quelli biasimare che così ragionano; per la qual cosa essi la costoro diligenza schernendo, senza legge alcuna scrivono, senza avertimento, e comunque gli porta la folle e vana licenza, che essi da sé s’hanno presa, così ne vanno ogni voce di qualunque popolo, ogni modo sciocco, ogni stemperata maniera di dire ne’ loro ragionamenti portando, e in essi affermando che così si dee fare; o pure se voi al Bembo vi farete dire, perché è, che messer Pietro suo fratello i suoi Asolani libri più tosto in lingua fiorentina dettati ha, che in quella della città sua —. Allora mio fratello, senza altro priego di messer Ercole aspettare, disse: — Hallo fatto per quella cagione, per la quale molti Greci, quantunque Ateniesi non fossero, pure più volentieri i loro componimenti in lingua attica distendeano che in altra, sì come in quella che è nel vero più vaga e più gentile —.
XV
— È adunque la fiorentina lingua — disse lo Strozza — più gentile e più vaga, messer Carlo, della vostra? — È senza dubbio alcuno, — rispose egli — né mi ritrarrò io, messer Ercole, di confessare a voi quello che mio fratello a ciascuno ha confessato, in quella lingua più tosto che in questa dettando e commentando. — Ma perché è, — rispose lo Strozza — che quella lingua più gentile sia che la vostra? — Allora disse mio fratello: — Egli si potrebbe dire in questa sentenza, messer Ercole, molte cose; perciò che primieramente si veggono le toscane voci miglior suono avere, che non hanno le viniziane, più dolce, più vago, più ispedito, più vivo; né elle tronche si vede che sieno e mancanti, come si può di buona parte delle nostre vedere, le quali niuna lettera raddoppiano giamai. Oltre a questo, hanno il loro cominciamento più proprio, hanno il mezzo più ordinato, hanno più soave e più dilicato il fine, né sono così sciolte, così languide; alle regole hanno più risguardo, a’ tempi, a’ numeri, agli articoli, alle persone. Molte guise del dire usano i toscani uomini, piene di giudicio, piene di vaghezza, molte grate e dolci figure che non usiam noi, le quali cose quanto adornano, non bisogna che venga in quistione. Ma io non voglio dire ora, se non questo: che la nostra lingua, scrittor di prosa che si legga e tenga per mano ordinatamente, non ha ella alcuno; di verso, senza fallo, molti pochi; uno de’ quali più in pregio è stato a’ suoi tempi, o pure a’ nostri, per le maniere del canto, col quale egli mandò fuori le sue canzoni, che per quella della scrittura, le quali canzoni dal sopranome di lui sono poi state dette e ora si dicono le Giustiniane —. E se il Cosmico è stato letto già, e ora si legge, è forse perciò che egli non ha in tutto composto vinizianamente, anzi s’è egli dal suo natìo parlare più che mezzanamente discostato. La qual povertà e mancamento di scrittori, istimo essere avenuto perciò che nello scrivere la lingua non sodisfà, posta, dico, nelle carte tale quale ella è nel popolo ragionando e favellando, e pigliarla dalle scritture non si può, ché degni e accettati scrittori noi, come io dissi, non abbiamo. Là dove la toscana e nel parlare è vaga e nelle scritture si legge ordinatissima, con ciò sia cosa che ella, da molti suoi scrittori di tempo in tempo indirizzata, è ora in guisa e regolata e gentile, che oggimai poco disiderare si può più oltra, massimamente veggendosi quello, che non è meno che altro da disiderare che vi sia, e ciò è che allei copia e ampiezza non mancano. La qual cosa scorgere si può per questo, che ella, e alle quantunque alte e gravi materie dà bastevolmente voci che le spongono, niente meno che si dia la latina, e alle basse e leggiere altresì; a’ quali due stremi quando si sodisfà, non è da dubitare che al mezzano stato si manchi. Anzi alcuna volta eziandio più abondevole si potrebbe per aventura dire che ella fosse. Perciò che rivolgendo ogni cosa, con qual voce i latini dicano quello che da’ toscani molto usatamente valore è detto, non troverete. E perciò che tanto sono le lingue belle e buone più e meno l’una dell’altra, quanto elle più o meno hanno illustri e onorati scrittori, sicuramente dire si può, messer Ercole, la fiorentina lingua essere non solamente della mia, che senza contesa la si mette innanzi, ma ancora di tutte l’altre volgari, che a nostro conoscimento pervengono, di gran lunga primiera. — Bella e piena loda è questa, Giuliano, del vostro parlare, — disse lo Strozza — e, come io stimo, ancor vera, poi che ella da istrano e da giudicioso uomo gli è data. Ma voi, messer Federigo, che ne dite? parvi egli che così sia? — Parmi senza dubbio alcuno, — rispose messer Federigo — e dicone quello stesso che messer Carlo ne dice; il che si può credere ancora per questo, che non solamente i viniziani compositori di rime con la fiorentina lingua scrivono, se letti vogliono essere dalle genti, ma tutti gli altri italiani ancora. Di prosa non pare già, che ancor si veggano, oltra i toscani, molti scrittori. E di ciò anco non è maraviglia, con ciò sia cosa che la prosa molto più tardi è stata ricevuta dall’altre nazioni che il verso. Perché voi vi potete tener per contento, Giuliano, al quale ha fatto il cielo natìo e proprio quel parlare, che gli altri Italiani uomini per elezione seguono, et è loro istrano —.
