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De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Corto Viaggio
Sentimentale

di: Italo Svevo (Ettore Schmitz)


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III. Verona-Padova

 

Ma prima di abbandonare Verona la vettura accolse tre nuovi ospiti che al signor Aghios parve di riconoscere. Il contadino, la moglie e la figliuola ch'egli credeva di aver visti alla stazione di Milano. Gli pareva soprattutto di riconoscere il gonnellino, rigonfio molto, della fanciulla. Questa gli pareva più giovinetta di quella che aveva visto dormire alla stazione, perché questa non poteva avere neppure dieci anni. Ma non si poteva dirlo, perché un bambino con gli occhi aperti non somiglia ad uno che li ha chiusi. La madre era ben vestita con un fazzoletto di seta annodato sul capo in luogo del cappello. La sua faccina sotto a quel fazzoletto, un po' incartapecorita forse dalle intemperie, era ammorbidita dagli occhi azzurri, serii, ma vivi. Il contadino era privo di colletto, ma vestito pulitamente alla cittadina. Quel fazzoletto sulla testa della contadina, nitido e bianco, era adorabile. La donna inchinavasi agli antenati per sottomettersi al marito che non li curava.

Il giovanotto nel cantuccio fu obbligato di ritirare le gambe. Lo fece senza dire una parola, ciò che al signor Aghios parve scortese, lui che voleva il suo viaggio soffuso di gentilezza. Del resto a lui pareva d'imbattersi in conoscenti e avrebbe voluto aprire loro le braccia. Doveva però diffidare, perché al signor Aghios mancavano due qualità: L'orientamento e il riconoscimento delle fisonomie. A Milano, dopo esserci stato tante volte, non sapeva andare da solo dalla stazione a piazza del Duomo ed era incapace di trovare sulla via chi conosceva ed incapace di non salutare tutti gli sconosciuti. Per essere sicuramente conosciuti da lui bisognava averlo praticato da molti anni. Come è tanto difficile di apprendere da vecchi una lingua, così egli non sapeva più stampare nel suo cervello la fisonomia di gente nuova. Forse era la stessa deficienza che gl'impediva l'orientamento. Infatti, intorno al naso e agli occhi degli uomini, ci sono delle vie, androne e piazze di cui, per la loro minutezza, è difficile d'intendersi. Li conosceva o non li conosceva quei contadini? I biglietti ferroviari erano ora tenuti in mano, fissati negligentemente col pollice sulle altre dita robuste e rudi della donna, mentre a Milano li aveva tenuti il contadino. Ecco una differenza e il signor Aghios fu più dubbioso che mai.

Anche il Borlini guardò quei biglietti. Si chinò all'Aghios, come per dirgli qualche cosa d'importante, e gli soffiò nell'orecchio: “Quei biglietti sono di terza classe”.

Il treno correva da una decina di minuti e la fanciulla si guardava intorno come se cercasse qualche cosa. Poi si piegò sul grembo della madre e mormorò: “Mama, voio veder”.

Anch'essa aveva la testa coperta dal fazzoletto annodato al mento. La faccia sua era rosea e fresca, gli occhi azzurri, più chiari che della madre, grandi, la cornea bianca, luminosa anch'essa. Parlavano il veneto ed era difficile fossero venuti da Milano.

La madre si chinò e disse: “Guarda alora. No ghe xe gnente da veder”. Parlava a bassa voce. Pareva intimidita dalla compagnia di quei signori silenziosi.

Il signor Aghios, che non aspettava di meglio, fece posto alla finestra: “Vuol vedere! Ha ragione! Anch'io quando viaggio voglio vedere. La ponga qui”.

La bambina guardò supplichevole la madre, la quale volse il guardo come a domandare consiglio al marito. Questi sorrise, “Se sto sior xe tanto bon, no vedo perché la picola no dovaria godersela. Zà no restemo tanto, perché ghe semo subito a ... ”.

E subito preso in braccio il piccolo fagotto di vestiti, lo depose al posto lasciato libero dal signor Aghios.

La piccina guardò la campagna che fuggiva e per qualche minuto stette silenziosa. Poi aderì con tutta la faccia al vetro e il signor Aghios sorrise perché intese che faceva così per vedere meglio. Indi si volse al padre piagnucolando: “Mi voria veder”.

“E no ti vedi?” domandò il padre stupito.

“Mi no che no vedo!” esclamò la fanciulla e volse alla madre i chiari occhi, resi anche più chiari dalle lacrime che cominciavano a formarvici. La madre accorse e sedette fra il padre e la bambina, così che il signor Aghios dovette spostarsi ancora una volta per fare luogo, fatica che gli fu resa più facile da un cordiale: “El scusa tanto!” del contadino, mentre il Borlini lanciava un biasimo parlante traverso ai suoi occhiali.

La madre domandò: “Ma coss'ti vol veder? No ti vedi tuto? ”.

La fanciulla scoppiò in pianto: “No vedo el treno”.

Il Borlini scoppiò in una risata e i genitori risero anche loro, un po' imbarazzati dalla bestialità della figliuola. Il solo Aghios fu commosso . Egli solo sentiva e sapeva il dolore di non poter vedere se stesso come viaggiava.

Il piacere del viaggio sarebbe tutt'altro se si avesse potuto vedere il grande treno con la sua macchina come procedeva traverso alla campagna, come un serpente veloce e silenzioso. Vedere la campagna, il treno e se stessi nello stesso tempo. Quello sarebbe stato il vero viaggio.

Domandò sorridendo: “È la prima volta che la cara bambina viaggia?”.

“Sì!” disse pronta la contadina. “E se ghe ne parla zà da quindese zorni de sto viagio.”

L'Aghios si commosse. Quindici giorni su questo viaggio e trovarsi poi in questa gabbia chiusa! Nella mente giovinetta il viaggio avrebbe dovuto concedere il piacere di una passeggiata senza fatica moltiplicato per infiniti numeri. Quale delusione!

