Delle
bellezze delle donne
di: Agnolo Firenzuola
IL FIRENZUOLA FIORENTINO
ALLE NOBILI E BELLE DONNE PRATESI
FELICITÀ
Essendo stato ricerco molte volte da quelle persone che mi hanno
sempre potuto comandare, ch'io dovessi dar fuori un mio dialoghetto, che ai giorni passati
io composi a requisizione d'una cosa a me carissima, in dichiarazione della perfezione
della belleza d'una donna, se sarò stato troppo renitente o tardo in compiacerle, io
penso senza molta difficultà doverne essere iscusato. Perciò che buona parte di quelle
che me n'hanno ricerco, sanno molto bene quanto sia biasimevole anzi dannoso non
rinchiuder le nuove e quasi tenere figliuoline ne' penetrali delle case, per tanto tempo
almeno che, quando si mandano fuori, possano, come i veri figliuoli dell'aquila,
comportare la chiareza del sole, e sia mancata quella affezione naturale che ogni uomo
porta alle cose sue e le conosca quasi per forestiere, veggiavi e considerivi i defetti,
non come piatoso padre, ma come severo censore. Toglievami oltre a di questo da cotal
proposito l'aver sentito dire che certi di questi nostri cervelli tanto stillati, che si
convertono in fumo il più delle volte, volevano interpretare i nomi, che io ho celati
studiosamente e di questa e di quella; e già trovavano una donna e dicevanle: Tu
non [716] sai? Il tale ha detto che tu ti lisci e t'ha chiamato mona Ciona e mona Bettola
. Ed ecci chi non si è vergognato di volere che una delle belle giovani di Prato,
modesta e gentile, anzi veramente una preciosa margherita, sia
quella dal raso nero, allontanandosi dal vero quanto si accostavano al precipitoso
giudizio della loro iniquità. L'intenzione mia, Pratesi mie care, non è stata di notar
né questa né quella; ma parendomi che la proprietà del dialogo e il suo ornamento
ricercassero cotai fioretti, che come esempi ponessero la cosa inanzi ai lettori, come si
costuma nel ragionare cotidiano, mi fingeva ora il nome d'una, ora d'un'altra, secondo che
richiedeva la ragionata materia, senza pensare più a mona Pasquina che a mona Salvestra.
Sì che, donne mie belle, quando questi maligni, così vostri come miei nimici, dicono
ch'io ho detto mal di voi, rispondete loro audacemente quello ch'io uso di dire tutto il
dì, che chi con atti, con parole, con pensieri usa di fare una minima offesa a una minima
donna, ch'egli non è uomo, anzi un animale non ragionevole, cioè una bestia; e quando
uno di questi cosi fatti vi dice male ora di questo e ora di quello, rispondeteli, se non
con le parole, con la mente almeno, che egli non fa atto d'uomo valoroso; perciò che chi
dice male d'uno in assenza, nella cui bocca egli ride in presenza, che egli frauda se
stesso; e non dite più, ché questa risposta, come vera, gli trafiggerà. E però quando
e' dicono: Questa è la tale. Questa è la quale io vi dico di nuovo che e'
s'allontanano dal vero e che e' sono nomi a caso e cognomi a caso e massime quegli che ci
sono per dare esempio delle brutte. Ben è vero che alcuni di quelli che ci sono per
esempio delle belle, insieme con le quattro donne che con Celso ragionano, ch'io le ho
nella imaginazione e conoscole col pensiero; e ne' finti nomi loro chi gl'andasse per il
minuto scortecciando, ritroverebbe i veri sotto un sottil velo. Sì che questa era una
delle belle principal cagioni ch'io li voleva lasciar tra la polvere in- [717] vecchiare;
e tanto maggiormente, che oltre a questo, e' c'era chi diceva che e' si trovavano alcune
donne che si sdegnavano che io di loro ragionassi o bene o male; alcune altre si dolevano
che io ne avessi tenuto sì poco conto, che io non le avessi dato luogo tra le quattro,
parendolo lor meritare, come nel vero facevano, se merito bisogna assegnare a le mie vili
e roze carte, atte più tosto a torre che a dar lode alla loro chiara fama.
Alle quali, poi che pure mi è forza dar fuori questa operetta,
rispondendo quattro parole in mia difensione, dico che le prime hanno il torto,
percioché, se ben lo stil mio è basso, la eloquenzia è poca, le forze dell'ingegno sono
debili, la eleganzia è niente, devevano pure accettare la buona volontà; senza che le
cose mie non sono però tali che alcune grandi ed eccellenti signore e ingeniose
gentildonne di questa nostra Italia non l'abbiano volentier lette, apprezate e tenuto caro
l'autore. E vogliomi e posso vantare di questo, che'1 giudizioso orecchio di Clemente il
settimo, alle cui lodi non arriverebbe mai penna d'ingegno, alla presenzia dei più
preclari spiriti d'Italia, stette già aperto più ore con grande attenzione a ricevere il
suono che gli rendeva la voce sua stessa, mentre leggeva il Discacciamento e la
prima giornata di quegli Ragionamenti ch'io dedicai già all'illustrissima signora
Caterina Cibo, degnissima duchessa di Camerino, non senza dimostrazione di diletto né
senza mie lode. Ma quando questo non fusse vero (che è verissimo, e chiamone in testimone
il gran vescovo Giovio), Marco Tullio, che fu l'occhio diritto della lingua latina, or non
iscrive egli a Lucio Luceio queste formali parole: "Io ardo di incredibil desiderio
d'essere celebrato da gli scritti tuoi"? Se il principe degli scrittori latini
adunque mostra d'avere sì caro, anzi di arder per il desiderio grande d'esser celebrato
da uno tanto inferior a lui, che esso lo prega che con tanta vemenzia che di lui scriva,
perché vi sdegnate voi ch'io vi nomini o di voi scriva in questo mio dialoghetto? Che, se
ben non sono L. Luceio, che [718] forse sono, e voi non sete né Elene né Veneri, e non
dico di tutte, ma di quelle sole che, se non sono fatte sorde da pochi giorni in qua, so
ben che m'odono.
Ma e' potrebbe molto ben essere che queste tali lo recusassero
per onestà, per umiltà volsi dire; cioè per non conoscere cosa in
loro che le rendesse degne di questo onore; alle quali, quando questo sia, io perdono
molto volentieri, anzi le ho per iscusate; rivoltandomi alle altre, le quali mostrano di
tenere tanto conto di questo infelice mio libretto, che le mi' minacciano d'uno non
scordevole odio, perché io non ce le ho inserite dentro; e dico loro, per mia vera e
giustissima scusa, che la paura che mi avevano fatta quelle prime, mi ritenne dal mettervi
le seconde, dubitando non l'avessero per male come quell'altre; nondimeno queste che
mostrano di stimare tanto le cose mie, io le ringrazio, e portinmi odio o non me ne
portino, in ogni modo son loro obligato e mostrerollo forse loro un dì più
particolarmente.
E' mi è stato zufolato anche negli orecchi un'altra cosa, che non
importa poco; che quella ch' è signora e patrona dell'anima mia, nata per sostegno della
mia vecchieza, eletta per riposo delle mie fatiche, si lamenta che non ci si ritrova. La
prima cosa, questo non è picciol peccato, perciò che io non so che veruna sappia ancora
d'essere il mio struggimento; con ciò sia ch'io non ho avuto ancora agio di dirgnene, né
le ho saputo far tanto che la se ne sia potuta accorrere per cenni; ma ditele che guardi
il mio core a falda a falda e, se la non ci si trova, dica mal di me; e che le basti
questo e non si rammarichi, ma per pur quando alcuno senza mia licenza gnene avesse detto
per me, facciale anche adesso quest'altra ambasciata con mio consentimento, che la guardi
molto bene, che la ci è ed è delle quattro; sì che cerchine minutamente, che la ci si
troverà. E quando pure anche e' non le paia d'esserci a modo suo e che la non si
riconosca a' contrasegni, i quali io ho celati il più ch'io ho potuto, per non dare che
dire alla brigata, l'amor d'Iddio non lo dica a nessuno, che la mi rovinerebbe. E' ci sono
anche certe [719] spigolistre che una n'è la figliuola di mona Biurra dalla imagine, che
dicono che perché io son brutto, che la mia metà non può essere se non una brutta e una
schifa come me. A queste bisogna fare un poco di scusa, per non mi gittar via a fatto a
fatto. Donne mie, quando io nacqui, io non era si vecchio quanto io sono al presente, e
non era sì barbuto comadesso, ne sì brutto com'ora; ma le Fate mi guastarono per
la via; e perché io sono andato attorno molto e sono stato assai al sole, io sono
arrozito e però paio nero a questa foggia; ma sotto il farsetto io non son nero come di
sopra e massime la domenica mattina quando io mi son mutata la camicia, e secondo che mi
disse già mia madre, la balia mi tirò un poco troppo il naso. Ma quando la mia colei e
io ci dividemmo, noi eravamo tutti a due belli a un modo; ma io mi son poi guasto co'
disagi ed ella s' è mantenuta pe' gli agi.
Ed ecci chi dice che, col far questa opera, chio avrò più
perduto che guadagnato; perciò che, dalle quattro in fuori, anzi dalle tre (perché ve
n è una che ha per male desservi e hammi detto a me che non me ne sa né
grado né grazia), tutte laltre mhanno bandito la croce addosso. Ma che domin
sarà? Quando io morissi per le loro mani, io non morrò in man de Turchi né de'
Mori, ché morrò contento, pur che io non habbia dato loro giusta cagione, come nel vero
io non ho fatto adesso; che ogni volta che le valorose donne o in male o in bene terranno
conto di me o mi ricorderanno, in ogni modo l'averò caro. Io ho di più sentito dire a
una, che si tien savia, ed è nondimeno, che Celso son io e che, per carestia di buon
vicini, chio mi son lodato da me stesso. Ma se questa o altra che l'ha detto a lei e
che però si son rise del fatto mio, avessero più letto che le non hanno, avendo
conosciuto quello che s'usa nel modo del fare un dialogo, non averebbono mai detta questa
semplicità; ma pure, quando questo non fusse e ch'io avessi voluto
finger per Celso la persona mia, che lode m'ho lo attribuite? Ho detto lui essere uomo di
buone lettere e alla mano; s'io [720] non avessi studiato e in conseguenza non avessi
qualche lettera, male avrei potuto condurre questo dialogo a quella perfezione che di
presente si ritruova; e s'io ho lettere e s'io non ho lettere, da ora inanzi io non ne
voglio altra testimonianza che questa operetta. S'io non fussi alla mano e volto alle
voglie degli amici, io non sarei in questo laberinto. S'io lo fingo aver locato l'amor suo
altamente, puramente, santamente su fondamenti della virtù, in questo io confesso aver
voluto descriver me medesimo e ho descritto il vero, ne' ne voglio dare altro testimone se
non la innocenzia e la purità della mia conscienza, dando licenza ingenuamente a chi sa
di me un minimo erroruzo, che, palesandolo, mi faciano bugiardo. Or vedi dove queste
l'avevano! Ecci bene chi ha detto che non all'età mia né alla mia professione si
aspetterebbe far cotali opere, ma gravi e severe; ai quali io non risponderò altrimenti,
perciò che degl'ipocriti tristi e dei maligni e degl'ignoranti io ne feci sempre mai poco
conto (e quelli che ciò han detto, son di quella ragione), e or ne fo vie meno. E
'ncrescemi che quell'uomo da bene del Boccaccio si degnasse risponder loro, perciò che e'
mostrò di stimarli troppo.