XVI
Allora mio fratello: — Egli par bene da una parte, — disse — messer Federigo, che per contento tener se ne debba Giuliano, perciò che egli ha senza sua fatica quella lingua nella culla e nelle fascie apparata, che noi dagli auttori il più delle volte con l’ossa dure disagiosamente appariamo. Ma d’altra non so io bene, senza fallo alcuno, che dirmi; e viemmi talora in openione di credere, che l’essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio. Perciò che, oltre che naturalmente suole avenire, che le cose delle quali abondiamo sono da noi men care avute, onde voi toschi, del vostro parlare abondevoli, meno stima ne fate che noi non facciamo, sì aviene egli ancora che, perciò che voi ci nascete e crescete, a voi pare di saperlo abastanza, per la qual cosa non ne cercate altramente gli scrittori, a quello del popolaresco uso tenendovi, senza passar più avanti, il quale nel vero non è mai così gentile, così vago, come sono le buone scritture. Ma gli altri, che toscani non sono, da’ buoni libri la lingua apprendendo, l’apprendono vaga e gentile. Così ne viene per aventura quello che io ho udito dire più volte, che a questi tempi non così propriamente né così riguardevolmente scrivete nella vostra medesima lingua voi fiorentini, Giuliano, come si vede che scrivono degli altri. Il che può avenire eziandio per questo, che quando bene ancora voi, per meglio sapere scrivere, abbiate con diligenza cerchi e ricerchi i vostri auttori, pure poi, quando la penna pigliate in mano, per occulta forza della lunga usanza, che nel parlare avete fatta del popolo, molte di quelle voci e molte di quelle maniere del dire vi si parano, mal grado vostro, dinanzi, che offendono e quasi macchiano le scritture, e queste tutte fuggire e schifare non si possono il più delle volte il che non aviene di coloro, che lo scrivere nella lingua vostra dalle buone composizioni vostre solamente, e non altronde, hanno appreso. Né dico già io ciò, perché non ce ne possa alcuno essere, in cui questo non abbia luogo: sì come non ha, Giuliano, in voi, il quale, da fanciullo nelle buone lezioni avezzo, così ragionate ora, come quelli scrissero, de’ quali s’è detto. Ma dicolo per la maggior parte, o forse per gli altri, che io non so se alcuno altro s’è de’ vostri, che questo in ciò possa che voi potete —.