Poi venne il peggio. Il controllore si presentò alla porta a rivedere i biglietti. Quelli dei tre ultimi venuti erano di terza classe ed essi dovettero sgombrare. È vero che alla prossima stazione sarebbero discesi, ma intanto dovevano cambiare di vagone. Per quanto il controllore fosse abbastanza urbano, tuttavia la sua voce ebbe qualche accento imperioso. La bambina non pianse più e si ficcò timorosa fra padre e madre ch'erano già in piedi. L'Aghios domandò al controllore: “Non si può chiudere un occhio per una stazione sola?”. I contadini erano già usciti dallo scompartimento. Il controllore cortesemente disse: “Io faccio il mio dovere”.

E l'Aghios deplorò di non aver avuto il coraggio di stampare un bacio sulla fronte della bambina, là, sopra agli occhi chiari che avrebbero voluto vedere il treno. Lui, di seconda classe, per affetto alla terza.

Il Borlini era tutto approvazione: “Ordine ci deve essere”. L'Aghios non protestò, perché pensava a cappuccetto bianco come passava fra la gente sul corridoio.

“Quella del treno mi piacque” disse il Borlini. “Tanti bambini tardano molto a intendere le cose. Vuol vedere il treno e c'è dentro.”

Poi raccontò di avere anche lui a casa due bambini, uno di sei e l'altro di quattro anni e mezzo. Egli s'era sposato tardi. “Sì! Dopo raggiunta la necessaria posizione.” Il secondo vedeva tutte le cose che non importavano, le automobili che passavano lontane e non quelle che minacciavano di schiacciarlo e il palazzo alto e non la pietra su cui incespicava.

 “Dovrebbe essere consanguineo di quella bambina che non vedeva il treno” disse il signor Aghios.

Il Borlini non parve approvare l'osservazione. “Il mio è un po' più fine per quanto bestia anche lui.”

Poi raccontò che pochi giorni prima era con Pucci a passeggio e videro due carabinieri col loro mantello un po' minaccioso sotto a quel cappello napoleonico. E il bimbo spaventato domandò se quei carabinieri sapevano ch'essi non erano dei ladri. “Si può essere più sciocchi di cosi?” esclamò il Borlini.

Subito l'Aghios prese interesse al chiacchierio vuoto del suo compagno. Come si sentiva amico del piccolo Pucci dal cuore palpitante di paura d'essere preso per un ladro o forse di esserlo! Il ladro poteva essere preso in flagrante, ma non c'era una prova così risolutiva per il non ladro. Era come la prova Wassermann. La negativa non era mai sicura. Il microbo del furto poteva esserci nel sangue, ma aspettare una buona occasione per dar segno di vita.

Poi il Borlini, fra una tirata e l'altra del suo minuscolo toscano che gli aveva consumato una scatola intera di cerini, disse ancora di Pucci, che aveva paura di notte, ma che si sentiva più sicuro se gli permettevano di tener nel letto un giocattolo, per esempio la palla di gomma. “C'è senso?” domandò il Borlini. “È però di buona razza” disse il Borlini, “e somiglierà presto a suo fratello che non ha di tali rane. ”

Strana asserzione! Se non ci fosse stato l'obbligo della cortesia il signor Aghios, per la propria esperienza di sessant'anni, avrebbe potuto raccontargli che quando si nasce fatti in un modo, si resta così. Era invece un grande disgraziato, quel povero Paolucci ch'era nato in una famiglia che non faceva per lui. L'Aghios lo intendeva, perché anche lui aveva sofferto di paure quando ancora la vita non gli aveva insegnato quanto minacciosa essa fosse. Aveva sognato di quegli animalucci piccoli, rapidi, inafferrabili e schifosi, roditori e insetti quando ancora non aveva sospettato che prima o poi l'avrebbero raggiunto, e di grandi oscurità prima di sapere che l'oscurità era la nostra meta. E nel suo letto egli aveva portato con sé un cavalluccio di legno e dormendo lo stringeva al petto. Finora egli aveva creduto d'aver fatto così per bontà, attribuendo una vita bisognosa di calore a quel suo cavalluccio di legno che alla vita apparteneva per la sua forma ruvidamente sbozzata. Ma la palla? Quel Paolucci, il suo vero fratello, teneva in letto una palla! Quella poi non aveva bisogno di calore, con quella sua forma rigidamente rotonda che non apparteneva alla vita. E quando l'aveva vicina si tranquillava e aveva meno paura! Ma era un simbolo quello; s'attaccava al suo divertimento per dimenticare la vita (divertimento = diversivo, pensò l'Aghios senza che il suo figliuolo sentisse). Come il piccolo Paolucci aveva potuto assurgere a tanta altezza! Ma ora, in tutta la sua vita, che l'Aghios, sinceramente gli augurava lunga, egli non poteva apprendere nulla di più nuovo, nulla di più alto, nulla di più amaro. Perché viveva ancora? Il fratello suo! Quale avvenire lo aspettava! Anche lui, quando non aveva saputo simulare, aveva passato la sua vita fra sorrisi di scherno, correzioni imperiose o sprezzi. Per sua sfortuna e propria sventura il figliuolo suo non gli somigliava affatto, privo di paure, accorto e abile, sentendo il divertimento come il suo destino. Non sospettava che cosa fosse la vita e non se ne curava, come se egli alla vita non avesse appartenuto. La godeva dimenticandola. Studiava poco, ma sapeva maneggiarsi. Sapeva anche poco, ma aveva sempre pronti molti dati precisi che gli davano facilmente la vittoria. E aveva a disposizione molti libri in cui sapeva trovare tutto quanto gli occorreva per discutere.