Ecci un'altra cosa che non si deve stimare meno; e questo si è che in
cosa che io mai componessi, non ho costumato porre molta cura, come non ho fatto adesso,
alle minute osservanze delle regole grammaticali della lingua tosca; ma tuttavia sono ito
cercando di imitar l'uso cotidiano e non quel del Petrarca o del Boccaccio; e ricordevole
della sentenza di Favorino sempre mi son valuto e ho usato quei vocaboli e quel modo del
parlare che si permuta tutto il giorno, spendendo, come dice Orazio, quelle monete che
corrono e non i quattrini lisci o San Giovanni a sedere. Laonde io son certo che una buona
parte di quei che fan professione di comporre, daranno all'arme, con molte cose che e' ci
troveranno fuor delle loro osservanze; ma a [721] posta loro; quello ch'io ho fatto l'ho
fatto, perciò che egli mi è parso di far così; s'io merito riprensione per questo,
riprendanmi, ch'io starò paziente. Se vogliono ch'io mi vergogni, ecco ch'io son
diventato rosso; pur nondimeno per non parere un uomo così a casaccio, subito che mando
fuori una traduzione della Poetica d'Orazio, quasi in forma di parafrasi, che sarà questa
prossima state, io risponderò quattro parole a correzione di costoro. In questo mezo
abbinmi per raccomandato e in questo Dialogo e in quel libretto dove favellano le volpi e
i corvi, da me, come sapete, pochi giorni fa mandato al giudizio degl'amici. Or vedete in
che laberinto io sono, in che dibattito io mi ritrovo per aver raccolti i ragionamenti
daltri; e nondimeno io arò tanto animo e tante forze, ch'io supererò tutte queste
difficultà, anzi, come un nuovo Ercole, tutti questi mostri; e più potranno in me le
oneste pregi della persone a me care, che qual si voglia mala lingua di qual si sia non
ragionevole impedimento. Hogli adunque rescritti di mia mano e deliberato di metterli in
luce; ne ho già fatto partecipi e gli amici e nimici, ai quali io ricordo il proverbio
antico, che non consente che al lion morto si svelga la barba.
Data in Prato il dì 18 di gennaio del 1541, regnante lo Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signor Cosimo Duca meritissimo di Fiorenza.
DEL DIALOGO
DEL FIRENZUOLA FIORENTINO
DELLA BELLEZA DELLE DONNE,
INTITOLATO
CELSO
DISCORSO PRIMO
Celso Selvaggio è molto amico e tanto posso disporre di lui
ch'io uso dire che certo e' sia un altro me; e però se io publico adesso questi suoi
discorsi, i quali mi vietò già, egli averà pazienza ; con ciò sia che l'amore che mi
porta lo sforza a far della sua voglia la mia, e tanto più ch'io ne sono costretto da chi
può costringer lui. Costui, oltre che è uomo di assai buone lettere e persona di qualche
giudizio, molto alla mano e molto accomodato alle voglie degli amici, e per tutte queste
cagioni divenuto sicuro che e' non ne farà parola, gli ho dati fuori, come vedete.
Ritrovandosi adunque costui la state passata nell'orto della Badia di
Grignano, che allora si teneva per Vannozzo de' Rochi dove erano andate a spasso assai
giovani, così per belleza e per nobiltà come per molte virtù riguardevoli, tra le quali
mona Lampiada, mona Amorrorisca, Selvaggia e Verdespina; [724] essendosi ritirate su la
cima d'un monticello, il quale è nel mezo dell'orto, tutto coperto dagli arcipressi e
dagli allori, si stavano a ragionare di mona Amelia dalla Torre nuova, la quale ancora era
per l'orto, e chi di loro voleva ch'ella fusse bellissima e chi ch'ella non fusse pur
bella; quando Celso, con certi altri giovani pratesi, parenti delle già dette donne,
salsero in sul detto monte, sì che, colte da loro all'improvista, tutte subito si
racchetarono, se non che, scusandosi Celso di avere fatto loro quella scortesia, come
benigne risposero che avevano avuta cara la loro venuta; e invitarongli a sedere su una
panca ch'era loro al dirimpetto, ma pur tacevano. Perché Celso disse di nuovo:
Belle donne, o voi seguitate i vostri ragionamenti, over ci date commiato; perciò che al
calcio noi non serviamo per isconciare, ma sì bene per dare alla palla talora, s'ella ci
balza . Allora disse mona Lampiada: Messer Celso, i nostri ragionamenti erano
da donne e però non ci pareva cosa conveniente seguitarli alla vostra presenza. Costei
diceva che l'Amelia non è bella, io diceva di sì; e così contrastavamo donnescamente
. A cui disse Celso: La Selvaggia aveva il torto, ma la le vuole mal per
altro, ché in verità cotesta fanciulla sarà sempre mai tenuta bella da ognuno, anzi
bellissima; e s'ella non è avuta per bella, io non so vedere chi altra a Prato si possa
appellar bella.
Allora la Selvaggia, più tosto un poco baldanzosetta che no, rispose:
Poco giudicio bisogna in questa cosa, perciò che ciascuno ci ha dentro la sua
opinione e a chi piace la bruna e a chi la bianca; e interviene di noi donne come al
fondaco de' drappi e de' panni, che vi si spaccia sino al romagnuolo e insino al raso di
bavella. Bene, Selvaggia soggiunse Celso [725] , quando e' si parla
d'una bella, e' si parla d'una che piaccia a ognuno universalmente e non particolarmente a
questo e a quello; che, ben che la Nora piaccia a Tommaso suo così sconciamente, ella è
pure brutta quanto la può; e la mia comare, che era bellissima, il marito non la soleva
poter patire. Son forse i sangui che si affanno o che non affanno o qualche
altra occulta cagione; ma una bella universalmente, come sei tu, sarà forza che
piaccia a ognuno universalmente, come fai tu, se ben pochi piacciono a te, e io lo so.
Egli è ben vero che, a voler essere bella perfettamente, e' ci bisognano molte cose, in
modo che rade se ne trovano che n'abbiano pur la metà . E la Selvaggia allora:
Le sono delle vostre di voi uomini, che non vi contenterebbe il mondo. Io udi
dire una volta che un certo Momo, non potendo in altro colpare la bella Venere, che e' le
biasimò non so che sua pianella . Allora disse Verdespina: Or vedi dove egli
l'aveva . E Celso ridendo soggiunse: E anche Stesicoro, nobilissimo poeta
siciliano, disse male di quella Elena, la quale con le sue eccessive
belleze mosse mille greche navi contro al gran regno di Troia . A cui subito mona
Lampiada: Sì, ma voi vedete bene che e' n'accecò e non riebbe la vista insino che
non si ridisse . E meritamente seguitò Celso ; perciò che la belleza
e le donne belle, e le donne belle e la belleza meritano d'esser comendate e tenute
carissime da ognuno; perciò che la donna bella è il più bello obietto che si rimiri, e
la belleza è il maggior dono che facesse Iddio all'umana creatura; con ciò sia che per
la di lei virtù noi ne indiriziamo l'animo alla contemplazione e per la contemplazione al
desiderio delle cose del cielo; onde ella è per saggio per arra stata mandata tra noi, ed
è di tanta forza e di tanto valore, ch'ella è stata posta da' savi per la prima e più
eccel- [726] lente cosa che sia tra i subietti amabili, anzi l'hanno chiamata la siede
stessa, il nido e lalbergo d'amore, d'amore dico, origine e fonte di tutti i commodi
umani. Per lei si vede l'uomo dimenticarsi di se stesso, e, veggendo un volto decorato di
questa celeste grazia, raccapricciarsili le membra, arricciarsili i capegli, sudare e
agghiacciare in un tempo, non altrimenti che uno, il quale, inaspettatamente veggendo una
cosa divina, è esagitato dal celeste furore, e finalmente in sé ritornato, col pensier
l'adora e con la mente si le 'nchina, e, quasi uno Iddio, conoscendola, se le dà in
vittima e in sacrificio in su l'altare del cuore della bella donna.
A cui mona Lampiada: Deh, messer Celso, se non v'incresce,
fateci un piacere: diteci un poco che cosa è questa belleza e come ha da essere fatta una
bella; ché queste fanciulle mi hanno punzecchiato un pezo, perciò che io ve ne
richieggia, e iomi peritava; ma poi che da per voi n'avete cominciato a ragionare,
avendone accresciuta la voglia, ne avete ancora accresciuto l'animo; e tanto più
ch'io intesi dire che in sulla veglia che fece la mia sirocchia il carneval passato, che
voi ne parlaste con quelle donne sì diffusamente, che mona Agnoletta mia non ebbe altro
che dire per quei parecchi dì. Sì che, di grazia, contentateci, che ad ogni modo noi non
abbiamo altro che fare, e a questo ventolino ci passeremo il caldo più piacevolmente che
non fanno quell'altre, che stanno a giuocare o a passeggiare per l'orto . Onde
Celso: Sì, perché la Selvaggia, come ella sente dir qualche cosa che non le paia
a modo suo o che le manchi nulla, dica ch'io biasimo le donne; il quale non ho altrettanto
piacere se non quando io le lodo; ed ella l'ha veduto più volte per isperienza, senza mai
sapermene grado alcuno; ma sia con Dio, che '1 fumo le muterà bene quelle bianche carni,
sì . E mona Lampiada allora: Non dubi- [727] tate ch'ella non dirà cosa
alcuna. Deh, sì, di grazia, fateci questo piacere . Onde veggendole cosi
volonterose, per non mancare di sua natura, ne parlò loro in quella guisa che voi
leggendo intenderete. Perciò che ivi a non molti dì, facendomi replicare da lui medesimo
tutto quello che vi si era ragionato, lo ridussi insieme in queste carte il meglio ch'io
seppi o puoti; ché bene doverete pensare che ci mancano molte cose, dette così dalle
donne come da lui. Il quale dopo un poco di scusa cominciò in questa forma.
Io non fui mai richiesto da donna alcuna di cosa che far si
potesse onorevolmente, ch'io la disdicessi, né voglio io cominciar adesso. Parlisi
adunque della belleza a quattro bellissime donne arditamente. E la prima cosa che noi
abbiamo a vedere, sarà che cosa sia questa belleza in generale; la seconda, la
perfezione, l'utilità, o vero l'uso di ciaschedun membro in particolare, di quelli però
che si portano scoperti. Perciò che, come afferma Marco Tullio, la natura provide con
occulto rimedio che quelle membra, per virtù delle quali la belleza risulta più
virtualmente, fussero situate in luogo eminente, accioché meglio si potessero riguardare
da ognuno; e di più, con tacita persuasione indusse gli uomini e le donne a portar le
parti di sopra scoperte e l'inferiori coperte; perciò che quelle, come propria siede
della belleza, si avevano a vedere e le altre non era così necessario, perché son come
un posamento delle superiori e come una base.
MONA AMORRORISCA. Adunque i predicatori riprenderebbono meritamente
coloro che con le maschere si ricoprono la faccia, dove è, secondo voi, la propria siede
della belleza?