XVII
— Io, messer Carlo, — riprese il Magnifico — lasciando da parte quello che di me avete detto, a che io rispondere non voglio, non vi niego già che egli non possa essere che messer Pietro vostro fratello, e degli altri, che fiorentini non sono, la lingua de’ nostri antichi scrittori con maggiore diligenza non seguano, e più segnatamente con essa per aventura non scrivano di quello che scriviam noi; e voglio io ripormi tra gli altri, da’ quali voi, per vostra cortesia, tolto m’avete. Ma io non so se egli si debba per questo dire che il vostro scrivere in quella guisa più sia da lodare che il nostro. Perciò che, come si vede chiaramente in ogni regione e in ogni popolo avenire, il parlare e le favelle non sempre durano in uno medesimo stato, anzi elle si vanno o poco o molto cangiando, sì come si cangia il vestire, il guerreggiare, e gli altri costumi e maniere del vivere, come che sia. Perché le scritture, sì come anco le veste e le arme, accostare si debbono e adagiare con l’uso de’ tempi, ne’ quali si scrive, con ciò sia cosa che esse dagli uomini, che vivono, hanno ad esser lette e intese, e non da quelli che son già passati. Era il nostro parlare negli antichi tempi rozzo e grosso e materiale, e molto più oliva di contado che di città. Per la qual cosa Guido Cavalcanti, Farinata degli Uberti, Guittone, e molt’altri, le parole del loro secolo usando, lasciarono le rime loro piene di materiali e grosse voci altresì; perciò che e Blasmo e Placere e Meo e Deo dissero assai sovente, e Bellore e Fallore e Lucore e Amanza e Saccente e Coralmente, senza risguardo e senza considerazione alcuna avervi sopra, sì come quelli che ancora udite non aveano di più vaghe. Né stette guari, che la lingua lasciò in gran parte la prima dura corteccia del pedal suo. Laonde Dante, e nella Vita Nuova e nel Convito e nelle Canzoni e nella Comedia sua, molto si vede mutato e differente da quelli primieri che io dico, e tra queste sue composizioni più si vede lontano da loro in quelle alle quali egli pose mano più attempato, che nelle altre; il che argomento è che secondo il mutamento della lingua si mutava egli, affine di poter piacere alle genti di quella stagione, nella quale esso scrivea. Furono pochi anni appresso il Boccaccio e il Petrarca, i quali, trovando medesimamente il parlare della patria loro altrettanto o più ancora cangiato da quello che trovò Dante, cangiarono in parte altresì i loro componimenti. Ora vi dico, che sì come al Petrarca e al Boccaccio non sarebbe stato dicevole che eglino si fossero dati allo scrivere nella lingua di quegli antichi lasciando la loro, quantunque essi l’avessero e potuto e saputo fare, così né più né meno pare che a noi si disconvenga, lasciando questa del nostro secolo, il metterci a comporre in quella del loro, ché si potrebbe dire, messer Carlo, che noi scriver volessimo a’ morti più che a’ vivi. Le bocche acconcie a parlare ha la natura date agli uomini, affine che ciò sia loro de’ loro animi, che vedere compiutamente in altro specchio non si possono, segno e dimostramento; e questo parlare d’una maniera si sente nella Italia, e in Lamagna si vede essere d’un’altra, e così da questi diverso negli altri luoghi. Perché, sì come voi e io saremmo da riprendere, se noi a’ nostri figliuoli facessimo il tedesco linguaggio imprendere, più tosto che il nostro, così medesimamente si potrebbe per aventura dire, che biasimo meritasse colui, il quale vuole innanzi con la lingua degli altri secoli scrivere, che con quella del suo —.
XVIII
Tacevati, dette queste parole, il Magnifico, e gli altri medesimamente si tacevano, aspettando quello che mio fratello recasse allo ‘ncontro, il quale incontanente in questa guisa rispose: — Debole e arenoso fondamento avete alle vostre ragioni dato, se io non m’inganno, Giuliano, dicendo, che perché le favelle si mutano, egli si dee sempre a quel parlare, che è in bocca delle genti, quando altri si mette a scrivere, appressare e avicinare i compo30 nimenti, con ciò sia cosa che d’esser letto e inteso dagli uomini che vivono si debba cercare e procacciare per ciascuno. Perciò che se questo fosse vero, ne seguirebbe che a coloro che popolarescamente scrivono, maggior loda si convenisse dare che a quegli che le scritture loro dettano e compongono più figurate e più gentili; e Virgilio meno sarebbe stato pregiato, che molti dicitori di piazza e di volgo per aventura non furono, con ciò sia cosa che egli assai sovente ne’ suoi poemi usa modi del dire in tutto lontani dall’usanze del popolo, e costoro non vi si discostano giamai. La lingua delle scritture, Giuliano, non dee a quella del popolo accostarsi, se non in quanto, accostandovisi, non perde gravità non perde grandezza; che altramente ella discostare se ne dee e dilungare, quanto le basta a mantenersi in vago e in gentile stato. Il che aviene per ciò, che appunto non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti solamente, che sono in vita quando essi scrivono, come voi dite, ma a quelle ancora, e per aventura molto più, che sono a vivere dopo loro: con ciò sia cosa che ciascuno la eternità alle sue fatiche più ama, che un brieve tempo. E perciò che non si può per noi compiutamente