E per lungo tempo il piccolo Paolucci fu il suo compagno di viaggio. Il Borlini ne disse ancora una parola: “Mentre suo fratello maggiore camminava sicuro, attaccato alla mano del padre, Paolucci si faceva sempre trascinare. Era come la moglie di Lot e guardava dietro a sé. Certo per vedere più a lungo le cose”.

Paolucci Borlini poteva diventare un grand'uomo oppure un triste depravato o infine un uomo comunissimo come lui stesso, il signor Aghios. Meno felice in tutti i casi. Anche per far valere delle grandi qualità ci voleva dell'accortezza. E non avendo questa, si poteva vivere come se la si avesse avuta e traboccare per afferrare le cose di cui l'uso non è concesso che per quella conquista che designano come legittima. O infine poteva adattarsi di vivere la vita più comune, riservando il libero movimento delle grandi qualità nei brevi intervalli in cui viaggiava.

Addio caro, piccolo fratellino.

Eppure dopo di essersi congedato da lui, il signor Aghios s’imbatté in lui anche una volta. Per dimostrare anche una volta la bestialità del bambino, il Borlini raccontò che una mattina Paolucci si destò affannato e raccontò di aver sognato di asini e cavalli, che gli correvano addosso minacciosi, per dargli calci. E il Borlini, vantandosi, raccontò ch'egli interruppe il racconto domandandogli: “Ti davano dei calci con le zampe anteriori o con le posteriori?”. “Con le anteriori!” disse il bambino. “Ebbene!” disse il Borlini. “È un sogno impossibile, perché quegli animali non possono dare dei calci con le gambe anteriori.”

Il signor Aghios rise, ma pensò: “Povero Paolucci! Una vera crudeltà! Spezzare i sogni dei bambini con la scienza”.

E quando Paolucci definitivamente lo abbandonò, egli restò proprio solo col Borlini. Molto solo! Ci furono dei momenti in cui egli rivide uno per uno i simpatici veronesi che lo avevano abbandonato a Porta Vescovo e alla Centrale e ripensò ai due contadini (quell'indimenticabile donna dagli occhi dolci e dalla pelle bruciata!) e pensò che il suo viaggio sarebbe stato ben più lieto se uno qualunque di costoro fosse rimasto al posto del Borlini. Peccato che quel giovanotto, reso interessante da tanto dolore, continuasse a dormire nel suo cantuccio.

E bisognò parlare col Borlini. Stavano là, seduti a guardare, traverso la finestra, la notte oramai completa, e cortesia voleva di far sentire la propria voce. Disse subito una bugia lamentando di dover sobbarcarsi alla fatica del viaggio. Aveva preso lo slancio al complimento (che per sua natura è menzognero) e disse la bugia completa: Per lui il viaggio era una tortura.

E in un lampo il signor Aghios evocò delle immagini che dovevano rendere vera quella bugia. In prima linea la bambina di poco prima, che aveva immaginato il viaggio come qualche cosa che meglio si senta e si veda. Anche lui era come la bambina. Il vero viaggio sarebbe stato quello con la diligenza traverso a vere vie naturali (chiamava naturali quelle prive di ferro) e ai luoghi abitati, con gli arresti non alle stazioni, che in Italia mai davano l'immagine del luogo di cui erano la porta d'ingresso, ma davanti ad un'osteria del luogo, parte di esso, ove i cavalli si rifocillavano o cambiavano. Neppure in automobile la via, il luogo, la gente non era tanto intimamente sfiorata dal viaggiatore. E il viaggio, in compagnia del Borlini, era meno viaggio che mai.

Il quale rispose all'osservazione dell'Aghios con una domanda: “Quante volte viaggia lei in un mese?”.

Ed il signor Aghios disse un'altra bugia: “Due o tre volte al mese”. Era già la seconda volta - disse - che in un mese andava da Trieste a Milano. Quest'ultima comunicazione era vera. La prima volta su e giù con la moglie; la seconda volta si concludeva ora col suo ritorno da solo. Ma prima, da anni, non s'era mosso da Trieste.

Il Borlini vivamente stava contando aiutandosi con le dita e mormorava: “Lodi (sporgendo il pollice), Vicenza (l'indice), Siracusa (il medio), Ancona, Siena, Perugia ... ”. Dieci città e l'Aghios guardava quelle dita tozze che le segnavano e correva a vederne tutto l'aspetto in rapida sintesi: Lodi (non v'era stato, ma ricordava che la poverina non aveva saputo imporre il proprio nome alla sua squisita invenzione attribuita a Parma), Vicenza (il Palladio, le cui opere venivano spregiate da quel saputo del figliuolo suo, quei palazzi marmorei che l'Aghios vedeva lucere nelle vie poco popolose in una giornata festiva di sole), Siena (oh! quel duomo risultato più piccolo del proposito e piccolo per tenere tanta bellezza. Siena? Diecimila fiorentini ammazzati in un giorno!), Perugia (le volte, Assisi vicina e i campi verdi coi greggi bianchi, tutto un paese che sta aspettando un altro santo). Ma il Borlini non lo lasciò pensare più oltre. “Dieci volte!” esclamò. “Io lasciai Milano durante questo mese, e siamo al venticinque, ben dieci volte. E non me ne dico stanco, perché, per essere ben fatto, il dovere dev'essere un piacere.”

Oh! Questa, poi, era grossa! Se il dovere fosse il piacere, allora non ci sarebbe merito. Egli, l'Aghios, aveva il vanto di aver fatto tutta la sua vita il vero dovere, abbandonando i suoi cari pensieri, le sue care fantasie, il vero piacere. Se lo avessero lasciato in pace, egli avrebbe percorso il mondo, non per guardarlo, ma per trovare maggiore stimolo a staccarsene, abbellirlo e offuscarlo. Anche il figliuolo suo diceva che ognuno a questo mondo faceva quello che doveva e perciò lui si divertiva, mentre altri (il signor Aghios) soffriva. C'era sicuramente una differenza! Ma dove?