CELSO. Sì, se e' riprendessero i begli solamente, i quali, nel vero,
fanno un gran peccato a celar tanto bene; ma perciò che e' riprendono ancora i brutti, i
quali doverebbono sempre andare in maschera, a me non par che abbiano molta ragione; ché
da questo vi potete accorgere quanto dispiacere arrechi seco la brutteza, che il signore
Alberto de' Bardi di Vernia, ch'è uomo di quel giudizio che noi tutti ci sappiamo, dice
che, quan- [728] do e' vede mona Ciona su una festa, che con quel suo raso nero va a
tutte, che il piacere che e' piglia di tutte l'altre belle, non li ricompensa il dispiacer
di quella sola brutta.
MONA AMORRORISCA. Dunque né ne' piedi, né nelle braccia, né nelle
membra che con le vesti si cuoprono, secondo cotesto vostro discorso, alberga la belleza;
e pur diciamo: "Mona Bartolomea ha una bella gamba, l'Apollonia ha un bel piede, la
Gemmetta ha un bel fianco".
CELSO. Ancora che appresso di Platone si nieghi che la belleza consista
in un membro semplice, e dicasi ch'ella ricerca una unione di diversi, come vedremo meglio
da basso; nondimeno, quando noi diciamo un membro semplice esser bello, noi intendiamo di
quello che è secondo la sua misura, ed è secondo quello che si li conviene e di che è
capace; come dire, a un dito si ricerca essere schietto e bianco: quel dito che averà
questa parte, noi lo chiameremo bello, se non d'una generale belleza, come vogliono questi
filosofi, almeno di propria e particolare. Nondimeno quanto alla disposizione di questa
belleza che con una sembianza di divinità rapisce la virtù visiva alla sua
contemplazione e per gli occhi lega la mente al desiderio di quella, la quale comincia dal
petto e finisce con tutta la perfezione del viso, queste membra inferiori non
conferiscono; ma sì bene conferiscono alla formosità o vero belleza di tutto il corpo,
ma così vestite e coperte come ignude; e talor meglio, perciò che col vestirle
garbatamente le s'empiono di maggior vagheza. Dunque parleremo principalmente della
belleza de' membri scoperti e accessoriamente de' coperti; di poi vedremo che cosa è leggiadria,
che vuol dire vagheza, ch'intendiamo per la grazia, che per la venustà,
e quello ch'importa non avere aria e averla, ciò che significa quello che il vulgo
in voi donne chiama maestà, ancora che impropriamente in un certo modo. Di poi,
perché la mente piglia meglio per via dell'esempio la essenza della cosa che si discorre,
e con ciò sia che rade volte, anzi più tosto non mai, in una donna sola si raccolgono
[729] tutte le parti che si richiedono ad una perfetta e consumata belleza, e come disse
Omero prima, e poi quel Cartaginese ad Anibale: "Gli Iddii non hanno dato ogni cosa a
ognuno, ma a chi l'ingegno, ad altri la beltà, a molti la forza, a pochi la grazia e le
virtù a rari", piglieremo tutte a quattro voi; e imitando Zeusi, il quale, dovendo
dipingere la bella Elena alli Crotoniati, di tutte le loro più eleganti fanciulle ne
elesse cinque, delle quali togliendo da questa la più bella parte e da quellaltra
il simile facendo, ne formò la sua Elena, che riuscì poi così bellissima, che per tutta
Grecia d'altro non si ragionava. Da cui eziandio il magnifico messer Giovan Giorgio
Trissino, o forse da Luciano, il quale la sua belleza compose delle molte belleze che egli
ritrasse dalle eccellenti statue dei più celebrati scultori che fussero stati sino al
tempo suo, imparò il modo del suo ritratto; e così facendo noi tenteremo se di quattro
belle noi ne possiam fare una bellissima. Orsù dunque, vegnamo alla diffinizione della
belleza e alla sua più vera e principal cognizione.
Dice Cicerone nelle sue Tusculane che la belleza è una atta
figura dei membri, con una certa soavità di colore. Altri han detto, che fu uno
Aristotile, che ella è una certa proporzione conveniente, che ridonda da uno accozamento
delle membra diverse l'une dall'altre. Il platonico Ficino, sopra il Convivio,
nella seconda orazione, dice che la belleza è una certa grazia, la quale nasce dalla
concinità di più membri; e dice conci- [730] nità, percioché quel vocabolo importa un
certo ordine dolce e pieno di garbo e quasi vuol dire uno attillato aggregamento. Dante
nella sua Collezione, la quale, a comparazione del Convito di Platone, a
fatica è bere un tratto, dice che la belleza è una armonia. Noi non per dir meglio di
costoro, ma perciò che, parlando con donne, ci è necessario spianare le cose un poco
meglio, non diffinendo propriamente, ma più tosto dichiarando, diciamo che la belleza non
è altro che una ordinata concordia e quasi una armonia occultamente
risultante dalla composizione, unione e commissione di più membri diversi e
diversamente da sé e in sé, e secondo la loro propria qualità e bisogno, bene
proporzionati e 'n un certo modo belli; i quali, prima che alla formazione d'un corpo si
uniscano, sono tra loro differenti e discrepanti. Dico concordia e quasi armonia, come per
similitudine; perciò che come la concordia fatta dall'arte della musica, dell'acuto e del
grave e degl'altri diversi suoni, genera la belleza dell'armonia vocale; così un membro
grosso, un sottile, un bianco, un nero, un retto, un circonflesso, un picciolo, un grande,
composti e uniti insieme dalla natura, con una incomprensibil proporzione, fanno quella
grata unione, quel decoro, quella temperanza che noi chiamiamo belleza. Dico occultamente,
percioché noi non sappiamo render ragione perché quel mento bianco, quelle labra rosse,
quelli occhi neri, quel fianco grosso, quel pie' picciolo creino, o vero eccitino o
risultino in questa bellezza; e pur veggiamo che gli è così. Se una donna fusse pelosa,
la sarebbe brutta, se un caval fusse senza peli, e' sarebbe deforme; al cammello lo
scrigno fa grazia, alla donna disgrazia. Questo non può venire d'altro che da uno occulto
ordine della natura; dove, secondo il mio giudizio, non arriva saetta d'arco d'ingegno
umano; ma l'occhio che da [731] essa natura è stato constituito giudice di questa causa,
giudicando ch'egli sia così, ci sforza senza appello a starne alla sua sentenza. Dico
discrepanti, percioché (come si è ragionato) la belleza è concordia e unione di cose
diverse; perciò che come la mano del sonatore e la intenzione movente la mano, l'arco, la
lira e le corde sono cose diverse e discrepanti l'una dall'altra, nondimeno rendono la
dolceza dell'armonia, così il viso che è diverso dal petto e 'l petto dal collo e le
braccia dalle gambe, ridotti e uniti insieme in una creatura dalla occulta intenzione di
natura, generano quasi forzatamente la belleza. Quello che dice Cicerone della soavità
del colore mi par superfluo, perciò che ogni volta che le membra particolari, con le
quali sarà eccitata la detta belleza, saranno in se stesse belle, bene organizate e in
tutta la loro perfezione ordinate, composte e proporzionate, elle saranno forzate a
ombreggiare il corpo, il quale le comporranno di quella soavità del colore il quale gli
è necessario per la perfezione della sua vera belleza; ché così come in un corpo, bene
temperato dagli umori e con gli elementi composto, si ritrova la sanità e la sanità
produce vivo e acceso colore e dimostrante l'intrinseco di se medesima estrinsecamente,
così le perfette membra particolari, unite nella creazione del tutto, spargeranno il
colore necessario alla perfetta unione e armoniale belleza di tutto il corpo.
Scrive Plutarco che Alessandro il Grande spargeva dalle sue membra una
fragranzia soavissima; e non l'attribuisce ad altro che alla buona temperanza, anzi
perfetta, delli umori e di tutta la sua complessione. Con ciò sia adunque, per tornare al
nostro proposito, che alle guance convenga essere candide, candida è quella cosa che,
insieme con la biancheza, ha un certo splendore, come è l'avorio; e bianca è quella che
non risplende, come la neve. Se alle guance adunque, a voler che si chiamin belle,
conviene il candore e al petto la biancheza sola- [732] mente, e bisognando che per la
eccitazione della belleza universale tutte le membra nella separazione sieno perfette,
sarà mestieri che ell'abbiano il dovuto colore, cioè quello ch'era necessario alla loro
propria e particolare belleza, o vero essenza; e avendolo nella separazione, sarà bisogno
che l'abbiano eziandio nella unione; e avendolo, spargeranno forzatamente quella soavità
del colore che fa loro di mestiero; il quale non ha a ridondare di più compositi in un
medesimo o in un solo, ma diverso in diversi, secondo la varietà e 'l bisogno de' membri
diversi, dove bianco come la mano, dove candido e vermiglio come le guance, dove nero come
le ciglia, dove rosso come le labra, dove biondo come i capegli. Questa è adunque, donne
mie, non la diffinizione, ma la dichiarazione delle diffinizioni della belleza.
MONA LAMPIADA. Perdonatemi s'io vi togliessi cotal volte il capo col
domandarvi; ch'io sono una di quelle che, avvenga che sieno ignoranti, avrebbono vagheza
d'imparare sempre che e' ne fusse, loro data la commodità. Quando voi parlate della
belleza in generale, dite voi di quella dell'uomo o di quella della donna o pur
mescolatamente dell'una e dell'altra?
CELSO. Gran segno di sapere è il cominciare a conoscere di non sapere,
con desiderio di sapere; percioché Socrate, che fu giudicato savio
dall'Oracolo di Apolline, non mostrava, con tante fatiche e tanti studii, avere imparato
altro se non il conoscere ch'egli non sapeva; ma voi non lo fate per non sapere, ma per
usare una vostra naturale modestia; e domandate, non perciò ch'io insegni a voi, che
sapete più di me, ma a queste altre, che per essere un pochetto più giovani, vengono ad
essere men pratiche di voi. Dicevi adunque, in risposta della vostra domanda, che, se voi
aveste letta l'orazione d'Aristofane, recitata nell'allegato Convivio di Platone,
non accadrebbe che vi dichiarassi adesso questo passo; o se pure aveste lette certe belle
stanze di monsignor Bembo, in sua gioventj; che quasi mi verrebbe vo- [733] glia di
narrarvi la materia, se non che la sarebbe troppo lunga, e però la serberemo per un'altra
volta.
MONA LAMPIADA. Deh, di grazia, ditecela ora che il tempo ci avanza, che
un'altra volta forse ne mancherà.
