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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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VITA

Di: Vittorio Alfieri

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EPOCA SECONDA - ADOLESCENZA

ABBRACCIA CIRCA OTTO ANNI DI SOGGIORNO NELL'ACCADEMIA

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Primi studi, pedanteschi.

Io frattanto fui collocato nel terzo appartamento, nella camerata di mezzo, alla guardia di un servitore, quell'Andrea, che cominciò a darsi al discolo, non avendo più chi 'l frenasse; e d'un assistente, ch'era un pretuccio studente anche egli, il quale per la sola tavola, ed albergo stava a custodirci noi undici, che era il pieno di ogni camerata. Esaminata la mia capacità per gli studi, fui giudicato un forte quartano, capace, studiando molto in que' tre mesi, di entrare al Decembre in terza. Ed in fatti mi vi posi, e conosciuta per la prima volta l'emulazione, e la gara, a competenza di alcuni altri ricevuto l'esame poi al Novembre fui ammesso alla terza. N'era il maestro, un certo Don Degiovanni; prete di forse meno dottrina del mio Don Ivaldi, e di assai minore affetto per me, badando alla peggio a 15 o 16 scolari che eramo. Io mi tirava dunque innanzi in quella scoluccia, asino fra gli asini, sotto un asino. Vi si spiegava male il Nipote, il divo, alcune egloghe di Virgilio: vi si facea certi temi sguaiati, e miserissimi; che in altre scuole ben fatte, quella sarebbe stata una pessima quarta: eppure si tirava innanzi così. Non era io l'ultimo fra gli scuolari; L'emulazione mi serviva finché avea superato, o agguagliato quel giovine che passava per primo; ma se perveniva poi primo, subito mi rintiepidiva, e ricadea nel torpore. In fatti nulla era più noioso che sì fatti studi in tal guisa diretti. Si traducevan le vite di Cornelio Nipote; ma non sapevamo affatto chi fossero quegli uomini di cui si traduceva la vita; né dove fossero i lor paesi, né in quali tempi, né in quali governi vivessero; tutte le idee losche, indigeste, e confuse; nessuno scopo in chi insegnava, nessun allettamento in chi imparava; erano in somma vergognosissimi perdigiorni; e nessun ci vegliava, o chi dovea farlo nulla intendeva; ed ecco come si tradisce la gioventù. Passato in tali studi tutto il '59, verso il fine fui promosso all'Umanità. Era il maestro di questa Don Amatis, prete di molto ingegno e sagacità, e di bastante dottrina. Sotto questo feci assai profitto, e per quanto quel metodo di studi mal inteso il comportasse, mi rinforzai nel latino. L'emulazione mi crebbe, per l'incontro di un giovine che competeva con me nel fare il tema, e alcune volte vincevami; ma sempre mi superava in memoria, recitando egli fino a 600 versi di seguito della Georgica, ed io non potendo giungere appena a 500; cosa di cui mi angustiava moltissimo. E per quanto mi vo ricordando dei moti del mio animo in quelle battaglie, mi pare che l'indole mia non fosse per natura cattiva; perché nell'atto dell'esser vinto da quei cento versi di più, mi sentiva soffocar dalla collera, e spesso in un dirottissimo pianto prorompea, e alle volte ad ingiurie atrocissime contro al rivale; ma pure poi, o fosse egli migliore di me, o non so come mi placassi, essendo in circa di forze eguali, non ci disputavamo però quasi mai, e sul totale eramo quasi amici. La mia ambizioncella credo che ritrovasse compenso nel premio che per lo più riportava io del tema; ed inoltre, non gli potea aver odio, perché egli era bellissimo; ed io sempre ho avuto un gran debole per le cose belle, sì animali, che uomini, o enti inanimati. Erano per tutto quell'anno d'Umanità i miei costumi ancora innocenti e purissimi; se non in quanto la natura senza ch'io il sapessi me gli andava sturbando. Mi capitò in quell'anno alle mani, e non mi posso ricordar il come, un Ariosto, in quattro tometti di tutte le opere sue. Non lo comprai che danari non avea, non lo rubai, perché delle cose rubate mi ricordo benissimo; ho un certo barlume, che lo avessi un tomo alla volta per via di baratto da un altro che lo scambiava col pollo della Domenica; che ogni Domenica ci era dato un mezzo pollo arrosto a ciascuno; e non è il solo scambio ch'io facessi; che quel benedetto pollo per più di sei mesi continui me ne privai per sentire delle istorie da un certo Lignana, che non volea uditori altri che quelli che contribuivano a saziar la sua gola. Mi pare dunque, ma non lo posso accertare, che a forza di polli, o di qualch'altro baratto di tavola, pervenissi a mettere insieme quell'Ariosto: di cui andava leggendo quanto poteva; ma non ne intendeva neppur la metà. Si giudichi da ciò quali doveano essere que' nostri studi, in cui ci faceano tradurre in italiano le Georgiche di Virgilio assai più difficili dell'Eneide, e non poteva un de' primi umanisti capire l'Ariosto. Sempre mi ricorderò che nel canto d'Alcina, a quei bei passi di descrizione di essa, io mi faceva tutto intelletto per intendere; ma al fine di quella stanza, Né così strettamente edera preme, non mi era mai possibile d'intendere quei due ultimi versi; onde mi consigliava col mio competitore di scuola, che non gl'intendeva più di me, e ci perdevamo in un mare di congetture. Questa lettura, e comento dell'Ariosto finì, che l'assistente si avvide che c'era un libro che si nascondeva all'apparir suo, lo scoprì, lo prese, lo diede al sottopriore, e noi restammo con un piede di naso.


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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:08/02/2001 17.36

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