Non protestò. Tutta quella conversazione non gli sembrava una vera conversazione. Perché avrebbe dovuto faticarsi a discutere? Si moveva la bocca così, per dar tempo al treno di procedere.

“Ella è dunque un viaggiatore di commercio?” domandò tanto per dire qualche cosa.

“Macché!” disse il Borlini con disdegno per chi non meglio lo giudicava. “Io sono l'ispettore viaggiante di una società d'Assicurazioni.”

Il signor Aghios s'inchinò, come per congratularsi dell'alta carica. Ispettore! Era tutt'altra cosa di commesso viaggiatore!

Si vedevano in distanza, sotto la montagna, le luci di una borgata ai piedi di una collina. Luce tranquilla, immota! Del resto una luce lontana è sempre tranquilla, è sempre immota! Può soffiare il vento e, se non l'estingue, è come quella delle stelle; brilla con la tranquillità di un colore (se ce ne fossero di tanto brillanti). E per qualcuno in quella borgata doveva esserci il turbine. Ma la lontananza è la pace.

Ma bisognava intanto muovere la bocca e il signor Aghios disse delle altre bugie, senz'intenzione, per mancanza di sorveglianza: “Io non amo di lasciar sola la mia vecchia moglie”.

“So che vi sono degli uomini fatti così” disse l'ispettore guardando attentamente il signor Aghios come se avesse voluto studiare un animale strano.

E l'Aghios insistette nella bugia: “Badi ch'io alla città non ci tengo affatto e che mi trovo altrettanto bene a Milano che a Trieste. La questione è che non so vivere solo”.

E pensò: “Guarda, guarda pure, ad onta di tanto occhiale non ci capirai nulla”. Stimo io! Se quello che diceva doveva contare, era impossibile d'indovinarlo. E disse ancora ch'egli amava la vita di famiglia. Cercò una parola più intelligente per addobbare la bugia e la trovò subito: Egli amava la vita di famiglia ove era necessario di pensare ora all'uno ora all'altro e mai a se stessi, alla propria miseria. Parlava della propria miseria in un momento in cui assolutamente non la sentiva, coi soldini in tasca pronti per le mance e il suo affetto per tutti i deboli in cui s'imbatteva, il suo affetto tanto grande da raggiungere anche delle persone che non aveva mai visto, come l'indimenticabile Paolucci.

Il Borlini brontolò: “La mia vita di famiglia è tutt'altra cosa. Quando ci sono io tutti pensano a me e così faccio anch'io, cioè penso a tutti loro. Quando viaggio allora, naturalmente, lascio la libertà a tutti, ma spero che a me si pensi. Io sono assorbito dagli affari e non penso che a questi. Ma perché ci sono, gli affari? Non forse per la famiglia? Quando penso agli affari, penso alla famiglia”.

L'Aghios rimase ammirato. Quest'era la presentazione del vero uomo normale! Non gli era simpatico. L'uomo normale voleva che tutti pensassero a lui (e rivelò il suo vero pensiero confessando, dapprima, che così faceva anche lui, per disdirsi, poi, con una spiegazione che annullava la parola sfuggita). Forse tutti pensavano a lui per augurargli la morte. Come era migliore lui, che non domandava niente. Non gli pareva d'aver amato meno la propria famiglia perché non lo curava abbastanza. No! Egli l'amava meno perché sentiva il bisogno della famiglia maggiore, il mondo.

Fu una vera antipatia per il suo interlocutore che lo trascinò ad una discussione. Non bisognava permettergli di dire delle cose tanto ingiuste con quel tono di predicatore sicuro di sé. Seccamente, con piena sincerità, egli disse: “Io, invece, quando sono in famiglia penso a tutti loro e spero che quando sono assente tutti pensino a me”. C'era la bugia nella seconda parte della dichiarazione, ma questa era risultata da un'istintiva modestia. Temeva di apparire troppo alto se avesse confessato che poco prima egli aveva desiderato che sua moglie, durante la sua assenza, non l'avesse ricordato. Troppo alto? Dicendo il suo intimo pensiero forse non avrebbe appartenuto tanto in alto.

Il Borlini si mise a ridere, di un riso sonoro, a scatti, il rumore di un motore che s’avvia: “Ma questa è poesia; vera, futile poesia! Sarebbe ella forse un poeta travestito?”.

Dapprima il signor Aghios senti la parola come un'insolenza. Travestito? Ma poi guardò in se stesso con curiosità. Egli credeva d'essere un uomo che desiderava tante cose non permesse e che - visto che non erano permesse - le proibiva a se stesso, lasciandone però vivere intatto il desiderio. Egli poi non ne parlava neppure e stava facendo delle asserzioni che dovevano celare meglio - negandoli - quei desiderii. Era perciò un poeta travestito? Se avesse cantato di quei desiderii non permessi sarebbe stato un poeta non travestito. E negandoli? Se per negarli avesse saputo elevare la voce fino al canto, anche negandoli sarebbe stato un poeta. Che bestia quel Borlini! Come può travestirsi un poeta? Tacendo? Non è un travestimento infatti ma perché il silenzio pensò l'Aghios. Nella vita si può essere bestia quanto si vuole, ma non un poeta se non si sa cantare la propria bestialità.

Disse con semplicità: “Non so neppure di quante sillabe si componga un endecasillabo”.

“Undici” disse il Borlini. “Lei, greco, lo deve sapere. Si traveste ancora.”

“Ma che poeta” disse l'Aghios, ridendo un po' compiaciuto e un po' offeso. “Pensi che io ora corro a Trieste senza moglie e senza figlio per un affare urgente.”

Non poteva aprir bocca senza dire qualche parola di troppo. E trovò una verità da dire e la disse subito, come se una parola vera potesse cancellare la vergogna di una parola falsa: “Si figuri se è un piacere viaggiare così, carico di denari”. E si batté la tasca di petto.