CELSO. Poi che così vi piace, mano a dirvela, ma più succintamente
che si potrà; perciò che, se io la volessi dire a punto come la sta, noi faremo sera con
essa. Quando Giove creò i primi uomini e le prime donne, egli li fece doppi di membra,
cioè con quattro braccia, con quattro gambe e con duo capi; laonde per aver costoro
doppie membra, e' venivano aver doppie forze; ed erano di tre ragioni: alcuni maschi in
tutt'a due le parti; alcune femine, che furono pochi; il restante, ch'era il maggiore
numero, erano per l'una parte i maschi e per l'altra femine. Accadde che questi così
fatti omaccioni furono sconoscenti de' benefici ricevuti da Giove e pensarono insino di
torgli il Paradiso; onde, avendo avuto di questo sentore, proposto ogni altro consiglio,
non volendo però disfar del tutto la generazione umana, per non aver poi chi l'adorasse o
per assicurarsi dello stato, deliberò di fenderli tutti pel diritto mezo e fare d'uno
due, pensando che nel dividerli e' verrebbe loro a divider le forze e l'ardire. E così
senza più lo mise ad effetto e acconciò la cosa in modo che noi restammo così come voi
vedete che noi siamo al dì d'oggi. E Mercurio fu il segatore ed Esculapio il maestro di
rassettarci e medicarci il petto, che patì più che alcuna altra parte (che a te,
Selvaggia, l'acconciò certo pur troppo bene) e di saldarci tutte l'altre parti che aveva
guaste la sega. E così, come voi vedete, ognuno viene a rimanere o maschio o femina,
salvo che certi pochi, che si fuggirono, i quali pel troppo correre si disertarono tutti
quanti; sì che e' non furono mai buoni a nulla e furono chiamati Ermafroditi, quasi da
Erma, che vuol dire Mercurio, fuggiti. Quegli che erano o descenderono da quegli che erano
maschi da tramendue le parti, deside- [734] rosi di tornare nel primo stato, cercano la
loro metà, ch'era un altro maschio; e però amano e contemplano la belleza l'un
dell'altro, chi virtuosamente, come Socrate Alcibiade il bello, come Achille Patroclo, e
Niso Eurialo; chi impudicamente, come alcuni scelerati, indegni d'ogni nome o grido, assai
più che colui che per acquistare fama pose il fuoco nel tempio della efesia Dea. E questi
tutti, o volete i buoni o gli scelerati, fuggono per lo più il consorzio di voi altre
donne; che ben so che eziandio al di d'oggi ne conoscete qualcuno. Quelle ch'erano femine,
o discendono da quelle che erano femine in ogni parte, amano la belleza l'una dell'altra,
chi puramente e santamente, come la elegante Laudomia Forteguerra la illustrissima
Margherita d'Austria, chi lascivamente, come Safo la Lesbia anticamente, e ai tempi nostri
a Roma la gran meretrice Cicilia Viniziana; e queste così fatte per natura schifano il
tor marito e fuggono la intrinseca conversazione di noi altri; e queste debbiamo credere
che sien quelle che si fanno monache volentieri e volentieri vi stanno, che sono poche;
percioché nei munisteri le più vi stanno per forza e vivonvi disperate. La terza sorte,
che erano e maschi e femine, che furono il maggior numero, furono quelle donde sete
discese voi, che avete il marito e ve lo tenete caro, come Alceste moglie del re Admeto, e
altre che non ricuserebbono di morire per la salute dei loro mariti; e finalmente sono
tutte quelle che veggiono volentieri la faccia dell'uomo, pudicamente però e secondo che
permettono le sante leggi. Siamo noi uomini, i quali o abbiamo moglie o [735] ne
cerchiamo; e finalmente son coloro a chi nessuna altra cosa più piace che il bel viso di
voi altre, bellissime donne; che per riunirsi alla loro parte e fruir la lor belleza, non
schiferebbono pericolo alcuno, come Orfeo per la cara Euridice, e Caio Gracco nobile
Romano per l'amata Cornelia, e come farei io per quella cruda, la quale, non si volendo
accorgere ch'ella è la mia metà e io la sua, mi fugge come s'io fussi una qualche strana
cosa.
VERDESPINA. Io vi dirò: voi vi lasciate così poco intendere con
cotesto vostro amore, che non sarebbe gran fatto che colei che voi amate e dite che ha la
vostra metà, poi che metà si ha a dire, non lo sapesse, e però non vi facesse quegli
onesti favori che doverebbe fare una gentil donna a un virtuoso par vostro; e nondimeno
non ci è persona in Prato che non creda che voi siate innamorato; e pochi dì sono ch'io
ne senti domandare con una grande istanza, e ognun disse che credeva di sì, ma che
non sapeva dove. E quando io considero quelle parole che voi solete usare alcuna volta,
cio è: "Chi mi ha nol sa e chi 'l sa non mi ha", mi conficano nella prima
credenza che quella che voi amate, nol sappia, e quella che voi non amate, sel creda;
nondimeno voi lo fate così secretamente che e' non si sa troppo bene chi sia quella con
chi voi fingete o quella con chi voi fate da dovero.
CELSO. Verdespina gentile, credi tu però ch'io sia così vile d'animo
e così obliato di me stesso, ch'io abbia al tutto serrato il core alle saette amorose?
Ancora io sono uomo, ancora lo cerco di ritrovare la mia metà, ancora io cerco di fruir
la belleza di colei che mi è stata posta inanzi per obietto chiarissimo delli aventurosi
occhi miei e per consolazione dell'intelletto; ma tacito e da me la godo; perciò che il
fine dell'amor mio, il quale è puro e casto, messe le radici sul terreno cultivato dalla
virtù, si contenta in se stesso con la vista della sua donna, la quale da [736] accidente
alcuno non gli pub essere contesa, perciò che, quando è celata all'occhio corporeo, è
aperta a quello dell'intelletto. Sì che ascondamisi pure la mia donna a senno suo, che
sempre la veggio, sempre la contemplo, sempre di lei mi godo e mi contento; e quando io mi
dolgo di lei, io mi ciancio; perciò che nel vero io non ho cagione alcuna di dolermi, non
desiderando da lei cosa ch'io non possa avere, ancora a suo dispetto; e forse potrebbe
venire un tempo che chi mi ha, lo saprà, e chi non m'ha, lo conoscerà. Or torniamo
agl'uomini dimezati e alle donne divise, che pur troppo ci siamo discostati da casa; e
diciamo che della prima spezie non accade ragionare, né manco della seconda; perciò che
o e' contemplano la belleza della propria spezie divinamente e per virtù o sceleratamente
e per vizio; e de' primi non possiamo parlare, perciò che il nostro intelletto, mentre è
in questo carcere, è mal capace delle cose divine; degli scelerati e viziosi tolga Iddio
che in una compagnia di caste e virtuose donne, come voi sete, si favelli di così trista
semenza. Restaci adunque a ragionare e di voi e di noi, cioè degli uomini che sono vaghi
delle donne e delle donne che sono vaghe degl'uomini; ma gentilmente, puramente e per
virtuoso raggio infiammati e illuminati, come più volte si è detto. Ma e' mi par che la
Selvaggia se ne ride.
SELVAGGIA. Io non me ne rido, anzi attendo dove voi vogliate riuscire.
CELSO. Io voglio riuscir a questo, che desiderando ognuno di noi per un
naturale instinto e appetito di rappiccicarsi e rappiastrarsi con la sua metà per
ritornare intero, che egli è forza ch'ella ci paia bella, e, parendoci bella, è forza
che noi l'amiamo; percioché il vero amore, secondo che afferma tutta la scuola di
Platone, non è altro che desiderio di belleza; amandola è forza che noi la cerchiamo;
cercandola, che noi la troviamo (chi potrà ascondere cosa alcuna all'occhio del vero
innamorato?); trovandola, che noi la contempliamo; contemplandola, che noi la fruiamo;
fruendola, che noi ne riceviamo incomprensibile diletto; perciò che il diletto è il fine
di tutte l'azioni uma- [737] ne, anzi è quel sommo bene tanto dai filosofi ricercato; il
quale, a mio giudizio, parlando delle cose terrene, non si trova altrove che quivi. Laonde
egli non parrà più gran fatto che una gentil donna e un valoroso uomo acceso de' raggi
d'amore (che è quello solo lume che per gli occhi nostri ne apre l'intelletto e n'insegna
la nostra metà), si metta ad ogni fatica, si esponga ad ogni pericolo per ritrovare se
medesimo in altrui e altrui in se medesimo. E però conchiudendo, per non vi tener più
sospesa, aviamo a dire che alla donna è conveniente contemplare la belleza dell'uomo e
all'uomo quella della donna; e però quando parliamo della belleza in generale, intendiamo
e della vostra e della nostra; nondimeno, percioché una più delicata e particolare
belleza alberga più in voi, più si dilata in voi e in voi più si considera, con ciò
sia che la complession vostra sia molto più delicata e più molle che non è la nostra,
e, come è vera opinion di molti savi, fatta dalla natura così gentile, così soave,
così dolce, così amabile, così desiderabile, così riguardevole e dilettevole così,
perciò che la fusse un riposo, un ristauro, anzi un porto e una mèta e un refugio del
corso di tutte le umane fatiche; per questo, lasciando io oggi in tutto e per tutto il
parlar della belleza dell'uomo, tutto il mio ragionare, tutto il mio discorrere, i pensier
mei tutti rivolgo alla belleza di voi donne; e chi me ne vuol biasimare, me ne biasimi;
ch'io affermo, non di mio capo, ma di sentenzia non solamente de' savi naturali, ma
d'alcuni teologi, che la vostra belleza è un'arra delle cose celesti, una imagine e un
simulacro de' beni del Paradiso. Come potrebbe uomo terrestre assettarsi mai nella
fantasia che la beatitudine nostra, che ha ad essere precipua nel contemplare sempre la
omnipotente essenzia d'Iddio e fruir la sua divina vista, potesse essere beatitudine
continova, senza sospetto della sazietà, se non vedesse che il contemplare la vagheza
d'una bella donna, il fruir la sua leggiadria, il beversi con gli occhi la graziosa
beltà, è un diletto incomprensibile, una beatitudine inenarrabile, una dolceza che,
quando finisce, vorrebbe cominciare, un contento che se ne dimentica e se ne [738] lascia
se medesimo. E però, Pratesi miei cari, se io guardo talor queste vostre donne un
pochetto troppo attentamente, non l'abbiate per male. Sapete voi come disse il Petrarca a
madonna Laura?
Sia tu men bella, io sarò manco ardito.
Credete voi che, quando io ve le guardo, ch'io le porti via? Non
abbiate questa temenza, ch'io non fo lor danno alcuno; che il fo solo per imparare a
fruire i beni del Paradiso, percioché i portamenti miei non sono tali che non possa
sperar d'andarvi; e per non giugner poi là su e parere un contadino quando e' va a città
la prima volta e non avere a imparare a contemplare le cose belle, io mi vo avvezando di
qua con questi be' visi il meglio che io posso. E s'alcuno mi vuol biasimar per questo,
tal ne sia di lui, ch'io gliel perdono; che assai bella vendetta mi pare, non poter essere
biasimato a ragione; che ben so che chi ha lo stomaco infetto, egli è necessario
mostrarlo col fiato. Or vedi dove m'ha trasportato un giusto sdegno.
MONA AMORRORISCA. Orsù, non più, messer Celso; che avenga che uno
giusto sdegno stia bene in gentil cuore, nondimeno il lasciarsi da lui soverchio muovere,
non ha del peregrino né del cortese.