sapere quale abbia ad essere l’usanza delle favelle di quegli uomini, che nel secolo nasceranno che appresso il nostro verrà, e molto meno di quegli altri, i quali appresso noi alquanti secoli nasceranno; è da vedere che alle nostre composizioni tale forma e tale stato si dia, che elle piacer possano in ciascuna età, e ad ogni secolo, ad ogni stagione esser care; sì come diedero nella latina lingua a’ loro componimenti Virgilio, Cicerone e degli altri, e nella greca Omero, Demostene e di molt’altri ai loro; i quali tutti, non mica secondo il parlare, che era in uso e in bocca del volgo della loro età, scriveano, ma secondo che parea loro che bene lor mettesse a poter piacere più lungamente. Credete voi che se il Petrarca avesse le sue canzoni con la favella composte de’ suoi popolani, che elle così vaghe, così belle fossero come sono, così care, così gentili? Male credete, se ciò credete. Né il Boccaccio altresì con la bocca del popolo ragionò; quantunque alle prose ella molto meno si disconvenga, che al verso. Che come che egli alcuna volta, massimamente nelle novelle, secondo le proposte materie, persone di volgo a ragionare traponendo, s’ingegnasse di farle parlare con le voci con le quali il volgo parlava, nondimeno egli si vede che in tutto ‘l corpo delle composizioni sue esso è così di belle figure, di vaghi modi e dal popolo non usati, ripieno, che meraviglia non è se egli ancora vive, e lunghissimi secoli viverà. Il somigliante hanno fatto nelle altre lingue quegli scrittori, a’ quali è stato bisogno, per conto delle materie delle quali essi scriveano, le voci del popolo alle volte porre nel campo delle loro scritture; sì come sono stati oratori e compositori di comedie o pure di cose che al popolo dirittamente si ragionano, se essi tuttavia buoni maestri delle loro opere sono stati. Quale altro giamai fu, che al popolo ragionasse più di quello che fe’ Cicerone? Nondimeno il suo ragionare in tanto si levò dal popolo, che egli sempre solo, sempre unico, sempre senza compagnia è stato. Simigliantemente avenne di Demostene tra’ Greci; e poco meno in quell’altra maniera di scrivere, d’Aristofane e di Terenzio tra loro e tra noi. Per la qual cosa dire di loro si può, che essi bene hanno ragionato col popolo in modo che sono stati dal popolo intesi, ma non in quella guisa nella quale il popolo ha ragionato con loro. Perché, se volete dire, Giuliano, che agli scrittori stia bene ragionare in maniera, che essi dal popolo siano intesi, io il vi potrò concedere non in tutti, ma in alquanti scrittori tuttavia; ma che essi ragionar debbano, come ragiona il popolo, questo in niuno vi si concederà giamai. Sono in questa città molti, e credo io che ne siano nella vostra ancora, i quali, orando come si fa dinanzi alle corone de’ giudici, o altramente agli orecchi della moltitudine consigliando come che sia, truovano e usano molte voci nuove e per adietro dal popolo non udite, o ne dicono molte usate, ma tuttavia le pongono con nuovo sentimento, o ancora da altre lingue ne pigliano, per fare il loro parlare più riguardevole e più vago, le quali tuttavia sono dal popolo intese, o perché essi le dirivano da alcuna usata, o perché la catena delle voci, tra le quali elle son poste, le fa palesi. Usano eziandio molti modi e molte figure del dire similmente nuove al volgo, e nondimeno per quelle cagioni medesime da esso intese. Il che, se nel ragionare osservato accresce dignità e grazia, quanto si dee egli osservare maggiormente nelle scritture? Oltra che infiniti scrittori sono, a’ quali non fa mestiero essere intesi dal volgo; anzi essi lo rifiutano e scacciano dai loro componimenti, solamente ad essi i dotti e gli scienziati uomini ammettendo. Né questo solamente fanno nelle composizioni, che essi agli scienziati scrivono, ma in quelle ancora molte volte che dettano e indirizzano a’ non dotti. Scrive delle bisogne del contado il mantovano Virgilio, e scrive a contadini, invitandogli ad apparar le cose di che egli ragiona loro; tuttavolta scrive in modo che non che contadino alcuno, ma niuno uomo più che di città, se non dotto grandemente e letterato, può bene e compiutamente intendere ciò che egli scrive. Potrassi egli per questo dire che i libri dell’opere della villa di Virgilio non siano lo specchio e il lume e la gloria de’ latini componimenti? Non è la moltitudine, Giuliano, quella che alle composi zioni d’alcun secolo dona grido e auttorità, ma sono pochissimi uomini di ciascun secolo, al giudicio de’ quali, perciò che sono essi più dotti degli altri riputati, danno poi le genti e la moltitudine fede, che per sé sola giudicare non sa dirittamente, e a quella parte si piega con le sue voci, a cui ella que’ pochi uomini, che io dico, sente piegare. E i dotti non giudicano che alcuno bene scriva, perché egli alla moltitudine e al popolo possa piacere del secolo nel quale esso scrive; ma giudica a’ dotti di qualunque secolo tanto ciascuno dover piacere, quanto egli scrive bene; ché del popolo non fanno caso. È adunque da scriver bene più che si può, perciò che le buone scritture, prima a’ dotti e poi al popolo del loro secolo piacendo, piacciono altresì e a’ dotti e al popolo degli altri secoli parimente.