Il Borlini si mise a ridere più a bassa voce, guardando con diffidenza verso il loro compagno che ancora sempre sonnecchiava nel suo cantuccio: “Anch'io ne ho del denaro in tasca, e molto. Da lei è un'imprudenza, da me una necessità”.

Il Borlini diventava veramente aggressivo ed il signor Aghios sconcertato tacque. Dopo una pausa alquanto lunga il grosso uomo riprese la parola in tono più di convinzione. Forse s'era pentito del suo tono troppo aggressivo.

“Pensi quello ch'io faccio per la mia famiglia eppoi mi dica se in contraccambio non ho il diritto di esigere che tutti i suoi membri pensino costantemente a me. Vi sono certi uomini a questo mondo che lavorano come me, ma nessuno più di me. Questi viaggi non possono essere considerati quali un riposo. Le pare?”

Al signor Aghios pareva che fino a quel momento in cui aveva incontrato il suo interlocutore, il viaggio fosse stato veramente un riposo. Ora, costretto di dar continuamente ragione a qualcuno che egli non amava, si sentiva afferrato da una famiglia e per di più da una famiglia che non amava. Poté perciò consentire con piena sincerità: “No, assolutamente non è un riposo!”. Non era un riposo! Per godere del riposo bisognava aspettare Padova, varie ore!

“Pensi poi alla responsabilità che mi tocca assumere! Talvolta liquido io, da solo, un danno! dall'a alla zeta! Apprezzazione del danno e accordo definitivo! Naturalmente che so quello che faccio e mai ebbi ad incorrere in alcun rimprovero. Oggi, per esempio, corro a Padova proprio per una cosa simile. Un grossissimo cliente ebbe un incendio ed esigeva centosettantacinque mila lire. A Milano proponevano di mandare dei periti, quegli ingegneri imbecilliti nella matematica. Io dissi al direttore di provare d'incaricare me della liquidazione e mi ripromettevo saldare tutto con centocinquantamila lire e conservarmi la riconoscenza del cliente. Il direttore, che mi conosce, disse subito: “Va bene! Tentiamo questa volta noi, uomini d'affari, senza ingerenza di quelle bestie di tecnici. Faccia lei!”. Ed io partii dopo di aver messo nel mio portafogli centocinquanta pezzi da mille lire. Guardi qua!” e trasse dalla tasca di petto un portafoglio gonfio, che aperse. “Noi arriviamo a Padova troppo tardi per riscuotere un vaglia e perciò mi carico di tutte queste banconote. Il cliente sarà reso più mite, se vede le banconote in natura”, e il grosso uomo rise mostrando i suoi bei denti di carnivoro. “eppoi, chissà che una parte di queste banconote non ritorni alla Società? Il vaglia invece è difficile di frazionare e non si potrebbe offrirne una parte alla volta.” Qui il signor Aghios poté competere coll'ispettore. “Anch'io per la mia famiglia assumo volentieri qualunque responsabilità. Nella mia tasca di petto ho ... ” esitò per un istante, perché stava per dire la verità, cioè trentamila lire; poi si ricredette e disse: “cinquantamila lire”.

“E non ha paura di portare tanti denari con sé?” Il signor Aghios s'arrabbiò: “Se lei crede di saper difendere centocinquantamila lire, io ne saprò certo difendere cinquantamila!”.

L'ispettore si mise a ridere di un riso molto più gradevole di prima e l'accompagnò di un'occhiata d'ammirazione pel signor Aghios. “Una vera frase da poeta cotesta!” osservò.

Il signor Aghios si sentiva solleticato nel suo amor proprio, ma tuttavia era in dubbio se aveva ragione di non offendersi. Il poeta era un uomo che sapeva scrivere, ciò che il signor Aghios non sapeva e, non sapendo fare delle poesie, il suo destino era di falsare la verità, vedere aria dove c'era una parete e sbattervi la testa. Fino a Padova non occorreva offendersi però; perché convincere quel signore che non avrebbe rivisto mai più?

Eppure la loro recente relazione doveva farsi più gradevole. Doveva dipendere dal fatto che l'ispettore pensava di essersi presentato a sufficienza e che ormai poteva trattare, con più semplicità. Intanto si preoccupò del denaro del signor Aghios. “Non dica più di avere quel denaro. Capisco che sono stato io a fare il malanno. Ma io ho buon naso e subito compresi che con lei non c'era pericolo. Quello lì, dorme della grossa.” Ambedue si misero a guardare il biondino pallido, sempre immobile nel suo cantuccio. Dormiva tranquillo e giaceva sul guanciale come un pupazzetto di cera, scosso dai sobbalzamenti del treno. Soltanto le narici del suo naso fine parevano allargate, quasi per uno sforzo di lasciar passare maggior quantità d'aria. Da quei biondini trasparenti le narici sembravano delle piccole ali. Ma poi il signor Aghios ricordò un suo cavallo imbolsito, che tendeva le narici col solito sforzo fuori di posto dei malati e mormorò: “Dev'essere enfisematico”.

Oramai il signor Aghios era accorato per il ricordo del suo cavallino bolso. Nella malattia le bestie somigliavano di più all'uomo. Solo a loro mancava la parola, cioè la bestemmia che più attenua il dolore della malattia. Povere bestie. Il cavallino soffriva e non lo sapeva, ma il suo affanno era molto umano.

L'ispettore aveva acceso il suo toscano e per far dimenticare di essersi vantato di una regola ferrea, gettò un complimento al signor Aghios: “In buona compagnia si fuma di più”. Ed il signor Aghios fumò soltanto per restituire il complimento.