CELSO. Certo che lo sdegno è grande, massimamente avendo rispetto allo
auttore, che senza alcuna cagione si è mosso; ma la cagion però sete voi donne; che per
parlar volentieri di voi, per lodar, per difendervi dal latrare di questi sciocchi, che
col dire mal di voi vogliono essere da voi tenuti per amanti, per iscriver di voi
onorevolmente e mostrarmi vostro procuratore, e' levano i pezi de' fatti miei; ma dicano
pur, donne mie, cib che loro pare; che voi vo' guardare io, voi amare, di voi parlare, di
voi scrivere, voi servire e voi adorare. E per mostrarvi, donne mie care, che quello ch'io
vi ho promesso con le parole, lo [739] voglio attener co' fatti, dico che dal ragionamento
di sopra, che conchiude che noi siamo la metà l'uno dell'altro, si forma un argomento
insolubile, che così nobili siate voi donne come noi uomini, così savie, così atte alle
intelligenzie e morali e speculative, così atte alle meccaniche azioni e cognizioni come
noi, e quelle medesime potenzie e virtuali abiti sono nell'animo vostro che nel nostro;
perciò che, quando il tutto si parte in due parti uguali ugualmente, di necessità tanto
è una parte quanto l'altra, tanto buona quanto l'altra, tanto bella quanto l'altra. Sì
che con questo argomento e con questa conclusione dirò arditamente a questi vostri e miei
inimici, i quali, come vi sono inanzi, par che spirino e poi dietro vi sonano le predelle,
che voi siate in tutto e per tutto da quanto noi; ancora che talora non apparisce in atto
così universalmente, rispetto agli officii domestici ed esercizii familiari che per
vostra modestia vi sete presi nella cura familiare. E per il medesimo rispetto veggiamo
che tra il filosofo e l'artefice, tra 'l dottore e 'l mercatante è una grandissima
differenza, quanto alle operazioni dell'intelletto; ma questo non accade al presente
disputare, che pure troppo ci siamo dilungati dalla materia. Ma ben d'una cosa vi voglio
avvertire che, se alcuno vi dicesse che quella cosa del dividere P una favola da veglia,
che voi rispondiate loro che l'ha detto Platone e che ella P una novella che raccontò un
savio filosofo in su una veglia di Platone. Se e' saranno uomini d'ingegno, questa
risposta la rintuzerà loro; se e' saranno ignoranti, e' saranno per forza maligni; de'
quali voi avete a tenere poco conto, percioché l'anima maligna non è capace della
sapienzia. Il dire che ella è una favola di Platone denota che ella è piena di misteri
alti e divini e che la vuol significare quello ch'io vi ho detto, cioè che noi siamo una
cosa medesima, d'una perfezio- [740] ne medesima; e che voi avete a cercare noi e amare
noi, e noi abbiamo a cercare voi e amare voi; e voi senza noi niente siate, noi senza voi
niente siamo; in voi è la nostra perfezione; in noi è la vostra, senza mille altri
bellissimi misteri che al presente non accade di dichiarare. Non ve lo dimenticate di dire
che e' fu Platone; legatevelo bene alla mente.
Poi che io vi ho dimostro, per quanto hanno potuto le forze mie, che
cosa sia la belleza in generale, resta che, secondo la promessa, io vi mostri quella delle
membra particolari e la loro perfezione; nelle quali, come avemo accennato di sopra, ha
posto Iddio con meraviglioso ordine il preservamento di tutto il composto, aiutandosi
l'uno l'altro e l'uno dell'altro la virtù usando. E prima mi par convenevol cosa parlar
della statura o vero forma di tutta la persona, la quale Iddio ottimo massimo, percioché
egli ne creò come suo fine e come contemplatori delle superne armonie, questo la voltò e
alzò verso il cielo; avendo quella degli altri animali, i quali furono formati o per
commodo dell'uomo o per belleza e ornamento dell'universo, inclinata verso la terra, in
guisa che sempre con gli occhi riguardassero quella come lor fine, e, co' piedi dinanzi
sempre prostrati, andassero su per quella carpone. Alla statura dell'uomo diede adunque lo
stare diritto, voltar gli occhi verso il cielo e tenergli sempre fissi all'ornamento di
quelle belleze superiori, le quali, all'aprir di questo carcere, hanno ad essere per
grazia d'Iddio il guiderdone, l'albergo, il riposo dell'umane fatiche; il quale uomo
nondimeno, come detto abbiamo, mentre camina per questo terrestre viaggio, si ricrea
alcuna volta e si riposa, ristorasi e si conforta, donne mie belle, su la vostra soave
belleza, come fa lo stanco peregrino sull'albergo, insin che e' giunga al disiderato
luogo.
Solvesi la statura o vero la forma dello uomo in un quadro; perciò che
tanto è lungo l'uomo, distendendo le braccia in croce, dall'estremità del dito del mezo
dell'una mano all'estre- [741] mità del dito del mezo dell'altra mano, quanto dalla
infima parte delle piante alla sommità del capo, che volgarmente si chiama cocuzolo; la
quale figura vorrebbe essere per lungheza almeno nove teste, cioè nove volte quanto è
dalla più bassa parte del mento alla sommità del capo. Altri in perfetto circulo l'hanno
risoluta, tirando dalle parti genitali, le quali vogliono che sieno l'umbilico e 'l mezo
della nostra figura, le linee della circonferenza, in questo modo, cioè.
MONA LAMPIADA. Accostiamoci un poco più qua, che meglio lo potrete
disegnare, che ci è più piano e più netto. Deh, poi che voi venite a fare, disegnateci
anche quella riquadratura della figura, cioè della largheza e della lungheza.
CELSO. Eccovelo qui.
SELVAGGIA. Mostrateci ancora il disegno della risoluzione della persona
nella figura sferica, poi che tanto bene avete fatto.
CELSO. Eccotelo qui, poi che nulla ti si può disdire.
Vedete le linee, ugualmente partite dallo umbilico, fare il circulo che
avemo detto.
Ora vegnamo alla testa, la quale io vi disegnerò così lo me- [742]
glio ch'io potrò, perciò che questa non è molto mia professione, ancora che ella non
disconverrebbe a qual si sia spirito elevato, anzi gli sarebbe un grande ornamento, con
ciò sia che la pittura appresso dei Greci fu connumerata tra le arti liberali.
Vedete adunque che a voler misurare perfettamente l'alteza della testa
(e notate che io chiamo testa tutto quello che è dal fine della gola in su), che egli si
ha a tirare una linea retta, la quale ha a posare sopra una altra linea retta, che esce
dalla più bassa parte del mento e ha a ire a trovare una altra linea retta che si muove
dalla sommità del capo; e tanto quanto la linea sarà lunga, tanto nove volte ha da
essere la statura d'uno uomo ragionevolmente formato e bene proporzionato e per lungheza e
per largheza. E quello che dello uomo si dice sempre intendiamo della donna e in questa e
in ogni altra misura. Sono stati nondimeno molti dotti e valenti uomini, i quali hanno
lasciato scritto che le donne, per lo più, non passano sette teste; altri, che a volere
essere di proporzionata grandeza, non delono passare sette e mezo; alla cui openione mi
pare che faccia gran piede il commune uso della natura. E così vedete che dalla testa si
piglia la misura di tutta la persona e dalla misura della persona quella della testa. E
perciò che un corpo di conveniente statura, e massime quel della donna, non vorrebbe
passare palmi sette e mezo, di nove dita il palmo, ma di palmo e di dito di bene
proporzionata mano; però la convenevol testa, e secondo se ben composta, verrà ad essere
dita sette e mezo. E poi che noi abbiamo cominciato a disegnare, vi voglio mostrare come i
dipintori risolvono la perfezione del profilo in un triangolo; ma stievi a mente che poche
poche donne riescono in profilo; e uno de' più perfetti che egli mi [743] paia aver sino
a qui veduti in Prato, è quello di quella gentil villanella che sta dalle tre Gore. E
quella dal Mercatale, che tra' mal visi ha sì buon viso, la quale ha sì bella aria e
piacque tanto in su la Comedia de' Villani, che tutto Prato meritamente la giudicò
bellissima, ha il profilo imperfetto, per un poco di difettuzo ch'ella ha nella misura del
viso; della qual cosa pochi nondimeno si accorgeranno, perciò che, come dice il
proverbio, "Ogni bue non sa di lettera", nondimeno ella ha una graziosa aria di
fanciulla. Or eccovi disegnato il triangolo.
Vogliono questi dipintori che dallo angolo egli si tiri una linea
retta, d'uguale lungheza delle linee triangolari, e dalla estremità della detta linea,
andando in su, si tiri il naso, e di qua un dito e mezo dall'angulo o poco più, di su la
medesima linea si ponga l'orecchio, lasciandone sotto alla detta linea quella punta che,
ristringendosi in guisa d'un picciolo balascio, termina l'orecchio dalla parte di sotto
tanto vezosamente. Muovono di poi dall'angolo superiore un'altra linea retta d'uguale
lungheza dell'altra del mezo; dalla quale e' declinano verso la linea triangolare in modo
di arco una linea, la quale molle e dolce declinando al termine del naso, che debbe esser
dirimpetto alla coda interior dell'occhio, fa lo atto della declinazione del capo verso la
fronte e dalla fronte alla fine del naso, in quella quasi valletta che è tra i confini
dell'uno e dell'altro ciglio. Dall'angulo inferiore si muove una linea retta e termina
rettamente sotto all'orecchio; sulla quarta parte della quale, e [744] dove tu vedrai
questo carattere V, si muove una linea quasi semicirculare; l'una parte della quale
termina poco di sopra all'angulo >, in sul qual termine finisce il mento, e
l'altra parte percuote nel cominciamento della gola. E così si mostra che 'l mento vuole
avere uno poco di soggiogo, come ha la cugina della Amelia, alla quale egli aggiugne gran
grazia a quel suo bel visetto. E tanto quanto è dalla estrema parte del mento al termine
sopra il labro superiore, tanto ha da essere dalla fine del naso al cominciamento della
dirizatura, che è la fine della fronte; e tanta distanzia è dalla estremità del labbro
di sopra al principio del naso, quanto dalla coda anteriore di ciascuno degli occhi al
mezo del dorso del naso; e tanta vuole essere la largheza del naso nella sua base, quanto
è la sua lungheza; e tanta deve essere larga la concavità dell'occhio, dalla parte di
sotto al ciglio a quella che termina con le guance, quanto da quella che combacia il naso
a quella che finisce a dirimpetto degli orecchi.
Sonci molte altre misure, le quali, perciò che poco importano e la
natura ancora l'usa rade volte, noi le lasceremo a' dipintori, i quali con una pennellata
più e una meno le possono allungare e accortare come torna lor bene.
MONA AMORRORISCA. Oimè, oh, voi mi avete fatto sbigottire a raccontare
tante misure. Dunque, quando noi facciamo i bambini o vero le bambine, e' ci bisognerebbe
il braccio o le seste. Io vi dirò il vero, se e' mi pareva essere bella, che molte volte
mi è stato detto di sì, e guardandomi io alcuna volta nello specchio (per confessarne il
vero) me lo soli creduto, anzi mi è paruto essere del certo; ma io vi dico bene che da
qui inanzi mi parrà essere una cosa contrafatta. Oimè, oh, di coteste misure io non ne
credo avere straccio; sì che io mi posso ire a riporre.