XIX
Ora mi potreste dire: cotesto tuo scriver bene onde si ritra’ egli, e da cui si cerca? Hass’egli sempre ad imprendere dagli scrittori antichi e passati? Non piaccia a Dio sempre, Giuliano, ma sì bene ogni volta che migliore e più lodato è il parlare nelle scritture de’ passati uomini, che quello che è o in bocca o nelle scritture de’ vivi. Non dovea Cicerone o Virgilio, lasciando il parlare della loro età, ragionare con quello d’Ennio o di quegli altri, che furono più antichi ancora di lui, perciò che essi avrebbono oro purissimo, che delle preziose vene del loro fertile e fiorito secolo si traeva, col piombo della rozza età di coloro cangiato; sì come diceste che non doveano il Petrarca e il Boccaccio col parlare di Dante, e molto meno con quello di Guido Guinicelli e di Farinata e dei nati a quegli anni ragionare. Ma quante volte aviene che la maniera della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per noi con lo stile delle passate stagioni scrivere, Giuliano, e non con quello del nostro tempo. Perché molto meglio e più lodevolmente avrebbono e prosato e verseggiato, e Seneca e Tranquillo e Lucano e Claudiano e tutti quegli scrittori, che dopo ‘l secolo di Giulio Cesare e d’Augusto e dopo quella monda e felice età stati sono infino a noi, se essi nella guisa di que’ loro antichi, di Virgilio dico e di Cicerone, scritto avessero, che non hanno fatto scrivendo nella loro; e molto meglio faremo noi altresì, se con lo stile del Boccaccio e del Petrarca ragioneremo nelle nostre carte, che non faremo a ragionare col nostro, perciò che senza fallo alcuno molto meglio ragionarono essi che non ragioniamo noi. Né fie per questo che dire si possa, che noi ragioniamo e scriviamo a’ morti più che a’ vivi. A’ morti scrivono coloro, le scritture de’ quali non sono da persona lette giamai, o se pure alcuno le legge, sono que’ tali uomini di volgo, che non hanno giudicio e così le malvagie cose leggono come le buone, perché essi morti si possono alle scritture dirittamente chiamare, e quelle scritture altresì, le quali in ogni modo muoiono con le prime carte. La latina lingua, sì come si disse pur dianzi, era agli antichi natìa, e in quel grado medesimo che è ora la volgare a noi, che così l’apprendevano essi tutti e così la usavano, come noi apprendiamo questa e usiamo, né più né meno. Non perciò ne viene, che quale ora latinamente scrive, a’ morti si debba dire che egli scriva più che a’ vivi, perciò che gli uomini, de’ quali ella era lingua, ora non vivono, anzi sono già molti secoli stati per lo adietro. Ma io sono forse troppo ardito, Giuliano, che di queste cose con voi così affermatamente ragiono e quasi come legittimo giudice voglio speditamente darne sentenza. Egli si potrà poscia, quando a voi piacerà, altra volta meglio vedere, se quello che io dico è vero; e messer Federigo alcuna cosa vi ci recherà ancora egli. — Io per me niuna cosa saprei recare sopra quelle che si son dette, — disse a questo messer Federigo — forse perciò che aggiugnere non si può sopra ‘l vero. Ma io m’aveggo che il dì è basso; se Giuliano più oltra non fa pensiero di dire egli, sarà per aventura ben fatto che noi pensiamo di dipartirci. — Né io altresì voglio dire più oltra, — rispose il Magnifico — poscia che, o la nuova fiorentina lingua o l’antica che si lodi maggiormente, l’onore in ogni modo ne va alla patria mia. Il dipartire adunque, messer Federigo, sia quando a voi piace, se messer Ercole nondimeno s’è de’ suoi dubbi risoluto a bastanza —.