Poi l'ispettore predicò e fu molto noioso, ma la salvezza era a mano. Il treno faceva un rumore indiavolato e bastava cessare dallo sforzo di stare a sentire per non sentire più nulla. Tuttavia il signor Aghios sapeva quello che l'ispettore stava dicendo. Parlava di politica ed asseriva che sarebbe bastato il buon volere di tutti per trarre l'Italia da ogni difficoltà. Circa quaranta milioni di buon volere. L'unanimità! Era troppo, mentre il signor Anghios (che si sentiva greco) aveva osservato che quando due italiani si trovano allo stesso tavolo, avevano la gran voglia di lasciarlo per non sentire più l'altro. E lui stesso, ch'era italiano per la nonna e la madre, non avrebbe voluto saltar fuori dal treno per non vedere più il signor ispettore?

E, mentre il signor ispettore parlava, il signor Aghios restò ad analizzare il ricordo della propria nonna. Com'era pallida. Una sola frase che forse gli era stata ripetuta da altri: Il letto è una buona cosa, perché se non si dorme si riposa. Ed una fotografia sbiadita di donna grassa, cadente, vestita a festa con vestiti impossibili che la stringevano nella vita e le lasciavano la gonna larga. La frase era altrettanto sbiadita e il signor Aghios non sapeva staccare la fotografia dalla frase, né la frase dalla fotografia. Pareva insomma che la fotografia avesse parlato. Perciò quella fotografia era più espressiva di ogni altra. Poteva avvenire che quella donna si rimettesse a discorrere.

Ora il signor ispettore era arrivato a parlare delle elezioni. Il signor Aghios, per cortesia, si spostò in avanti per avvicinarsi all'oratore e sentì chiaramente questa frase: “Il voto... obbligatorio”. Ritornò al suo posto subito.

Tutto era obbligatorio in questa vita, anche di stare a sentire il signor ispettore. Se si divideva la vita nella parte dedicata alle azioni e alle parole obbligate e in quella riservata ai movimenti di libera iniziativa e ch'era quella che solo meritava il nome di vita, come questa era meschina in confronto di quella. Il signor Aghios era partito anelante alla libertà, ma sapeva che, di lì a qualche giorno, della libertà ne avrebbe avuto abbastanza e avrebbe ambito di riavere il suo giogo. Era così! La schiavitù non era solo un destino, ma anche un'abitudine. Era bello avere la libertà nel momento in cui ci si liberava, come aveva fatto lui che lasciava chiacchierare il signor ispettore senza starlo ad ascoltare.

Ma l'ispettore lo guardò ed egli di nuovo per cortesia s’avvicinò a lui per udirne la parola e senti: “In Italia ci sono troppi capi”.

Il signor Aghios, rimessosi al suo posto, seppe subito dimenticare che in Italia ci fossero troppi capi. Aveva guardato fuori della finestra donde era proibito di augurare il bene ed era stato colto da un'idea terribile: “L’avvenire del mondo era di divenire tutto un'unica, una sola città. Addio campagne, addio boschi, addio prati. Come avrebbero mangiato tutti costoro? Chimicamente? Oh! Disgraziati”. L'idea colossale gli era venuta dalla vista di tre case coloniche con altre tre più in là e due prima e infine altre quattro. Invadevano i campi! Egli vedeva come fra tutte queste case se ne sarebbero messe delle altre e tutte in fila. Ma però, quando il mondo sarebbe stato tutta una città, lui, sua moglie e persino suo figlio avrebbero domandato poco posto. Era giusto di tranquillizzarsi con tanto egoismo? Non sarebbe stato meglio di soffrire per i posteri? Il signor Aghios sorrise. Il mondo era costruito tanto bene che certi dolori sono impossibili.

In seguito ad un altro richiamo dell'ispettore il signor Aghios arrivò a sentire ancora: “In conclusione io pretendo che il cittadino si scelga un Governo, eppoi non s'ingerisca di altro. Questa è la vera libertà”. Sì! Questa era la libertà! Venticinque anni prima il signor Aghios s'era, scelta la consorte. Quale gioia quando, vincendo ogni difficoltà. egli era arrivato a dirla sua, trovando naturale che, in compenso, egli appartenesse a lei. Egli era stato felicissimo. Oh! tanto! Nella grande libertà del viaggio egli tuttavia pensò che se venticinque anni prima, invece che sentire il bisogno di sposarsi, egli avesse sentito l'istinto del malfattore e l'avesse soddisfatto con un omicidio, certo a quest'ora, a forza di amnistie, egli sarebbe stato del tutto libero, magari di viaggiare.

Nel pensiero solitario non c'era nulla di compromettente ed il signor Aghios con un sorriso continuò a vedersi nella veste di un malfattore liberato. È certo che, abitudinario come egli era, avrebbe avuto un desiderio intenso di ritornare alla galera, come fra poco avrebbe anelato di rimettersi sotto la protezione della moglie e soprattutto andare a proteggere quello scervellato di suo figlio, insomma il ritorno alla sua galera. E del resto che cosa poteva rimproverare a quella sua cara (oh! tanto cara!) moglie? Assidua lavoratrice, economa, bella, aveva vissuto alla lettera per lui. Certo lo seccava (ed il signor Aghios sorrise di nuovo) che quand'egli trovava bella una donna, essa subito interveniva a criticarne il naso o la figura. Eppoi essa lo accettava e amava com'era fatto, ma troppo spesso lo incitava di essere meno distratto e più accorto. Insomma veniva costantemente esercitata una pressione su di lui ed egli ora, in viaggio, libero, tentava di ritrovarsi intero. Certo, doveva riconoscere che la pressione non era tanto grave quanto quella che su lui tentava di esercitare quel signor ispettore viaggiante...

A proposito! L'ispettore, che per parecchio tempo era rimasto a guardare fuori della finestra in un sogno vago, quasi fosse alla ricerca di ulteriori idee politiche, s'era abbandonato sul sedile e dormiva russando leggermente.