[745] CELSO. E' non bisogna però avere tanta furia a riporsi; con ciò
sia che delle parti della vera e misurata belleza, se bene voi non l'avete così tutte
tutte interamente, basta che le sono tante, che, secondo le altre, voi meritate di essere
tenuta più là che bella. E se dalla concordia delle vostre membra non ne nasce quella
perfetta perfetta armonia, basta che la vi nasca, e con tanta grazia e con tanta venustà,
che voi non avete cagione da riporvi, ma sì bene di mostrarvi più che voi non fate; e
que' bei figliuolini e quelle eleganti figliuoline ne faranno fede a tutti quelli che non
saranno stati a tempo a mirare voi, ne' quali e nelle quali voi avete posta tutta la
sembianza vostra.
MONA AMORRORISCA. Orsù, dove la natura avesse in qualche particella
mancato, voi così supplite copiosamente con le parole, che io facilmente mi ritornerò
nella mia prima credenza. Ma non perdiamo tempo in queste ciance; seguitate il vostro
ragionamento, di grazia.
CELSO. Poi che a voi così piace, sia fatto. Torniamo adunque a
dichiarare le particolar cose del viso e poi diremo delle altre membra di mano in mano; e
i primi saranno gli 0 c c h i, ne' quali posandosi il più nobile e il più
perfetto di tutti i sentimenti e per lo quale l'intelletto nostro piglia, come per
finestre di trasparente vetro, tutte le cose visibili; e perché eziandio per quelli si fa
maggior risoluzione de gli spiriti che per via d'alcuno altro senso; però doviamo pensare
che la natura gli facesse con grandissimo magistero. Laonde, come speculatori
dell'universo, li pose nelle più alte parti del corpo acciò che di quivi più
agiatamente potessero esequir il loro officio. Feceli tondi a cagione che con quella
figura, la quale è di tutte l'altre capacissima, la vista pigliasse li obietti, che se le
offerivano, più largamente; dove essa natura conobbe eziandio un'altra commodità, con
ciò sia che questa figura sferica, non essendo impedita da alcuna sorte d'anguli, può
guardare in tutte le [746] bande e più agevolmente che nessuna altra volgersi dove le
piace; la quale volubilità fu aiutata eziandio da quel puro liquore, col quale gli occhi
stanno sempre umettati; che ben sapete che nell'umido nasce il lubrico e in su il lubrico
molto più facilmente che in su l'arido si rivoltano e volgono tutte le cose. Pose loro in
mezo, come due scintille di fuoco, le pupille, che volgarmente si chiamano luci, con le
quali la virtù visiva, che quivi e propriamente locata, rapisce gli obietti che se le
parano inanzi. Non accade disputare se l'occhio va a trovare l'obietto o l'obietto
l'occhio; con ciò sia che questa non è quistione apparentemente alla presente
speculazione. Per questa rotondità adunque intendendo la mente se medesima, è
necessitata alcuna volta mostrare i segreti pensieri del core; che bene spesso in loro si
legge quello che in core è scritto. Uniscesi insieme la vista di tutt'a dua li occhi in
guisa che, senza impedirsi l'un l'altro, possono rimirare un medesimo obietto tutti a due
in un tempo; e quando l'occhio diritto vede una cosa, il manco non ne vede un'altra.
[Delle ciglia] E a cagione che e' fussero muniti e difesi da ogni
pericolo di quelle cose che cader potevano dalla fronte, come è il sudore e altri
accidenti, la gli fortificò coi peli delle C i g l i a come con due argini che
ritenessero ogni offensione; coperseli con due palpebre mobili e facili ad aprirsi e a
serrarsi e fortificate eziandio di peli, i quali proibissero ciò che incautamente vi
volesse entro volare; lo assiduo muovere delle quali, abbassandosi e inalzandosi con una
incredibile celerità, non solo non impedisce la visiva virtù, ma la conforta e le dà
riposo; e nella stancheza loro, serrando entro il placido sonno, ce li nascondono con gran
quiete e meravigliosa dolceza di tutte le altre membra. Lo acume della vista, quasi posto
in una carta pecora [747] trasparente, si conforta e conserva nella sua chiareza, per
virtù dello umore già detto, come manifesta la esperienza; che ben sapete che subito che
un occhio, per qual si voglia accidente, si secca, subito perde la virtù visiva.
[Del naso] Dai confini delle ciglia nasce il N a s o e terminasi
sopra la bocca, per quello spazio che vi avemo disegnato di sopra; il quale levemente
inalzandosi pare che ponga un termine tra l'uno occhio e l'altro, anzi sia un loro
bastione.
[Delle guance] E le G u a n c e, una di qua e di là l'altra,
con quel dolce gonfiamento alzandosi, mostrano di porsi in difesa de' medesimi occhi. Ma
ritornando al naso, diciamo la parte di sopra essere composta di materia solida, e la
inferiore d'una quasi cartillagine e così molle e flessibile, che ella possa più
agevolmente esser maneggiata e tenuta netta; che percotendo, che è facil cosa, per
essere tanto rilevata, non riceva molta offensione, acconsentendo alla percossa. Entro al
qual membro, ancora che e' paia di picciola importanza, sono tre offici necessarii: il
respirare, l'odorare e 'l fare per quelle cavernette la purgazione del cerebro; i quali
offici, così utili e così importanti, li pose quel grande Artefice in questa parte, in
maniera che più tosto paresse fatta per belleza e per ornamento del viso che per l'uso
già detto.
[Della bocca] Sotto il naso P posta la B o c c a, con due
operazioni: l'una il parlare, l'altra il mandare il nutrimento ai luoghi necessari; la
qual, fessa per il traverso, fu poi orlata dalla natura con quei duo labbri quasi di
coralli finissimi, in similitudine delle sponde d'una bellissima fonte; i quali gli
antichi consecrarono alla bella Venere, perché quivi è la siede degli amorosi baci, atti
a far passare le anime scambievolmente ne' corpi l'un dell'altro; e però quando noi,
pieni di estrema dolceza, intentamente gli rimiriamo, ci pare che l'anima nostra stia
sempre per lasciarci, tutta vaga di andare a porvicisi sopra.
[748] [Dei denti] Del palato e della lingua non accade ragionare,
perché non si hanno a vedere; ben diremo dei D e n t i, i quali, oltre alla
utilità di tritarci il cibo e fare nella bocca la prima digestione e aiutarlo a passare
nel ventre con più facilità, acquistano tanto di belleza, tanto di grazia, tanto di
vagheza ad un leggiadro volto, che senza loro non pare che la dolceza vi abiti troppo
volentieri.
[Del riso] Ma che più? se i denti non son belli, non può essere bello
il R i s o ; il quale, quando sia bene usato, a tempo e con modestia, fa diventare
la bocca un Paradiso; oltre a che egli è un dolcissimo messaggiero della tranquillità e
del riposo del core; perciò che i savi vogliono che '1 riso non sia altro se non uno
splendore della serenità dell'anima; e però conviene alla nobile e gentil donna (se a
Platone nella sua Republica credemo, ché io per me li credo), per la dimostrazion
del suo contento, rider con modestia, con severità, con onestà, con poco movimento della
persona e con basso tuono e più tosto con rarità che con frequenze; come ben fa la
cognata della Selvaggia, di che poco fa ragionavi in contenzione.
VERDESPINA. E pur la vostra comare, che rideva spesso, era commendata
di quel ridere quanto di parte che ella avesse; che ne aveva tante, che ella meritamente
ottenne già in Prato tra le altre belle il primo grado.
CELSO. La mia comare vi aveva tanta grazia, che, se l'avesse riso
sempre, la sarebbe sempre piaciuta; ma e' non interviene così ad ognuno. La Amaretta tua,
che pur quando la ride se ne rifà, se ridesse così spesso, non piacerebbe tanto; e pure
ha bellissimi denti. Ma le son certe grazie che rare volte il ciel qua giù destina, e
toccano a pochi. Sì che i1 riso vuole esser raro e tanto più che il soverchio è segno
di troppo contento e 'l troppo contento non può capire in una persona di discorso. Or
conoscendo la natura quanta grazia averebbe data ai nudi denti [749] un poco di fregio
intorno alle lor radici e quanto garbo, se con un piccolo intervallo, ma misurato, li
divideva l'un dall'altro; con le gengive, come con un poco di nastro, gli legò insieme, e
con quello intervallo, dalle seste della maestra natura misurato, gli separò in quella
guisa che e' porgessero, oltre alla utilità, quel diletto che voi e io aviam gustato
mille volte e gustaremo, sempre che mona Amorrorisca si degnasse mostrarci i suoi.
SELVAGGIA. O là, Mona colei, non li coprite; che il dì delle feste si
scuoprono e non si cuoprono le cose sante.
MONA AMORRORISCA. Accordatevi pur tutte a darmi la baia. Sai tu come
ellè, Selvaggia? Per ognun ce n'è. Ma seguitate, di grazia.
[Del mento] CELSO. Dalle guance con un clemente tratto comincia il M
e n t o, il quale termina in quel duoi monticelli che si mettono in mezo quasi una
dolcissima fonticella; come ha quella Appollonia che voi diceste l'altro dì, che parve
sì bella la mattina del Corpusdomini in San Domenico; della quale, se io ve ne ho a dire
il parer mio, ella è una bella e una graziosa fanciulla e ha poche pari in questa terra:
bella gioia legata in vile anello. Or sia con Dio.
[Deglorecchi] Apronsi poi gl'O r e c c h i nella più
eminente parte del corpo accioché più facilmente raccogliano le voci che cascano
dall'aere ripercosso da quelle; e son nudi accioché con più facilità il suono li possa
penetrare; hanno quelle rivolture e quelle tortuosità accioché la voce compresa, per la
difficultà della via, non se ne possa ritornare in dietro; e son fatti quasi a
similitudine di quel piccolo instrumento che voi chiamate l'imbuto, il quale, raccogliendo
e ristringendo il liquore, per piccolo canale lo manda poi nel maggior vaso, sì che punto
non se ne sparge di fuori; così l'orecchio, raccogliendo le sparse voci, per piccolo
canaletto le diffonde nel gran vaso dello intelletto, a custodia della memoria, posta
nello occipizio da noi Toscani chiamata [750] la collottola. Non furon fatte di molli
pellicine, né languide o fiacche, come se ne vede in molti altri animali; ché ben vi
deve dettar la imaginazione che le sarebbono state molto deformi; non furono assodate con
duri e solidi ossi, con ciò sia che con essi più tosto si difficultava l'uso del
l'audito che no; oltre che si impediva il riposo di tutto il corpo, non vi si potendo, per
la dureza e rigorosità di quelle ossa, posarvi su il capo nella quiete del sonno o nel
ristoro delle fatiche del corpo, come spesso aviene; furon plasmate adunque d'una materia
che tendesse al molle, ma non fosse languida, sì che al riposo non desse impaccio e fosse
atta al raccogliere delle voci; ne' quali posposta la utilità, per rispetto della
belleza, è da riguardare quel semicirculo o vero orlo rosseggiante, con quella pendente
punta in guisa di balascio, come dicemmo. Quanto è bello, quanto è vago, quanto è
grazioso! Che se, come si costuma in molte parti d'Italia, vi si appicca qualche preziosa
gioia, non solo l'orecchio per paragon di quella non perde di grazia, anzi ne guadagna,
con perdita della gioia. Hanno li orecchi in quel pertugio che manda dentro la voce,
quella certa rivoltura, sinuosità e via fatta a vite, come s'è detto, accioché per
cotale difficultà, passando la voce più lentamente per quelle, dia agio al senso
dell'audito di ripresentarla al senso comune; e anche percioché si difficulti l'entrata a
molte bestiuole che vi potrebbon volar dentro; ma quando pur qualcuna ve ne entrasse, vi
ritrova una certa materia viscosa che la ritiene accioché non passi al fondo e però
impedisca l'uso dello audito. Servono eziandio quelle vie tortuose e come cavernette
scavate accioché il suono della voce entro vi cresca; come e' fa nella piegatura d'un
corno, d'una chiocciola marina o d'una tromba torta, e come si vede far tutto 'l dì nelle
caverne, nelle spelonche e nelle profonde valli che sono alle campagne, dove ravolgendosi
la voce si gemina e risuona.