XX
Allora lo Strozza, che buona pezza assai intentamente quello che s’era ragionato ascoltando, niente parlato avea, disse: — Lo avermi voi tutti oggi fatto chiaro d’alquante cose sopra la volgar lingua, delle quali io niuna contezza avea, m’ha posto in disio di dimandarvi d’alquante altre, e fare’lo volentieri se l’ora non fosse tarda, come messer Federigo dice e come io veggo che ella è, e se noi non avessimo pur troppo lungamente occupato messer Carlo, il quale fie bene che noi lasciamo. — Me non avete voi occupato di nulla, — riprese mio fratello — il quale non potea questo dì meglio spendere che io me l’abbia speso. Voi, messer Ercole, e questi altri posso io bene avere occupati e disagiati soverchio, il che se è stato, della vostra molta cortesia ringraziandovi, che avete con isconcio di voi il mio natale dì della vostra presenza onorato, vi chieggo di ciò perdono. Non per tanto io non mi pento d’avervi dato questo sinistro: e chi sa, se io ne ho a fare più alcuno altro? Ma, lasciando questo da parte, se io credessi che voi, fatto chiaro di quelle cose delle quali dite che ci addimandereste volentieri, pensaste di scrivere alcuna volta con quella lingua con la quale ragionate sempre, io direi che noi, o qui o in altro luogo dove a voi piacesse, insieme ci ritrovassimo medesimamente domani a questo fine. Ma io non lo spero, in maniera v’ho io conosciuto in ogni tempo lontano da questo consiglio. — Sicuramente — disse lo Strozza — così è stato di me come voi dite, infino a questo giorno, che non ho mai potuto volger l’animo allo scrivere in questa favella. Non perciò dovete voi di ragionarne meco rimanervi, che egli potrebbe bene avenire che io muterei sentenza, udendo le vostre ragioni. E domani che possiamo noi meglio fare, massimamente niuna cosa affare avendo, come non abbiamo? se costor due tuttavolta maggiore opera non hanno a fornire, che m’abbia io —. I quali rispondendo che essi niuna ne aveano, e quando n’avesser molte avute, essi non sapeano che cosa si potesse per loro fare, che loro più piacesse che si facesse di questa, — Dunque, — disse mio fratello — poscia che voi il fate possibile, per me non voglio già io che rimanga, che non vi sia ogni occasion data, messer Ercole, della vostra falsa openione di dipartirvi —. E così conchiuso per ciascuno che il seguente giorno appresso desinare pure a casa mio fratello si venisse, essi da sedere si levarono, e preso da tutti il passo verso le scale, che alquanto lontane erano dalla parte, nella quale dimorando ragionato aveano, disse lo Strozza: — Se di questo dubbio voi mi potete, messer Carlo, così caminando far chiaro, ditemi: quando alcun fosse, il quale nello scrivere, né a quella antica toscana lingua, né a questa nuova in tutto tenendosi, delle quali disputato avete, ma dell’una e dell’altra le migliori parti pigliando, amendue le mescolasse e facessene una sua, non lo lodereste voi più che se egli non le mescolasse? — Io — disse mio fratello — il loderei, quando egli tuttavia facesse in modo che la sua mescolata lingua fosse migliore, che non è la semplice antica. Ma ciò sarebbe più malagevole affare, che altri per aventura non istima; con ciò sia cosa che il men buono aggiunto al migliore non lo può miglior fare di quello che egli è, men buono sì il fa egli sempre; ché il pane del grano non si fa miglior pane per mescolarvi la saggina. Perché io per me non saprei lodare, messer Ercole, questo mescolamento —. Così detto, e scese le scale, e alle porte, che dal canto dell’acqua erano, pervenuti, mio fratello si rimase, e gli tre, in una delle nostre barchette saliti, si dipartirono.

 

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Ultimo Aggiornamento:
18/07/2005 01.35

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