Di gusto il signor Aghios si mise a ridere e al suono del suo riso l'ispettore non si mosse affatto. Era un bravo uomo quest'uomo d'affari, che si diceva tanto accorto e che dopo di aver raccontato pubblicamente di tener in tasca centocinquantamila lire si metteva a russare. Il signor Aghios si sentì sollevato, come quando trovava la moglie in sbaglio di distrazione. Questo predicatore qui era veramente ridicolo! La vendetta del signor Aghios sarebbe stata più completa se gli fosse stato permesso di rubare quelle banconote. Sarebbe stata una grande soddisfazione di andarsene con quelle centocinquantamila lire. Peccato non essere un ladro! E il signor Aghios, senza nessuna intenzione di attuarlo, studiò il piano per arrivare a quel portafogli da cui avrebbe preso il denaro e anche le carte d'affari, per distruggere queste ultime, visto che bisognava dare una lezione completa a quel grand'uomo. Era tanto semplice! Bisognava sbottonare la giubba chiusa da un bottone solo e, arrivato al portafogli, estrarlo lentamente secondando il movimento del treno.

Il biondino nell'altro cantuccio si agitò, come se nel sonno avesse avuto un incubo.

Non ce ne sarebbe stato di bisogno, perché il signor Aghios mai più avrebbe proceduto ad attuare il piano. Il suo pensiero era tanto libero precisamente perché ogni attuazione ne era lontana. Libero veramente, il pensiero non può essere che quando si muove fra fantasmi. Anche quella giubba e quel bottone in realtà potevano essere più duri di quanto egli sognasse.

Il signor Aghios sorvegliò il biondino, per non sognare neppure il suo delitto prima che l'altro non dormisse.

Ma allora un altro pensiero lo agitò. Si doveva essere vicinissimi a Padova. E se l'ispettore avesse continuato a dormire? Finché dormiva meno male, ma se si fosse destato e avesse continuato a procedere fino a Venezia? Altre prediche, gran Dio!

In quel momento per buona fortuna venne il conduttore a rivedere i biglietti.

Il biondino diede il suo ed anche l'ispettore si destò e subito domandò: “Quando arriviamo a Padova?”.

“Fra dieci minuti!” rispose il conduttore.

Meno male. Dieci minuti di predica si potevano sopportare.

Ma il signor ispettore s'era destato di malumore. Non aperse bocca per cinque minuti. Poi si rizzò con risoluzione ferrea e trasse dalla rete la sua valigetta che pose accanto a sé. Guardò poi fuori della finestra e il signor Aghios guardò anche lui nella stessa direzione, con l'unica cortesia che l'ispettore gli permettesse. Il cielo s'era coperto di nubi nere ed il sole del tramonto, invisibile, illuminava la loro parte inferiore, che pareva composta di piante leggere, luminose d'argento, d'oro e di qualche metallo sconosciuto, trasparente e irrorato di luce propria.

 

“Pioverà” mormorò l’ispettore di malumore.

“Non sempre piove quando il cielo ha quest'aspetto, denso e nero, con propaggini luminose” disse il signor Aghios, tentando di ridare il buonumore all'ispettore o forse per incoraggiarlo ad andarsene, come se la pioggia avesse potuto indurlo a fermarsi nel treno.

Infatti l'ispettore parve contento. “Lei se ne intende del tempo” e per la prima volta guardò il signor Aghios con grande rispetto.

“Non tanto!” disse il signor Aghios con modestia. “Però osservai spesso che il sole, al momento di partire, s'ammanta, quasi volesse nascondervici, di dense nubi che poi, quando non vi è più bisogno di loro, spariscono.”

Il signor ispettore fece tre cose in una volta: Sbadigliò, sorrise e disse: “Poeta”. Soltanto che la “e” di poeta divenne una “a” larga come quella bocca.

E quando l'ispettore dopo un breve saluto partì, il signor Aghios pensò che il maggior frutto del suo viaggio era la scoperta di essere un poeta.

Allora, da Padova a Mestre, fu la piena libertà. Il biondino nel cantuccio continuava a dormire e così il signor Aghios ebbe, per essersi staccato dal signor ispettore, lo stesso senso di libertà come quando s'era staccato dalla moglie. E questa libertà si precisò in parecchie osservazioni. Su un campo vide lavorare insieme un uomo e una donna. Non vide che una fisonomia sorridente di giovine donna, perché la corsa del treno non gli diede il tempo di vedere anche l'uomo. Potevano essere brutti o belli, ciò non importava. Non si poteva essere sicuri se erano sposati. Quello che era certo, era che lavoravano insieme, ma che si amavano o meglio che formavano quella società sessuale in origine, che doveva degenerare in una società d'interessi abbracciante il campo su cui lavoravano e la casetta, molto lontana forse, dove dormivano. Che truffa colossale! Venivano presi con dolcezza, avvolti nel loro proprio calore naturale e coperti di catene senza che se ne avvedessero. Se il signor Aghios non si fosse trovato in viaggio, dei due che lavoravano cantando sul campo non avrebbe osservato altro che l'aspetto della donna, per compiangere o invidiare il marito. Anche lui, coperto da catene, non sapeva vedere più in là del naso, mentre ora, in viaggio, assurgeva fino a vedere nel destino dell'uomo quello di tutti gli animali domestici. I polli non venivano mica trattati brutalmente. Anzi, veniva propinato loro il cibo che meglio loro si confaceva. Il male era che ad un dato momento venivano sgozzati.

Ed una seconda, benché orribile visione diede ancora la prova dell'altezza del pensiero del signor Aghios. Una donna vecchia, molto grassa, faceva da cantoniera poco prima di Mestre. Pareva che il petto, molto grosso, le rendesse difficile di stare eretta. E il signor Aghios seppe indignarsi di quello che gli parve la massima ingiustizia fra le tante che facevano le leggi di questo mondo. Gli organi sessuali secondari della donna, le piante più deliziose del mondo, troppo spesso degeneravano in modo da torturare coloro cui non servivano più. Ed il signor Aghios ricordò che. poco prima di partire, aveva visto una cosa simile ed era passato oltre mormorando: “Ammazzarla!”. Tanto il suo pensiero s'ingentiliva nella solitudine!