[751] [ Della gola] Poi seguita la G o l a , atta con gran
vagheza a piegarsi e volgersi da ogni banda, oltre a che cuopre e difende li due vitali
canaletti, chiamati canne, che respirano e mandano a cuocere il trito cibo alla pentola
dello stomaco.
[Delle braccia e mani] Sotto alla quale scendon le spalle, porgendo in
fuor le B r a c c i a, con la piegatura delle gomita, col mirabile e necessario uso
delle M a n i, potissime ministre del tatto; le quali con la concava palma e con la
flessibilità delle dita sono atte a pigliare e ritenere ciò che a lor piace; dove è
difficile al terminare qual sia maggiore o la utilità o la belleza.
[Del petto] La latitudine del P e t t o porge gran maestà a
tutta la persona; dove sono le M a m m e l l e, come due colline di neve e di rose
ripiene, con quelle due coroncine di fini robinuzzi nella loro cima, come canelluzze del
bello e util vaso; il quale, oltre alla utilità di stillare il nutrimento a' piccioli
fanciullini, dà un certo splendore, con sì nuova vagheza, che forza ci è fermarvi su
gli occhi a nostro dispetto, anzi con gran piacere; come fo io, che guardando il
bianchissimo petto d'una di voi... Eccoci a coprir li altari; se voi non racconciate quel
velo come stava, io non seguirò più oltre.
MONA LAMPIADA. Deh, levalo, Selvaggia, che ci hai stracco ormai.
Oh, come hai fatto bene a torglielo dal collo! Vedi tu? Così si fa. Orsù,
messer Celso, seguitate l'orazione, che le reliquie sono scoperte.
[Della gamba e del piede] CELSO. Delle altre parti insino alla G a m
b a (percioché elle van coperte, come di sopra si disse, non conferiscono, alla
nostra belleza se non come tutte insieme) mi pare onesto tacere. Diremo dunque della gamba
solamente, per lo cui moto ne partiamo da loco a loco, con la piegatura dei ginocchi,
corrispondenti con le lor corde da' fianchi insino a talloni, anzi legati insieme
col posamento di tutta la persona, chè il P i e d e; [752] il quale, per
essere il principio e quasi una base di tutte l'altre membra, è molto riguardevole e
d'una grande importanza alla belleza universale; percioché ogni volta che l'occhio è
stracco o più tosto divenuto ammirativo e stupido per la soverchia e incomprensibile
dolceza, che ha ricevuta nella contemplazione degli occhi, delle guance, della bocca e
dell'altre parti, ristrignendo la virtù visiva in se medesimo, par che abbassi gli occhi
come per paura e si riposi sul piede, non altrimenti che si faccia il capo, uno che è
stanco, su un guanciale. Sì che, donne mie care, non siate così avare di dimostrarlo
qualche volta; imparate dalle Romane, che non altrimenti lo coltivano che si facciano il
volto. E sin qui basti aver parlato della belleza, utilità, uso, cagione, artificio e
proporzione di tutte le membra in generale; che, quando verremo al componimento della
bella donna, con lo essempio di voi altre più distintamente parleremo.
[Dei capelli] VERDESPINA. Se la Diambra (che quando non le paresse
essere bella per altro, che le pare essere bellissima per ogni cosa, ma per la chiareza
de' C a p e l l i si tiene una Elena novella) fusse presente a questi vostri
ragionamenti, oh, io vi so ben dire che la gonfierebbe; percioché ell'usa dire che, siasi
una donna bella s'ella sa, che se ella non ha bei capelli, che la sua belleza è spogliata
d'ogni grazia e d'ogni splendore; e voi non ne avete pur fatto menzione.
CELSO. Ella ha una gran ragione e tu hai fatto bene a ricordarmeli,
ché io me li era dimenticati, ancor che e ne sia stata potissima cagione il parermi
che voi altre di qua ne tenghiate poco conto, anzi gli coprite insino alle novelle spose;
e da cotestei in fuori, io non gli vidi molto spiegare ai venti ad alcuna, che è una
malfatta cosa; percioché e' sono un grandissimo ornamento della belleza e da natura sono
creati per una evaporazione delle cose superflue del celebro e delle altre parti del [753]
capo; impercioché, ancor che e' sieno sottilissimi, e' son forati accioché ch'indi
possano esalare le dette superfluità; della cui particular belleza e di ciò che ne disse
Apuleio, descrivendo la sua Fotide, io mi riserberò al componimento della donna che noi
fingeremo. Ora, avendo ragionato sin qui quasi che a bastanza della belleza, restaci, per
osservanza delle promesse, dichiarare che cosa è L e g g i a d r i a.
[Della leggiadria] La leggiadria non è altro, come vogliono alcuni, e
secondo che mostra la forza del vocabolo, che una osservanza d'una tacita legge, data e
promulgata dalla natura a voi donne, nel muovere, portare e adoperare così tutta la
persona insieme, come le membra particolari, con grazia, con modestia, con gentileza, con
misura, con garbo, in guisa che nessun movimento, nessuna azione sia senza regola, senza
modo, senza misura o senza disegno; ma, come ci sforza questa tacita legge, assettata,
composta, regolata, graziosa; la quale, percioché non è scritta altrove ch'in un certo
giudizio naturale che di sé né sa né può render ragione, se non che così vuol natura,
ho voluta tacita nominare; la quale legge nondimeno, percioché né i libri la posson
insegnare, né la consuetudine la sa mostrare, non è osservata comunemente da tutte le
belle; anzi se ne vegiono tutto il dì molte di loro tanto sgarbate, tanto attose, che par
pure un fastidio a vederle. E quella gentil Lucrezia, che sta là verso San Domenico,
percioché è fedele osservatrice di questa legge e ha tutte quelle parti che si ricercano
alla leggiadria, perciò piace tanto a ciascuno; e ancor che le sue fatteze manchin forse
in qualche cosellina, secondo le misure di questi scrupolosi disegnatori, nondimeno,
s'ella ride, ella piace; s'ella parla, la diletta; se la tace, ell'empie altrui di
ammirazione; s'ella va, ha grazia; s'ella siede, ha vagheza; se ella canta, ha dolceza; se
ella balla, ha Venere in compagnia; se ella ragiona, le Muse le insegnano. Or finalmente,
e' se le avviene ogni cosa maravigliosamente.
MONA LAMPIADA. Voi non vedeste mai quanto cotesta fanciul- [754] la mi
piace, non solo perché ha così buono spirito, come voi vi sapete, ma perché la mi pare
anche bella; sì che io ho caro che noi concorriamo in una medesima openione.
CELSO. Certo che ella è da piacere; ma sapete voi chi mi parve anche
sempre una gentil fanciulla e dipinta di tanta leggiadria e di tanta vagheza, che io non
so, se io avessi a dipigner una Venere, se io volessi ritrarre altra donna che lei? E non
crediate che io dica questo per quello ingegno maraviglioso, per quella maniera grande che
ella ha; perché oggi non è mio intento parlare della belleza de l'animo; io lo dico pur
per la belleza del corpo.
SELVAGGIA. Chi è questa, se Dio vi guardi da tutte le cose che vi
posson nuocere?
CELSO. Se Dio mi guardi adunque dai tuoi pungentissimi sguardi, che la
Quadrabianca Buonvisa mi pare una leggiadra e una gentile fanciulla, e parmi ch'ella abbia
un grande attrattivo.
SELVAGGIA. Grazia che a pochi il ciel largo destina e veramente che voi
dite il vero.
CELSO. Sì, ma tu se' tra quelle poche: ma la G r a z i a è
unaltra cosa, della quale io vi voleva parlare.
[Della grazia] Or di quella grazia, cioè la quale è parte della
belleza, non di quelle che sono ancille di Venere le quali, misticamente parlando, non
importano altro che un guiderdone cumulatamente renduto dalle persone grate, in cambio dei
benefici già ricevuti; e percioché nelle veneree azioni e negocii amorosi assai
beneficio accaggiono mutuamente tra gli amanti e se ne guiderdonano molti tutto il dì,
però le Grazie sono state consegnate per servitrici alla bella Venere. Possiamo, anche
lasciando l'altre due, pigliare Aglaia, la quale significa splendore, che farà mol- [755]
to al proposito nostro; con ciò sia che la nostra openione è che la grazia non sia altro
che uno splendore, il quale si ecciti per occulta via da una certa particolare unione di
alcuni membri che noi non sappiam dir: "E' son questi, e' son quelli"; insieme
con ogni consumata belleza, o vero perfezione, accozati e ristretti e accomodati insieme;
il qual splendore si getta agli occhi nostri con tanta lor diligenza, con tanto
sodisfacimento del cuore e contento della mente, che subito è lor forza volgere il nostro
desio a quei dolci raggi tacitamente. E percioché come abbiam tocco di sopra, noi vediamo
assai volte un viso che non ha le parti secondo le comuni misure della belleza, spargere
nondimeno quello splendore della grazia di che noi parliamo (come la Modestina, la quale,
se non è così grande e così proporzionata come si è mostro di sopra, nondimeno ha in
quel suo visetto una grazia grandissima, sì che la piace a tutti); dove per lo contrario
si vedrà una con proporzionate fatteze, che potrà essere meritamente giudicata bella da
ognuno, nondimeno non averà un certo ghiotto, come è la sorella di mona Ancilia; però
siam forzati a credere che questo splendor nasca da una occulta proporzione e da una
misura che non è ne' nostri libri, la quale noi non conosciamo, anzi non pure imaginiamo,
ed è, come si dice delle cose che noi non sappiamo esprimere, un non so che. Il
dire che ella è un raggio di amore e altre quinte essenzie, se ben son dotte, sottili e
ingeniose, nondimeno elle non reggono della verità. E chiamasi grazia, percioché
la fa grata, cioè cara colei in cui risplende questo raggio, questa occulta proporzion si
diffonde; come fanno eziandio le rendute grazie dei benefici ricevuti, le quali fanno
grato e caro colui che le rende. E questo è quanto sopra di ciò io posso o voglio per al
presente ragionare; che, se più ne volete sapere, risguardate negl'occhi di quella chiara
luce che rischiara coi bellissimi occhi suoi ogni peregrino ingegno che dello splendor
della grazia va cercando.
[756] [Della vagheza] A volervi dimostrare che cosa sia Va g h e z a,
bisogna che voi prosupponiate quello che è nel vero, che questo nome o vero voce
"vago" significa tre cose: la prima, movimento di luogo a luogo, come ben mostra
il Petrarca:
Riduci i pensier vaghi a miglior loco.
La seconda, desiderio, come è appresso il medesimo:
Io son sì vago di mirar costei .
Il Boccaccio nella Fiammetta: di quello che essi erano vaghi
divenuti. La terza, bello. Il Petrarca pure:
Glatti vaghi e gli angelici costumi .
E l Boccaccio nel medesimo loco: una turba di vaghe giovani.
Dal primo significato, cioè movimento, ne è tratto vagabondo, e da vagabondo, che è
quel medesimo che vago, ne è tratto il secondo, cioè desideroso; percioché una cosa che
è in moto e va vagando or quinci or quindi, par che accenda di sé maggior desiderio in
altrui che una che stia ferma e la quale noi possiam vedere a posta nostra. E con ciò sia
che paia necessario che tutte quelle cose che noi desideriamo, che noi le amiamo e non si
potendo, secondo che si è conchiuso di sopra, amar cosa che non sia o non ci paia bella,
però ha ottenuto l'uso del comun parlare, che vago significhi bello e vagheza belleza; ma
in questo modo particulare nondimeno, che vagheza significhin quella belleza che ha in sé
tutte quelle parti per le quali chiunque la mira forza gli è che ne divenga vago, cioè
disideroso; e divenutone disideroso, per cercarla e per fruirla stia sempre in moto col
core, in viaggio co' pensieri, e con la mente divien vagabondo. È adunque vagheza una
beltà attrattiva, inducente di sé disiderio di contemplarla e di fruirla; e però
diciamo: "La tale è vaghetta", quando parliamo d'una che ha un certo lascivetto
e un certo ghiotto, con la onestà mescolato e con [757] un certo attrattivo, come ha la
Fiamminghetta. E Venere mi disse stanotte in sogno che di qui a due anni verrà ancor
de fiori del vostro Prato una Pistolese, che si chiamerà Lena, che porterà seco la
vagheza negli occhi; e ce nè anche qui tra voi una, la quale io non vo
nominare, che, secondo il mio giudizio, ha assai dello attrativo.
MONA AMORRORISCA. Voi fate molto bene accioché tra noi non nascesse
qualche emulazione che fosse cagion di scandolo; ma senza che voi la nominiate, io veggo
scolpito nel vostro fronte quello che voi avete disegnato nel core; ma io non vi vo
dire più là, perché chi la spiana la guasta.
CELSO. Gli altri indovinano alle tre e voi al primo; ma lasciamo or
questo e torniamo alle nostre promesse, secondo le quali ci resta a parlare della V e n
u s t à.
[Della venustà] Or notate adunque. Dice Cicerone che sono due sorti di
belleza, delle quali una ne consiste nella venustà e l'altra nella dignità, e che la
venustà è propria delle donne e la dignità è propria delli uomini. Adunque, secondo
costui, la cui autorità a voi donne doverebbe bastare, tanto importa la dignità
nell'uomo quanto la venustà nella donna; percioché la dignità nell'uomo non è altro
che uno aspetto pieno di vera nobiltà, pieno di riverenzia e di ammirazione; la venustà
adunque nella donna sarà uno aspetto nobile, casto, virtuoso, riverendo, admirando in
ogni suo movimento, pieno duna modesta grandeza, come vi può mostrare la Gualanda
Forella, se voi la guarderete lontano da ogni livore. E percioché quegli che, avendo poca
cognizione, sogliono, nel biasimare coloro che tutto il dì si affaticano per sapere, aver
molta prosunzione, non dicessero che, per venir questo nome venustà da Venere, che dai
poeti è conosciuta per madre di tutte le lascivie amorose, che egli non doverebbe
ragionevolmente significare altro se non una belleza lascivamente bella, io giudico esser
conveniente, con un poco di ragioncella, cavar voi derror, se ci fuste, che nol
credo, e colo- [758] ro che per questa cagione mi volessero biasimare, i quali sarebbon
molti. Or notate. Appresso gli antiqui scrittori son celebrate due Veneri: una, figliuola
della Terra, con operazion terrene e lascive, dalla quale e voglion che si criino le
veneree azioni; l'altra la dissero figliuola del Cielo, con pensieri, atti, modi e parole
celesti, caste, pure e sante, e da questa seconda volsero che procedessero la venustà e
le cose venuste e non le veneree.
[Dellaria] Ora aviamo a parlar dell A r i a, e
bisogna che qui voi porghiate gli orecchi dello intelletto con ogni attenzione. Donne mie
care, egli è un proverbio appresso de Latini (e di quanta auttorità fussero i
proverbi appresso gli antichi le carte non solo di essi Latini, ma degli scrittori greci,
che ne son piene, facilmente lo dimostrano), dice adunque questo proverbio: conscientia,
mille testes; chimporta tanto quanto a dire: "la conscienzia pura e monda
vale per mille testimoni". Presupposto adunque questo proverbio come verissimo,
diremo che tutte quelle donne, che hanno macchiata la conscienzia di quella feccia che
deturpa e mbratta la purità e netteza della volontà, causata dal mal uso della
ragione, per essere tutto il giorno trafitte dalla memoria della lor colpa ed esagitate
dalla prova dei mille testimoni della lor lesa conscienza, incorrono in una certa malattia
di animo, la quale continuamente le inquieta e le perturba. La qual perturbazione e
inquietudine genera una cotale disposizione di umori, i quali con i fumi loro guastano e
macchiano la purità della faccia e degli occhi massimamente; i quali, come si disse di
sopra, sono i ministri e i messaggieri del core e crianvi dentro un certo piglio, e, come
volgarmente si dice, una certa malaria, indice e dimostratrice della infirmità
dello animo, non altrimenti che si faccia il pallore delle guance e delle altre membra, le
malattie e le male disposizioni del corpo e la perturbazione ed esagitazione degli umori
di quello. [759] Né vi paia strano che la malattia dell'animo perturbi le membra del
corpo; percioché la esperienza vel mostra tutto il dì nel dolore di esso animo, che bene
spesso procaccia al corpo febbre talor la morte. Conosciuto che voi avete qual sia la
malaria, indicatrice e dimostratrice della infezione dello animo delle ammalate già
dette, facilmente conoscerete la buona aria delle sane; ché, come ben dice Aristotele nel
quinto dellEtica, conosciuto che noi abbiamo uno abito contrario, forza ci è
conoscere l'altro contrario abito; nel medesimo loco, poco più basso, molto più
chiaramente lo dimostra, dicendo: "Se la buona abitudine del corpo si dimostra ne la
sodeza e densità della carne, forza è che la mala abitudine si dimostri con la fiacheza
e rarità". Per il quale discorso voi potrete conoscere apertamente che quello che si
dice in una donna: "Ella ha aria", non è altro che lo avere un certo buon
segno, manifestante la sanità dell'animo, della chiareza della loro conscienza; con ciò
sia che dicendo aria semplicemente, per figura di antonomasia, che noi per eccellenza
forse propriamente diremo, e si intende della buona. E la malaria, e non avere aria,
importa un segno, un piglio, dimonstrante la malattia del cuore e le macerie della
contaminata conscienza.
MONA AMORRORISCA. Bella è stata veramente la dichiarazione di questo
passo e degna di gran considerazione, così per esser cosa vera, come nuova, e certamente
degna dell'ingegno vostro, assai più che dello intelletto nostro; nondimeno, per avercela
voi così apertamente dimostrata, noi ne siamo assai bene state capaci, ma altrove ci si
riserberemo ad allargarci nelle vostre lodi; e però, tacendo, aspetteremo quello che voi
diciate della M a e s t à.
[Della maestà] CELSO. Della maestà io non saprei che mi vi dire
altro, se non che egli è una comune usanza del parlar quotidiano, che, quando una donna
è grande, ben formata, porta ben sua persona, siede con una certa grandeza, parla con
gravità, ride con modestia e finalmente getta quasi uno odor di regina, allora [760] noi
diciamo: "Quella donna pare una maestà; ella ha una maestà", il che è tratto
dal trono regale, dove ogni atto, ogni operazione debbe essere ammiranda e riverenda. Sì
che per questo la maestà non viene ad essere altro che il muovere e portarsi d'una donna
con un certo real fasto; d'una donna, dico, che sia di persona un poco alta e compressa. E
se voi volete vedere un certo essempio di questo, guardate la illustrissima signora
contessa da Vernio, che con quella regia presenza, atti, modi, parole, mostrerebbe sempre
a chi non la conoscesse altrimenti, che ella è sorella del molto magnifico signor mio, il
signor Gualterotto de' Bardi, e consorte accettissima del gentilissimo e modestissimo
signor Alberto; e finalmente, nata chiaramente e maritata altamente. E questo è quanto
per ora mi occorre dirvi della universal belleza e di tutte le sue aderenzie, senza che io
pensi aver satisfatto al desiderio vostro compiutamente.
MONA LAMPIADA. Percioché io son la più vecchia, io non doverei esser
tenuta prosuntuosa, se io risponderò per tutte; e però dico che voi ci avete sodisfatto
molto meglio che noi non aremmo saputo addomandare, ancor che da voi si possa aspettare
ogni gran cosa; pur nondimeno noi disideriamo confermarci nella nostra cognizione con lo
esempio di quella chimera che voi ci avete promesso di fare.
CELSO. Voi sete ben vecchia sì, e molto bene lo dimostrate, non col
viso, che è fresco e pulito quanto di altra (e sia detto con pace di tutte quelle che
sono in questo luogo, se ben non sete più in su quel fiore della giovaneza), ma sì ben
con lintelletto, con lo ingegno e con tante vostre virtù, che meglio sarà tacerne
che dirne poco; ché meglio non potevate dire che dir chimera, percioché così come la
chimera si imagina e non si trova, cosi quella bella che noi intendiamo fingere, si
imaginerà e non si troverà; e più tosto vedremo quello che si vorrebbe avere per esser
bella, che quello si abbia, non dispregiando per questo la belleza di voi che sete qui
presenti o delle altre che non ci sono; le quali, se bene non hanno raccolto in loro lo
intero, non- [761] dimeno ne hanno tal parte, che basta loro per esser accarezate e anche
per esser tenute belle. Or vegniamo alla nostra chimera.
Né prima aveva cominciato Celso ad aprir la bocca per darle principio,
che in sul colle comparse la bella Gemmula dal Pozo nuovo, tutta modesta, tutta gentile e
veramente una preziosa margherita; la quale, avendo avuto sentore di questa compagnia,
come donna di buono ingegno, era tratta all'odor di questi ragionamenti; e aveva seco quel
chiaro diamante che con la foglia di molte virtù nobilita la piaza di San Francesco; e
appena erano a mezo il monte, che quasi tutte le altre giovani, che erano per l'orto,
cantando e ridendo, e, come in simil lati si costuma, motteggiando, gli vennero a
chiamare; in modo che Celso fu forzato abbandonar l'impresa e andarsene con loro ad una
bella merenda, che aveva ordinata mona Simona de' Benintendi, savia e veneranda matrona
fiorentina e moglie del padron dell'orto; la quale è tanto da bene, che per dir parte di
sue lode bisognerebbe allungar troppo le parole. E fornita che fu la merenda, e si
ballò e si cantò e fecesi tutte quelle cose che in una onesta brigata di nobili e
virtuose donne e di gentili e cari giovani si conviene; e così durarono, insino che fu
ora che ognuno se ne tornasse a casa sua.
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