Al momento di lasciare Mestre il biondino nel cantuccio si mosse, tese i bracci per sgranchirsi, come se fosse uscito da un sonno profondo, e mormorò chiaramente: “Come i sogni sono belli! Peccato lasciarli!”.

Fu un'avventura enorme nel viaggio del signor Aghios di sentirsi dire una cosa simile da uno sconosciuto. Veniva improvvisamente ammesso nell'intimità di un proprio simile sconosciuto. Con costui non occorreva mica fumare per accostarlo.

Volle ripagarlo di uguale moneta consegnando anche lui qualche cosa della sua intimità. “Io so sognare anche senza dormire” disse sorridendo.

“Eh! sì!” disse con tristezza il biondino, “si può! Quando la realtà non è troppo forte e si può dimenticare.” Guardò sorridendo il signor Aghios. Questo sorriso, che seguiva a quelle parole, certificava la loro relazione già divenuta più intima di quelle che di solito si fanno nell’ozio del viaggio. Si conoscevano intimamente. Il signor Aghios era un uomo felice, la cui realtà spariva quand'egli chiudeva gli occhi. Il giovinetto invece era un uomo torturato che per obliare doveva abbandonarsi al sonno. Due destini o forse due caratteri.

Il signor Aghios, nel suo sentimentalismo da viaggiatore ozioso, corse ad aiutare: “Voi, giovini” disse “molto spesso attribuite troppa importanza a cose, che non ne hanno. Guardi! Non volendo dormire troppo, per togliere importanza alla realtà basta pensare una cosa sola: Che cosa sarà di noi due di qui a cent'anni? Non ci sarà che la calma e perciò è facile di anticiparla. Di tutte le cose che a noi d’intorno si muovono, non si moverà che questo vagone, perché la Ferrovia dello Stato tarda molto a mettere in pace le cose”.

Il biondino rise e aggiunse anche la sua approvazione ad alta voce: “Sì, la Ferrovia dello Stato è molto economica”. Poi si raccolse per trovare la risposta da dare. Infine parve ritirarsi nel proprio guscio, come se fosse pentito di discutere con uno straniero, e con un'occhiata molto eloquente, timida e supplice, disse al signor Aghios: “Per giudicare bisognerebbe lei sapesse tutto e non si può”. Guardò fuori della finestra i primi canali della Laguna.

Il signor Aghios ammonì se stesso come talvolta soleva: “Bada di non intrudere! ”. Volle anche informare il giovinetto che non gli teneva rancore perché non voleva confidarsi a lui e disse, guardando anche lui fuori della finestra: “La Laguna qui sembrerebbe intaccare la terra ferma ed è invece la terra ferma che aggredisce la laguna. Guardi quei piani fangosi screpolati che giacciono all'aria. Neppur dieci anni fa erano ancora coperti di acqua”. E per lungo e per largo il signor Aghios raccontò della lotta secolare fra laguna e terra ferma e delle spese e fatiche che implicavano la conservazione della laguna. Perciò Venezia non poteva sopportare un secondo ponte con la terra ferma, perché ogni piuolo piantato nel fondo della Laguna adunava intorno a sé la fanghiglia, che altrimenti sarebbe andata via, e costituiva una nuova aggressione alla Laguna.

Era un nuovo vantaggio del viaggio per il signor Aghios. Egli sapeva da lunghi anni la storia della Laguna moribonda, che minacciava di finire, come quella di Ravenna, ma il male era che anche sua moglie la sapeva, avendo abitato con lui a Venezia e sentito lui parlarne tante volte. Il suo interlocutore invece, benché certamente veneto, della Laguna non sapeva nulla e stava a sentirlo con gli occhi spalancati, mormorando a mo' di scusa: “Io, a queste cose, non ci pensai giammai, perché ho da lavorare ogni giorno”. Ed il signor Aghios, sentendosi pervaso dalla gioia di poter raccontare, insegnare e inventare (non era mica vero che fosse occorso di deviare tanti di quei fiumi per proteggere la laguna!), non poté far a meno di ricordare che una persona che lo conosceva pochissimo, poco prima lo aveva designato di poeta. Come si scoprivano cose e persone in viaggio!

Il biondino sospirò: “Dio sa quello ch'io farò a Venezia fino alla mezzanotte, l'ora del mio treno”.

“Anche lei parte alla mezzanotte?” domandò il signor Aghios.

“Sì” disse il biondino. “Vado per un affare a Gorizia e domani ritorno a Udine.”,

“E allora vuole che attendiamo il treno insieme? Io devo andare in piazza San Marco per una mezz'oretta. Se vuole tenermi compagnia, io la invito!”

Il senso dell'ultima dichiarazione non ammetteva dubbio. Parve che il biondino volesse sottolineare l'evidente significato. “Io la ringrazio della sua generosità, ma non vorrei disturbarla.”

Doveva conoscere bene il signor Aghios, quel biondino. Con quella sua risposta aveva proprio messo la firma a un contratto ed il signor Aghios aveva la religione del contratto. Quando egli aveva detto una parola vi si sentiva legato e inchiodato. Ora egli la parola d'invito l'aveva detta e l'altro aveva fatto segno di averla intesa. Non c'era la possibilità di ritirarsi.

Perciò il signor Aghios insistette. L'altro non ancora accettò. Oramai ci si trovava in piena laguna. Da lontano si vedevano le luci di Murano che il signor Aghios tanto bene conosceva. Si fermò dall'insistere per parlare al suo nuovo amico di Murano e dei suoi vetri.

 

 

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:
17/07/2005 18.01

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